Guido Gozzano

POESIE SPARSE





Primavere romantiche



Tu parlavi, Mamma: la melodia

della voce suscitava alla mia mente

la visione del tuo sogno perduto. Or

ecco: ho imprigionato il sogno con

una sottile malia di sillabe e di versi

e te lo rendo perché tu riviva le

gioie della giovinezza.



Non turbate il silenzio. Tutto tace

verso la donna rivestita a lutto:

la campagna, lo stagno, il cielo, tutto

illude la dolente... O pace! pace!



O pace, pace! Poiché nulla spera

ormai la donna declinante. Invano

fiorisce di viole il colle e il piano:

non ritorna per lei la primavera.



Oh antiche primavere! Oh i suoi vent'anni

oimè per sempre dileguati. Quanto,

oh quanto ella ha sofferto e come ha pianto!

Atroci sono stati i suoi affanni.



Nulla più spera ormai: però la bella

timida primavera che sorride

dilegua la mestizia che la uccide,

e un sogno antico in lei si rinnovella.



Non pure ieri il piede ella volgea

allo stagno che l'isola circonda?

Ella recava un libro ove la bionda

reina per il paggio si struggea:



(avea il volume incisioni rare

dove il bel paggio con la mano manca

alla donna offeria la rosa bianca

e si inchinava in atto d'adorare).



O sogni d'altri tempi, o tanto buoni

sogni d'ingenuità e di candore,

non sapevate il vuoto e il vostro errore

o innocenti d'allor decameroni!



Ella col libro qui venia leggendo

e a quando a quando in terra si inchinava

la mammola, l'anemone, e la flava

primula prestamente raccogliendo.



Oh tutto Ella ricorda: le turchine

rose trapunte della bianca veste,

la veste bianca in seta, e la celeste

fascia che le gonfiava il crinoline.



Poi apriva il cancello, e il ponte stesso

dove or riposa la persona stanca

allora trascorreva agile e franca

né si indugiava come indugia adesso.



Poi entrava nell'isola, e furtiva

in fra il tronco del tremulo e del faggio

guatava se al boschivo romitaggio

l'amico del suo sogno conveniva.



Oh tutto Ella ricorda! Ecco apparire

l'Amato: giunge al margine del vallo

dell'acque, e raffrenato il suo cavallo

il cancello la supplica d'aprire.



“Non dunque accetta è l'umile dimanda

del vostro paggio, o bella castellana?

Combattuto ha per voi; fatto gualdana

egli ha per voi, magnifica Jolanda.”



Egli disse per gioco. D'un soave

sorriso ella rispose: assai le piacque

il madrigale, ed al di là dell'acque,

sorridendo d'amor, getta la chiave.



Oh tutto Ella rammemora. Non fu

ieri? No, non fu ieri. Il lungo affanno

ella dunque già scorda? O atroce inganno

quel dolce aprile non verrà mai più...



Non turbate il silenzio. Tutto tace

verso la donna rivestita a lutto,

la campagna, lo stagno, il cielo, tutto

illude la dolente... O pace, pace!







La preraffaelita



Sopra lo sfondo scialbo e scolorito

surge il profilo della donna intenta,

esile il collo; la pupilla spenta

pare che attinga il vuoto e l'infinito.



Avvolta d'ermesino e di sciamito

quasi una pompa religiosa ostenta;

niuna mollezza femminile allenta

l'esilità del busto irrigidito.



Tien fra le dita de la manca un giglio

d'antico stile, la sua destra posa

sopra il velluto d'un cuscin vermiglio.



Niuna dolcezza è ne l'aspetto fiero;

emana da la bocca lussuriosa

l'essenza del Silenzio e del Mistero.







Vas voluptatis

A Voi, casta P.



Dal pavimento di musaico, snelli

colonnati surgevano a spirale

si attorcevano in forma vegetale

li acanti d'oro sotto i capitelli.



Quivi posava un vaso - trionfale

sculptura greca - e ai dì lontani e belli

di Venere accorrean schiave a drappelli

per colmarlo di mirra e d'aromale.



E le turbe obliavano l'orrore

aspirando l'aulir dell'incensiere

lenitore d'affanni e di dolore.



Simile a l'urna Voi amo vedere,

dolce Signora, che col vostro amore,

m'offerite la coppa del Piacere.







Il Castello d'Agliè



...Princesse, pardonnez, en lisant cet ouvrage

Si vous y retrouvez, crayonnés par ma main,

Les traits charmant de votre image:

J'ai voulu de mes vers assurer le destin...

(Le chevalie de Florian à la Sérénissime Princesse de Lamballe)



Poi che il romano Uccello lo stendardo

latino impose su l'itale terre

surgesti minaccioso baluardo.



Surgesti minaccioso e nelle guerre

che devastaron la campagna opima

gran nerbo di guerrieri entro rinserre.



Allora Duca non v'era non Reïna,

ma molti feditori e balestrieri

per il peggio dell'oste e la ruina.



Rozzo sorgevi allora, ma tra i neri

fianchi adunavi impavida coorte

d'uomini armati di coraggio e fieri.



Da i tuoi muri turriti da la forte

ossatura dei fianchi da i bastioni

le bertesche gittavano la morte



su i signori feudali, su i baroni

vogliosi di posar la man predace

su nuove terre e aver nuovi blasoni.



L'Evo Medio passò, ma non si tace

per anco il ferro: i Conti San Martino

nell'antico manier non hanno pace.



Il Torresan, secondo Attila, insino

questi colli per ordine di Francia

porta guerra con suo stuolo ferino.



Ma il Bassignana sua coorte slancia

e, mentre fra le braccia di Leonarda

meretrice quei dorme, ecco l'abbrancia.



Nel diruto castello fino a tarda

etade vive Donna Caterina

sposa esemplare in epoca beffarda.



E contro il Cardinale che Cristina

di Francia come sua suddita guarda

Don Filippo difende la Regina.



Per alcun tempo qui, quando la tarda

baronia declinò, ristette l'urna

che d'Arduino il cenere riguarda.



Ma invidïosa poi ladra notturna

viene coi bravi antica Marchesana,

l'urna si toglie e fugge taciturna.



O quante larve vivono d'arcana

vita in miei sogni! Parlano gli abeti

del grande parco, si anima la piana



dei prati illustri. Appare fra i laureti

bella ospite del Re Carlo Felice

Maria Luisa da i grandi occhi inquieti



ed ecco il Re che un'era nuova indice,

ecco Maria Cristina sua consorte,

ecco risorta l'epoca felice.



Così mentre m'aggiro e su le morte

foglie premo col piede lungo il viale

mille imagini son da me risorte.



E tutto tace. Non il sepolcrale

silenzio rompe il suono delli squilli

non latrato di veltri. L'autunnale



luce è silente. Non canto di grilli

estivo e roco. Solo indefinito

fievole viene un suono di zampilli.



È il ferro di cavallo. Quivi ardito

sul delfino cavalca ancor Nettuno

di verdi-gialli licheni vestito.



Le sirene lapidee dal bruno

manto di musco accennano al ferrigno

Signor del luogo. E non risponde alcuno.



Però su l'acque in tempo eguale il Cigno

muove le palme con ritmo silente

e volge attorno l'occhio fiero e arcigno.



Sogna ancor forse Leda nelle intente

pupille nere lungo la divina

sponda d'Eurota? Ahimè, la Dea è assente.



Ma fra i mirti, fra i lauri la Regina

del luogo appare cavalcante e bionda

come bianca matrona bizantina.



Avanza il baio fino su la sponda

del bacino. Si specchia trepidante

la signora nell'acqua. E il sol la inonda.



E l'erme antiche memori di tante

Iddie pagane del bel mito assente

la rediviva Diana cavalcante



guatano immote, misteriosamente.







Laus Matris



Laudato sii, mi Domine, cum tucte le criature

(FRATE SERAFICO: Cantico del sole)



O figlio, canta anche il tuo alloro!

(Laus vitae - GABRIELE D'ANNUNZIO)



Laudata sii dal figlio

che, compiuti vent'anni

oggi lascia li inganni

ritorna come giglio.

Oggi il candor riceve

sull'anima perduta

della bianca caduta

in terra prima neve,

se la tua mano fina

sì tenera e sì affranta

recando l'Ostia Santa

verso di lui si inchina.

Egli che tu ben sai

per motivo nessuno

ai ginocchi d'alcuno

non si prostese mai,

ai tuoi ginocchi indice

l'umilicordia e attende

mentre i labbri protende

all'ostia redentrice.

Oggi, lasciati i gaudi

e i canti del Piacere,

solleva l'incensiere

di tutte le sue laudi.

Laudata per l'amore

- il solo di sua vita -

per sua dolce infinita

pazienza nel dolore.

Eretta sullo stelo

o Rosa adamantina

invitta a la ruina,

invitta a lo sfacelo,

la casa il gran valore

sorregge di sue vene,

come i solchi trattiene

la radice di un fiore.

Più che la laboriosa

femina dell'Ebreo,

Madre di Galileo,

o madre mia dogliosa,

voglio esaltarti: voglio

su le tempie che adoro

recingere l'alloro

del mio protervo orgoglio.

Laudata sii. Il greve

peso dell'esser mio

nel mese che un iddio

nasceva su la neve

tu desti in luce. Forse

venne l'Annunciatore

e il bacio del Signore

anche al tuo labbro porse?

O sogno! Allora anche io

(il supremo che agogno

sogno è raggiunto. O sogno!)

son figlio d'un iddio?



Ho un biasimo solo dal quale

saprai la mia gioia di vita.

Perché non mi hai fatto immortale?







Parabola dei frutti



Ecce Ancilla Domini.

Fiat mihi secundum verbum tuum.

(Salmo dell'Immacolata Concezione)



Il volto un poco inchina

- né triste né giocondo -

sopra il seno infecondo

la Donna sibillina.



Il piucheumano mesto

volto sacerdotale

l'assembra una vestale

senza parola e gesto.



Da lunga data tiene

i frutti contro il seno,

né i polsi vengon meno

nella fatica lene.



Ardon di pari ardore

i frutti della Terra

che Ella commisti serra

con quelli dell'Amore.



E nel suo cuore ascoso

un brivido la scuote:

pensa dolcezze ignote

in braccio dello Sposo.



Quando l'Annunciatore

verrà nel suo cospetto

recando il bacio e il detto

del dolce suo Signore,



allor su l'origliere

per Lui tutti disserra

e i frutti della Terra

e i frutti del Piacere.







L'incrinatura



Perché nel vetro di Boemia antica,

dopo un'ora, già langue l'aromale

fior che m'offerse la mia dolce Amica?



Ché la verbena vi languisce, quale

la Donna amante il biondo Garcilaso

già martoriata dal segreto male.



Io so quel male: il calice del vaso

la bella mano - o gran disavventura! -

col ventaglio d'avorio urtò per caso.



E pur bastò. La lieve incrinatura

è insanabile ormai; il morituro

fiore si inchina, stanco, nell'arsura,



ché la ferita del cristallo duro

tacitamente compie tutto il giro

per cammino invisibile e sicuro.



Vanisce l'acqua e muore il fiore. Io miro

il calice mortifero che serba

quasi non traccia di ferita in giro,



e una assai trista simiglianza e acerba

sento fra il vetro e il calice d'un cuore

sfiorato a pena da una man superba.



La ferita da sé, senza romore,

il calice circonda nel rotondo

e il fior d'amore a poco a poco muore.



Il cuor che sano e forte pare al mondo

sèrpere senta la segreta pena

in cerchio inesorabile e profondo.



E pur la mano l'ha sfiorata a pena...

Perché nel vetro di Boemia antica,

dopo un'ora, già langue la verbena



che vi compose la mia dolce Amica?







La falce



I.



Giugno. Per le finestre il sole inonda

la bella stanza d'una luce aurina:

freme la messe ai solchi della china,

la messe ormai matureggiante e bionda.



La bruna sposa sede alla vicina

cuna ancor vuota: pare che Ella asconda

un gran segreto quando l'occhio inchina

al seno stanco che l'amor feconda.



È la cuna ancor vuota, ma Ella sente

che l'ora dell'avvento è assai vicina

che ben presto il Messia sarà presente.



E a quel pensiero il bruno capo inchina

al lavoro sottil, le mani adopra

su le fasce su i lini su la trina.





II.



Ottobre. Per i vetri Autunno inonda

la bella stanza delle luci estreme:

vanno i bifolchi cospargendo il seme

su per la china con canzon gioconda.



La sposa agonizzante in su la sponda

del letto sta riversa e più non geme

e accanto a lei nato e morto insieme

è il bambino difforme. Una profonda



quiete è d'intorno: sopra il lin vermiglio

tutto di sangue che un baglior rischiara

la sposa muore, bianca come un giglio.



La Morte, intanto, il feretro prepara:

e l'alba di diman la madre e il figlio

saran racchiusi nella stessa bara.







Suprema quies



Serrati i pugni bianchi come cera

giace supino in terra arrovesciato

e la faccia pel rivo insanguinato

è quasi nera.



Con orrido rilievo l'apertura

della ferita tutto il sangue aduna

su la nuca, sul collo, su la bruna

capellatura.



Giace supino. E non sembra dolere

la bella bocca. Quasi che Egli avvinga

ancor la Donna e la sua bocca attinga

tutto il piacere.



Due lumi sopra un cofano. Quei lumi

rischiarano il silenzio sepolcrale:

allineati stan nello scaffale

mille volumi



che alluminava un mastro fiorentino

d'orifiamme e d'armille in cento nodi.

Aperti sul divano soni i “Modi”

dell'Aretino



e sul divano è un guanto che rimosse

qui, nell'entrar, la Donna del Convito

ed un mazzo sfasciato ed avvizzito

di rose rosse.



Guata con gli occhi di mestizia pieni

in capo al letto sull'arazzo infisso

dolentemente immoto il crocifisso

di Guido Reni.



Notte e silenzio intorno. Tutto tace.

Come in un sogno d'armonia perplessa

al Poeta ventenne è già concessa

l'ultima pace.







A Massimo Bontempelli



Il passato obliar, veder sagace

in un dolce avvenir, forse non vero

ma che rinnova quanto è più fallace...

BONTEMPELLI: Egloghe (“Le Compagne”)



I.



Poeta, or che più lieto arride Maggio

ritornerai al verde nido ombroso

“con Quella che d'Amor ti tiene ostaggio”.



E lieto più che mai ti sia il riposo

però che al tuo fratello hai dato il bene

del libro salutifero e gioioso.



Il senso della Vita alle mie vene

ritorna ed alla mente il dolce lume

e fuggonsi i fantasmi di mie pene



se vado rileggendo il tuo volume.





II.



Ma tu non sa che io sia: io son la trista

ombra di un uomo che divenne fievole

pel veleno dell'“altro evangelista”.



Mia puerizia, illusa dal ridevole

artificio dei suoni e dagli affanni

di un sogno esasperante e miserevole,



apprestò la cicuta ai miei vent'anni:

amai stolidamente, come il Fabro,

le musiche composite e gli inganni



di donne belle solo di cinabro.





III.



Or troppo il sole aperto mi commuove

tanto fui uso alla penombra esigua

che avvolgon le cortine delle alcove.



Tu mi richiami alla campagna irrugua?

Troppo m'illuse il sogno di Sperelli,

troppo mi piacque nostra vita ambigua.



O benedetti siate voi, ribelli,

che verso la salute e verso il vero

ritemprate le sorti dei fratelli.



Per me nulla tentar. Più nulla spero.





IV.



Me non solleverai. Forse già sono

troppo malato e forse più non vale

temprarmi alle terzine del tuo dono.



Però senti e rispondimi: già un tale

morbo tenne te pur? Tu pur malato

fosti e guaristi del mio stesso male?



Sorella Terra dunque t'ha sanato?

Io pure ne andrò a lei, ma le mie smorte

membra distenderò, come il Beato,



per aspettare la sorella Morte.





L'Antenata



Nel fino cerchio di chelonia e d'oro -

ove un ignoto artefice costrinse

il bel sembiante, poi che lo dipinse

sopra l'avorio, con sottil lavoro -



per qual virtù la dama antica avvinse

il pallido nipote? In qual tesoro

di sogni fu che il giovinetto attinse

la mestizia più dolce dell'alloro?



L'Ava mi guata. - Nella manca ha un giglio

di stile antico; la sua destra posa

sopra il velluto d'un cuscin vermiglio.



Nïuna dolcezza è nell'aspetto fiero:

emana dalla bocca disdegnosa

l'orgoglio, la tristezza ed il mistero.





Il viale delle Statue



...le bianche antiche statue

acefale o camuse,

di mistero soffuse

nelle pupille vacue:



Stagioni che le copie

dei fiori e delle ariste

arrecano commiste

entro le cornucopie,



Diane reggenti l'arco

e le braccia protese

e le pupille intese

verso le prede al varco,



Leda che si rimira

nell'acque con il reo

candido cigno, Orfeo

che accorda la sua lira,



Giunone, Ganimede,

Mercurio, Deucalione

e tutta la legione

di un'altra morta fede:



erme tutelatrici

di un bello antico mito,

del mio tedio infinito

sole consolatrici,



creature sublimi

di marmo, care antiche

compagne e sole amiche

dei miei dolci anni primi;



ecco: ritorno a Voi

dopo una lunga assenza

senza più vita, senza

illusïoni, poi



che tutto m'ha tentato,

tutto: anche l'immortale

Gloria, e il Bene ed il Male,

e tutto m'ha tediato.



La bisavola mia

voi già consolavate

ed ora consolate

pur la malinconia



del pallido nipote.

Parlategli dell'Ava

quando pellegrinava

nell'epoche remote



recando i suoi affanni

per questi stessi viali

all'ombre sepolcrali,

or è più di cent'anni.



È certo che la stessa

mia pena la teneva

però che un senso aveva

fine di poetessa.



Soltanto a dolorare

veniva a questa volta

oppure qualche volta

piacevale rimare



cantando il suo dolore

tra Voi, erme, lungh'essi

i bussi ed i cipressi,

e il suo lontano amore?



Era la sua figura

meravigliosa e fina,

la bocca piccolina

qual nella miniatura?



Divisi i bei capelli

in due bande ondulate

siccome le beate

di Sandro Botticelli?



Aveva un peplo bianco

di seta adamascata

e che la grazia usata

apriva un po' di fianco?



(In vano l'apertura

fermavan tre borchiati

finissimi granati,

ché la camminatura



lenta scopriva all'occhio

il polpaccio scultorio

e la gamba d'avorio

fino quasi al ginocchio.)



Portava un cinto a belle

Meduse in ciel sereno

che costringeva il seno

fin sopra delle ascelle?



Ed ostentava i bei

piedini incipriati

da i diti costellati

di gemme e di cammei?



Io rivedo così la solitaria

lenta innalzare ancora tra gli spessi

mirti e fra l'urne e l'erme ed i cipressi

la candida persona statuaria.



I fauni si piegavano a guatarne

cupidi la bellezza; al suo passare

volgevansi le iddie, a riguardare

la sorella magnifica di carne.



Ma non sempre fu sola. Un dì riscosso

sembrò il ricordo delle antiche larve:

la Poetessa in quel mattino apparve

tutta vestita di broccato rosso.



Anche recava, contro il suo costume,

due rose rosse nelle nere chiome:

lucevan le pupille azzurre come

rinnovellate da inconsueto lume.



Scende nel parco e pone sovra un coro

due libri: Don Giovanni e Parisina.

Poi trascolora: un'ombra si avvicina

fra i boschetti del mirto e dell'alloro.



Chi viene? Ecco nel folto delle verdi piante

un giovane bellissimo avanzare

(Anima, non tremare, non tremare.)

ed il suo passo è un poco claudicante.



Chi viene dunque ai sogni ed all'oblio?

(Anima, non tremare, non tremare.)

Ha l'iridi color di verde mare;

nelle sembianze è simile ad un dio.



È Lui, è Lui che vien per la maestra

strada dei lauri. Or ecco, è già da presso

(ed era questo il luogo? questo stesso?)

Vedo già l'Ava porgergli la destra



e il Poeta ribelle dei Britanni

la bianca mano inchinasi a baciare

(Anima, non tremare, non tremare)

fra questi bussi... Or è quasi cent'anni.





Il frutteto



Anche né malinconico né lieto

(forse la consuetudine assecondo

cara d'un tempo al bel fanciullo biondo)

oggi varco la soglia del frutteto.



Ah! Vedo, vedo! Come lo ravviso!

È bene questo il luogo; in questa calma

conchiusa, certo l'intangibil salma

giacque per sempre dell'amor ucciso,



del vero antico Amore che io cercai

malinconicamente per l'inquieta

mia giovinezza, la raggiante mèta

sì perseguìta e non raggiunta mai.



Or mi soffermo con pupille intente:

le cose mi ritornano lontano

nel Tempo - irrevocabile richiamo! -

mi rivedo fanciullo, adolescente.



O belle, belle come i belli nomi,

Simona e Gasparina, le gemelle!

Pur vi rivedo in vesta d'angelelle

dolce-ridenti in mezzo a questi pomi.



Ed anche qui le statue e le siepi

ed il busso ribelle alle cesoie.

(Natali dell'infanzia, o buone gioie,

quando n'ornavo i colli dei presepi!)



Ma sull'erme, sui cori, sopra il busso

simmetrico, sui lauri, sugli spessi

carpini, sulle rose, sui cipressi,

sulle vestigia dell'antico lusso



da cento anni un folto si compose

di pomi e peri; il regno statuario

ricoperse; nel florido sudario

sfiorirono le siepi delle rose;



nell'ombre il musco ricoperse i cori

curvi di marmo intatto (l'Antenata

non vede lo sfacelo, contristata?)

e nell'ombre languirono gli allori.



Son l'ombre di una gran pace tranquille:

il sole, trasparendo dall'intrico,

segna la ghiaia del giardino antico

di monete, di lunule, d'armille.



M'avanzo pel sentiero ormai distrutto

dalla gramigna e dal navone folto;

ascolto il gran silenzio, intento, ascolto

il tonfo malinconico d'un frutto.



Ma quanti frutti! Cadono in gran copia

in terra, sui busseti, sui rosai:

sire Autunno, quest'anno come mai,

munifico vuotò la cornucopia.



O gioco strano! Pur nella faretra

di Diana cadde una perfetta pera,

così perfetta che non sembra vera

ma sculturata nell'istessa pietra.



Il frutto altorecato assai mi tenta:

balzo sul plinto, il dono della Terra

tolgo alli acuti simboli di Guerra,

avvincendomi all'erma sonnolenta.



Si adonta ella, forse, che io la tocchi,

l'erma dal guardo gelido e sinistro?

(il tempo edace lineò di bistro

le palpebre lapidee delli occhi).



Ma un sorriso ermetico, ha la faccia

attirante, soffuso di promesse,

- O miti elleni! - si ella mi stringesse

d'improvviso, così, tra le sue braccia! -



E tolgo e mordo il frutto avventurato

e mi pare di suggere dal frutto

un'infinita pace, un bene, tutto

tutto l'oblio del tedio e del passato.



Ma guardo in torno. Vedo teoria

d'erme ridenti in loro bianche clamidi,

ridendi tra le squallide piramidi

del busso. - Torna la malinconia:



Ridevano così quando mio padre

esalò la grande anima e pur tali

(udranno allor le mie grida mortali?)

sorrideranno e morirà mia madre.



Ridevano così che nella culla

dormivo inconsapevole d'affanno:

implacabili ancor sorrideranno

quando di me non resterà più nulla.







Domani

per l'amico Silla Martini de Valle Aperta



I.

Il corruscante cielo d'Oriente

a gran distesa lodano gli uccelli,

Aurora arrossa i bianchi capitelli

sul tempietto di Leda, intensamente.



Tolgon commiato tra le faci spente

gli ospiti stanchi. Un servo aduna i belli

fiori che inghirlandano i capelli

e li gitta allo stagno, indifferente.



Le rose aulenti nella notte insonne,

le rose agonizzanti, morte ai baci

nelle capellature delle donne,



scendon piano con l'alighe tenaci,

in su la melma livida e profonda,

con le viscide larve dei batraci.





II.

Pace alle rose in fondo dello stagno,

in loro fredda orrenda sepoltura;

pur anche la sua gran capellatura

dischioma l'olmo il pioppo ed il castagno.



Il cigno guata, mutolo e grifagno,

lo stagno ricolmarsi di frondura.

Silla, sognamo. Tutto ci assicura

l'ultima pace e l'ultimo guadagno.



Guarda, fratello: innumeri le foglie

attorte e rosse e gialle, senza strazio,

distaccansi dal ramo, lentamente;



la Madre antica in sé tutte le accoglie.

Sognamo, Silla, memori d'Orazio,

quel sogno confortante che non mente.





III.

Perché morire? La città risplende

in Novembre di faci lusinghiere;

e molli chiome avrem per origliere,

bendati gli occhi dalle dolci bende.



Dopo la tregua è dolce risapere

coppe obliate e trepide vicende -

bendati gli occhi dalle dolci bende -

novellamente intessere al Piacere.



Ma pur cantando il canti di Mimnerno

sento che morta è l'Ellade serena

in questo giorno triste ed autunnale.



L'anima trema sull'enigma eterno;

fratello, soffro la tua stessa pena:

attendo un'Alba e non so dirti quale.





IV.

Che giovò dunque il gesto di chi disse:

“Il gran Pan non è morto! Ecco la via

dell'allegrezze nove. Ovunque sia

dato l'annunzio del novello Ulisse!



Il flavo Galileo che ci afflisse

di tenebrore e di malinconia

e quella scialba vergine Maria

e quella croce diamo alle favisse!”?



Nulla giovò. L'impavide biasteme

non rianimeran lo spento sguardo

dei numi elleni sugli antichi marmi.



“Lor giuventude vive sol nei carmi.”

Secondo la parola del Vegliardo

il fato ineluttabile li preme.







I Fratelli



Nell'impero dell'acque e delle nubi

dove regnava il pecoraio e il gregge,

o Numero, già fatta è la tua legge

dalla potenza delli ordegni indubi.



Conduce un filo il moto che tu rubi

all'acqua e vola cento miglia e regge

gli opifici rombanti di pulegge

e di magli terribili e di tubi.



Ben riconosco il Verso tuo fratello

onnipossente Numero! Tu fai

a noi men disagevole il sentiero.



E il tuo parente più leggiadro e snello

ci fiorisce le soste di rosai

e di menzogne dolci più del Vero.





Garessio



Dalle finestre medioevali e oscure

non più le dame guardano i cavalli

e i cavalier passar per queste valli,

corruscanti di lucide armature.



Dalle finestre medioevali e oscure

non più ridon le dame ai bei vassalli,

ma i garofani bianchi, rossi, gialli

protendono le gran capigliature...



Pace e Silenzio! Fiori alle finestre

che invitano a piacevoli pensieri!

Ed ecco in alto, nel dirupo alpestre



fra le balze dei ripidi sentieri

Voi, o Maria, Voi che date al vento

il dolce riso e i bei capelli neri!





L'esilio

per una “demi-vierge”



Non ti conobbi mai. Ti riconosco.

Perché già vissi; e quando fui ministro

d'un rito osceno, agitator di sistro

t'ho posseduta al limite d'un bosco.



Bene ravviso il sopracciglio fosco

le bande fulve... Chi segnò di bistro

l'occhio caprino gelido sinistro?

Or ti rivedo in un giardino tosco,



vergine impura, dopo mille e mille

anni d'esilio. Tu, fatta Britanna,

scendi in Italia a ricercarvi il sogno.



Sono tre mila anni che t'agogno!

Ma com'è lungi il sogno che m'affanna!

Dove sono la tunica e le armille?





II.

Dove sono la tunica e le armille

d'elettro che portavi a Siracusa?

E le fontane e i templi d'Aretusa

e l'erme e gli oleandri delle ville?



Del tempo ti restò nelle pupille

soltanto la lussuria che t'accusa,

vergine impura dalla fronte chiusa

tra le due bande lucide e tranquille.



E questa sera tu lasci le danze

(per quel ricordo al limite d'un bosco?)

tutta fremendo, come un'arpa viva.



Giungono i suoni dalle aperte stanze

fin nel giardino... O bocca! Riconosco

bene il profumo della tua genciva!







La loggia



I.

Noi ci vedemmo sotto cieli tetri,

vite di Cipro, al tempo che tu arricci

pochi rimasti pampini ed arsicci

sui tralci immiseriti come spetri.



Ci rivediamo che ricopri i vetri

di verde folto, allacci di viticci

e attingi coi tuoi grappoli biondicci

la loggia, in alto, più di venti metri.



Chi vede le tue prime foglie vizze,

o loggia solatia, in Vigna Colta,

come un'amica dolce ti ricorda.



Tu fosti che indulgesti alle sue bizze,

quando Centa vietava la raccolta

alla piccola mano troppo ingorda.



II.

M'è caro, loggia, poi che le tue pigne

la nuova luna di settembre invaia,

piluccare i bei chicchi a centinaia

fra le grandi compagini rossigne.



Più mi compiaccio in te che nelle vigne,

ma, poiché getto i fiocini ne l'aia,

Centa si avvede, Centa la massaia

mi ricerca con l'iridi benigne.



“Bevesti il latte che non è mezz'ora!

Uva e latte dispandon per le membra

tossico fino! Quella gola stolta!...”



Sgridami, Centa! Sali come allora

a condurmi pel braccio via! mi sembra

che tu debba allevarmi un'altra volta...





A un demagogo



Tu dici bene: è tempo che consacri

ai fratelli la mente che si estolle

anche il poeta, citaredo folle

rapido negli antichi simulacri!



Non più le tempie coronate d'acri

serti di rose alla Bellezza molle;

venga all'aperto! Canti tra le folle,

stenda la mano ai suoi fratelli sacri!



E tu non mi perdoni se m'indugio,

poiché di rose non si fanno spade

per la lotta dei tuoi sogni vermigli.



Ma un fiore gitterò dal mio rifugio

sempre a chi soffre e sogna e piange e cade.

Eccoti un fiore, o tu che mi somigli!





Il modello

Perché non tenteremo la fortuna

d'un bel sonetto biascicante in ore

e dove il core rimi con amore

e dove luna rimi con laguna?



Pensiero! - E non bellezza inopportuna.

Sincerità! - Il tema delle “otto ore”.

Amore! - Un tal che si trapassa il core

per una sarta, al chiaro della luna.



“Ma che arte, che lima!... Chi si adopra,

scrivendo, a farsi intendere con poca

fatica, sarà valido e sincero...”



Così farò. Così, lasciata l'opra

del paiolo e del mestolo, la cuoca

dirà con te: “Ma qui c'è del pensiero!”.





Mammina diciottenne

Non mai - dico non mai - così m'infiamma

il senso d'una vita bella e forte

come quando apparite nelle corte

gonnelle d'alpinista, esile damma!



Non m'irridete! Ché nessuna fiamma

come costoro che vi fan coorte

m'invita a seguitar la vostra sorte,

o Margherita, giovinetta Mamma!



O Margherita, mamma diciottenne,

chinatevi sul bimbo vostro e ad ogni

bacio si unisca l'oro delle teste.



Guardandovi così fu che mi venne

come un rimorso di cattivi sogni

e un desiderio di parole oneste.







L'invito



Uscite, o capre, or che la luna attinga

la prateria! Il pecoraio dorme.

Giunge sul vento, nella pace enorme

il suono della mitica siringa.



Dolce richiamo! Il dèmone vi cinga

danzando erette. Andate orme su l'orme

dell'amatore musico biforme,

inebbriate dalla sua lusinga.



Danzate, o capre! Steso sulla madia,

chiusi gli orecchi nel berretto frigio

il pecoraio dorme alle Capanne.



O risognate i monti dell'Arcadia,

dimenticate l'onta ed il servigio

sulla dolcezza delle sette canne!







Elogio del sonetto



Lodati, o Padri, che per le Madonne

amate nel platonico supplizio,

edificaste il nobile edifizio

eretto su quattordici colonne!



Nulla è più dolce al vivere fittizio

di te, compenso della notte insonne,

non la capellatura delle donne,

non metri novi in gallico artifizio.



Nessuna forma dà questa che dai

al sognatore ebbrezza non dicibile

quand'egli con sagacia ti prepari!



O forma esatta più che ogni altra mai,

prodigio di parole indistruttibile,

come i vecchi gioielli ereditati!





La beata riva

Quegli che sazio della vita grigia

navigò verso l'isole custodi

una levarsi intese fra melodi

voce più dolce della canna frigia:



“Uomo! Ritorna sulle tue vestigia

al dolce mondo! Pel tuo bene m'odi!

Ché l'acqua stessa dei canori approdi

quella è che nutre la palude stigia”.



“Con un fiore il passato si cancella!”

“Cancellerai la faccia della Madre

e della Sposa?” - “Tu sola mi piaci!”



“L'amarsi è bello!” - “Ma tu sei più bella!”

“Fra queste braccia soffrirai!” - “Leggiadre!”

“Verrà la Morte.” - “Pur che tu mi baci!”





“Non radice, sed vertice...”

a Golia

per la molto fogazzariana Circe famelica

che tu sai...



Un tulle, verdognolo d'alga,

l'avvolge: bellissimo all'occhio,

ed Ella m'accenna dal cocchio -

si sfolla il teatro - che io salga:



“Positivista irredento

un'ora fraterna e un the raro

a casa vo' darle e il commento

dell'opere di Fogazzaro”.



Sì! Vengo! Ideale, convertirci

gli ardori dell'anime calme;

uniscile come le palme

toccantesi solo coi vertici.



Le forme bellissime sue

non curo, o Signora! Il Maestro

(non so se pudìco o maldestro)

ci vieta servircene a due.



Daniele non bacia la bocca,

ma fugge per Fede e Speranza,

vaporeggiando a distanza

l'amor della Donna non tocca.



Ah! Lungi l'orrore dei sensi!

E noi penseremo, o Signora,

l'azzurreggiante d'incensi

Cappella Sistina canora.



Papaveri! E l'ora più blanda

faremo, Signora, con quella

del Sonno tremenda sorella:

(prodigio di versi!...) Miranda.



Dispongo le carni compunte,

Marchesa, mia pura sorella,

la palma pensando, che snella

non lega le basi alle punte.



Le basi... le punte incorrotte...

il the... Fogazzaro... Marchesa!

Ma questo sparato mi pesa!

Non ho la camicia da notte...





L'altro



L'Iddio che a tutto provvede

poteva farmi poeta

di fede; l'anima queta

avrebbe cantata la fede.



Mi è strano l'odore d'incenso:

ma pur ti perdono l'aiuto

che non mi desti, se penso

che avresti anche potuto,



invece di farmi gozzano

un po' scimunito, ma greggio,

farmi gabrieldannunziano:

sarebbe stato ben peggio!



Buon Dio, e puro conserva

questo mio stile che pare

lo stile d'uno scolare

corretto un po' da una serva.



Non ho nient'altro di bello

al mondo, fra crucci e malanni!

M'è come un minore fratello,

un altro gozzano: a tre anni.



Gli devo le ore di gaudi

più dolci! Lo tengo vicino;

non cedo per tutte Le Laudi

quest'altro gozzano bambino!



Gli prendo le piccole dita,

gli faccio vedere pel mondo

la cosa che dicono Mondo,

la cosa che dicono Vita...







Le golose



Io sono innamorato di tutte le signore

che mangiano le paste nelle confetterie.



Signore e signorine -

le dita senza guanto -

scelgon la pasta. Quanto

ritornano bambine!



Perché nïun le veda,

volgon le spalle, in fretta,

sollevan la veletta,

divorano la preda.



C'è quella che si informa

pensosa della scelta;

quella che toglie svelta,

né cura tinta e forma.



L'una, pur mentre inghiotte,

già pensa al dopo, al poi;

e domina i vassoi

con le pupille ghiotte.



un'altra - il dolce crebbe -

muove le disperate

bianchissime al giulebbe

dita confetturate!



Un'altra, con bell'arte,

sugge la punta estrema:

invano! ché la crema

esce dall'altra parte!



L'una, senz'abbadare

a giovine che adocchi,

divora in pace. Gli occhi

altra solleva, e pare



sugga, in supremo annunzio,

non crema e cioccolatte,

ma superliquefatte

parole del D'Annunzio.



Fra questi aromi acuti,

strani, commisti troppo

di cedro, di sciroppo,

di creme, di velluti,



di essenze parigine,

di mammole, di chiome:

oh! le signore come

ritornano bambine!



Perché non m'è concesso -

o legge inopportuna! -

il farmivi da presso,

baciarvi ad una ad una,



o belle bocche intatte

di giovani signore,

baciarvi nel sapore

di crema e cioccolatte?



Io sono innamorato di tutte le signore

che mangiano le paste nelle confetterie.





Al mio Adolfo





Ofo ha il naso a patatina

Nani fatto a pisellino

Si risveglian la mattina

stretti insiem vicino vicino



Ofo dice scimiottino

Nani dice scimiottina

E posando la testina

fa la nanna in l'angolino.







Nell'Abazia di San Giuliano



Buon Dio nel quale non credo, buon Dio che non esisti,

(non sono gli oggetti mai visti più cari di quelli che vedo?)



Io t'amo! Ché non c'è bisogno di creder in te per amarti

(e forse che credo nell'arti? E forse che credo nel sogno?)



Io t'amo, Purissima Fonte che non esisti, e t'anelo!

(Esiste l'azzurro del cielo? Esiste il profilo del monte?)



M'accolga l'antica Abazia; è ricca di luci e di suoni.

Mi piacciono i frati; son buoni pel cuore in malinconia.



Son buoni. “Non credi? Che importa? Riposati un poco sui banchi.

Su, entra, su, varca la porta. Si accettano tutti gli stanchi.”



Vi seggo - la mente suasa - ma come potrebbe sedervi

un tale invitato dai servi e non dal padrone di casa.



- “Riposati, o anima sazia! Riposati, piega i ginocchi!

Chissà che il Signore ti tocchi, chissà che ti faccia la grazia.”



- “Mi piace il Signore, mi garba il volto che gli avete fatto.

Oh, il Nonno! Lo stesso ritratto! Portava pur egli la barba!”



“O Preti, ma è assurdo che dòmini sul tutto inumano ed amorfo

quell'essere antropomorfo che hanno creato gli uomini!”



- “E non ragionare! L'indagine è quella che offùscati il lume.

Inchìnati sopra il volume, ma senza voltarne le pagine,



o anima senza conforti, e pensa che solo una fede

rivede la vita, rivede il volto dei poveri morti.”



- “O Prete, l'amore è un istinto umano. Si spegne alle porte

del Tutto. L'amore e la morte son vani al tomista convinto.”





L'ipotesi



I.

Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,

se già la Signora vestita di nulla non fosse per via...



E penso pur quale Signora m'avrei dalla sorte per moglie,

se quella tutt'altra Signora non già si affacciasse alle soglie.



II.

Sposare vorremmo non quella che legge romanzi, cresciuta

tra gli agi, mutevole e bella, e raffinata e saputa...



Ma quella che vive tranquilla, serena col padre borghese

in un'antichissima villa remota del Canavese...



Ma quella che prega e digiuna e canta e ride, più fresca

dell'acqua, e vive con una semplicità di fantesca,



ma quella che porta le chiome lisce sul volto rosato

e cuce e attende al bucato e vive secondo il suo nome:



un nome che è come uno scrigno di cose semplici e buone,

che è come un lavacro benigno di canfora spigo e sapone...



un nome così disadorno e bello che il cuore ne trema;

il candido nome che un giorno vorrò celebrare in poema,



il fresco nome innocente come un ruscello che va:

Felìcita! Oh! Veramente Felìcita!... Felicità...



III.

Quest'oggi il mio sogno mi canta figure, parvenze tranquille

d'un giorno d'estate, nel mille e... novecento... quaranta.



(Adoro le date. Le date: incanto che non so dire,

ma pur che da molto passate o molto di là da venire.)



Sfioriti sarebbero tutti i sogni del tempo già lieto

(ma sempre l'antico frutteto darebbe i medesimi frutti).



Sopita quell'ansia dei venti anni, sopito l'orgoglio

(ma sempre i balconi ridenti sarebbero di caprifoglio).



Lontano i figli che crebbero, compiuti i nostri destini

(ma sempre le stanze sarebbero canore di canarini).



Vivremo pacifici in molto agiata semplicità;

riceveremmo talvolta notizie della città...



la figlia: “...l'evento si avanza, sarete Nonni ben presto:

entro fra poco nel sesto mio mese di gravidanza...”



il figlio: “...la Ditta ha ripreso le buone giornate. Precoci

guadagni. Non è più dei soci quel tale ingegnere svedese”.



Vivremmo, diremmo le cose più semplici, poi che la Vita

è fatta di semplici cose, e non d'eleganza forbita.



IV.

Da me converrebbero a sera il Sindaco e gli altri ottimati,

e nella gran sala severa si giocherebbe, pacati.



Da me converrebbe il Curato, con gesto canonicale.

Sarei - sui settanta - tornato nella gioventù clericale,



poi che la ragione sospesa a lungo sul nero Infinito

non trova migliore partito che ritornare alla Chiesa.



V.

Verreste voi pure di spesso, da lungi a trovarmi, o non vinti

ma calvi grigi ritinti superstiti amici d'adesso...



E tutta sarebbe per voi la casa ricca e modesta;

si ridesterebbero a festa le sale ed i corridoi...



Verreste, amici d'adesso, per ritrovare me stesso,

ma chi sa quanti me stesso sarebbero morti in me stesso!



Che importa! Perita gran parte di noi, calate le vele,

raccoglieremmo le sarte intorno alla mensa fedele.



Però che compita la favola umana, la Vita concilia

la breve tanto vigilia dei nostri sensi alla tavola.



Ma non è senza bellezza quest'ultimo bene che avanza

ai vecchi! Ha tanta bellezza la sala dove si pranza!



La sala da pranzo degli avi più casta d'un refettorio

e dove, bambino, pensavi tutto un tuo mondo illusorio.



La sala da pranzo che sogna nel meriggiar sonnolento

tra un buono odor di cotogna, di cera da pavimento,



di fumo di zigaro, a nimbi... La sala da pranzo, l'antica

amica dei bimbi, l'amica di quelli che tornano bimbi!



VI.

Ma a sera, se fosse deserto il cielo e l'aria tranquilla

si cenerebbe all'aperto, tra i fiori, dinnanzi alla villa.



Non villa. Ma un vasto edifizio modesto dai piccoli e tristi

balconi settecentisti fra il rustico ed il gentilizio...



Si cenerebbe tranquilli dinnanzi alla casa modesta

nell'ora che trillano i grilli, che l'ago solare si arresta



tra i primi guizzi selvaggi dei pippistrelli all'assalto

e l'ultime rondini in alto, garrenti negli ultimi raggi.



E noi ci diremmo le cose più semplici poi che la vita

è fatta di semplici cose e non d'eleganza forbita:



“Il cielo si mette in corruccio... Si vede più poco turchino...”

“In sala ha rimesso il cappuccio il monaco benedettino.”



“Peccato!” - “Che splendide sere!” - “E pur che domani si possa...”

“Oh! Guarda!... Una macroglossa caduta nel tuo bicchiere!”



Mia moglie, pur sempre bambina tra i giovani capelli bianchi,

zelante, le mani sui fianchi andrebbe sovente in cucina.



“Ah! Sono così malaccorte le cuoche... Permesso un istante

per vigilare la sorte d'un dolce pericolante...”



Riapparirebbe ridendo fra i tronchi degli ippocastani

vetusti, altoreggendo l'opera delle sua mani.



E forse il massaio dal folto verrebbe del vasto frutteto,

recandone con viso lieto l'omaggio appena raccolto.



Bei frutti deposti dai rami in vecchie fruttiere custodi

ornate a ghirlande, a episodi romantici, a panorami!



Frutti! Delizia di tutti i sensi! Bellezza concreta

del fiore! Ah! Non è poeta chi non è ghiotto dei frutti!



E l'uve moscate più bionde dell'oro vecchio; le fresche

susine claudie, le pesche gialle a metà rubiconde,



l'enormi pere mostruose, le bianche amandorle, i fichi

incisi dai beccafichi, le mele che sanno di rose



emanerebbero, amici, un tale aroma che il cuore

ricorderebbe il vigore dei nostri vent'anni felici.



E sotto la volta trapunta di stelle timide e rare

oh! dolce resuscitare la giovinezza defunta!



Parlare dei nostri destini, parlare di amici scomparsi

(udremmo le sfingi librarsi sui cespi di gelsomini...)



Parlare d'amore, di belle d'un tempo... Oh! breve la vita!

(la mensa ancora imbandita biancheggierebbe alle stelle).



Parlare di letteratura, di versi del secolo prima:

“Mah! Come un libro di rima dilegua, passa, non dura!”



“Mah! Come son muti gli eroi più cari e i suoni diversi!

È triste pensare che i versi invecchiano prima di noi!”



“Mah! Come sembra lontano quel tempo e il coro febeo

con tutto l'arredo pagano, col Re-di-Tempeste Odisseo...”



Or mentre che il dialogo ferve mia moglie, donnina che pensa,

per dare una mano alle serve sparecchierebbe la mensa.



Pur nelle bisogna modeste ascolterebbe curiosa;

- “Che cosa vuol dire, che cosa faceva quel Re-di-Tempeste?”



Allora, tra un riso confuso (con pace d'Omero e di Dante)

diremmo la favola ad uso della consorte ignorante.



Il Re di Tempeste era un tale

che diede col vivere scempio

un bel deplorevole esempio

d'infedeltà maritale,

che visse a bordo d'un yacht

toccando tra liete brigate

le spiaggie più frequentate

dalle famose cocottes...

Già vecchio, rivolte le vele

al tetto un giorno lasciato,

fu accolto e fu perdonato

dalla consorte fedele...

Poteva trascorrere i suoi

ultimi giorni sereni,

contento degli ultimi beni

come si vive tra noi...

Ma né dolcezza di figlio,

né lagrime, né pietà

del padre, né il debito amore

per la sua dolce metà

gli spensero dentro l'ardore

della speranza chimerica

e volse coi tardi compagni

cercando fortuna in America...

- Non si può vivere senza

danari, molti danari...

Considerate, miei cari

compagni, la vostra semenza! -

Vïaggia vïaggia vïaggia

vïaggia nel folle volo

vedevano già scintillare

le stelle dell'altro polo...

vïaggia vïaggia vïaggia

vïaggia per l'alto mare:

si videro innanzi levare

un'alta montagna selvaggia...

Non era quel porto illusorio

la California o il Perù,

ma il monte del Purgatorio

che trasse la nave all'in giù.

E il mare sovra la prora

si fu rinchiuso in eterno.

E Ulisse piombò nell'Inferno

dove ci resta tuttora...



Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,

se già la Signora vestita di nulla non fosse per via.

Io penso talvolta...







Il commesso farmacista



Ho per amico un bell'originale

commesso farmacista. Mi conforta

col ragionarmi della sposa, morta

priva di nozze del mio stesso male.



“Lei guarirà: coi debiti riguardi,

lei guarirà. Lei può curarsi in ozio;

ma pensi una modista, in un negozio...

Tossiva un poco... me lo scrisse tardi.



Torna!... Tornò, sì, morta, al suo villaggio.

Pagai le spese del viaggio. E costa!

Vede quel muro bianco a mezza costa?

È il cimitero piccolo e selvaggio.



Mah! Più ci penso e più mi pare un sogno.

La dovevo sposare nell'aprile;

nell'aprile morì di mal sottile.

Vede che piango... non me ne vergogno.”



Piangeva. O morta giovane modista,

dal cimitero pendulo fra i paschi

non vedi il pianto sopra i baffi maschi

del fedele commesso farmacista?



“Lavoro tutto il giorno: avrei bisogno

a sera, di svagarmi; lo potrei...

Preferisco restarmene con lei

e faccio versi... non me ne vergogno.”



Sposa che senza nozze hai già varcato

la fiumana dell'ultima rinunzia,

vedi lo sposo che per te rinunzia

alle dolci serate del curato?



Vedi che, solo, e affaticati gli occhi

fra scatole, barattoli, cartine,

preferisce le tue veglie meschine

alle gioie del vino e dei tarocchi?



“Non glie li dico: ché una volta detti

quei versi perderebbero ogni pregio;

poi, sarebbe un'offesa, un sacrilegio

per la morta a cui furono diretti.



Mi pare che soltanto al cimitero,

protetti dalle risa e dallo scherno

i versi del mio povero quaderno

mi parlino di lei, del suo mistero.”



Imaginate con che rime rozze,

con che nefandità da melodramma

il poveretto cingerà di fiamma

la sposa che morì priva di nozze!



Il cor... l'amor... l'ardor... la fera vista...

il vel... il ciel... l'augel... la sorte infida...

Ma non si rida, amici, non si rida

del povero commesso farmacista.



Non si rida alla pena solitaria

di quel poeta; non si rida, poi

che egli vale ben più di me, di voi

corrosi dalla tabe letteraria.



Egli certo non pensa all'euritmia

quando si toglie il camice di tela,

chiude la porta, accende la candela

e piange con la sua malinconia.



Egli è poeta più di tutti noi

che, in attesa del pianto che si avanza,

apprestiamo con debita eleganza

le fialette dei lacrimatoi.



Vale ben più di noi che, fatti scaltri,

saputi all'arte come cortigiane,

in modi vari, con lusinghe piane

tentiamo il sogno per piacere agli altri.



Per lui soltanto il verso messaggiero

va dal finito all'infinito eterno.

“Vede, se chiudo il povero quaderno

parlo con lei che dorme in cimitero.”



A lui soltanto, o gran consolatrice

poesia, tu consoli i giorni grigi,

tu che fra tutti i sogni prediligi

il sogno che si sogna e non si dice.



“Non glie li dico: ché una volta detti

quei versi perderebbero ogni pregio:

poi sarebbe un'offesa, un sacrilegio

per la morta a cui furono diretti.”



Saggio, tu pensi che impallidirebbe

al mondo vano il fiore di parole

come il cielo notturno che lo crebbe

impallidisce al sorgere del sole.



Di me molto più saggio, che licenzio

i miei sogni, o fratello, tu mantieni

intatti fra le pillole e i veleni

i sogni custoditi dal silenzio!



Buon custode è il silenzio. E le tue grida

solo la morta giovane modista

ode: non altri della folla, trista

per chi fraternamente si confida.



Non si rida, compagni, non si rida

del poeta commesso farmacista.







“Historia”



E l'anno scorso è morta.

Ebbe un amante. Pare.



Ricordi? Io la rivedo,

rivedo la compagna,

la classe, la lavagna,

e lei china alla filza

dei verbi greci... Smilza

e mascula: un cinedo

molto ricciuto e bello...

Ricordi? Io la rivedo

bionda, sciocchina, gaia:

un piccolo cervello

poco intellettuale

di piccola crestaia

molto sentimentale.

Non la ricordi? Smorta,

con certe iridi chiare

dal vasto arco ciliare...



E l'anno scorso è morta.

Ebbe un amante. Pare.



Quella è la casa dove

crebbe fanciulla. Guarda

quella finestra dove

vegliava ad ora tarda;

il biondo capo chino

su pergamene rozze

di greco e di latino,

sugli assiomi nudi...

Ma poi lascia gli studi

maschi, passando a nozze

cospicue: un amico,

pare, un amico antico

della madre, uno sposo

ricchissimo ed annoso,

inglese, che la porta

in terra d'oltremare...



E l'anno scorso è morta.

Ebbe un amante. Pare.



Volsero gli anni. Ed ella

esule sul Tamigi

non dava più novella...

Pure, nei giorni grigi,

tra i miei grigi ricordi,

vedevo a quando a quando

i coniugi discordi:

lo sposo venerando

e l'esile compagna

signora in Gran Bretagna...



Quand'ecco fa ritorno

fra noi, senza marito;

e fu rivista un giorno

più bella nel vestito

cupo... Cercava intorno

col volto sbigottito,

con pupilla assorta,

chi la volesse amare...



E l'anno scorso è morta.

Ebbe un amante. Pare.







L'esperimento



“Carlotta”... Vedo il nome che sussurro

scritto in oro, in corsivo, a mezzo un fregio

ovale, sui volumi di collegio

d'un tempo, rilegati in cuoio azzurro...



Nel salone ove par morto da poco

il riso di Carlotta, fra le buone

brutte cose borghesi, nel salone

quest'oggi, amica, noi faremo un gioco.

Parla il salone all'anima corrotta,

d'un'altra età beata e casalinga:

pel mio rimpianto voglio che tu finga

una commedia: tu sarai Carlotta.



Svesti la gonna d'oggi che assottiglia

la tua persona come una guaina,

scomponi la tua chioma parigina

troppo raccolta sulle sopracciglia;

vesti la gonna di quel tempo: i vecchi

tessuti a rombi, a ghirlandette, a strisce,

bipartisci le chiome in bande lisce

custodi delle guancie e degli orecchi.



Poni a gli orecchi gli orecchini arcaici

oblunghi, d'oro lavorato a maglia,

e al collo una collana di musaici

effigïanti le città d'Italia...

T'aspetterò sopra il divano, intento

in quella stampa: Venere e Vulcano...

Tu cerca nell'immenso canterano

dell'altra stanza il tuo travestimento.

Poi, travestita dei giorni lontani,

(commediante!) vieni tra le buone

brutte cose borghesi del salone,

vieni cantando un'eco dell'Ernani,

vieni dicendo i versi delicati

d'una musa del tempo che fu già:

qualche ballata di Giovanni Prati,

dolce a Carlotta, sessant'anni fa...

...

Via per le cerule

volte stellate

più melanconica

la Luna errò.

E il lene e pallido

stuol delle fate

nel mar dell'etere

si dileguò...

Solo uno spirito

sotto quel tiglio

dev'ei si amavano

si udia cantar.

Ahi! Fra le lacrime

di quest'esiglio

che importa vivere,

che giova amar?...

...

...

...

Che giova amar?... La voce si avvicina,

Carlotta appare. Veste d'una stoffa

a ghirlandette, così dolce e goffa

nel cerchio immenso della crinolina.

Vieni, fantasma vano che m'appari,

qui dove in sogno già ti vidi e udii,

qui dove un tempo furono gli Zii

molto dabbene, in belli conversari.



Ah! Per te non sarò, piccola allieva

diligente, il sofista schernitore;

ma quel cugin che si premeva il cuore

e che diceva “t'amo!” e non rideva.

Oh! La collana di città! Vïaggio

lungo la filza grave di musaici:

dolce seguire i panorami arcaici,

far con le labbra tal pellegrinaggio!



Come sussulta al ritmo del tuo fiato

Piazza San Marco e al ritmo d'una vena

come sussulta la città di Siena...

Pisa... Firenze... tutto il Gran Ducato!

Seguo tra i baci molte meraviglie,

colonne mozze, golfi sorridenti:

Castellamare... Napoli... Girgenti...

Tutto il Reame delle Due Sicilie!



Dolce tentare l'ultime che tieni

chiuse tra i seni piccole cornici:

Roma papale! Palpita tra i seni

la Roma degli Stati Pontifici!

Alterno, amica, un bacio ad ogni grido

della tua gola nuda e palpitante;

Carlotta non è più! Commedïante

del mio sognare fanciullesco, rido!



Rido! Perdona il riso che mi tiene,

mentre mi baci con pupille fisse...

Rido! Se qui, se qui ricomparisse

lo Zio con la Zia molto dabbene!

Vesti la gonna, pettina le chiome,

riponi i falbalà nel canterano.

Commediante del tempo lontano,

di Carlotta non resta altro che il nome.



Il nome!... Vedo il nome che sussurro,

scritto in oro, in corsivo, a mezzo fregio

ovale, sui volumi di collegio

d'un tempo, rilegati in cuoio azzurro...





[Stecchetti]



Perché dalla tua favola compianta -

Renzo Stecchetti, musa prediletta

dello scolaro e della feminetta -

resuscita un passato che m'incanta?



Tu mi ricordi l'ottocento e ottanta

mi ricordi la mamma giovinetta

che ti rilegge e ti ripone in fretta;

e intorno un maggio antico odora e canta.



Per quel passato, pel destino bieco

tu mi sei caro, finto morituro

che piangi e imprechi e gemi nello strazio.



Io non gemo, fratello, e non impreco:

scendo ridendo verso il fiume oscuro

che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio.







Congedo



Anche te, cara, che non salutai

di qui saluto, ultima. Coraggio!

Viaggio per fuggire altro viaggio.

In alto, in alto i cuori. E tu ben sai.



In alto, in alto i cuori. I marinai

cantano leni, ride l'equipaggio;

l'aroma dell'Atlantico selvaggio

mi guarirà, mi guarirà, vedrai.



Di qui, fra cielo e mare, o Benedetta,

io ti chiedo perdono nel tuo nome

se non cercai parole alla tua pena,



se il collo liberai da quella stretta

spezzando il cerchio della braccia, come

si spezza a viva forza una catena.







La più bella



I.

Ma bella più di tutte l'Isola Non-Trovata:

quella che il Re di Spagna si ebbe da suo cugino

il Re di Portogallo con firma sugellata

e bulla del Pontefice in gotico latino.



L'Infante fece vela pel regno favoloso,

vide le fortunate: Iunonia, Gorgo, Hera

e il Mare di Sargasso e il Mare Tenebroso

quell'isola cercando... Ma l'isola non c'era.



Invano le galee panciute a vele tonde,

le caravelle invano armarono la prora:

con pace del Pontefice l'isola si nasconde,

e Portogallo e Spagna la cercano tuttora.





II.

L'isola esiste. Appare talora di lontano

tra Teneriffe e Palma, soffusa di mistero:

“...l'Isola Non-Trovata!” Il buon Canarïano

dal Picco alto di Teyde l'addita al forestiero.



La segnano le carte antiche dei corsari.

...Hifola da - trovarfi? ...Hifola pellegrina?...

È l'isola fatata che scivola sui mari;

talora i naviganti la vedono vicina...



Radono con le prore quella beata riva:

tra fiori mai veduti svettano palme somme,

odora la divina foresta spessa e viva,

lacrima il cardamomo, trasudano le gomme...



Si annuncia col profumo, come una cortigiana,

l'Isola Non-Trovata... Ma, se il pilota avanza,

rapida si dilegua come parvenza vana,

si tinge dell'azzurro color di lontananza...







Le non godute



Desiderate più delle devote

che lasceremmo già senza rimpianti,

amiche alcune delle nostre amanti,

altre note per nome ed altre ignote

passano, ai nostri giorni, con il viso

seminascosto dal cappello enorme,

svegliando il desiderio che dorme

col baleno degli occhi e del sorriso.



E l'affanno sottile non ci lascia

tregua; ma più si intorbida e si affina

idealmente dentro la guaina

morbida della veste che le fascia...

Desiderate e non godute - ancora

nessuna prova ci deluse - alcune

serbano come una purezza immune

dalla folla che passa e che le sfiora.



Altre, consunte, taciturne, assorte

guardano e non sorridono: ma sembra

che la profferta delle belle membra

renda l'Amore simile alla Morte;

ardenti tutte d'una febbre e cieche

di vanità; biondissime, d'un biondo

oro, le cinge il pettine, secondo

l'antica foggia delle donne greche.



Per altre, il nodo greve dell'oscura

treccia è d'insostenibile tormento;

sembra che il collo, esile troppo, a stento,

sorregga il peso dell'acconciatura;

l'opera dei veleni in altre adempie

un prodigio purpureo: le chiome

splendono di riflessi senza nome

dilatandosi ai lati delle tempie...



Belle promesse inutili d'un bene

lusingatore della nostra brama,

quando una sola donna che non si ama

c'incatena con tutte le catene;

quando ogni giorno l'anima delusa

sente che sfugge il meglio della vita,

come sfugge la sabbia tra le dita

stretta nel cavo della mano chiusa...



Le incontrammo dovunque: nelle sere

di teatro, alla luce che c'illude;

la bella curva delle spalle ignude

ci avvinse del suo magico potere;

e quando l'ombra si abbatté su loro

addensandosi cupa entro le file

dei palchi, il freddo lampo d'un monile

fu l'indice del duplice tesoro.



E le avemmo compagne, ma per brevi

ore, in vïaggi taciti, in ritorni,

le ritrovammo dopo pochi giorni

nei rifugi dell'Alpi, tra le nevi;

le ritrovammo sulla spiaggia, al mare,

dove la brama ci ferì più acuta:

ah! Per quella signora sconosciuta

ore insonni, nella notte, lungo il mare!...



Chi sono e dove vanno? Dove vanno

le crëature nomadi? Per quanti

anni, nel tempo, furono gli amanti

presi e delusi dall'eterno inganno?

Ah! Noi saremmo lieti d'un destino

impreveduto che ce le ponesse

a fianco, tristi e pellegrine anche esse

nel nostro malinconico cammino.



Più d'un inganno lasciò largo posto

a più d'una ferita ancora viva...

Taluna - intatta - ci attirò furtiva

seco, ma per un utile nascosto;

altre, già quasi vinte, quasi dome,

nella nostra fiducia troppo inerte,

fantasticate quali prede certe,

furono salve, non sappiamo come...



Ed altre... Ma perché tanti ricordi

salgono dall'inutile passato?

Salgono col profumo del passato

da un cofanetto pieno di ricordi?

Ed ecco i segni, ecco le cose mute,

superstiti d'amori nuovi e vecchi,

lettere stinte, nastri, fiori secchi,

delle godute e delle non godute...



Desideri e stanchezze, indizi certi

d'un avvenire dedito all'ambascia

torbida che si schianta e che ci sfascia

rendendoci più tristi e più deserti...

Eppure, un giorno, questa febbre interna

parve svanire: quando ci si accorse,

tardi, di quella che sarebbe forse

per noi la sola vera amante eterna...



Tanto l'amammo per quel solo istante

che ella si volse pallida su noi

nell'offerta di un attimo, ma poi,

sparve, ella pure; sparve come tante

altre donne che passano, col viso

seminascosto dal cappello enorme

inasprendo la brama che non dorme

col baleno degli occhi e del sorriso...







L'amico delle crisalidi



Una crisalide svelta e sottile

quasi monile

pende sospesa dalla cimasa

della mia casa.



Salgo talora sull'abbaino

per contemplarla

e guardo e interrogo quell'esserino

che non mi parla:



O prigioniero delle tue bende

pendulo e solo,

soffri? il tuo cuore sente che attende

l'ora del volo?



Tu ti profili dal tetto antico

sui cieli pallidi...

No, non temere: sono l'amico

delle crisalidi!



No, non temere l'orride stragi

care una volta:

mi dan rimorso gli anni malvagi

della raccolta.



Papili Arginnidi Vanesse Pieridi

Satiri Esperidi:

contemplo triste con la mia musa

la tomba chiusa.



Dormono in pace tutte le morte

sotto il cristallo;

fra tutte domina la sfinge forte

dal teschio giallo.



O prigioniero delle tue bende

pendulo e solo

soffri? Il tuo cuore sente che attende

l'ora del volo?



Ti riconosco. Profilo aguzzo,

dorso crostaceo

irto, brunito, con qualche spruzzo

madreperlaceo:



sei la crisalide d'una Vanessa:

la Policlora

che vola a Maggio. Maggio si appressa,

tra poco è l'ora!



Tra poco l'ospite della mia casa

sarà lontana;

penderà vota dalla cimasa

la spoglia vana.



Andrai perfetta dove ti porta

l'alba fiorita;

e sarà come tu fossi morta

per altra vita.



L'ale! Si muoia, per che morendo,

sogno mortale,

si appaghi alfine questo tremendo

sforzo dell'ale!



L'ale! Sull'ale l'uomo sopito,

sopravvissuto,

attinga i cieli dell'Infinito,

dell'Assoluto...



E tu che canti fisso nel sole,

mio cuore ansante,

e tu non credi quelle parole

che disse Dante?







Dante



Un giorno, al chiuso, il pedagogo fiacco

m'impose la sciattezza del comento

alternato alla presa di tabacco.



Mi rammento la classe, mi rammento

la scolaresca muta che si tedia

al commentare lento sonnolento;



rivedo sobbalzare sulla sedia

il buon maestro, per uno scolaro

che si addormenta su di te, Comedia!



Attento! Attento! - Ah! più dolce sognare

con la gota premuta al frontispizio

e l'occhio intento alle finestre chiare!



Ad ora ad ora un alito propizio

alitava un effluvio di ginestre

sul comento retorico e fittizio.



La Primavera, l'esule campestre,

conturbava la gran pace scolastica

pel vano azzurro delle due finestre.



Io fissavo gli attrezzi di ginnastica,

gli olmi gemmati, l'infinito azzurro

in non so che perplessità fantastica;



e tendevo l'orecchio ad un sussurro,

ad un garrito di sperdute gaie,

in alto in alto in alto, nell'azzurro.



Guizzavano, da presso, l'operaie

affacendate in paglia in creta in piume,

riattando le case alle grondaie...



Con gli occhi abbarbagliati da quel lume

primaverile, mi chinavo stracco,

ripremevo la gota sul volume.



E riudivo il pedagogo fiacco

alternare alla chiosa d'ogni verso

la consueta presa di tabacco...



Ah! non al chiuso, ma nel cielo terso,

nel fiato novo dell'antica madre,

nella profondità dell'universo,



nell'Infinito mi parlavi, o Padre!







“Ex voto”



Si alza la neve in pace;

la valle che si imbianca

spicca sul cielo bruno.



Il Santuario tace

nella gran pace bianca

dove non c'è nessuno.



Nessuno per guarire

del male che lo strazia

più giunge di lontano...



Sol io potrei salire,

salire per la grazia:

mi rifarebbe sano...



Ma non vedrò la faccia

nera e la mitra aguzza...

Troppo ai bei dì sereni,



avvinto a quelle braccia

baciai la medagliuzza

tepente tra i due seni...







La statua e il ragno crociato



Io so il mistero di colei che abbassa

l'antiche ciglia in vigilanza estrema,

quasi, nel marmo trepidando, tema

d'aggrovigliare un'esile matassa.



Io so. Guardate contro il sole: passa

dall'una all'altra mano e splende e trema

il filo che un'epeira diadema

conduce senza spola e senza cassa.



Aracne fu pietosa. E chi non mai

più rivedrà la terra sacra abbassa

le ciglia illuse e vede il mare Egeo,



vede una schiava al ritmo dei telai,

appenderle dal plinto una matassa:

e canta un canto dolce il gineceo.







Im Spiele der Wellen



Tra le sirene che Boecklin gittava

nel fremito dell'onde verdazzurre

una ne manca, appena adolescente,

agile più di tutte e la più bella.



Poiché non quella che supina ascolta

il Tritone soffiare nella conca,

non quella che si gode la bonaccia

con tre scherzosi albàtri affaticati,



e non quelle che fuggono al Centauro,

l'una presa alle chiome, l'altra emersa

con volto sorridente, l'altra immersa

col busto, eretta con le gambe snelle:



non tutte quelle vincono la grazia

appena adolescente che abbandona

il mare caro al grande basilese,

il mare Azzurro per il mare Grigio!



E al mare nostro più non resta viva

che l'immagine fatta di memoria,

svelta nel solco dove più ribolle

la spuma e dove l'onda è tutta gemme!







Ad un'ignota



Tutto ignoro di te: nome, cognome,

l'occhio, il sorriso, la parola, il gesto;

e sapere non voglio, e non ho chiesto

il colore nemmen delle tue chiome.



Ma so che vivi nel silenzio; come

care ti sono le mie rime: questo

ti fa sorella nel mio sogno mesto,

o amica senza volto e senza nome.



Fuori del sogno fatto di rimpianto

forse non mai, non mai c'incontreremo,

forse non ti vedrò, non mi vedrai.



Ma più di quella che ci siede accanto

cara è l'amica che non mai vedremo;

supremo è il bene che non giunge mai!







Ketty



I.

Supini al rezzo ritmico del panka.



Sull'altana di cedro, il giorno muore,

giunge dal Tempio un canto or mesto or gaio,

giungono aromi dalla jungla in fiore.



Bel fiore del carbone e dell'acciaio

Miss Ketty fuma e zufola giuliva

altoriversa nella sedia a sdraio.



Sputa. Nell'arco della sua saliva

m'irroro di freschezza: ha puri i denti,

pura la bocca, pura la genciva.



Cerulo-bionda, le mammelle assenti,

ma forte come un giovinetto forte,

vergine folle da gli error prudenti,



ma signora di sé della sua sorte

sola giunse a Ceylon da Baltimora

dove un cugino le sarà consorte.



Ma prima delle nozze, in tempo ancora

esplora il mondo ignoto che le avanza

e qualche amico esplora che l'esplora.



Error prudenti e senza rimembranza:

Ketty zufola e fuma. La virile

franchezza, l'inurbana tracotanza



attira il mio latin sangue gentile.





II.

Non tocca il sole le pagode snelle

che la notte precipita. Le chiome

delle palme si ingemmano di stelle.



Ora di sogno! E Ketty sogna: “...or come

vivete, se non ricco, al tempo nostro?

È quotato in Italia il vostro nome?



Da noi procaccia dollari l'inchiostro...”

“Oro ed alloro!...” - “Dite e traducete

il più bel verso d'un poeta vostro...”



Dico e la bocca stridula ripete

in italo-britanno il grido immenso:

“Due cose belle ha il mon... Perché ridete?”.



“Non rido. Oimè! Non rido. A tutto penso

che ci dissero ieri i mendicanti

sul grande amore e sul nessun compenso.



(Voi non udiste, Voi tra i marmi santi

irridevate i budda millenari,

molestavate i chela e gli elefanti.)



Vive in Italia, ignota ai vostri pari,

una casta felice d'infelici

come quei monni astratti e solitari.



Sui venti giri non degli edifici

vostri si accampa quella fede viva,

non su gazzette, come i dentifrici;



sete di lucro, gara fuggitiva,

elogio insulso, ghigno degli stolti

più non attinge la beata riva;



l'arte è paga di sé, preclusa ai molti,

a quegli data che di lei si muore...”

Ma intender non mi può, benché m'ascolti,



la figlia della cifra e del clamore.





III.

Intender non mi può. Tacitamente

il braccio ignudo premo come zona

ristoratrice, sulla fronte ardente.



Gelido è il braccio che ella m'abbandona

come cosa non sua. Come una cosa

non sua concede l'agile persona...



- “O yes! Ricerco, aduno senza posa

capelli illustri in ordinate carte:

l'Illustrious lòchs collection più famosa.



Ciocche illustri in scienza in guerra in arte

corredate di firma o documento,

dalla Patti, a Marconi, a Buonaparte...



(mordicchio il braccio, con martirio lento

dal polso percorrendolo all'ascella

a tratti brevi, come uno stromento)



e voi potrete assai giovarmi nella

Italia vostra, per commendatizie...”

- “Dischiomerò per Voi l'Italia bella!”



“Manca D'Annunzio tra le mie primizie;

vane l'offerte furono e gli inviti

per tre capelli della sua calvizie...”



- “Vi prometto sin d'ora i peli ambiti;

completeremo il codice ammirando:

a maggior gloria degli Stati Uniti...”



L'attiro a me (l'audacia superando

per cui va celebrato un cantarino

napolitano, dagli Stati in bando...)



Imperterrita indulge al resupino,

al temerario - o Numi! - che l'esplora

tesse gli elogi di quel suo cugino,



ma sui confini ben contesi ancora

ben si difende con le mani tozze,

al pugilato esperte... In Baltimora



il cugino l'attende a giuste nozze.







Risveglio sul Picco d'Adamo



Cantare udivo un gallo in sogno... Sognavo un villaggio

canavesano forse... L'aurora improvvisa mi desta.



Mi desta nel rifugio di stuoia sul Picco selvaggio:

d'un tremolìo d'acquario scintilla la selva ridesta.



Le felci arborescenti contendono i raggi all'aurora,

dall'uno all'altro fusto si allaccia la flora demente,



spezzo ghirlande azzurre gialle sanguigne, m'irrora

la coppa del calladio, l'orciuolo della nepente...



Cantava un gallo in sogno... Ma un gallo ben vivo risponde.

Sobbalzo. Ascolto. Il cuore col battito colma le tregue.



Regna il Re dei cortili le vergini selve profonde?

M'illude un negromante per gioco? Il mio sogno prosegue?



Non il Re dei cortili qui regna, ma l'avo selvaggio

(già cantava sul Picco d'Adamo che Adamo non era).



Canta il “gallo bankywa” l'aurora del Tropico, il raggio

d'oro che scende obliquo dove la jungla è più nera.







La bella preda



I.

Fanciullo formidabile: soldato

dell'Alpi e tu mi chiedi

che io celebri il tuo gesto in versi miei!

Non trovo ritmi - oimè! - non trovo rime

così come vorrei

al tuo gesto sublime!

Ma sai tu quanto sia bello il tuo gesto,

simbolica la spoglia

dell'aquila regale che t'offerse

l'Altissimo - redento! - a guiderdone

della baldanza tua liberatrice?

La vittima che dice:

Terra d'Italia è questa!

a consenso palese

dei cieli sommi nella santa gesta?





II.

Tu non sapevi. Solo con te stesso

e coi fratelli in una forza sola,

sostavi sulla gola

vertiginosa, l'anima in vedetta,

protetto dalla vetta

signoreggiata. Il cuore

batteva impaziente dell'assalto.

Il cielo era di smalto

cerulo, nel silenzio intatto come

quando non era l'uomo ed il dolore...

Era il meriggio alpino,

splendeva il sole nella valle sgombra.

In larghe rote si annunciò dall'alto

l'olocausto divino,

la messaggiera, disegnando un'ombra.





III.

Che pensasti nell'attimo? Colpisti.

Bene colpisti. Il vortice dell'ale

precipitò ventandoti sul viso.

E l'aquila regale

ecco immolasti sul granito alpino

come sull'ara sacra alla riscossa

del popolo latino.

E la tua mano rossa

fu del sangue ricchissimo aquilino.

Battezzasti così la tua mano,

nella stretta che tutti ebbero a gara,

commentando l'augurio e la bravura,

battezzasti così con la tua mano

tutti i compagni tuoi,

dal giovinetto imberbe al capitano!





IV.

Sarcasmo inconsapevole! E tu mandi

oggi la spoglia a noi che con bell'arte

le si ridoni immagine di vita;

ma quale arte iscaltrita

può simulare l'irto palpitare

di penne e piume, il demone gagliardo

tutto rostro ed artigli e grido e sguardo

nell'ora che si scaglia?

Nessuna sorte è triste

in questi giorni rossi di battaglia:

fuorché la sorte di colui che assiste...

E - sarcasmo indicibile per noi

scelti ai congegni ed alla vettovaglia -

tu strappasti l'emblema degli eroi

ed a noi mandi un'aquila di paglia!...







[Ah! Difettivi sillogismi!]



Ah! Difettivi sillogismi! L'io

che c'è sì caro, muore ad ogni istante

senza rimpianto. Muore nel riposo

e nella veglia. Un calice di vino

un grano d'oppio, uno sbigottimento

una ferita, basta a dileguarlo.

Ma ci acqueta il pensiero che al risveglio

ritroveremo intatto e vigilante

il buono fanciulletto interïore

che ci ripete d'esser sempre noi...

Ah! Fanciullesca è veramente questa

anima semplicetta che riduce

alla nostra stadera l'infinito;

nutre speranze, chiede privilegi

più spaventosi del più spaventoso

nulla, ché il nulla è non poter morire.

Come pensare senz'abbrividire

tutta l'eternità chiusa nell'io

in quest'angusto carcere terreno?

Quasi bramosi fantolini e vani

preghiamo un bene e non sappiamo quale.

Quando per anni o per follia si offusca

l'altrui cervello, quella decadenza

più non c'inquieta della decadenza

corporea. Permane la speranza

che l'io del caro sopravviva ancora

mentre è già come se non fosse più.

Ora se quasi ci si acqueta in vita

allo sfacelo della mente immemore

che mai vogliamo dalla morte immune?

Questa cosa di noi che vuol persistere

indefinita, è dunque indefinibile

come il raggio che emana dalla lampada,

come il suono che emana dal lïuto;

lampada e lïuto sono tra gli arredi

più famigliari e semplici che posso

scomporre ricomporre con le mani;

il mistero m'appare se mi chiedo

che sia, di dove venga, dove vada

il prodigio del suono e della luce...

Oimè! L'essenza che rivibra in noi

non può per intelletto esser compresa

da poi che l'io solo con se stesso,

soggetto, oggetto della conoscenza,

come uno specchio vano si moltiplica

inutilmente ed infinitamente

e nel riflesso è prigioniero il raggio

di verità che l'occhio non discerne.

Giova quindi sottrarci all'incantesimo

alla voce che implora di rivivere

come a un morbo insanabile terrestre.

Negli attimi di grazia, quando l'io

dilegua nei pensier contemplativi

quando l'istinto tace e si compiace

nella gioia dell'utile non nostro

o freme ad una strofe ad una musica

nell'ebrezza senz'utile dell'arte,

forse ci giunge il pallido riflesso

d'una luce remota, della vita

che ci attende al di là, nel puro spirito,

nel non essere noi, nell'ineffabile.

È la fede che Socrate morente

predicava all'alunno: “Datti pace!

Non morirò: seppelliranno l'altro”.

È la luce che Baghava Purana

rivelava sul tronco del palmizio:

“Solo eterno è lo spirito. Non piangere

su te su me su altri. Perché l'io

ed il non io son frutto d'ignoranza.

Desideravi un figlio, o Re; l'avesti;

oggi provi lo strazio del distacco,

strazio che dànno tutte le fortune

a chi si illude e pensa durature

l'apparenze caduche della vita.

Solo eterno è lo spirito. Nei tempi

chi fu per te quel figlio che tu piangi?

Chi tu fosti per lui? Che voi sarete

l'uno per l'altro nell'ignoto andare?

Sabbia del mare, foglie date al vento...

Solo eterno è lo spirito. Consolati”.

Ma il re singhiozza disperato ancora

e pel prodigio d'uno di quei rishy

l'anima si ridesta nel cadavere,

si guarda intorno sbigottita, dice:

“In quale delle innumeri apparenze

d'animali, di uomini, di devhas

m'ebbi per padre questo che m'abbraccia?

Non mi toccare: io non ti riconosco.

O tu che piangi su di me non piangere.

Solo eterno è lo spirito. Consolati!”.

Così parlato il giovinetto muore

un'altra volta. L'anima si invola

eternamente. E il Re non piange più.







La ballata dell'Uno



L'Uno è tutto esaurito,

non lo trova più nessuno,

a chi dà copia dell'Uno

un milione è profferito.



Col più gran caffè concerto

vien Giolitti un poco male

per un male un poco incerto,

vien con tutto il personale

del Suffragio Universale.

Ma - pagliaccio o rosso o bruno -

tutti chiedono dell'Uno,

l'Uno già tutto esaurito.



Finalmente il Vaticano

lascia il Papa ed il Concilio,

balla il tango col sovrano

dal garofano vermiglio.

Tutti vanno in visibilio:

il prelato col tribuno,

tutti chiedono dell'Uno:

l'Uno - ahimè - tutto esaurito!



Trema all'Uno e terra e mare!

la San Giorgio per isbaglio

si rimette a galleggiare,

perciò grato l'ammiraglio

contro un già prossimo incaglio

contro i tiri di Nettuno

premunirsi vuol dell'Uno,

l'Uno - ohimè - tutto esaurito!



Stanco d'essere il fantoccio

d'un insipido frasario

grida Verdi: Alfin mi scoccio

di cotesto centenario.

Qui m'annoio solitario.

Ecco il Numero. Ma l'Uno?

L'Uno - ohimè - non l'ha nessuno,

l'Uno è già tutto esaurito!



Levigandosi l'alloro

Gabriele inquieto appare:

un mistero: il Pomo d'oro

ben volevo ricercare

sul rarissimo esemplare.

Gabriele andrà digiuno;

splende il numero, ma l'Uno,

l'Uno è già tutto esaurito.



Vien Mascagni truce in vista

ché su l'Uno spera già

e già teme un'intervista

“Poiché io sono - ognun lo sa -

mammoletta d'umiltà...”

- Che voi siate un fiore o un pruno,

gran maestro, fa tutt'uno,

l'Uno è già tutto esaurito.



Térésah, Carola, Amalia,

l'altre insigni letterate,

che oggi infiammano l'Italia,

si presentano infiammate

come tante forsennate:

un prurito inopportuno

tutte sentono dell'Uno,

l'Uno - ohimè - tutto esaurito.



Non resiste la Gioconda,

balla fuori arguta e gaia

con la sua facciona tonda

di perfetta giornalaia.

Cento quindici migliaia

mi richiedono dell'Uno!

A chi dà copia dell'Uno

un milione è profferito.



Oh successo inopportuno!

L'Uno è già tutto esaurito!





La messaggiera senza ulivo



Bene scegliesti l'unico rifugio,

trepida messaggiera insanguinata!

(Sangue d'amico? Sangue di nemico?

Ah! Che il sangue è tutt'uno, oltre la soglia!)



Palpiti esausta e sfuggi la carezza

e temi il rombo... È il rombo del tuo cuore.

Socchiudi gli occhi dove trema ancora

lo spaventoso tuo pellegrinare.



Ah! Sarcasmo indicibile! Tu sacra

dai tempi delle origini alla pace

la novella ci rechi - ah, senza ulivo! -

del flagello di Dio sopra la Terra.



Ma non del Dio Signore Nostro: il dio

feticcio irsuto della belva bionda:

- Rinascono le donne ed i fanciulli,

uccideremo ciò che non rinasce! -



E le trine di marmo, le corolle

di bronzo, gli edifici unici al mondo,

i vetri istoriati, i palinsesti

alluminati, i codici ammirandi,



ciò che un popolo mite ebbe in retaggio

dalla Fede e dall'Arte in un millennio

ritorna al nulla sotto i nuovi barbari:

non più barbari, no: ladri del mondo!



Tu non tremare, messaggiera bianca;

bene scegliesti l'unico rifugio:

la spalla manca della bella Donna

eretta in pace nel suo bel giardino.



La riconosci? Dolce ti sorride

piegando il capo sotto la corona

turrita a vellicarti con la gota

e con l'ulivo ti ravvia le penne.



Ma tien la destra all'elsa e le pupille

chiaroveggenti fissano il destino;

non fu mai così forte e così bella

e palpitante dalla nuca al piede.



La riconosci? Non ti dico il nome

troppo già detto, sacro all'ora sacra!

Bene sciegliesti l'unico rifugio,

trepida messaggiera insanguinata!







La basilica notturna

Pax tibi, Marce, Evangelista meus



I.

D'oro si fanno brune le cupole stupende,

ma sotto il cielo illune il cielo d'oro splende.



Splende l'emblema come nel codice ammirando:

Venezia trepidando nel sacrosanto nome.



Sta l'Angelo di Dio, sta col fatale incarco

lassù “Pace a Te, Marco, Evangelista mio!”



Intorno gli fan coro tutti i Profeti, in rari

musaici millenari. Palpita il cielo d'oro.



Il palpito millenne corre Santi e Madonne;

vivono le colonne, le fragili transenne.



Ma quale antica Ambascia il Tempio oggi ricorda,

difeso nella sorda materia che lo fascia?





II.

Pei ciechi balaustri, per le navate ingombre

passano grigie l'ombre di tutti i dogi illustri.



Dice uno Zani: Vissi pel tempio apparituro.

Quale nemico oscuro sale dai ciechi abissi?



Dov'è l'icona fine di quattromila perle,

mirabili a vederle tra l'opre bizantine?



Dove le croci greche, sante in Gerusalemme,

i codici, le gemme, i calici, le teche?



E dice un Selvo: Tolsi i marmi d'oltremare:

posi con questi polsi la pietra dell'altare.



La Bibbia m'ammoniva. Sculpii divotamente.

La pietra fu vivente: dov'è la pietra viva?



Gli Zorzi i Mocenigo i Vanni i Contarini

i Gritti i Morosini i Celsi i Gradenigo



guatano il legno greggio che cela marmi ed ori.

- Minacciano i tesori i barbari e il saccheggio?



- Risorgono al reame i Turchi gli Unni i Galli?

Tornarono i cavalli all'ippodromo infame?





III.

Sta l'Angelo di Dio, sta col fatale incarco

lassù “Pace, a Te, Marco, Evangelista mio!”



Santo dei Santi eroi guerrieri e marinai,

o Santo, o tu che fai che “noi si dica noi”,



quale remota ambascia il Tempio tuo ricorda,

difeso nella sorda materia che lo fascia?



Minacciano i tuoi beni, la Chiesa disadorna

Barbari e Saraceni! Ah! Ciò che fu ritorna! -







Ai soldati alladiesi combattenti



O tu, che d'odio sacrosanto avvampi

i confini del Barbaro cancella!

Con l'anno sorga una migliore stella

a consolar gli insanguinati campi!



Tu che combatti per l'Italia bella,

tra cupi rombi e balenar di lampi,

salve! Ed il cielo provvido ti scampi

alla sposa, alla madre, alla sorella!



Il tuo paese attende il tuo ritorno.

Tempi migliori ti saran concessi,

se in dolce pace finirà la guerra.



I nostri voti affrettano quel giorno;

tra belle vigne e biondeggiar di messi,

ritornerete, figli della terra!







Prologo



Dice il Sofista amaro: ...il Passato è passato;

è come un'ombra, è come se non fosse mai stato.

Impossibile è trarlo dal sempiterno oblio;

impossibile all'uomo, impossibile a Dio!

Il Passato è passato... Il buon Sofista mente:

basta un accordo lieve e il Passato è presente.

Basta una mano bianca sulla tastiera amica

ed ecco si ridesta tutta la grazia antica!

Anche se il tempo edace o il barbaro cancella

i tesori che all'arte diede l'Italia bella,

v'è un'arte più del marmo, del bronzo duratura

fatta di suoni, fatta di una bellezza pura,

un'arte che sussiste pur fra i tesori infranti

finché una corda vibri e una fanciulla canti!

Il Seicento rivive con la sua grazia ornata

in Orazio dell'Arpa od in Mazzaferrata;

si eterna il Settecento più che in marmi o ritratti,

in un motivo lieve di Blangini... Scarlatti...



Melodrammi, oratorii, messe, vespri, mottetti:

odor sacro e profano d'incensi e belletti!

La musica da camera risorge in guardinfante

tra una dama che ride e un abate galante!

Né il Settecento solo, ma noi risaliremo

all'origini prime, fino al limite estremo,

quando non anche noto era il cembalo e l'ale

scioglieva il canto al ritmo del liuto provenzale.

Ad evocare il sogno che l'anima riceve

si alterni la parola nella cornice breve.

Ché pei Maestri antichi non fu la scena immota,

ma sognarono “vive” la sillaba e la nota.

Rivivano quai furono. E dell'età passate

risorgano, col canto, le fogge disusate.

Non per arte femminea, né per vezzo leggiadro,

ma perché il vero viva nell'armonia del quadro.



Questo è l'intento nostro. Coi Maestri più noti

e men noti rivivere i secoli remoti.

Nostre canzoni, gemme dei nostri orafi insigni

un po' dimenticate nei loro antichi scrigni!

Tutti i motivi italici noi tratteremo in parte

se fortuna è propizia al nostro sogno d'arte.

Questo è l'intento nostro. E ci valga l'intento,

se le forze non sempre son pari all'argomento.

E - se faremo bene - decretate il successo...

e... se male faremo... applaudite lo stesso!







Carolina di Savoia



Dopo un anno moriva quella che usciva sposa

da questa Reggia... Visse la vita d'una rosa:

un mattino! Bel fiore non sedicenne ancora

colto da mano ignota in sulla prima aurora!



“Principessa Maria Carolina Antonietta

di Savoia! Lo sposo da me scelto v'aspetta:

il Duca di Sassonia: Marcantonio Clemente.”

...Così parlava il padre, il Re, solennemente.



- Cognata Carolina - le disse quel mattino -

giunto è l'ambasciatore di Sassonia a Torino!

Verso il promesso sposo tra poco te ne andrai!

- Verso il promesso sposo? Non l'ho veduto mai! -

- Ha visto il tuo ritratto, hai visto il suo: ti piace? -

- Mi piace? È un po' di tela dipinta, che tace...

Oh! sposerei ben meglio un umile artigiano

che il Duca di Sassonia - oimè - così lontano! -

- Un umile artigiano! Son miti le pretese! -

- Oh sposerei ben meglio un povero borghese!... -

- Un povero borghese! Cognata mia bizzosa!... -

E le adattava intanto la ghirlanda di sposa.

Le cameriere intente all'opra delicata

guardavano la bimba pensosa ed accorata.

- Duchessa di Sassonia! Se questo è il mio destino,

non rivedrò l'Italia, non rivedrò Torino!...



La Regina Maria, Re Vittorio Amedeo,

la Corte, il Clero, i Nobili aprivano il corteo.

Le carrozze di gala avanzavano lente

per Torino infiorata, tra la folla piangente.



- La Bela Carôlin (la folla la chiamava

così, familiarmente, la folla che l'amava!)

La Bela Carôlin ci lascia e va lontano!

Il Duca di Sassonia ha chiesto la sua mano!

L'Ambasciatore è giunto e se la porta via...

Nozze senza lo sposo! Oh! che malinconia! -

Malinconiche nozze ed allegrezze vane:

archi di fiori, canti, clangori di campane...

Mille mani plebee cercavano la stretta

della mano ducale, la mano prediletta...

- Ti segua il voto nostro! Ti benedica Iddio! -

Carolina piangeva a quel supremo addio.

La figlia dalla madre divisa fu - che pena! -

a viva forza, come si spezza una catena...

- Piangete cittadini, piangete il mio destino!

Non rivedrò mia madre, non rivedrò Torino!



Dopo un anno moriva quella che usciva sposa

da questa Reggia. Visse la vita d'una rosa:

un mattino! E si spense nel paese lontano

senza una mano amica nella piccola mano!

Oggi rivive. Il popolo che l'adorava tanto

la canta. E non è morto chi rivive nel canto!







La culla vuota



(Una madre giovinetta veglia sulla grande culla

velata, accompagnando il dondolìo della mano

col ritmo del canto.)



Ninna-nanna, bimbo mio!

Ninna-nanna, dolce Re!

Mentre Mamma pensa a Dio,

c'è il buon Dio che pensa a te!

Quando tu nascesti venne

la Madonna a contemplare,

si fermarono le penne

dei Cherùbi ad adorare!

E nel cielo fu la Stella

e si udirono parole

e più fulgido fu il Sole

e la Terra fu più bella!

Ninna-nanna, pupo biondo,

Ninna-nanna, dolce Re!

Non si trova in tutto il mondo

pupo bello come te!...



(Solleva i veli della culla vuota. La fruga. Balza in piedi, indietreggia barcollando: poi passa le mani sul volto atterrito, quasi per sentirsi ben viva.)



Vuota è la culla... È vero od è menzogna?

Menzogna atroce, incubo fugace!

Togli al martirio il cuore di chi sogna!





(Giunge la voce della Morte invisibile.Prima fioca e remota, indi più cruda e distinta.)





LA MORTE INVISIBILE

Sogno non è! Non incubo fugace.

Tuo figlio non è più! Ma datti pace!

Ma datti pace! Non lagnarti forte,

non ti lagnare a voce così sciolta,

va il tuo lamento, ma nessun l'ascolta.

Povera donna taci! È cosa stolta

cercar d'opporsi a me che son la Morte!



LA MADRE

Oh! voce roca, funebre sul vento

sei tu, la Morte? che m'hai tolto il figlio?

Ah! L'odo urlare, urlare di spavento,

bianco lo vedo com'è bianco un giglio,

un giglio chiuso dall'ossuto artiglio...



(Breve silenzio. Il volto di lei è come quello di

una demente.)



No! Non è vero! È il mio vaneggiamento...



LA MORTE

Non è vaneggiamento! Il bimbo giace

sotto la terra ancor molle e smossa

ma l'alba nuova sorge e si compiace

d'educar fiori su l'angusta fossa

e l'anima innocente si è già mossa

verso le stelle per l'eterna pace!



LA MADRE

O Morte, dammi l'angioletto biondo

che tu celasti nella terra oscura;

l'abisso dove giace è troppo fondo

la pietra che lo copre è troppo dura;

scampalo, Morte, dalla sepoltura,

poi manda in sepoltura tutto il mondo!



LA MORTE

Ti rendo il figlio, o donna, ma rammenta

che ti sarà martirio l'avvenire.



LA MADRE

Soffrir pel figlio mio! Non mi spaventa

l'ammonimento che io dovrò soffrire;

per veder vivo lui vorrei morire

e nel morire riderei contenta!



LA MORTE

Ti rendo il figlio, o donna, ma t'avverto

che gli scorre il delitto entro le vene!

l'occhio avrà torvo, il cuor di frode esperto...



LA MADRE

Rendimi il figlio! So che mi conviene

col buon consiglio di condurlo al bene,

farne un cuor saggio ed uno sguardo aperto.



LA MORTE

Il figlio tuo ti verrà reso, ma

non ti scordare mai di questo giorno;

egli dormiva già felice là

donde nessuno fece mai ritorno.

Donna, è ben meglio il funebre soggiorno,

meglio la pace dell'eternità.



LA MADRE

Io ti ringrazio, o Morte! Infine il povero

figliolo mio torna alle mie braccia;

su questo seno troverà ricovero,

su questo seno celerà la faccia,

e farà il bene sotto la minaccia

dell'amoroso tenero rimprovero...



LA MORTE

Io te lo rendo, ma non tarderai

a lacerarti il cuor dallo sconforto.

Mi supplicavi, o donna, e t'ascoltai.

Ti feci lieta, ma per tempo corto;

e un giorno tu dirai: fosse pur morto

e non si fosse ridestato mai.



LA MADRE

Perché, perché codesto tuo parlare,

si egli sarà per sempre a me vicino?

Se ogni mattin lo guiderò all'altare,

se foggerò più bello il suo destino?



LA MORTE

Appena il braccio sarà forte al remo

lascerà la sua madre e il casolare;

dalla deserta riva sentiremo

dì e notte, notte e giorno il tuo gridare;

e forse un giorno lancerai sul mare

invano, invano il tuo lamento estremo.

Ed egli dove il cielo di turchese

scende nell'onda, ove si estingue il sole,

rimpiangerà il minuscolo paese,

rimpiangerà le tue buone parole.

E griderà nell'anima che duole;

griderà: Morte! Con me sii cortese!

Chiederà morte! E appagherò mie brame

non lui sopendo sopra un letto molle,

tra dolci preci e candide corolle...

Morrà sul palco, infamia del reame,

morrà sul palco. Maleoprando volle

rendersi degno della morte infame!



(La madre si copre con le mani il volto disfatto dalla visione spaventosa.)

Io te lo rendo. Ma tu sappi ancora...



LA MADRE

(con un brivido d'orrore) No! taci! taci!

(La madre si accascia; con un moto d'orrore crescente si fa difesa con le braccia, come sotto una percossa. Lungo silenzio. Poi alza il volto trasfigurata.)

No! taci! taci! non mi dir più nulla!

Non mi ridire ciò che m'addolora...



LA MORTE

Io te lo rendo. Ma tu sappi ancora...



LA MADRE

Lasciami sola sopra questa culla

a piangere quest'anima fanciulla

che tramontò nel sorger dell'aurora!







Natale



La pecorina di gesso,

sulla collina in cartone,

chiede umilmente permesso

ai Magi in adorazione.



Splende come acquamarina

il lago, freddo e un po' tetro,

chiuso fra la borraccina,

verde illusione di vetro.



Lungi nel tempo, e vicino

nel sogno (pianto e mistero)

c'è accanto a Gesù Bambino,

un bue giallo, un ciuco nero.







Pasqua



A festoni la grigia parietaria

come una bimba gracile si affaccia

ai muri della casa centenaria.



Il ciel di pioggia è tutto una minaccia

sul bosco triste, ché lo intrica il rovo

spietatamente, con tenaci braccia.



Quand'ecco dai pollai sereno e nuovo

il richiamo di Pasqua empie la terra

con l'antica pia favola dell'ovo.







La Befana



Discesi dal lettino

son là presso il camino,

grandi occhi estasiati,

i bimbi affaccendati



a metter la scarpetta

che invita la Vecchietta

a portar chicche e doni

per tutti i bimbi buoni.



Ognun, chiudendo gli occhi,

sogna dolci e balocchi;

e Dori, il più piccino,

accosta il suo visino



alla grande vetrata,

per veder la sfilata

dei Magi, su nel cielo,

nella notte di gelo.



Quelli passano intanto

nel lor gemmato manto,

e li guida una stella

nel cielo, la più bella.



Che visione incantata

nella notte stellata!

E la vedono i bimbi,

come vedono i nimbi



degli angeli festanti

ne' lor candidi ammanti.

Bambini! Gioia e vita

son la vision sentita



nel loro piccolo cuore

ignaro del dolore.







Oroscopo



Alla mamma

per la nascita del fratello Renato



La bionda fata sollevò le mani

sopra la culla in atto di preghiera

e nel chiaro mattin di primavera

suonò la bella voce in ritmi arcani:



“Spiriti eterni, Geni sovrumani

viventi dove il sol non ha mai sera,

scendete dalla vostra eccelsa sfera...

Venite, o Geni, dai regni lontani.



Donategli la forza e la saviezza,

la nobiltà dell'animo e del core;

che io l'ho predestinato alla bellezza:



e dategli la grazia delicata

della sua Mamma, dategli l'amore...”

Disse: e in ciel dileguò la bionda fata!







Dolci rime



a Luisa Giusti, amica minuscola,

con un cartoccio di cioccolatto



Sola bellezza al mondo

che l'anima non sazia,

fiore infantile, biondo

miracolo di grazia;



grazia di capinera

che canta e tutto ignora,

grazia che attende ancora

la terza primavera!



Tu credi che io commerci

(poi che poeto un poco)

in chi sa quali merci

buone alla gola o al gioco!



- Dammi una poesia! -

Così, come un confetto,

mi chiedi... E t'hanno detto

che sia?... Non sai che sia!



Che sia, come va fatto

il dono che vorresti,

ti spiegherò con questi

dischi di cioccolatto.



Due volte quattro metti

undici dischi in fila

(già dolce si profila

sonetto dei sonetti).



Due volte tre componi

undici dischi alfine

(compiute in versi “buoni”

quartine ecco e terzine).



Color vari di rime

(tu ridi e n'hai ben onde)

poni: terze e seconde

concordi, ultime e prime.



Molto noioso? O quanto

noioso più se fatto

di sillabe soltanto

e non di cioccolatto!



Di qui potrai vedere

la mia tristezza immensa:

piccola amica, pensa

che questo è il mio mestiere!







Prima delusione



La bionda bimba coi capelli al vento

correva per i viali del giardino

rossa nel volto, respirando a stento

per sfuggire al suo bruno fratellino.



“Mamma!”: era giunta all'albero di pesco,

calpestandone i fiori scossi dal vento:

poi rise, del suo riso argenteo e fresco,

al fratellino giunto in quel momento.



“Non mi prendesti!” disse e rise ancora

al fratellino un po' mortificato;

e il sol, che traversava i rami allora,

baciò quel capo piccolo e dorato.



“Fulvio, perché la bamboletta parla?

Dici che sia una bambina vera?”

“Chissà! Bisognerebbe un po' osservarla,

guardarle il viso che pare di cera.”



“Vai a prenderla: è dentro nella serra.”

Il fratellino corse, e lei rimase

coll'occhio fisso all'ombre, che per terra

formava il sol nell'ultima sua fase.



Tornò il fratello con la bamboletta:

“Guardala, Fulvio, a me par proprio viva,

se tiri quello spago parla, e, aspetta,

se la bacio e la lodo si ravviva.



Sì, sì! Se io le parlo mi comprende,

se la rimbrotto subito si attrista;

quando la bacio, il bacio lei mi rende

e poi, del resto, ridere l'ho vista”.



L'accarezzava intanto, la bimbetta,

sui bei capelli morbidi e ricciuti,

ma ad una mossa falsa la pupetta

cadde e si infranse in cocci assai minuti.



Turbata in cuore da lacrime ardenti

la bimba curva cerca in mezzo ai cocci:

occhi di vetro, due piccoli denti

e le manine simili a due bocci.



Le lacrime le scendon, sul visino,

su la parrucca che trattiene in mano;

cerca di consolarla il fratellino:

“Ti do il mio cerchio, e anche quel buffo nano”.



Ma no: non è la bambola perduta

che fa piangere tanto la bambina:

vera, parlante, sempre l'ha creduta;

invece è sol di porcellana fina.



Piange la bimba perché fu delusa.

L'aveva tanto amata come viva

e che la ricambiasse si era illusa,

povera bimba! e l'illusion finiva.



Il sole tramontava tutto fuoco,

da lungi si sentiva batter l'ore

ed in quel giorno destinato al gioco

pianse la bimba il primo suo dolore.







La canzone di Piccolino

(dal bretone)



Piccolino, morta mamma,

non ha più di che campare;

resta solo con la fiamma

del deserto focolare;

poi le poche robe aduna,

mette l'abito più bello

per venirsene in città.

Invocando la fortuna

con il misero fardello,

Piccolino se ne va.



E cammina tutto il giorno,

si presenta ad un padrone:

- “Buon fornaio al vostro forno

accoglietemi garzone”. -

Ma il fornaio con la moglie

ride ride trasognato:

- “Piccolino, in verità

il mio forno non accoglie

un garzone appena nato!

Non sei quello che mi va”. -



Giunge al re nel suo palagio,

si presenta ardito e fiero:

- “Sono un piccolo randagio,

Sire, fatemi guerriero”. -

Il buon Re sorride: - “Omino,

vuoi portare lancia e màlia?

Un guerriero? In verità

tu hai bisogno della balia!

Tu sei troppo piccolino:

Non sei quello che mi va”. -



Vien la guerra, dopo un poco,

sono i campi insanguinati;

Piccolino corre al fuoco

tra le schiere dei soldati.

Ma le palle nell'assalto

lo sorvolano dall'alto

quasi n'abbiano pietà.

- “È carino quell'omino,

ma per noi troppo piccino:

non è quello che ci va!” -



Finalmente una di loro

lo trafora in mezzo al viso;

esce l'anima dal foro,

vola vola in Paradiso.

Ma San Pietro: - “O Piccolino,

noi si occorre d'un Arcangelo

ben più grande, in verità.

Tu non fai nemmeno un Angelo

e nemmeno un Cherubino...

Non sei quello che ci va”. -



Ma dal trono suo divino

Gesù Cristo scende intanto,

e sorride a Piccolino

e l'accoglie sotto il manto:

- “Perché parli in questo metro,

o portiere d'umor tetro?

Piccolino resti qua.

Egli è piccolo e mendico

senza tetto e senz'amico:

egli è quello che mi va...

O San Pietro, te lo dico,

te lo dico in verità!...”







La Notte Santa

(Melologo popolare)





- Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!

Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.

Presso quell'osteria potremo riposare,

ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.



Il campanile scocca

lentamente le sei.



- Avete un po' di posto, o voi del Caval Grigio?

Un po' di posto per me e per Giuseppe?

- Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;

son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe



Il campanile scocca

lentamente le sette.



- Oste del Moro, avete un rifugio per noi?

Mia moglie più non regge ed io son così rotto!

- Tutto l'albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:

Tentate al Cervo Bianco, quell'osteria più sotto.



Il campanile scocca

lentamente le otto.



- O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno

avete per dormire? Non ci mandate altrove!

- Si attende la cometa. Tutto l'albergo ho pieno

d'astronomi e di dotti, qui giunti d'ogni dove.



Il campanile scocca

lentamente le nove.



- Ostessa dei Tre Merli, pietà d'una sorella!

Pensate in quale stato e quanta strada feci!

- Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.

Son negromanti, magi persiani, egizi, greci...



Il campanile scocca

lentamente le dieci.



- Oste di Cesarea... - Un vecchio falegname?

Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?

L'albergo è tutto pieno di cavalieri e dame

non amo la miscela dell'alta e bassa gente.



Il campanile scocca

le undici lentamente.



La neve! - ecco una stalla! - Avrà posto per due?

- Che freddo! - Siamo a sosta - Ma quanta neve, quanta!

Un po' ci scalderanno quell'asino e quel bue...

Maria già trascolora, divinamente affranta...



Il campanile scocca

La Mezzanotte Santa.



È nato!

Alleluja! Alleluja!



È nato il Sovrano Bambino.

La notte, che già fu sì buia,

risplende d'un astro divino.

Orsù, cornamuse, più gaje

suonate; squillate, campane!

Venite, pastori e massaie,

o genti vicine e lontane!



Non sete, non molli tappeti,

ma, come nei libri hanno detto

da quattro mill'anni i Profeti,

un poco di paglia ha per letto.

Per quattro mill'anni si attese

quest'ora su tutte le ore.

È nato! È nato il Signore!

È nato nel nostro paese!

Risplende d'un astro divino

La notte che già fu sì buia.

È nato il Sovrano Bambino.

È nato!

Alleluja! Alleluja!