Francesco Guicciardini

 

 

DISCORSI POLITICI

 

 

 

I

 

[In favore della lega proposta da Massimiliano

alla repubblica di Venezia.]

 

Massimiano re de' romani, innanzi che fussi fatta la lega di Cambrai, nella dieta di Costanza, sotto titulo di rimettere Massimiano Sforza, ricercava e' viniziani di lega per venire in Italia per la corona dello imperio ed a' danni de' franzesi, allora signori di Milano, offerendo loro partiti grandi. Trattavasi nel senato suo quid agendum; fu parlato da uno senatore per la parte affermativa in questo modo:

 

Tutta la difficultá di questa consulta, onorevoli senatori, consiste in considerare se el re de' romani si unirá co' franzesi in caso che noi rifiutiamo le dimande sue; perché avendo noi ora pace piacevole ed onorevole ed anche assai sicura, nessuna ragione può essere bastante a farci pigliare una guerra di travaglio e spesa assai, ogni volta che noi non dubitiamo che loro si unischino. Ma se noi presuppognamo che sia pericolo di questa unione, non credo che sia nessuno che neghi che sia da prevenire, perché è sanza comparazione piú utile essere insieme coi re de' romani contro al re di Francia, che aspettare che l'uno e l'altro re sia insieme contro a noi. Fare ora questo iudicio del futuro è cosa incerta, pure se io non mi inganno, molto potente sono le ragione che ci consigliano a temerne. Principalmente non è dubio che el re de' romani sia per desiderarla, perché arde di voglia di venire in Italia, e questo non può fare o difficillimamente, se non ha lega co' franzesi o con noi. Però subito che noi lo escludiamo, fará el possibile per aderirsi a' franzesi, né gli odii o le diffidenzie che sono tra loro lo rimoveranno da questo, perché non potendo camminare a' disegni suoi per altra via, bisogna cammini per questa, ancora che totalmente la non gli piaccia. Fanno bene queste ragione che lui desideri piú la amicizia nostra, che quella del re di Francia, ma, escluso dalla nostra, bisogna si volti a quella.

Dal canto del re di Francia ci sono piú difficultá, ma non sono a giudicio mio tale che abbiamo a viverne sicuri, e le cagione possono essere dua: el sospetto e la ambizione, delle quali ciascuna per sé suole fare movimenti molto maggiori. Lui sa la instanzia che el re de' romani ci fa, ed ancora che lui ed ognuno abbia sempre veduto grandissime esperienzie della fede di questa republica, pure, misurando noi dalla natura sua, può dubitare che per cupiditá di accrescere lo stato nostro o per sospetto di non essere prevenuti, non prevegnamo. Ed ha causa di credere che noi abbiamo questo sospetto, perché sa che ci sono note le pratiche che ha tenuto coi re de' romani contro a noi, nonostante le capitulazioni che abbiamo insieme. Può ancora temere che la ambizione ci muova, perché sa esserci offerti partiti grandissimi, e che noi siamo uomini desiderosi, come sono tutti gli altri, di accrescere dominio; né ci è mezzo a assicurarlo da questo timore, perché voi sapete quanto gli stati sono sospettosi naturalmente, e quanta poca confidenzia è tra l'uno principato e l'altro. E tanto piú che faccendosi questa instanzia dal re de' romani sotto titulo di rimettere nello stato di Milano Massimiano Sforza, può credere che noi desideriamo piú per vicino uno signore debole che uno re sí potente, e che per questa ragione sola, quando cessassino tutte le altre, noi ci moviamo a aiutare una impresa, lo effetto della quale, quando riuscissi, sarebbe la sicurtá totale dello stato nostro.

Lo può muovere la ambizione per el desiderio di recuperare Cremona, a che è stimolato ogni dí da' milanesi e dalla vergogna di non possedere quello che possedeva Lodovico Sforza, massime che per el titulo ereditario che lui pretende in quello ducato, giudica se gli appartenga ancora Brescia, Bergamo e Crema, e tutto lo stato vecchio de' Visconti. E noi veggiamo tuttodí quanto e' principi grandi sono facili a imbarcarsi in simili imprese, e tanto piú quando alla speranza di acquistare el dominio è aggiunto qualche colore di ragione, e lo stimolo della vergogna, di che abbiamo piú da temere, perché sanza unione del re de' romani non può sperare di pervenire a questo disegno, atteso che la republica nostra è potente per sé medesima ed arebbe sempre la aderenzia della Magna, quando el re di Francia ci assaltassi sanza questa unione. Però per le pratiche che ha tenuto si vede che sempre ha desiderato di opprimerci, ma non ha mai ardito di farne impresa sanza questa amicizia, la quale essendo il cammino solo che lo conduce al fine desiderato, abbiamo a credere ragionevolmente che vi si metterá drento.

E se mi sará detto che noi non abbiamo a dubitare di questo, perché sarebbe mala deliberazione per el re di Francia, per acquistare una cittá o dua, mettere in Italia el re de' romani, di chi è inimico naturale, e da chi ará sempre alla fine guerre e travagli, e che mentre che ará amicizia seco, gli costerá infinita somma di danari, ed anche l'ará incerta, e però farsi piú per lui sanza comparazione la pace ed amicizia nostra, con la quale tiene sicure le cose sue di Italia, io risponderò che se ha el sospetto detto di sopra che noi non ci ristrignamo col re de' romani, non gli parrá entrare in pericolo a farlo lui, anzi assicurarsi, e non solo dalla unione che si potessi fare tra quello re e noi, ma ancora da' movimenti che in caso che noi stessimo a vedere, gli potessi fare contro lui, o con l'aiuto della Magna o con altre aderenzie ed occasione. Ed essendo prima questi pericoli che quelli che succedono poi che el re de' romani ará fatto piede in Italia, non sará da maravigliarsi che el re di Francia vi pensi prima, seguitando in questo la natura commune degli uomini, che spesso temono e' pericoli presenti e vicini piú che non debbono, sempre tengono manco conto de' futuri e lontani che non è da tenere, e vi sperano molti rimedi e dal tempo e dagli accidenti che spesso non riescono. Di poi quando bene sia vero che questo partito non sia utile per lui, non siamo però sicuri che non l'abbia a pigliare. Non sappiamo noi quanto ora el timore ora la ambizione acciecano gli uomini? non cognosciamo noi la natura dei franzesi leggiere a imprese nuove, e facile a sperare sanza modo quello che desidera? non ci sono noti gli stimuli e le offerte che ha da' milanesi, dal papa, da' fiorentini, dal duca di Ferrara, dal marchese di Mantova, bastanti a accendere ogni quieto animo? Gli uomini non sono tutti savi, anzi la maggiore parte non sono savi; e chi ha a fare pronostico delle deliberazione di altri, non debbe tanto andare con la misura di quello che ragionevolmente doverrebbe fare uno savio, quanto con la misura del cervello, natura ed altre condizione di chi ha a deliberare; e chi procede altrimenti spesso si inganna.

Però volendo giudicare che deliberazione piglierá el re di Francia, non bisogna avvertire tanto a quello che ragionevolmente doverrebbe fare, quanto ricordarsi che e' franzesi sono inquieti e leggieri, e soliti a pigliare spesso e' partiti con piú caldezza che prudenzia. Non sono le nature de' signori grandi simili alle nostre, né sono loro cosí facili a vincere gli appetiti suoi, come sono gli uomini privati; sono soliti a essere adorati da chi gli è intorno, ed essere intesi ed obediti a' cenni. Però non solo sono elati ed insolenti, ma non possono tollerare di non avere quello che gli pare ragionevole, ed ogni cosa gli pare ragionevole che gli viene in desiderio, e si persuadono potere con una parola spianare tutti li impedimenti e vincere la natura delle cose. Anzi si recono a vergogna, quando per qualche difficultá si ritirano da e' loro appetiti, e misurano communemente le cose maggiori con quelle regole con che sono consueti a procedere nelle minori, consigliandosi non con la prudenzia e con la ragione, ma con la voluntá e con la alterezza; e se nessuno vive cosí, e' franzesi sopra tutti gli altri.

Non vedemo noi frescamente lo esemplo del regno di Napoli, dove la ambizione e leggerezza sua fu tanta, che per avere mezzo quello regno lo indusse a consentire l'altro mezzo al re di Spagna, ed a mettere in Italia uno re potentissimo, e dove prima era unico tra noi altri, disporsi a averci uno compagno pari a lui? Ma che andiamo noi per conietture quando abbiamo la certezza? Non sappiamo noi che altra volta questi dua re hanno fatto insieme questa unione e che el re di Francia l'ha desiderata e sollecitata? E se per qualche difficultá che fu in quella capitulazione, non ebbe effetto, non abbiamo da dubitare che poi che erano d'accordo del verbo principale, troverranno qualche mezzo a queste difficultá, massime che el re de' romani, quando sará totalmente desperato della amicizia nostra, vi sará piú caldo che prima.

E certo, se noi potessimo stare in pace, a me piacerebbe sopra ogni cosa; ma a giudicio mio abbiamo a avere guerra, ed è officio di savi non si lasciare tanto ingannare dalla dolcezza della pace presente, che non consideriamo e' pericoli imminenti ed el carico ed infamia che ci risulterá apresso a tutto el mondo, che per non avere saputo bene discorrere permettiamo che altri si faccia gagliardo, a offesa nostra, di quelle arme che ci erano offerte a nostra sicurtá ed augumento; massime che, sendo noto a ognuno le pratiche che a danno nostro hanno tenuto questi re, non potreno essere imputati di mancare di fede a' franzesi, se ci armereno contro a chi ci ha voluto ingannare. Però sendo in queste necessitá debbiamo pensare quanto sia differenzia grande a muovere la guerra a altri, o aspettare che la sia mossa a noi; trattare di dividere lo stato di altri, o aspettare che sia diviso el nostro; essere accompagnati contra uno solo, o soli contro a molti compagni; perché se si fa unione tra costoro, vi concorrerá el papa per le terre di Romagna, el re di Spagna per e' porti del reame, e tutta Italia, chi per recuperare, chi per assicurarsi. In effetto io desidero la pace, ma credo che abbiamo a avere la guerra, e però desidero piú presto una guerra onorevole, sicura ed utile, che vergognosa, pericolosissima e dannosissima; e consiglio el collegarsi col re de' romani. Dio feliciti quello che voi deliberrete.

 

 

 

II

 

[Sullo stesso argomento.]

 

In contrario per la opinione negativa che prevalse.

 

Io confesso, onorevoli senatori, essere officio vostro e di tutti e' governatori delle republiche, ancora che la pace sia cosa santissima e desideratissima, non però lasciarsi tanto abbagliare dalla dolcezza sua, che per paura di non la perdere si entri in maggiori guerre e pericoli, che non sarebbe entrato chi non l'avessi amata troppo; e nondimanco ricordo che per ogni timore o sospetto non si debbe pigliare le arme, e per ogni paura di non avere guerra, entrare nella guerra, perché chi fa cosí, spesso, per fuggire pericolo, sanza bisogno entra in pericolo; e non essendo mai pace alcuna tanto sicura, né tanto ferma che manchi di qualche timore di guerra, chi procedessi con questa regola non starebbe mai in pace; anzi entrando di guerra in guerra per desiderio di avere la pace, non la arebbe mai. Però meritano essere laudate quelle republiche, che, quando veggono pericolo manifesto di guerra, non lasciano per la dolcezza della pace di fare le provisioni che convengono; ma non manco biasimate quelle che entrano in guerra per temere piú che bisogni la guerra.

Adunche, avendo noi a consultare sopra quello che è stato proposto, è necessario esaminare diligentemente che pericolo ci sia di guerra in caso che noi non accettiamo le offerte del re de' romani, e sopra questo fondare le nostre resoluzione; e perché non si può fare giudicio certo delle cose future, bisogna da uno canto pesare le ragione che minacciano la guerra, da altro quelle che persuadono el contrario, e pesato quali siano piú e piú potente, fondare el punto nostro come se sapessimo certo avere a essere quello che ci si mostra piú verisimile. A me, quanto piú ci penso, non può per conto alcuno essere capace che el re di Francia, o per sospetto di non essere prevenuto da noi, o per cupiditá di recuperare e' membri antichi dello stato di Milano, si accordi col re de' romani a farlo venire in Italia a' danni nostri; perché e' pericoli e danni che gli seguiterebbono del metterlo in Italia, sono sanza dubio maggiori che non è el pericolo della unione nostra, o che non sono e' guadagni che può sperare di questa deliberazione; perché oltre alle inimicizie ed ingiurie gravissime che sono tra loro, le quali non si possono cancellare per alcuno accidente, vi è la concorrenzia della degnitá e degli stati, la quale suole generare odii tra quegli che sono amicissimi. Però che el re di Francia chiami in Italia el re de' romani, non vuole dire altro che chiamarci uno re inimicissimo suo; non vuole dire altro che in luogo di una republica quieta, e che sempre è stata in pace seco, e che non pretende con lui alcuna differenzia, volere per vicino uno re ingiuriato, inquietissimo, e che ha mille cause di contendere seco di autoritá, di stato e di vendetta.

Né sia chi dica che per essere el re de' romani povero, disordinato e male fortunato, el re di Francia non temerá la sua vicinitá; perché per la memoria delle antiche fazioni ed inclinazioni di Italia, le quali sono ancora verde, spezialmente nello stato di Milano, non può avere piede in Italia uno imperadore che non sia grande, e costui piú che gli altri per avere stato notabile contiguo a Italia, e per avere seco Massimiano Sforza; sanza che, in ogni guerra che avessi col re di Francia, può sperare di avere l'aderenzia del re di Spagna inimicissimo ancora lui ed emulatore de' franzesi, e che ha coniunzione col re de' romani almanco perché tutt'a dua hanno una medesima successione. Sa pure lui quanto è potente la Magna; e quando sará giá aperto lo adito in Italia e la speranza della preda sará presente, sará piú facile che si unisca o tutta o parte alle imprese di Italia che non è ora. E non abbiamo noi veduto che el re di Francia ha temuto sempre e' moti de' tedeschi, e di questo re cosí povero e disordinato come è? E molto piú lo temerebbe se lo vedessi in Italia, perché sarebbe certo di avere con lui o guerra pericolosa o pace fastidiosa e di grandissima spesa.

Che abbia voglia e stimulo di recuperare Cremona e le altre terre è verisimile, ma non con modo che sia maggiore la perdita che el guadagno; ed in questo caso io voglio piú presto credere che si governi con la ragione, che indovinare che abbia a fare una pazzia; massime che se noi consideriamo bene la natura di questo re, è stata sempre di fare le cose sue sicuramente, e gli errori che si dice avere fatti, sono stati piú presto per volere procedere con troppa sicurtá che con troppa caldezza. Questa fu la causa per che divise el regno di Napoli, per levarsi gli ostaculi e le difficultá, la quale deliberazione io non dico che fussi savia, ma dico che non nacque dalle cagione che è stato detto; e per la medesima cagione consentí smembrare Cremona e darla a noi, per potere con la unione nostra pigliare el resto sanza colpo di spada. Però s'ha a credere che governandosi con la ragione e governandosi come è consueto nelle altre imprese, non vorrá, per recuperare Cremona, mettere in tanto pericolo lo stato suo; massime che per questo non resterá fuora di speranza di poterla recuperare a altro tempo con piú sicurtá e con migliore occasione, le quali spesso vengono, ed agli uomini ancora è facile el promettersele piú che el conveniente. E chi è uso alle faccende e maneggi grandi, ed ha travagliato a' suoi dí assai come lui, non può desperare di non vedere varietá nelle cose del mondo, perché le sono use a variare pure troppo spesso.

Né ci debbono a mio giudicio spaventare le pratiche tenute altra volta tra loro e le capitulazione che si dicono fatte, perché è natura de' principi de' tempi nostri cercare di aggirare l'uno l'altro, e tôrsi tempo con queste arte e simulazione; e lo effetto ha mostro che le sono state fizione, perché sono continuate tanti anni, che bisogna confessare che siano pratiche vane, o almanco che vi è qualche difficultá che non si può resolvere. Non abbiamo adunche, se io non mi inganno, causa di temere che el re di Francia per desiderio di acquistare si metta in tanto precipizio, e manco per sospetto che abbia di noi; perché oltre che ha veduto esperienzia lunga che non abbiamo mai mancato alle capitulazione fatte seco, ancora che abbiamo avuti molti stimuli e molte occasione, ed oltre che sa che la natura della republica nostra è di osservare la fede e non pigliare volentieri guerre, le ragione medesime che assicurano noi di lui, possono assicurare lui di noi; e questo è che al nostro stato non potrebbe essere piú pernizioso che el re de' romani abbia piede in Italia, sí per la autoritá dello imperio, lo augumento del quale è sempre stato alieno da' progressi nostri, sí per conto della casa di Austria, la quale pretende ragione in molti luoghi che noi tegnamo, sí per la vicinitá della Germania, le inundazione della quale, se avessi aperta la via ed avessi el ricetto in Italia, sono troppo pericolose al nostro dominio. Massime che quello che si dice, di volere lo stato di Milano per Massimiano Sforza, è uno sogno; perché riuscendo la impresa, o el re de' romani lo attribuirá a sé, o se pure vi metterá lui, sará tanto debole e con sí potenti inimici che per avere la sua protezione bisognerá gli stia sempre sotto; ma piú credibile è che pensi a quello ducato per sé. Sono questi gli inganni e le arte de' principi: cercare di mutare gli stati sotto nome de' fuorusciti che vi hanno parte, e poi, riuscite le imprese, attribuire gli effetti della vittoria a sé.

Però non è conveniente che el re di Francia creda sí facilmente che noi, che abbiamo nome di maturare le cose nostre e piú presto errare in tarditá che in troppa prestezza, facciamo una deliberazione sí precipitosa. E se pure noi ci potessimo assicurare facilmente dal sospetto che pretendono questi che consigliano che noi ci uniamo col re de' romani, io sarei forse di quegli che ci conscenderei, parendomi cosa laudabile assicurarsi da' sospetti eziandio non necessari, quando l'uomo può farlo con facilitá; ma io credo che chi penserá bene ci vedrá drento molte difficultá. Principalmente questa guerra bisogna che si cominci e si sostenga co' danari nostri, co' quali areno a supplire non solo alle necessitá che ricerca questa impresa, ma ancora a tutte le prodigalitá e disordini del re dei romani, al quale non si può dare uno curatore che spenda bene e' danari che noi gli dareno, e speso che ará quelli a che ci sareno obligati, sareno necessitati a dargliene degli altri, altrimenti si accorderá cogli inimici, o si ritirerá nella Magna, lasciando a noi soli tutti e' pesi ed e' pericoli. Di poi la impresa s'ha a pigliare contro a uno re di Francia potentissimo, e che è duca di Milano e di Genova, copioso di danari, abondante di gente d'arme e di artiglierie; ha con seco e' svizzeri, la virtú e fama de' quali vi è nota, e che in questa impresa lo serviranno meglio che in nessuna altra, perché hanno per male ogni augumento degli imperadori e della casa di Austria. E' popoli dello stato di Milano gli sono amici ed inimici a noi, né desiderranno mai che vinca quella parte, per la vittoria della quale dubitino che noi abbiamo a smembrare un altro pezzo di quello ducato; e questo potrá piú che la inclinazione di quelli che amano Massimiano Sforza, tanto piú che ognuno cognoscerá che gli ará a essere una ombra in quello stato.

Però costoro che si propongono tanta facilitá, non so dove se la fondino; massime che tutti quelli di Italia che pretendono che noi gli occupiamo el suo, e tutti quelli che temono la nostra grandezza si uniranno con lui, parte per speranza di recuperare el suo con la vittoria sua, parte per assicurarsi dalla potenzia nostra. Ed el papa sará el primo, perché oltre a' rispetti sopradetti, non può mai a alcuno papa piacere la venuta dello imperadore in Italia, sendo tra la Chiesa e lo imperio una inimicizia naturale, né avendo uno pontefice da temere di altri principi che del turco che gli è inimico nello spirituale, e dello imperadore che sempre fu e sempre gli sará inimico nel temporale. El pelago adunche in che si entrerrebbe è grandissimo, e forse non minore che quello di che si teme, della unione di tutti contro a noi. Perché dove si accompagnano piú principi grandi e che pretendono la equalitá, quanti piú sono insieme, piú sono le difficultá che sono tra loro; né ci mancherebbe mai in uno simile frangente, trovare modo di accordarsi con qualcuno di loro e rompere quella unione di che abbiamo tanta paura.

Ultimamente io vi ricordo che, doppo la capitulazione che facemo col re di Francia contro a Lodovico Sforza, lui non ha mai fatto con effetto cosa alcuna, per la quale possiamo dire con veritá che ci abbia mancato. Però, pigliandogli ora la guerra contro, non so come ci potreno scusare di non gli rompere la fede, della quale sapete che questa republica ha fatto sempre capitale assai; e per l'onore e per la utilitá de' maneggi che abbiamo a avere tuttodí con gli altri principi, non debbiamo sanza grande causa volerci tirare adosso questa infamia, ed augumentare ogni dí el sospetto che communemente s'ha di noi, che noi aspiriamo alla monarchia di Italia. Volessi Dio che per el passato fussimo andati piú temperati in questo, perché la maggiore parte de' sospetti che noi abbiamo, è per avere offesi troppi; né è la via di assicurarsi, lo accrescere inconvenienti ed aggiugnersi inimici nuovi, ma piú presto fermarci un poco, né entrare ogni dí in imprese nuove sanza grande necessitá o occasione. Forse che chi fu autore di fare venire in Italia el re di Francia per sbattere Lodovico Sforza, o lo movessi el desiderio di assicurarsi da' sospetti vani, o la cupiditá di acquistare Cremona, arebbe meglio consigliato alla nostra republica, se l'avessi consigliata andarsi temporeggiando in quelle difficultá, né si lasciare traportare tanto o dallo sdegno o dalla cupiditá o dal timore, che in luogo di uno principe minore di noi ci mettessino a' confini uno re sí potente. In effetto a me non pare che per uno sospetto di guerra incerta debbiamo pigliare una guerra certissima, né per desiderio di guadagnare debbiamo entrare in infinite spese e pericoli, né sanza manifesta necessitá mancare alla fede nostra e crescere ogni dí la opinione che siamo troppo ambiziosi e cupidi di occupare quello di altri.

 

 

 

III

 

[Delle condizioni d'Italia dopo la giornata di Ravenna.]

 

Questo moto che si vede principiato tra tanti principi cristiani, papa, Francia, el Catolico, Inghilterra e viniziani, è di tanto momento e per produrre sí grandi effetti, e di tanto interesse a tutta la cristianitá, che chi va pensando al fine suo non è da biasimare come curioso, ma piú tosto da riprendere come negligente chi non vi pensa. E per questa cagione debbe essere lecito anche a noi consumare qualche tempo in tale cura, con tutto che queste cose, per dependere da infinite cause, vanno tanto variando fuori della opinione degli uomini, che eziandio e' giudíci de' savi sono quasi sempre fallaci. E certo la potenzia del re di Francia è grandissima per el regno di Francia grande, populato, pieno di terre fortissime, e del quale lui trae somma grande di danari: ha milizia buona, molti signori ed infinita nobilitá, de' quali lui è piú assoluto principe e piú interamente ne dispone, che non fa principe o re alcuno cristiano nel regno suo. Aggiugnesi li stati che lui tiene in Italia di Milano e di Genova, colla aderenzia di Ferrara, Bologna, e queste terre ultimamente acquistate in Romagna, e quello che si vale de' fiorentini; la riputazione sua antica, con la nuova di avere dagli 11 di febbraio agli 11 di aprile difesa Bologna da uno esercito potentissimo del papa e re Catolico, contro alla opinione di molti, recuperata Brescia con ultimo esterminio della armata viniziana, ed ultimamente rotto in Romagna lo esercito del papa e spagnuolo. Per le quali cose si può conchiudere che el re di Francia sia di tanta potenzia di dominio e di arme, di tanta ricchezza e di tanta riputazione, che chi ha fatto impresa di abassarlo, ha fatto impresa molto difficile.

Da altro canto, se bene ciascuno di questi principi che gli sono collegati contro è di meno potenzia da per sé che lui, pure tutti insieme lo eccedono; perché né a Spagna manca gente, né a Inghilterra danari; el papa e viniziani sono di considerazione, ed a quello in che l'uno patisce difetto, supplisce lo altro; in modo che congiunta la potenzia di tutti insieme, debbe ragionevolmente essere a Francia molto formidabile. Hanno oportunitá di offenderlo in molti luoghi: in Italia le gente del papa e Catolico, quando saranno insieme per la via di Romagna e Bologna; e' viniziani verso lo stato di Milano, e' quali se bene hanno speso assai e si truovano oggi molto deboli, e piú di gente che di danari, pure aggiunti agli altri danno qualche disturbo; fuori di Italia li spagnuoli ed inghilesi con grande esercito per la via di Baiona o di Navarra; li inghilesi per la via di Calese in Normandia. Doverrá questo re mandare e' sussidi che trarrá del regno di Aragona a Perpignano, almeno per tenere Francia in qualche sospetto piú; in modo che pare molto difficile che quel re, con tutto sia potentissimo, possi tenersi bene guardato e sicuro da tante bande.

Questa varietá di ragione debbe tenere sospeso ognuno ed in grandissima ambiguitá; nondimeno per cominciare a venire in qualche discorso piú particulare, è cosa certa che se la potenzia che è in tutti questi inimici di Francia fussi in uno solo, verbigrazia nel Catolico, che el Cristianissimo non potria resistere, perché lo avanzerebbe di gran lunga di danari, di gente e di ogni oportunitá della guerra; e potendo maneggiarla uno solo tutta a arbitrio suo, e co' modi e tempi li paressino, sarebbe cosa inespugnabile. Valsi di questo molto el re di Francia che tutta la sua potenzia è in lui solo, né ha a aspettare consigli o deliberazione di altri, e però la difesa che lui fa, la fa con tutte le sua forze. Cosí pare da potere affermare, che se questa potenzia cosí divisa fussi usata in uno tempo medesimo, che el re di Francia saria inferiore; perché se a uno tempo medesimo lo battessino in Italia el papa, viniziani e le gente spagnuole che col Gran Capitano saranno in Italia, di qua el Catolico e li inghilesi per Ghienna e Normandia, non potria stare in tanti luoghi alla campagna e forse in nessuno. Ridurrebbesi a difesa delle terre, e saria impossibile che in qualche luogo non perdessi.

Di questo vedemo lo esempio el verno passato, quando lo esercito del papa e Catolico vennono a Bologna, nel quale tempo lo stato che el Cristianissimo tiene in Italia si ridusse in pericolo, e si trovorono le cose tanto bilanciate, che si hanno avuto a decidere con uno fatto di arme. E se allora si fussi aggiunta la guerra di qua, bisogna confessare che el re di Francia si saria trovato in grandissimo travaglio. Ha voluto la fortuna sua che premendolo le cose di Italia, fussi vacuo di qua; ora che sará infestato da queste bande, quelle di lá non lo stringono, perché innanzi a ognisanti non può trovarsi in campagna el Gran Capitano; nel quale tempo sará lo impeto per Ghienna e Normandia. Di questo si può conoscere quanto beneficio li abbi portato e quanto li fussi necessaria la vittoria di Ravenna, e quanto fussi savia deliberazione quella del re di Francia in commettere a Fois che facessi ogni opera di fare giornata; la quale pare che mostri che lui medesimo si diffidassi di potere in uno tempo resistere a tanti inimici.

Stando adunche le cose in questi termini, e volendo entrare piú adrento nel giudicare, mi pare da considerare che se oltre agli inimici di Francia che oggi sono scoperti, si aggiugnessino lo imperadore e svizzeri, come ci è chi ha opinione, succumberebbe el re verisimilmente, né saria quasi possibile che in tanti luoghi e contro a tanti inimici resistessi, e che non patissi almeno nello stato di Italia, che è quello che cerca chi gli ha suscitato contro tanto travaglio. Anzi, lasciato lo imperadore, se e' svizzeri soli lo offendessino, è di grande importanza, perché li hanno tanta oportunitá di scendere nello stato di Milano, che el re saria necessitato a tenervi grossa banda di gente, e tanto piú deboli rimarrebbono le cose sue di qua; altrimenti in quello ducato seguirebbe disordine, come si vedde questo verno quando gli scesono con gran danno di Milano e con pericolo di natura che se in uno tempo medesimo avessino li spagnuoli battuto a Bologna, si giudicò communemente che el re aria perduto Milano. Rimane adunche el caso in maggiore dubio, quando si presupponga che lo imperadore stia in aria come ha fatto insino a qui, e che e' svizzeri non sieno contro a Francia, e la guerra rimanga solo tra lui ed e' principi detti di sopra. Il che se fussi, tutta la considerazione per ora si riduce di qua e massime da questa banda di Baiona; perché se bene li inghilesi andranno per Calese, nondimeno sendo sanza cavalli, non pare possino fare molto momento, trovando al rincontro terre fortissime e bene guardate e verisimilmente qualche cento di lance franzese.

El punto adunche è da questa banda di Baiona; in che volendo potere dare buono giudicio, bisognerebbe intendere che provisione facci el re di Francia, e se lui è per mettere tanta gente insieme da potere stare alla campagna; e benché qui si dica di no, nondimeno, presupposto che e' sia sanza paura de' svizzeri, pare duro a credere che uno tanto re non possi farlo, perché oltre alla gente che gli ha in Francia, doverrebbe potere cavare di Italia almeno seicento lance, e riducendosi a campagna, quando si mettessi a ridosso delle terre, le difenderebbe facilmente e forse verrebbe a giornata; la quale sarebbe pericolosa, perché di gente d'arme è sanza dubio superiore a costoro, e di bontá e di numero. Sono milledugento lance franzese una grossa banda, che contano almeno tre cavalli utili per lancia e forse quattro; gli uomini d'arme di qua si numerano uno cavallo solo da fazione per uno, e non ne metteranno in campo oltre a milletrecento, e se bene abbino molti cavalli leggieri, non sono in una giornata di grande momento, e massime alla guisa di qua, che non hanno balestrieri a cavallo. Sarieno adunche e' franzesi superiori di cavalli; di fanterie sono migliore queste di qua che le franzese, perché quegli guasconi e piccardi sono uomini di mala pruova; li spagnuoli sono piú destri, curano meno la morte, sono esercitati nelle arme e vi hanno una grande inclinazione naturale; li inghilesi ancora sono buoni uomini; e però sarieno e' franzesi inferiori di fanterie, se giá non si potessino valere de' navarri, e' quali sono buoni fanti come li spagnuoli, o veramente de' svizzeri, e' quali se non saranno contro a Francia, saria facile lo servissino di qualche migliaia di fanti; ed in questo caso essendo el re di Francia superiore di cavalli ed almeno pari di peditato alli inimici, la vittoria in una giornata saria verisimilmente sua, e pare da credere che, dove lui vedessi la speranza della vittoria grande, che lui lo apiccherebbe.

Ma quando e' venissi alla campagna, e nondimeno le forze dell'uno e lo altro esercito fussino pari, io non so se el re di Francia venissi a giornata volentieri, perché el perderla li metteria questo ducato di Ghienna in grandissimo pericolo; e si vede da altro canto che el tôrre tempo agli inimici li porta alle cose di qua grandissimo beneficio, e massime perché potendo stare a ridosso di qualche terra, saria sicuro di non le perdere; e però pare ragionevole che lui non abbi a volere giornata, se giá non lo muove o una speranza molto grande di vincere o el volere espedire queste cose di qua prima che el Gran Capitano sia in Italia, per non si avere a ridurre colla guerra adosso in uno tempo di qua e di lá. Questo discorso mi occorre quando el re di Francia metta tanto esercito insieme da potere di qua stare alla campagna; ma quando la opinione che costoro mostrano fussi vera, cioè che non possa venire alla campagna e si abbi a ridurre a difesa delle terre, è da considerare che la impresa di Baiona è molto pericolosa, quando costoro non sieno bene sicuri che el re di Navarra stia neutrale; e questa sicurtá non si debbe potere avere colle parole, essendo quello re franzese, avendo el padre e stato in Francia, ed essendo per la morte di Fois levata ogni causa di discordia tra lui ed el Cristianissimo. E però veduto in quanto pericolo si metterebbono, rispetto al sito del paese, sanza questa sicurtá, è da credere che non la avendo romperanno per via di Navarra, il che sarà beneficio al re di Francia, perché el primo impeto della guerra non sará a casa sua, ed inoltre si potrá valere de' navarri, che sono buoni uomini alla guerra.

Giudicare quello che seguissi in questo caso è difficile: el paese di Navarra insino a' monti Pirenei è paese montuoso e forte, benché io non ho notizia che vi sia alcuna terra particulare molto munita; da questa altra banda è Baiona, cittá assai forte di sito, e molto piú per accidente, avendo avuto el Cristianissimo tempo a fortificarla con fossi ed artiglierie, e di mettervi drento quelle gente che lui ará volute. Ha quivi, secondo si intende, lo amore de' popoli; perché se bene altra volta sieno stati sotto li inghilesi, è cosa tanto antica che forse non vi vive chi ne abbi memoria, ed inoltre naturalmente sono piú franzesi che inghilesi, e per el sito dove sono posti e per la lingua che è franzese; e ragionevolmente li spagnoli non possono né debbono passare innanzi se prima non la' spugnano.

Queste ragione persuadono in favore del re di Francia; da altra banda la esperienzia mostra tuttogiorno che la difesa delle terre è fallace, e piú sono quelle che si perdono benché munite, che quelle che si difendono. Porrá el Catolico atorno uno grosso esercito con molte artiglierie, ed oltre al numero ordinario de' soldati, si varrá di quanti sussidi li saranno bisogno, de' luoghi vicini di Biscaia; e pure hanno fama li spagnoli di vincere bene le terre, perché e' fanti loro sono atti a combatterle forse piú che altra fanteria, ed anche si sogliono valere di ingegno di cave e fuochi lavorati. Vincendo Baiona, se ne andrebbono a Bordeus, cittá vicina a trenta leghe vel circa e non molto forte e di via tutta piana; e se li espugnassino ancora questa, hanno aperta la via di correre insino in sulle porte di Parigi: ed in effetto in queste dua cittá consiste la vittoria.

El giudicio è difficile per molti rispetti; e se costoro vincono ne' primi congressi Baiona o qualche luogo forte simile, si truovano con grande vantaggio; e cosí, e converso, se questi loro princípi non succedono, si truova questa impresa con molte difficultá. Perché considerando le cose di qua da per loro, si vede che la dilazione del tempo importa molto: principalmente el paese dove si ridurrá lo esercito è sterilissimo, né si possono nutrire di quello che nasce quivi; hanno a avere le vettovaglie di altro luogo; e se bene el re Catolico ne abbi fatto provisione grandissime, e continuamente ne facci venire della Andolosia per mare, nondimeno avendo a durare qualche mese a nutrire uno esercito grosso, di vettovaglie portate di altronde, pare quasi impossibile, perché se ne consumerá grande quantitá e piú che non si è disegnato, che simili conti non mai riescono; e massime che li inghilesi, sendo in casa altri e naturalmente prodighi, ne strazieranno assai, ed ogni poco che mancassi loro faria disordine. Minore difficultá si ará negli spagnoli, perché oltre allo avere propinquo el re, sono naturalmente uomini soliti a vivere con poco e facilmente patiscono ogni necessitá.

La lunghezza adunche di qualche mese potria fare disordine rispetto alle vettovaglie, né può el re Catolico reggere a lungo andare una spesa sí grande; potria partorire ancora molte discordie e tra' capitani e tra gli eserciti, sendo di dua nazione diverse e che naturalmente non sono amiche, e li inghilesi uomini bestiali, ed essendo venuti con speranza e persuasi di avere la vittoria in mano, la quale quando non succeda cosí presto, cominceranno a murmurare e straccarsi. E tanto piú se la guerra si riducessi nel reame di Navarra, el quale avendo, quando si guadagnassi, a apartenere a Castiglia, parria loro durare fatica per altri, dove sono stati chiamati sotto nome di avere a recuperare le cose loro. Vedesi tuttogiorno dove sono diverse nazione e piú capi, partorire dissensione nelli eserciti; e dove saria necessario per contenerli uno valentissimo capitano, ha voluto la sorte che sia el duca di Alva, el quale secondo el giudicio universale vale poco ed è in piccola riputazione apresso a tutti e' soldati, il che importa molto ancora nelle fazione che loro avessino a fare, perché nessuna cosa dá loro piú animo che l'avere fede in chi li guida.

Aggiugnesi che questa impresa contro a Francia è come uno carro che si sostiene in su piú ruote, di quali se una manca si ferma el carro; cosí essendo questa impresa commune di piú potentati, uno che ne mancassi, massime di questi tre, papa, Spagna ed Inghilterra, saria la impresa conquassata; e nella dilazione del tempo può facilmente venire qualche accidente o di mutazione di animo, o di morte o di altro caso, che perturberebbe ogni cosa, sí che per ogni rispetto, in quanto alle cose di qua, el prolungare dá gran beneficio al re di Francia. Aggiugnesi che el Catolico non è re naturale di Castiglia, ma governatore; e se bene insino a qui ha la obbidienzia piena e lo amore de' popoli, perché rispetto a' tempi vecchi ci si fa buona giustizia e non ci è grandi di qualitá che possino molto alzare el capo, nondimeno non pare abbi a potere maneggiare questi regni come se fussi re, massime quando la cosa durassi, ed e' successi non fussino prosperi; e quando lo potessi fare, pare ragionevole che lui nel maneggiarli procederà con qualche rispetto piú che se fussi re. Veggonsi adunche le cose molto dubie, se giá non vogliamo dire essere di momento che el re di Francia, procurando la divisione della Chiesa, offenda Dio, e per questo che li effetti li abbino a succedere secondo la giustizia della causa, la quale ragione è spesso fallace. E certo el re di Francia si mosse giustamente nel principio contro al papa, perché lui sotto pretesto di pigliare Ferrara come cosa apartenente alla Chiesa, non si moveva a altro fine che di cacciare e' franzesi di Italia, ma ha di poi passato el modo collo occuparli Bologna, benché questo si può forse giustificare, e col farsi capo ed autore di uno concilio falso e procurare la scisma e divisione della Chiesa contro al nome del Cristianissimo e contro a uno antico instituto della casa sua, la quale oltre a tutti li altri príncipi ha sempre tenuto una particulare protezione della Chiesa, e difesala contro a chi l'ha voluta oppressare.

È difficile dare giudicio del fine, e piú facilmente si può conoscere la guerra avere a essere molto lunga, se li inghilesi in questo principio pigliano qualche terra di importanza, perché male si troverrá sesto di pace; conciosiaché insino a tanto non sia necessitá estrema, né bisogno, non vorranno restituirle, pretendendo che di ragione le sieno loro, né e' franzesi lasciarle loro, avendole possedute tanto tempo, e quadrando tanto bene al loro dominio, perché con queste terre confinano col mare. Sará lunga guerra e di grandissima spesa e noia, e credo che li effetti mostreranno al re di Inghilterra, che meglio era avere seguito el savio consiglio di suo padre, che si dice alla morte averli ricordato che non entrassi in guerra co' franzesi, che essersi lasciato sollevare dal suocero.

Ma per tornare al proposito primo e fare qualche conclusione, benché el giudicare sia molto difficile, ed ancora, come mostra la esperienzia, molto fallace, pare da dire che le cose di Francia sarieno in mali termini, quando in uno tempo medesimo avessi a combattere contro a tutti li inimici sua, o che oltre a questi che ora sono scoperti, si aggiugnessino lo imperadore ed e' svizzeri, o almeno e' svizzeri soli. Ma quando non li abbi contro, e si potessi valere de' svizzeri come soldati, pare che le cose sue sieno molto gagliarde e da potere venire animosamente a ogni giornata; levati e' svizzeri di giuoco, el caso rimane dubio, e nondimeno tutto agosto o al piú settembre ne daranno sentenzia. Perché se in detto tempo costoro espugnano e' luoghi importanti delle frontiere, rimangono al disopra; non li espugnando, si vede che la dilazione del tempo è per offenderli per tanti versi, che questa impresa porta pericolo di non si risolvere. E liberandosi el re di Francia per ora da questo assalto, rimane sicuro insino a nuova primavera, ed in questo mezzo potranno nascere tanti accidenti e variare tanto le cose, che si ará a fare giudicio di altre occorrenzie e di altra maniera.

 

 

 

IV

 

[Sulle mutazioni seguite dopo da battaglia di Ravenna.]

 

Se bene el desiderio di sapere le cose future, massime quando sono di molta importanzia, è tanto naturale a tutti li omini, che continuamente li sprona andarle investigando e cercando di conietturarle, da altro canto le vanno sí variando fuori della opinione di tutti, che li è piú tosto da maravigliarsi di quelli che mossi dallo appetito della natura le vanno curiosamente ricercando, che di coloro che per desperazione di poterle aggiugnere ne levano ogni pensiero. Di questo, se cosa alcuna ne fa fede, mi pare che sopra tutte le altre la faccia el considerare quanto sieno state spesse, grande e mirabile le variazione dallo aprile proxime passato insino al presente mese di gennaio, dove non è, né in Italia né fuori, rimasto piú cosa alcuna che si ricognosca.

Trovavasi in quel tempo el re di Francia vittorioso in Italia collo stato di Milano e di Genova; aderivali Bologna e Ferrara; Romagna sotto nome del concilio pisano era sua, ed avendo vinta la giornata di Ravenna con tanta fuga delli spagnoli, non si vedeva pure dove fussi uno cavallo da poterli resistere, e si giudicava che quello solo non avessi ad essere suo, dove e' non voltassi le gente. Mutossi in uno subito la fortuna, e si trovò cacciato di Italia tutta, a tempo che si credeva fussi ogni giorno per correre insino a Roma e Napoli; né perdé solo Milano e Genova, cose guadagnate nuovamente, ma ancora Asti suo avito ed antico patrimonio. El medesimo re era in dubio e pericolo grande delle cose di qua, per la lega fatta tra el re di Aragona e di Inghilterra, e per lo scendere delli inghilesi nel ducato di Ghianna, dove si stimava che congiunti colle gente spagnole avessino a fare qualche processo grande; la quale opinione fu tanto discosto dal vero che non solo li inghilesi non veddono el terreno suo, ma si partirono bruttamente, e venuti in diffidenzia tra loro e questa maestá; ed el re di Francia, in cambio di avere a difendere el suo, ha avuto animo e forze da offendere altri, e mandato uno poderoso esercito nel regno di Navarra.

Non potrebbono ancora da quel tempo in qua essere piú variate le cose del re don Ferrando: dubitava avere perduto Napoli, quando ebbe la nuova della rebellione di Milano; acquistò nel medesimo tempo sanza arme e colla reputazione solo delli inghilesi el regno di Navarra, di che salì in tanta autoritá, che pareva, oltre al giudicarsi securissimo, che da lui dependessi el governo di tutta la cristianitá. Partironsi in uno tratto li inghilesi, e lui che aveva disegnato avere a fare la guerra co' franzesi, accompagnato dalle forze di tutta Italia ed Inghilterra, si trovò solo ed imparato avere addosso le arme di tutta Francia; dalle quale se bene si defendessi, e piú tosto per la stagione del tempo e per la ignoranzia delli avversari suoi che per altro respetto, non è però che al presente non si trovi in grande laberinto, vedendosi inimicato con Francia, non sapendo quanto possi disegnare di Inghilterra, trovandosi in poco amore e diffidenzia col papa e viniziani, e congiunto con uno imperadore el quale lui non è atto a mantenere, né può sanza periculo alienarlo da sé.

Quanto anche da quello tempo in qua sieno alterate le cose di Italia, per la mutazione di signore in Milano e Genova, uno stato nuovo in Firenze, una agitazione grande sopra Ferrara, lo essere tutta Lombardia ita in preda de' svizzeri, e la lega, la quale stando unita volgeva a suo modo Italia, essere cominciata a disunirsi, è facile a discernere; in modo che ritornando a' primi principi, el passato è ito tanto variando che con grandissima difficultá si può fare giudicio del futuro; e nondimeno la voglia del sapere, lo interesse che l'uomo ha in questi movimenti è tanto, che non si può astenersi dal farne qualche discorso, considerato ancora che trovandomi in molto ozio in questa mia legazione al Catolico re, questo esercizio non può passare se non con utile e piacere.

Le cose di Italia si possono male giudicare da per sé, sí perché le sono in sé molto mutabile, e si vede che in pochi mesi variano assai, sí perché le dependono in grandissima parte da quello che fará lo imperadore, el re Catolico, Inghilterra ed e' svizzeri. Vedesi el re Cristianissimo tanto danaroso e potente e presto a fare le sue provisioni, che non è dubio che quando e' si trovi sicuro dalle bande di qua, e' possa facilmente ritornare nel ducato di Milano, sendo quello stato debole ed Italia tutta conquassata, in modo che sanza la unione di tutti sarebbe impossibile defenderlo. E la unione si vede rotta, se e' viniziani non abracciono questo accordo concluso ultimamente in Roma tra el papa e Gurgensis, perché se si troverranno esclusi dalla confederazione delli altri, pare verisimile che abbino a fare nuova coniunzione con Francia, la quale se si facessi, io non so che remedio si avessino le cose di Italia; e quando pure li entrino in questo accordo, non si vede quanto frutto o fortezza possi arrecare questa unione, se el re di Francia mandassi eserciti nuovi in Italia, perché in ogni caso la sará una unione adentellata, sendosi scoperta tanta diffidenzia tra questi potentati, papa, Catolico e viniziani; in modo che quando si aranno a ristrignere a una impresa, pare da temere si abbi a fare debole e con freddezza.

Trovonsi e' viniziani con non molte gente d'arme; dello imperadore non è in Italia altro che el nome; el papa si presuppone oramai stracco dal lungo spendere; l'esercito del re Catolico non si può mantenere sanza e' danari de' collegati, ed avendosi a fare nuova contribuzione a questo effetto, sará difficile per e' sospetti che si sono avuti delli spagnoli, e' quali si è dubitato che non abbino voluto convertire in utilitá propria la vittoria acquistata co' danari e fatiche di altri. Lo stato di Milano, quando venga nel figliolo del Moro, è da per sé sí debole, sendo quello signore giovane, nuovo, sanza arme, sanza danari, el ducato esausto e taglieggiato, e trovandosi co' franzesi messer Gian Iacopo da Triulci, che ragionevolmente debbe avere in Milano amici e credito. Valersi de' svizzeri ha difficultá, perché a muoverli bisogna danari assai, e trovandosi el re di Francia con piú attitudine allo spendere, e loro sendo uomini mutabili e sanza fede, è da dubitare non piglino qualche partito con Francia; e massime che a proposito loro non è che le cose si fermino, anzi si aprofitteranno sempre di ogni mutazione, di che hanno gustato el frutto, avendo la state passata taglieggiata e predata, si può dire, tutta Lombardia; ed in questo caso quando e' fussino con Francia, lui sanza dubio recuperrebbe lo stato di Milano; e massime che li spagnoli sono oggi in Italia con sí poca grazia di tutti e' populi, che hanno da pensare come si possino ritirare salvi nel reame. Puossi adunche conchiudere, che se el re di Francia fussi espedito a potere attendere in Italia, che quelle cose portino pericolo, perché o e' viniziani o e' svizzeri che sieno con lui, la vittoria è sua certa; quando e' non si ristringhi seco alcuno di questi, non mancherá che fare, perché se la lega non si ristrigne di nuovo non vi ará contradizione, ed al ristrignersi sono le difficultá dette di sopra; in modo che si può risolvere questa conclusione, che le cose di Italia dependino per questo anno in gran parte da quello che si tratterá o fará per questi principi oltramontani.

Quel che si possa sperare de' svizzeri è detto abastanza, perché se bene per loro faccia da uno canto piú, che in Milano sia uno duca particulare che uno re di Francia, conciosiaché quanto el signore di quello stato sará piú debole, piú lo potranno maneggiare, pure da altro canto pare che sia molto a loro proposito el fare ogni dí mutazione e rivolte, ed inoltre a volerli levare bisognerá danari, e ragionevolmente saranno con chi ne dará loro maggiore somma. Lo imperadore anche è in poca considerazione da per sé, per essere povero e disordinato, e mancarli tanto el modo ad eseguire, quanto li abonda la invenzione a disegnare; né è da sperare che la voglia del recuperare el ducato di Borgogna muova lo stato di Fiandra a sovvenirlo perché e' facci quell'impresa, essendo per la poca etá di quel signore e disordini di quello stato, necessario el consenso de' populi, e' quali vivono assai di industria e mercantie, e si intende essere al tutto vòlti a stare in pace; e però volendo che lo imperadore facessi movimento, bisognerebbe che el re di Inghilterra lo suvvenissi di danari come si ragionò la state passata; il che ancora non farebbe frutto certo, rispetto a' disordini e prodigalitá sua, se non si li dessino molto ordinatamente, verbigrazia ponendo in campo chi pagassi a' tempi le gente, sanza lasciare a lui facultá di porre le mani in su' danari, cose piú facile a dire che fare. Rimane adunche lo imperadore quanto a sé inutile e forse piú tosto di danno, per essere consueto el re di Francia a pascerlo; il che non si faccendo da questi altri, potrebbe la natura ed e' bisogni sua farlo forse ritornare in amicizia co' franzesi, e forse aderire al concilio pisano.

Veduto adunche quanto poco si possi fare fondamento in sullo imperadore e svizzeri, resta considerare di questi dua re, Catolico ed Inghilterra; e per cominciare da Inghilterra, lo essere costui giovane, inimico naturale de' franzesi, e trovarsi con grandissima copia di danari, lo intendersi ogni giorno che e' fa molti apparati ed è volto tutto alle arme, fanno credere che lui abbi in ogni modo a tempo nuovo a fare la guerra potentemente con Francia. Il che quando segua, pare di grande momento, perché ne' tempi antichi è stato molto odio fra quelle due nazione: hanno li inghilesi corso piú volte in Francia, preso Parigi, debellato quasi tutto el regno, in modo che gli è certo essere temuti da' franzesi, nondimeno e' termini di oggi sono assai diversi da quelli tempi. Allora teneva el re di Inghilterra la Ghianna e Normandia; nelle guerre che e' faceva con Francia era aiutato da' duchi di Brettagna e di Borgogna. Ora la Normandia e Ghianna è in mano del re di Francia; tiene per conto della dota di sua moglie la Brettagna; usurpò doppo la morte del duca Carlo la Borgogna; morto el re Rinieri gli venne in mano la Provenza; in forma che avendo lui, si può dire, duplicata la potenzia, ed Inghilterra diminuita, bisogna in su questo caso fare giudicio con altra coniettura che delle cose passate.

La guerra per la piú naturale e commoda via che possino fare li inghilesi a Francia, è per Calese o, ponendo, in Brettagna; dalla quale banda pare verisimile che el re di Francia si possi defendere con poche forze, perché li inghilesi sono sanza alcuno cavallo e combattono tutti a piede; hanno, per quello si intende, mancamento di artiglierie ed altri instrumenti per la guerra; sono stati lungamente in pace, e però poco esercitati alle arme; sono naturalmente uomini bestiali e precipitosi e da disordinarsi facilmente; ed avendo a espugnare terre forte, trovando al rincontro qualche numero di lance franzese, pare che possino piú tosto infestare Francia col correre, che col pigliarvi piede, perché non si vede vi possino venire con forze superiori a loro, e la riputazione non doverrebbe essere tanta quanta soleva essere, considerate le ragione sopradette. Ed inoltre lo avere veduto lo anno passato li inghilesi venire a Fonterabia collegati con tutta Spagna, esservi stati piú di quattro mesi sanza fare uno minimo movimento, doverrebbe ragionevolmente avere in qualche parte riassicurati li animi de' franzesi.

Queste difficultá sendo conosciute, hanno forse fatto che Inghilterra e Francia sieno stati in pace lungamente, e sanza dubio furono causa che questo nuovo re, con tutto che volonteroso, non si movessi alle arme se non colla lega di Spagna, e che disegnandosi lo anno passato per quale via si avessi a rompere la guerra, fussi resoluto in Inghilterra di mandare gente a Fonterabia a unirsi collo esercito del re Catolico, disegnando che el fondamento della guerra avessi ad essere da questa banda e con queste forze, e servirsi per Cales e Brettagna piú tosto per infestare Francia e darli diversione, che perché quivi avessi ad essere el luogo principale della guerra. E però a volere che la offesa di Inghilterra fussi potente e percotessi nel vivo, bisognerebbe andare drieto a questo primo disegno, in che sarebbe necessario el consenso di questo re ed el coniungere le forze sue; cosa che non può essere non abbi e dall'una banda e dall'altra di molte difficultá, perché el sito di Ghianna è lontano da Inghilterra, e la distanzia del luogo getta tante incommoditá, che da loro medesimi non la possono fare sì gagliardamente come per Cales. E però è necessario, riducendosi a farla di qua, che e' si assicurino che el re Catolico procedi con la massima caldezza, in che io non so come e' sieno per prestare fede alle parole e promesse, rispetto a' processi della state passata; dove avendo quello re mandati a Fonterabia nove o diecimila uomini con grande speranza e prontezza e buone provisione di danari, la consumorono sanza fare faziona alcuna. Veddono questa maestá attendere per sé propria allo acquisto di Navarra, e si persuasono che la non volessi procedere piú oltre contro a Francia, e si partirono molto male contenti e con grandissima suspizione.

La cosa considerata da sé medesima, e le relazione che verisimilmente ará fatte chi fu di qua, potrebbono essere causa che quella maestá non si resolvessi facilmente a mandare di nuovo gente in Spagna; e quando pure in lei potessino piú le giustificazione ed astute parole di questo re, lo odio suo naturale contro a Francia, la giovanezza e la accesa voluntá di questa guerra, io non so come el Catolico re sia per acconsentire che di nuovo tornino gente inghilese a Fonterabia. Toccossi con mano la state passata che le dilazione sua a muovere le gente, el tenerle di poi piú tempo in Navarra che non era di bisogno allo acquisto di quello regno, e tutto el procedere suo fu per consumare la state sanza avere a rompere guerra al re di Francia; ed in effetto parse che lui usassi tutti e' termini possibili perché li inghilesi cominciassino a fare pensiero di partire, se bene in sul fatto poi, vedendo voltare tutta la guerra adosso a sé, io credo che gli arebbe desiderato che e' non fussino partiti. La causa potrebbe essere perché lui, come si dirá di sotto, non volessi la guerra di qua; ed inoltre quando bene la volessi, che e' pensi che di questa coniunzione tra spagnoli ed inghilesi in uno esercito medesimo non si possi trarre molto frutto.

Sono le nature molto diverse: li spagnoli omini temperati e maturi e pazientissimi di ogni disagio; li inghilesi bestiali, disordinati, non atti a durare lungamente fatica, e consumatori di molte vettovaglie. Se ne venissi poco numero non sarebbono di molto utile; gli assai, è da credere che uniti con questi altri genererebbono disordine e confusione; lo essere cominciato a nascere diffidenzia e sospetto, farebbe che ogni piccolo accidente li disunirebbe. Li inghilesi, giudicando la impresa essere loro propria, con difficultá si partirebbono per consiglio delli spagnoli dalle loro sfrenate voluntá, né questa maestá vorrebbe a posta di uomini temerari e bestiali precipitare e mettere in pericolo lo stato suo; e tanto piú che avendo guadagnato el regno di Navarra, tutte le vittorie ed acquisti che si avessino ora, sarieno delli inghilesi, le ruine e perdite tornerebbono adosso a lui. Per queste ragione si può facilmente credere che questa maestá abbi male volentieri a acconsentire che li inghilesi tornino di qua; se giá el vedere che el re di Francia sia per fare assolutamente a tempo nuovo la impresa di Navarra, non lo movessi, per trovarsi qua alla difesa con piú gente e piú potente, a avere caro che e' venissino. Ma in ogni caso io credo che e' non si abbi a contentare di uno numero grande, e quando e' venissino grossi, che e' non se n'abbi a valere molto.

Sarebbeci uno altro modo di offendere Francia, e questo è che el re di Inghilterra rompessi per via di Cales o di Brettagna, dove e' può per la vicinitá percuotere con piú forze e maggiore commoditá, ed el Catolico re colle gente sue rompessi la guerra in questo ducato di Ghianna; e cosí pare che insino a non molti giorni fa si trattassi, e che questa maestá ne confortassi el re di Inghilterra, el quale non so come sia per resolvervisi, ma sará facile cosa se ne accordi. La difficultá è come questa maestá lo mettessi poi in atto, perché presupponendo, come è detto di sopra, che el re di Francia con una grossa armata di mare e con non molte forze per terra si possa facilmente defendere da quella banda, verrebbe tutto el pondo della guerra a voltarsi dalla parte di questo re, il che non pare verisimile che lui voglia in modo alcuno e tirarsi la guerra adosso; e che tale abbi ad essere la voluntá sua lo persuade la esperienzia e la ragione. La esperienzia, perché a' tempi passati, vivente etiam la regina duenna Elisabel, si vedde che mai volsono rompere guerra con Francia di qua, e se bene alcuna volta la mostrassino, non mai la feciono. Veddesi quando el re Carlo passò in Italia, che se bene si collegassino allora con lo imperadore, papa, viniziani e Milano per cavarlo di Napoli, respetto al dubio aveano della grandezza sua, ed avessinne dato intenzione alla lega che li confortava, nondimeno non lo feciono mai. Veddesi nella guerra che gli ebbono col presente Luigi re di Francia a Napoli, che contenti di avere difesa Sals, non vollono seguire piú oltre, con tutto che e' franzesi fussino attriti in modo da sperare qualche successo, anzi cupidamente abracciorono uno accordo con lui particulare per le cose di qua da' monti. Èssi veduto molto piú chiaramente in questa maestá, la quale avendo chiamati li inghilesi, sperando forse che questa paura conducessi el re di Francia a qualche concordia sanza avere a usare le arme, come e' furono venuti, e si intese che el re di Francia uscito di Italia voltava tutte le sue forze nel ducato di Ghianna, il che lui non avea creduto da principio, andò raffreddando, né volle dare occasione alcuna che el fuoco avessi a essere vicino a questi regni.

Il che se si è fatto pel passato, pare che molto piú si debbi fare ora, avendo questa maestá al presente piú difficultá a defendersi, respetto a questo regno di Navarra acquistato nuovamente, e dove e' franzesi aranno sempre a posta loro, come si vedde lo ottobre passato, la entrata aperta o per Maia o per Roncisvalle o per Val di Roncales, e dove venendo per rimettere el re don Giovanni e la reina Caterina regina naturale, hanno la inclinazione ed el favore della piú parte de' populi. Aggiugnesi che questa maestá non è re di Castiglia, ma governatore; e se bene comanda insino a oggi questi regni assolutamente, per non ci essere troppi di questi grandi che abbino molto reputazione e seguito, e non avere subietto a chi si possino volgere rispetto alla pazzia della reina duenna Giovanna e la poca etá del principe don Carlo, ed inoltre perché el governo suo viene giustamente e si aparteneva a lui proprio per essere el piú coniunto, per esserne tanti anni stato vero re e per essere governo savio ed ordinato e di qualitá che è di grandissimo beneficio a queste provincie, non è però che questa ragione non lo abbi a fare procedere piú freddo alla guerra. Perché avendosi nella guerra a valere, come di sotto si dirá, delli aiuti e sussidi del regno, pare conveniente che li abbi a maneggiare con piú respetto che se e' fussi re. È da considerare ancora che e' pensi che quando lui avessi qualche cattivo successo, che e' potrebbe seguire maggiore disordine, perché questi grandi non vivono molto contenti di lui, mossi non tanto dal bene publico de' regni, quanto forse dalli appetiti loro privati; e quando si trovassi in declinazione, ogni alterazione o disubidienzia che nascessi di alcuno di loro, metterebbe questa sua governazione in grave pericolo; e tanto piú che a' castigliani non piace la guerra con Francia, né hanno inimicizia naturalmente con franzesi, e massime parendo loro che la guerra non sia presa a beneficio o per causa di Castiglia, ma per conto di Napoli e delli interessi sua particulari.

La esperienzia adunche del tempo passato, corroborata colli argumenti detti di sopra, mostra che se questo re potrá scusarsi dal rompere con Francia di qua, lo abbi a fare volentieri, ma e' non ci sono le ragioni meno vive. È el re di Francia tanto poderoso per molti respetti, che e' non si può disegnare la guerra avere ad essere facile, ma che e' bisogni farla con uno potente esercito e con sforzo grande, el quale ordinare e congregare non è di molta facilitá a questo re; perché se bene Castiglia abbi nome di avere gente assai atta alle arme a piè ed a cavallo, la difficultá del danaio ci si intende essere tanta che el provedere uno esercito grosso intero colla borsa sola del re sarebbe assai, e però è el costume loro, avendo guerra di qua, che oltre a quelli che el re chiama delle ordinanze ed accostamenti sua, e quelli che conduce lui proprio, richiedere molte communitá le quali a spese loro lo servono di alcuno numero di fanterie; richiedere e' grandi, e' quali tenendo communemente accostamenti, lo servono di qualche numero di cavalli e di fanterie, conducendole ordinariamente a spese loro insino in campo, benché alcuno di piú qualitá li paghi per qualche mese, di che si vale el re rispiarmando el tempo che corre al condursi in campo; ed inoltre a' cavalli non paga di suo la provisione intera, ma sbattene quello che gli hanno di accostamento; ed inoltre quando non li pagassi cosí bene ed a tempo, questi grandi, presupponendo che sia lo onore loro el conservarsi la sua gente, non mancono di porgervi la mano.

Questo modo di fare esercito si vedde che el re tenne non solo quando li inghilesi vennono, ma ancora quando e' franzesi entrorono in Navarra; nel quale tempo trovandosi in pericolo grande e dello onore e dello stato, è da credere che li usassi tutte quelle provisioni che e' poteva piú vive. Lo avere adunche a fare gran parte dello esercito colle forze de' signori e de' populi, li dá difficultá, perché li bisogna richiedere, inclinarsi ed obligarsi ad altri, e questo straccarli non può fare effetti buoni; e mi ha detto messer Gian Baduero oratore viniziano, che ci fu anche a tempo della reina per stimularli a rompere guerra al re di Francia, che lei un giorno li disse non la volere fare, allegando che mentre stavano in pace erano signori di ognuno, durante la guerra stavano con tutti e' signori del regno; la quale ragione debbe piú militare ora, che non faceva allora che gli erano re. Fatto lo esercito, è molto maggiore difficultá a conservarlo respetto alla difficultá del danaio, per il che si vede che a lungo andare non può reggere tanta spesa; e se bene l'ordinario de' pagamenti loro sia scarso, pure in uno esercito grosso multiplica molto; ed anche e' pagamenti stretti fanno effetti mali, perché assai si fuggono, li altri servono male volentieri. Né ci è speranza che la guerra abbi a essere breve, avendo a fare con uno re tanto potente, e col quale confina per lunghissimo spazio di paese; e tanto piú che se quel re vorrá ire temporeggiando e ridursi a una guerra guerriabile, consumerá sanza dubio costoro collo spendere, il che a lui per essere ricchissimo non dá noia. Né si può sperare avere a terminarla con una giornata, perché li eventi delle battaglie sono dubii e pericolosi; ed inoltre quando venghino tutt'a dua grossi alla campagna, si vede piú tosto el re di Francia avere vantaggio, presupponendo che si vaglia di qualche migliaio di fanti alamanni.

Non possono costoro in modo alcuno essere pari di uomini d'arme a' franzesi, ogni volta che loro abbino una banda di mille lance, perché in Spagna è pochi uomini d'arme, sonvi male assueti ed hanno cavalli malissimi; in modo che sempre mille cavalli franzesi urteranno millecinquecento di questi o piú, per la qualitá de' cavalli e per non saperli costoro maneggiare. Aggiugnesi che costoro vanno in campo sanza cavalli da carriaggi, né hanno per uomo di arme altro che uno cavallo, del quale avendo a servirsi in ogni fazione di qualunque sorte, si vengono a consumare e straccare; guastali lo stare lungamente alla campagna, non avendo tende ed essendo el paese di qua voto di case, in modo che bisogna el fare alloggi allo scoperto. Saranno sempre costoro ancora inferiori di gran lunga di artiglierie, perché non hanno molte, né hanno la destrezza e la attitudine dei maneggiarle come e' franzesi, il che confessono ancora loro medesimi, ed io ho udito el re don Fernando commendarli molto di gente d'arme e di artiglierie.

Sono questi dua membri grandi per una giornata; succedono le fanterie che sono di somma importanza, in che costoro pretendono essere benissimo forniti; e veramente questi loro fanti sono molto atti alla guerra, per avervi communemente una applicazione ed inclinazione naturale, avervi accommodata la agilitá del corpo, ed essere al pari di ogni altra nazione pazienti di qualunque disagio. Nondimeno oggidí in Spagna sono pochissimi fanti veterani ed esercitati alle arme: quegli che ci erano buoni o sono morti in Italia, o vi militano oggidí; assai ne perderono alle Gelbe sotto don Garzia figliolo del duca di Alva, e Petro Navarro; quegli pochi che ci erano pratichi, della compagnia di Villalba, si consumorono in gran parte lo ottobre passato in Navarra, e massime quando fu morto el capitano Baldese. Oltre a questo, e' fanti che ci sono hanno insino a ora pochissime arme, e la maggiore parte, anzi quasi tutti, non portano altro che una picca e la spada; e però quando nel campo franzese sia una ordinanza di cinque o seimila alamanni, la quale facci spalle e sostenga la fanteria piccarda e guascone, è da credere che e' possino respondere alle fanterie di costoro. E massime che questi alamanni hanno qui reputazione, che si vede per il parlare che se ne faceva lo anno passato, e perché costoro si ingegnano imitarli in queste ordinanze, e vanno cercando di capitani e di fanti alamanni. Quanta superioritá abbino costoro si è ne' cavalli leggieri, de' quali ci è grandissima copia: hanno buoni cavalli e sono assueti a questa spezie di milizia. El quale vantaggio non è in una fazione stretta di molto momento; danno piú tosto, nel continuarsi la guerra, impedimento al venire le vettovaglie, a disturbare una levata del campo, straccare ed infestare li inimici ogni dí insino in sullo alloggiamento, che e' faccino frutto grande in una giornata; in modo che esaminato tutto, si può conchiudere che questo re abbi con grande fatica a mettere insieme uno esercito grosso, con grandissima a conservarlo, né sia per alcuno modo da essere tale che e' sia superiore alla campagna co' franzesi.

Considerato adunque tutto questo discorso, pare da fermare el punto che questa maestá, quando non sia necessitata ad avere la guerra a' confini sua di qua, non sia per volerla in alcuno modo. Anzi discorrendo piú oltre, io credo generalmente che lo essere in guerra con Francia, da qualunque banda, li pesi assai e lo tenga in gravissimi pensieri, perché lui solo non può né co' danari né colle forze reggere tanto peso; la guerra di qua lo tiene aviluppato non sanza pericolo di questo suo governo di Castiglia, e lo essere impegnato di qua lo tiene in gran suspizione del regno di Napoli dove ha quelle forze e benivolenzia che ogni uomo sa. Trovasi collegato e ristretto collo imperadore, uomo el quale a volerlo tenere bene contento bisogna pascerlo continuamente con danari e grosse somme, di che lui non li può dare, ed in ogni maggiore unione che li abbi seco non ne trae frutto alcuno. E quando lo imperadore si alienassi da lui, non li potrebbe se non nuocere, perché el re di Francia ne accrescerebbe riputazione, e forse sendo congiunti li farebbono qualche disegno adosso in su questa governazione di Castiglia, in che lo imperadore potrebbe operare assai, e basterebbe solo el disporre lo stato di Fiandra valendosi massime della riputazione e forze di Francia. Della lega di Italia credo speri poco, conoscendo la natura del papa e la sua mala contentezza, la diffidenzia che sará ragionevolmente venuta tra' viniziani e lui, e considerando che ogni dí possa nascervi nuove divisione, di qualitá che el re di Francia vi ritorni facilmente. Non può sanza e' danari di altri nutrire lo esercito che vi si trova al presente, e risolvendolo vi viene a rimanere, si può dire, a discrezione, ed in ogni caso vede che è in potestá de' svizzeri soli rimettere el re di Francia nel ducato di Milano, e credo li paia strano avere a essere sottoposto alla poca fede e mala natura loro. Conosce che se el re di Francia persevera inimico suo, che gli è necessario o che non torni in Milano, o che lui esca di Napoli, perché el re di Francia non fermerá a Milano, ma vorrá per sua securtá cavare costui interamente di Italia.

Sono questi frangenti grandi e da farlo misurare bene e' casi sua; ne' quali el piú pronto e maggiore sussidio che e' possa avere è quello di Inghilterra, che nondimeno per quello che è detto di sopra, non manca di molte difficultá, ed è di assai considerazione; in forma che, esaminato tutto bene, io sono di opinione che quando questo re trovassi pace con Francia, nella quale fussi la conservazione del regno di Navarra e qualche sicurtá sua, che egli, sanza avere respetto a alcuna altra cosa, la accetterebbe volentieri. Non intendo giá come e' possi avere questa sicurtá, perché con Francia non ha modo di pace se non lasciandolo rientrare nello stato di Milano, e quando recuperi Milano, non so come si possa fidare che non lo cavi di Napoli, perché oramai fra loro si sono tante volte rotte le capitulazione, li accordi ed e' parentadi, che le parole e promesse sole non bastano. Potendo adunche avere la pace massime per le cose di qua, io sono di opinione che la piglierebbe; non la potendo avere, bisogna fare altri disegni, ed el periculo del regno di Navarra, e che el re di Francia non torni potente in Italia, pare che lo sforzi a strignersi colli inghilesi e fare potentemente la guerra da queste bande, se giá e' non disegnassi, quasi alla similitudine dello anno passato, chiamare li inghilesi, e col tôrre loro co' modi indiretti tempo, e colle preparazione sole e mostrare la guerra, assicurarsi che e' franzesi non lo offendino di qua, e tenerli anche sospesi e divertiti da non potere attendere alle cose di Italia.

 

 

 

V

 

Se 'l Gran Capitano debbe accettare la impresa

di Italia.

 

Io non mi maraviglio piú che nelle cose dubie si truovino tante questione e contrarietá di opinione tra gli antichi scrittori, poi che io veggo che e' non manca chi vogli in una cosa tanto chiara mettere disputa. Tutti gli amici vostri, poi che voi tornasti da Napoli, si sono sempre doluti che la altezza del re vi abbi tenuto in ocio, ed è loro dispiaciuto che la abbi in guerre tanto importanti adoperato altri capitani e voluto piú tosto con suo danno detrarre alla gloria vostra, che con sua utilitá darli augumento. Questo medesimo dolore abbiamo creduto essere stato nel petto vostro e ragionevolmente, perché nessuno dispiacere può essere maggiore negli uomini grandi e che si conoscono virtuosi, che non avere facultá di mostrare quello che e' sono, e che con danno di altri le virtú loro stieno oscure. Né ha anche la natura dati tanti ornamenti a uno uomo perché li stieno sepulti, ma perché con quelli giovi alli altri; e però chi si tiene sufficiente e non si vuole mostrare quando ne ha commoditá, manca non solo a sé medesimo, ma a tutta la generazione umana, ed è da essere comparato a uno avaro che tiene e' sua tesori occulti nella cassa sanza profittarne a sé o a altri. Ora doppo molto tempo vi è dato facultá tornare alle faccende, la quale vi debbe essere tanto piú grata, quanto piú è stata desiderata, e con quanto maggiore gloria vostra vi si offerisce, perché avendo sua altezza provati altri capitani sanza successo, ed ora per necessitá ricorrendo a voi, si mostra quanta differenzia sia da voi alli altri.

Lo accettare questa espedizione, considerate, Gran Capitano, che vi porta tutte quelle cose che sono stimate dagli uomini: gloria grandissima, perché ritornando voi nel corso delle arme, che è la propria professione vostra, nelle azione grande, a espedizione preclare, in una provincia dove la fama vostra è maggiore che nella patria, contro a una nazione ed eserciti che triemano del vostro nome per avervi altra volta provato con tanto loro danno, ed e' quali se voi vincesti in uno tempo che voi non li conoscevi né loro aveano provato voi, in tempo che voi eri solo, loro colli aiuti e forze di tutta Italia, quando li aveano capitani veterani e buoni, chi può dubitare che ora voi non li abbiate a vincere, quando voi siate accompagnato da tanti aiuti, loro soli; voi colla esperienzia avete imparato el modo di vincerli, loro per tante rotte triemono della vostra virtú; voi capitano veterano e migliore che allora, loro con capi nuovi e giovani e che non hanno nome o esperienzia; questa vittoria quanta fama vi abbi a dare chi non lo sa? E se bene la gloria vostra è grandissima da potersene contentare, è anche grande lo animo e generoso, e non si truova che nelli animi generosi fussi mai sazietá di gloria.

La utilitá quanta sia non voglio darne altra ragione, se non che voi misuriate quale erano le ricchezze vostre innanzi alla guerra, quale sia oggi doppo le vittorie lo stato e la rendita che voi tenete; e ricordatevi che gli è maggiore difficultá venire di uno grado basso a uno mediocre, che non è da uno mediocre venire a uno sommo, e che non può essere maggiore carico a' savi che non sapere seguitare la fortuna sua, la quale ha forse per questa via destinato di condurvi a uno stato equale alle vostre virtú. E benché la soglia essere mutabile, nondimeno questo non vi debbe ritirare, perché e' savi se ne sogliono difendere, e non si potendo ottenere le cose grande sanza qualche pericolo, si debbono le imprese accettare ogni volta che la speranza è maggiore che la paura. E se non vi muove lo appetito della gloria e grandezza, parendovi averne a sufficienzia, considerate piú lá, Gran Capitano, che rifiutando questa impresa si viene a diminuire la gloria acquistata da voi insino a oggi; perché chi non vede che stando voi in ocio, in pace, con veste lunghe ed abiti civili, alla ombra la fama vostra invecchia tuttogiorno, manca uno certo vigore fresco, ed el nome vostro si regge non in sul fulgore delle cose presenti, ma in sulla riputazione delle passate, come di Pompeio a comparazione di Cesare dicevano li antichi scrittori? El tempo e lo ozio vi logora. Ma quello che è piú, recusando questa amministrazione, date causa di credere a' populi che lo animo vi manchi e che voi medesimo diffidiate di voi; di che può nascere disputa quale abbi potuto piú nelle azione vostre passate o la fortuna o la virtú. Finalmente per conchiudere in una cosa tanto chiara, vogliate piú tosto le faccende di Cesare che el brutto ocio di Lucullo, ed eleggete piú tosto la occasione di crescere in infinito la gloria e lo stato vostro, vivendo in Italia ed in Napoli come re, che voluntariamente invecchiarla e diminuirla stando in Castiglia come suddito.

 

 

 

VI

 

[Sullo stesso argomento.]

 

In contrario.

 

Le diversitá delle opinioni, Gran Capitano, e le dispute che vi si fanno, sogliono piacere a chi ha a fare la resoluzione, perché chi ode le ragione contrarie suole meglio discernere la veritá, né anche debbono dispiacere alle parte, quando la sorte dá loro prudente giudice e che le si oppongono non per proprio interesse, ma principalmente per amore del vero. E se in nessuna quistione fu mai bisogno di savio giudice, e che considerassi lo intrinseco delle cose, è di bisogno in questa, dove è necessario che la prudenzia sia tale che con solida elezione vinca e' vani appetiti, e seguiti piú tosto la utilitá nascosta drento, che lo splendore apparente di fuora. Io confesso che accettando questa impresa e vincendo, ne risulterá verisimilmente grande augmento alle cose vostre; ed anche credo che secondo le considerazione che si possono fare de' futuri eventi delle guerre, voi vi possiate promettere la vittoria, quanto mai potessi alcuno capitano che andassi in guerra. Ma io so anche che nessuna cosa è tanto incerta, quanto li esiti delle guerre, sulle quali ogni leggiere disordine, ogni minimo caso suole qualche volta essere di momento grandissimo. Né si può promettere la vittoria chi ha la giustizia della causa, vedendosi ogni dí vincere chi combatte per la ingiustizia; né si può el capitano assicurare in sulla sapienzia sua, la quale se è bene di gran momento non opera el tutto, perché tutte le azioni della guerra non sono riposte in lui solo, anzi la maggiore parte dependono dalla virtú de' soldati, dalla qualitá de' luoghi e de' tempi e da mille accidenti sottoposti interamente alla fortuna, e' quali non sendo in mano sua, non li può lui solo regolare.

Non si può adunche promettersi la vittoria; e se bene verisimilmente la speranza sia maggiore che la paura, si ha da considerare in contrario che sanza comparazione molto piú danno vi farebbe el perdere, che non vi facessi utilitá el vincere, perché la gloria e reputazione vostra è oggi grandissima, e tale che e' non si ha notizia di uno capitano sí glorioso in tutta la cristianitá. Vincendo, non darete ammirazione a nessuno, e se ne crescerá di poco la gloria vostra, perché a nessuno sarà nuovo che el Gran Capitano vinca; perdendo, non è cosí, perché una mala fortuna di uno giorno solo vi priverrebbe di tutti li onori e trionfi acquistati colla fatica e pericoli di tanti anni: perderesti quello splendore di essere invitto e quello tesoro che non si può pagare né estimare, né se li può fare comparazione delle ricchezze che si potessino acquistare nella vittoria, perché questo disegno è fallace, e si vede quante volte da' re e' benefici grandi sono pagati con grande ingratitudine. Ed inoltre non vale tanto questa speranza, che per quella si debba mettere in pericolo una cosa tanto preziosa quanto è la fama e lo onore.

Dilettasi qualche volta la fortuna di fare simili tratti, ed è proprio lo esercizio suo di bassi fare grandi e di grandi ridurre a grado piccolo; e quanto piú l'ha pel passato favorite le virtú vostre, tanto piú è da dubitarne, perché el costume suo è di non stare mai ferma con uno medesimo, e rarissimi si truovano coloro a' quali la sia stata continuamente propizia. Leggesi tanti antichi capitani, Pompeio, Annibale, Marcello, e nella medesima Italia Belisario sommo uomo, el quale mandatovi da Iustiniano imperadore, tornò doppo qualche anno in Grecia al suo signore, avendo acquistate grandissime vittorie e trionfi; dove stato qualche tempo, ed essendo perturbate le cose di Italia, vi fu di nuovo rimandato, e nondimeno non vi avendo e' medesimi successi, tornò con poca gloria e favore. È facile adunche el perdere; perdendo si perde assai; vincendo, a comparazione della perdita, si guadagna poco; né e' savi sogliono volentieri giucare a quelli giuochi ne' quali si possi perdere molto e vincere poco. Ricordatevi del prudente ricordo di don Alonso Aghilar vostro maggiore fratello, el quale vedutovi tornare la prima volta glorioso di Italia, vi dissuase el tornarvi di nuovo, perché voi non mettessi in pericolo la reputazione acquistata. Né solo vi debbono muovere le parole ma eziandio lo esemplo suo, che doppo tante vittorie e tanta fama fu morto in giornata.

Pare assai alla moltitudine lo splendore del tornare in Italia a tanta impresa ed a tanto governo ed a sí grande speranze, ma piú pare a' savi el mettere voluntariamente in pericolo tanto tesoro. Debbesi considerare assai el pigliare le imprese, e massime chi giá è glorioso, chi giá ha fatto demostrazione della virtú sua, chi piú che per la rata ha travagliato e posto mano a' bisogni delli altri uomini. Non direi cosí in uno giovane, el quale non avendo ancora tentato la fortuna sua, è ragionevole che facci prova di sé medesimo, non viva in ocio brutto, ma tenti e di volere acquistare gloria, e di suvvenire a' bisogni degli altri uomini e della sua nazione. È lodato uno che con poco capitale si mette a navigare, e con pericolo di potere poco perdere, tenta di guadagnare assai; e nondimeno è biasimato uno uomo ricco che per appetito di guadagnare metta in mare tutto lo stato suo; né li sará imputato a pusillanimitá el riposarsi, ma a troppa cupiditá el travagliare. Né sará uomo che, se voi recusate questa impresa, lo ascriva a viltá di animo, anzi si imputerá a prudenzia; e quanto della vittoria sono proposti maggiori utili, tanto piú parrá officio di animo generoso e savio el saperli sprezzare. Le vittorie vostre passate sendo continuate tanto tempo ed ottenute tante volte, e massime con tanto mancamento di danari e di altre provvisione necessarie, non lasciono dubitare della virtú vostra; né si diminuisce, recusando questa impresa, la gloria, anzi si conserva lo acquistato, e si fa fede di prudenzia. Quello doverrebbe fare uno giovane povero di onore, questo altro ha a fare uno vecchio ricco di tanta gloria e trionfi; ed a voi si apartiene piú, nella etá che voi siate, fare officio di vecchio savio, che di giovane volonteroso, e seguitando piú tosto el iudicio de' prudenti che la ignoranzia della moltitudine, non si mettere, per speranza di guadagnare poco, a pericolo di perdere assai.

 

 

 

VII

 

[Sulla discesa di Francesco I in Italia nel 1515.]

 

La condizione e sorte di Italia vuole che né le guerre cominciate di lá da' monti, né lo essersi mutati principi, basti alla quiete italiana; anzi ogni cosa che pare che dia disturbo a chi volessi assaltarla riesce, in spazio di tempo, piú fresco e piú potente a travagliarla. Sperossi che le discordie ed armi cominciate tra Spagna ed Inghilterra con Francia avessino a essere causa che e' franzesi avessino a lasciare posare Italia per qualche tempo, il che non solamente non è seguito, ma piú tosto abbiamo visto el contrario; conciosiaché di quivi è nato tregua tra Francia e Spagna per di lá da' monti, di poi pace tra Francia ed Inghilterra; di che e' franzesi non solo non sono stati impediti ma, securi della guerra di casa, hanno potuto piú gagliardamente volgere lo animo alle cose di Italia. Sperossi che la morte del re Luigi fussi causa medesimamente del contrario, perché si credeva che le imprese fussino cominciate a dispiacere a tutta la nobiltá di Francia, e si pensava che lui solo per esservi stato dal dí che nacque inclinatissimo, e di poi per reputarla gloria ed acquisto suo, sostentassi questa impresa. Ed inoltre si giudicava che essendo per la sua morte cessato el parentado tra Francia ed Inghilterra, ed avendosi a restituire dote, potessi tra questi dua re nascere facilmente qualche inimicizia, o almeno fare che el re nuovo vivendone con sospetto non potessi cosí commodamente attendere alle cose di Italia. Questa sua morte non solo non ha spento questo fuoco, ma ha piú tosto partorito effetto contrario, perché tra questo re ed Inghilterra si è non solo conservata la amicizia, ma piú tosto accresciuta la coniunzione; ha fatto parentado con lo arciduca, e posatosi ancora da quella banda; in modo che volendo ora passare in Italia, questa sua impresa la fa con tanta piú sua reputazione, e con tanto maggiore periculo di Italia, quanto piú si vede assolidato di lá da' monti; truovasi piú giovane e però piú animoso e piú feroce, ed inoltre si intende essere in maggiore credito e benivolenzia co' signori e gentiluomini del regno che non era el re passato.

Vuole la mala fortuna di Italia cosí, e che doppo uno incendio e travaglio ne nasca subito sempre uno altro maggiore e piú pericoloso. Viene adunque nuovamente in Italia uno esercito franzese con grosso numero di cavalli, fanterie ed artiglierie, e bene provisto di munizione e di tutte le cose necessarie. Viene allo acquisto di Milano, ducato posseduto poco tempo fa da loro piú anni, dove hanno colore di qualche titulo, e dove e' populi li desiderano ed inclinano sanza dubio a quella parte. Viene contro a uno duca debole di forze, di poco governo e sanza danari, ed odiato da tutti e' sudditi sua; in modo che se si avessi a combattere da una potenzia all'altra, solo uno cento di lance franzese finirebbono la impresa, avendo la inclinazione de' populi e la parte di messer Gian Iacopo e di tanti altri fuorusciti che sono con loro. Ma al riscontro si scuoprono a difesa dello stato di Milano e' svizzeri, nazione fiera, bellicosa, esercitata nelle arme e di animo grande, e che altra volta ha avuto in questa impresa medesima vittoria de' franzesi, ed a quale pare nella difesa di Milano trattare una causa sua propria, perché in veritá nel defenderlo consiste grandissimo interesse di quella nazione per gloria, per utilitá e securtá sua. Ha volta tutta Italia li occhi a questa espedizione, non solo per lo interesse suo e per el desiderio ed inclinazione varie piú a una parte che una altra, ma etiam perché discorrendo bene le forze di tutt' a dua le parte, nascono tra li uomini vari iudíci di chi debba essere vincitore. E se bene l'esercito franzese paia avere vantaggio, per trovarsi numero di fanterie quante saranno e' svizzeri o piú, ed avere tanti cavalli ed artiglierie che non ne hanno e' svizzeri, nondimeno la ferocia e reputazione di quella nazione, e lo animo con che si vede vanno, è tale, che non sanza cagione nasce nelli uomini tanta varietá di iudíci ed opinione; in che a me interviene come alli altri, che in una cosa di tanta importanza non posso posare lo animo, e sono forzato discorrere ancora io quello che mi occorre.

Intendesi di presente, come ancora si è inteso tutto lo anno passato, e' svizzeri volere fare pruova di impedire a' franzesi e' passi de' monti; e' quali sendo stretti e forti ed in luoghi dove non si possono maneggiare cavalli ed artiglierie, pensano poterli con poco numero di uomini defendere; da altro canto e' franzesi sono sí grossi di numero di uomini, che potendosi dividere in molte parte, e tentare in uno medesimo tempo el passare per vari luoghi, è da dubitare che questo disegno non riesca, e tanto piú quanto e noi a' tempi nostri lo abbiamo visto, e si legge in molte istorie, che rare volte è riuscito uno simile pensiero, perché chi si vede serrato el passo ordinario, e non potere sanza pericolo e disavantaggio grande aprirsi la via ordinaria, non viene direttamente a sforzare chi ne è signore, ma cerca per venirvi indirettamente, e per via di furto, e' luoghi non previsti da chi è in sul passo; e però lo effetto di queste imprese è molte volte stato che chi vuole passare ha girato una parte dello esercito per qualche via traversa e non usata, quale ha imparata da' paesani o altrimenti, e condotto in modi simili o in sulla summitá del monte, o drieto o dallato a chi tiene el passo, gli ha forzati a ritirare e lasciare la strada aperta. In modo che io per me non ho mai avuto in questa difesa molta fede, e massime che avendo e' svizzeri a starvi lungamente, credo arebbono difficultá di vettovaglie. Porsi, come alcuni dicono, e' svizzeri a Susa dove sbocca el passo di Monginevra e Monsanese e cosí non li lasciare discendere al piano, anche non è disegno certo, perché io credo possino farlo discosto da Susa e per altra via in molti luoghi, per Saluzzo e Monferrato, dove se forse non sono facili e' passi per le artiglierie, pure noi veggiamo per esperienzia che chi ha forza di uomini e di danari vince queste difficultá, ed e' franzesi massime che in simile maneggio hanno molta attitudine.

Non so anche se per carestia di vettovaglie e' svizzeri possino fermarsi lungamente in su' monti, il che non doverrebbe dare noia a' franzesi che hanno adrieto el paese loro, donde si possono meglio provedere, e che possono e sogliono in simili cose valersi della forza del danaio e sanza alcuno rispiarmo. Se e' svizzeri tengono el passo de' monti, la impresa de' franzesi si dissolve; se e' lo tentano e non riesca, perdono di reputazione e' svizzeri assai, sendo di dua difese mancata loro una, nella quale secondo la opinione degli uomini si sperava; nondimeno questo non toglie che e' non possino ridursi grossi alla campagna e venire all'incontro de' franzesi; dove venendo con animo di fare la giornata, si riducono le cose in grande stretto, perché una fanteria grossa di uomini bellicosi e che entrano alla battaglia con animo di morire o di vincere, non può essere vinta sanza grandissima difficultá, e sanza grandissimo pericolo e danno di chi li combatte. E benché la fanteria franzese sia grossa, ed e' lanzichenech sieno stimati assai, nondimeno combattono non per causa propria, ma per conto di altri e come soldati mercennari, né si hanno ancora vendicato quella reputazione e quello timore che hanno e' svizzeri. È vero che lo avere una cavalleria sí grossa e tante artiglierie fa vantaggio grande a' franzesi, ed in modo che se e' svizzeri non fanno miracoli, non pare ragionevole che e' franzesi debbino perdere la giornata; pure li eventi delle battaglie sono dubii, e vi può molte volte la fortuna piú che la ragione, ed almeno non si può negare che e' franzesi non possono avere questa vittoria se non con molto sangue, perché ha a fare con inimico che non volterá le spalle, ma che vorrá morire quivi e non fuggire, e morire coll'arme in mano ed onorevolmente. In modo che io credo si possa conchiudere che questa vittoria sarebbe con tanto danno de' franzesi, e colla morte di tanta nobiltá ed uomini di conto, che peserebbe piú che lo acquistare Milano e tutta Lombardia.

E però io credo che e' franzesi, conoscendo la virtú ed ostinazione delli inimici loro, abbino a fare ogni cosa di non venire a giornata, ma cercare di ottenere la vittoria per altra via, o col mandare, scesi che saranno in Lombardia, le cose in lunga sanza apiccarsi, sperando ne' populi che di drieto si abbino a levare, e pensando che e' svizzeri per mancamento di danari ed altre difficultá, non possino stare lungamente sí grossi alla campagna, e cosí vincere col tempo; o veramente abbino a dividere lo esercito, e lasciato el nervo del campo a petto de' svizzeri con ordine non di combattere ma di intratenerli qualche giorno, mandare l'altra parte alla volta di Milano o di qualche altro luogo, sotto speranza di fare levare tutto quello stato, il che facilmente riuscirebbe loro etiam con poca gente; in modo che raccolto insieme tutte queste cose, benché ancora possa succedere il contrario, pare da credere piú tosto la vittoria sia pe' franzesi. Conciosiaché se e' possono temporeggiare di non venire alla giornata, abbino la vittoria certa in mano; venendo a giornata, possino almeno cosí vincere come perdere, il che non avviene a svizzeri, e' quali non si possono presupporre buono esito se non col modo solo di vincere la giornata. È ancora da considerare che e' svizzeri sono uno populo, e ragionevolmente e' loro moti e progressi debbono essere come quelli degli altri populi: può nascere facilmente che non riuscendo loro el disegno del tenere e' monti, e vedendo el pericolo piú da presso, ed uno esercito inimico alla campagna con fanteria da non sprezzare, con una cavalleria sí grossa, con tante artiglierie, e co' populi amici, pensino a' casi loro e si ritirino sanza volere fare la giornata.

Resta, se e' franzesi ottengono la impresa di Milano, quello abbi a seguire; e se vedendo el resto di Italia conquassato e sanza ordine, la speranza di assicurar meglio le cose loro di Lombardia, la ambizione di crescere, la voglia di vendicarsi con chi li ha iniuriati, li traporti a nuovi maneggi; perché è cosa credibile che e' considerino molto che se e' fermono el corso delle vittorie loro in Lombardia, e' non vi restano con piú sicurtá o fermezza che sieno stati ne' tempi passati, perché rimanendo in Napoli uno re di Aragona inimico della grandezza loro e stato autore a cacciarli di Italia, sendoci uno papa potente con Bologna e Romagna e con lo stato di Firenze, ed el quale non possono avere per confidente, potrebbe ogni dí nascere occasione, o in su' travagli avessino di lá da' monti, o in su qualche altro accidente, faccendo scendere e' svizzeri, cacciarli di Italia. E però è da credere che penseranno levarsi in forma li ostaculi, che vivino con piú securtá che pel passato, massime che essendosi visto la esperienzia quanto col mezzo de' svizzeri vi possino essere facilmente perturbati drento, è da credere che col tempo non mancherebbe chi avessi animo a entrare in una tale impresa.

La ragione vuole che, espedito Milano, disegnino andare allo acquisto del reame, cosa giudicata facile per essere in quello regno poche forze e li animi di molti príncipi e di tutti e' populi inimici del nome spagnolo; el levare el re di Spagna di Italia sarebbe loro grandissima securtá, o pigliando quello regno per loro o mettendolo in mano di qualche loro confidato, il che se avessino subietto da fidarsene, sarebbe sanza dubio piú fortificazione e securtá loro. È adunque da credere che vincendo Milano gli abbino a fare una tale impresa volentieri, sendo necessaria, facile, e trovandosi uno re giovane, nuovo nel regno, e che ne' princípi del regnare avessi cominciato a vincere. Quello che li possa ritenere è solo se e' parrá loro lasciare le cose di Milano in modo, respetto alla vicinitá de' svizzeri, che e' possino mandare securamente le gente nel regno; il che io credo che gli abbino a potere fare, perché o gli aranno vinto con giornata, e ragionevolmente non potendo e' svizzeri essere rotti se non con grandissima loro strage, saranno le forze loro sí attrite che non sará da dubitare infestino cosí presto Milano, se giá in questo caso non fussi stata la vittoria a' franzesi sí sanguinosa che non si trovassino lo esercito intero e fresco da poterlo maneggiare; o veramente gli aranno vinto sanza giornata, ed allora trovandosi tanta gente, la amicizia e forze de' viniziani, potranno facilmente lasciare tanta guardia a Milano che basti allo scendere e' svizzeri, e col resto fare la impresa di Napoli, la quale a giudicio di ognuno è tenuta di poca difficultá.

Ma non so giá se e' parrá loro che basti alla sicurtá propria lo insignorirsi di Napoli, e se el non parere questo, o veramente lo sdegno di vedere loro el papa inclinato almeno collo animo e col desiderio alla via degli inimici loro, o lo appetito di crescere ed assicurarsi tanto piú, gli fará trascorrere piú oltre, e pensare a abassare el papa, a che sono molte cagione che gli possono invitare: parere loro crescere ed assicurarsi tanto piú e levare di Italia ogni spirito che potessi essere in tempo alcuno stimolo o compagno di altri a travagliarli, e tanto piú quanto per e' progressi di questo papa saranno capacissimi che a lui dispiaccia sommamente la grandezza loro in Italia; e la potenzia sua avendo congiunto al dominio antiquo della Chiesa lo stato di Romagna, di Bologna e di Firenze, è da tenerne conto, e massime venendo el fratello e nipote in opinione di volere attendere alle arme. Nondimeno el travagliare lo stato ecclesiastico, oltre a essere contro alla professione del re Cristianissimo, e spiacevole per li esempli antichi e freschi a quella nazione, è cosa da potere concitare e per sdegno e per sospetto e per religione tutti e' principi cristiani, e mettere Francia in quelle difficultá che lo vedemo pochi anni sono. Né si può battere, o a dire meglio, disfare interamente el papa, non gli togliendo lo spirituale; e questo non si può torgli sanza el concorso della Magna e di Spagna, a' quali non è a proposito che Francia si faccia capo ed autore di una tanta cosa; e però saría facile cosa che el re di Francia, vincendo etiam Milano e Napoli, si astenessi da toccare la Chiesa; se giá per mettere un freno in bocca al papa e diminuirlo assai di forze, non voltassi lo stato di Firenze, parendoli che non sendo cosa ecclesiastica, questo uno modo da battere el papa sanza concitare li altri principi. Ma questo ha anche el contrapeso, perché ogni volta che non fussi risoluto a non manomettere el papa nel dominio ecclesiastico, parrebbe piú prudenzia cercare di beneficarlo e farselo amico e confidente, in che non li mancherebbono e' modi, che volerlo per inimico; e per questo, raccolto tutto, sarebbe forse piú ragionevole credere che el re di Francia non fussi per cercare di deprimere el pontefice; tuttavolta le ambizione, le voglie, le paure e li inganni degli uomini sono tali, che fanno spesso effetto contrario a quello che si disegna e pare che si discorra con ragione. Sariaci una altra migliore e piú vera sicurtá per li franzesi che nessuna altra, e questo sarebbe spacciare e' svizzeri in casa loro, ma la difficultá è tale che la vuole piú pensiero, piú tempo e piú occasione a poterla resolvere.

 

Lo effetto fu che nonostante la resistenzia de' svizzeri, e' franzesi benché per vie difficile passorono e' monti, e venuti nel piano di Lombardia, e' svizzeri si ritirorono verso Como, dove di poi ingrossati ne vennono a Milano. E' franzesi acquistato che ebbono tutto lo stato di Milano che di subito si dette loro, eccetto Milano e Cremona, de' quali Milano, se e' sollecitavono el venire innanzi allo ingrossare de' svizzeri, si dava, e Cremona per essere piú discosto stette a vedere, vennono a Lodi, e di quivi la persona del re collo esercito se ne andò a Marignano vicino a Milano a dieci miglia. E' svizzeri intanto vennono a Milano, ed essendo state tra loro molte pratiche di accordo, ed escluse finalmente, e' svizzeri con bestialitá grande uscirono un giorno al tardi di Milano ed assaltorno lo esercito franzese, con quale combatterono fino a piú ore di notte; e la mattina sequente si rapiccorno, dove li svizzeri furono rotti. De' franzesi non morirono molti; de' svizzeri si è parlato ed inteso variamente, ma la commune opinione è suta che ne sieno morti piú di diecimila ed anche dodicimila.

Avuto questo disavantaggio, e' svizzeri abandonorono Milano e tutto lo stato, quale si dette al re; ed el castello pochi dí poi si li dette per accordo. Eravi drento el duca Massiminiano, che d'accordo ne andò in Francia, con obligazione di darli entrata ecclesiastica per trentamila ducati e favorirlo al farlo cardinale. Avuta questa vittoria, el re, nonostante che el papa avessi fatto lega colli inimici sua, dati danari grossamente a' svizzeri e mandato loro certi sua condottieri con qualche gente d'arme, e tenuto pratiche colli spagnuoli di unirsi tutti insieme colle gente della Chiesa e nostre, co' svizzeri, nondimeno fece demonstrazione di desiderare grandemente l'accordo con Sua Santitá; quale finalmente si concluse con capituli e condizione grande per el papa e per li sua, e sanza carico o spesa alcuna della cittá.

 

 

 

 

VIII

 

[Sulla proposta fatta ai Veneziani d'entrare

nella lega contro i Francesi.]

 

Da poi che e' franzesi furono usciti totalmente di Italia per la guerra che si cominciò vivente Leone, dubitandosi del ritorno loro, l'anno 1523 del mese di agosto, fu fatto nuova lega tra papa Adriano, imperadore, re d'Inghilterra, duca di Milano, fiorentini, genovesi e tutto el resto di Italia, eccetto e' viniziani, ed ordinata una contribuzione per la difesa di Milano. E si faceva instanzia di tirare e' viniziani in questa lega, al quale effetto era stato in Vinegia molti mesi el signor Ieronimo Adorno, e doppo la morte sua vi andò el protonotario Caracciolo in nome dello imperadore; e trattandosi in pregati questa deliberazione, chi recusava lo alienarsi da Francia e convenire con Cesare parlò cosí:

 

Rare volte, se io non mi inganno, onorevoli senatori, ha avuto a' tempi nostri la nostra republica caso alle mani piú importante che questo, nel quale dobbiamo sopra ogni cosa porre da canto tutte le passioni e rispetti privati, non solo per pigliare quella deliberazione che sia piú a nostro proposito, ma ancora per conservare la antica degnitá di questo senato; perché è giá sparso voce per tutta Italia ed apresso a' principi, che tra noi cominciano le divisione, e che de' nostri principali alcuni sono imperiali, alcuni franzesi; cosa che come io sono certissimo essere falsissima, cosí è officio nostro governarci di sorte, che né per tôrre autoritá l'uno all'altro, né per altra causa, non possa io non dico seguirne uno tale effetto, ma né etiam nascerne nelle mente di persona una minima suspizione, perché, oltre alli altri danni, una opinione tale oscurerebbe troppo la inveterata riputazione di questa republica.

A me pare che a volere risolvere bene tutta questa materia s'abbino a considerare distintamente dua capi: el primo è che sia da fare in caso che noi presuppognamo che e' franzesi passino di presente in Italia, come loro efficacemente affermano; el secondo, che sia da fare in caso che noi presuppognamo che e' franzesi non passino di presente, come è opinione del nostro imbasciadore. Quanto al primo, cioè in caso che noi presuppognamo la passata de' franzesi, non credo si faccia dubio alcuno, perché l'onore e lo utile, che sono quelle due cose alle quali s'ha a risguardare nelle deliberazioni publiche, ci confortano a tenere fermo con loro: l'onore, perché non possiamo negare avere lega seco, la quale non è variata per gli accidenti della fortuna né per le sue avversitá, anzi dura piú ferma e piú constante che mai, e se bene gli oblighi nostri parlano a difesa dello stato di Milano, e questo non pare che sia piú in essere perché l'hanno perduto e trattano ora non di difenderlo ma di recuperarlo, nondimanco questo accidente ha variato piú tosto le parole che la intenzione de' contraenti, la quale fa obligarsi a ogni bisogno che accadessi loro per la ducea di Milano, né si conviene a una republica come la nostra, che sempre è proceduta nelle sue cose con tanta gravitá e maiestá, fondarsi come fanno e' legisti in sulle cavillazione e corteccie delle parole, ma andare drieto al vero senso ed intelletto delle cose, tanto piú che noi medesimi abbiamo prima che ora dichiarato questo articolo, ed in ogni maneggio presupposto sempre di essere obligati di dare aiuto a questa recuperazione.

E questa difficultá tra le altre abbiamo sempre allegato, prima al signor Ieronimo Adorno e poi al Caracciolo, e da altra banda stimolato tutto questo anno e' franzesi al passare, offrendoli lo aiuto a che siamo tenuti per li capituli, il che se non hanno fatto a' tempi che noi abbiamo instato, e datoci causa di protestare che provederemo a' fatti nostri, non per questo l'abbiamo fatto; in modo che, sendo venuto el caso che loro siano per passare, restano le obligazione nostre accese come prima, le quali quando ancora si potessino dire resolute, tanto piú osservandole ce ne resulta maggiore onore, ed è uno paragone tanto magnifico della constanzia di questo senato, e del conto che la tiene degli amici suoi etiam nelle avversitá, che non solo avendo occasione di guadagnare nome onorevole, non si debbe volerla pretermettere, ma doverremo cercare di ritenerlo, quando bene fussi con qualche danno e pericolo; perché le azione di una tanta signoria non si hanno a misurare come quelle de' mercatanti e de' privati, che el piú delle volte si dirizzano alla utilitá, ma debbono sempre avere per uno de' fini principali la magnificenzia, la degnitá, lo splendore.

Quanto alla utilitá, la cosa è chiarissima; perché è molto piú a proposito nostro che nello stato di Milano siano e' franzesi che lo imperadore, la grandezza del quale è troppo pericolosa al nostro dominio, perché oltre alli altri stati piú lontani, ha el regno di Napoli, ha el ducato di Austria che entra in corpo delle cose nostre, ha in Italia le ragione dello imperio ed el seguito della fazione ghibellina, che fanno formidoloso uno imperadore bene debole, non che uno che ha tanta potenzia; pretende ragione particulare in molte delle nostre terre, molte n'ha dominate lo avolo suo frescamente, ed in molte come sapete ha grandissime inclinazione; in modo che se a tanti fondamenti si aggiugne che si stabilisca nello stato di Milano, a noi non resta forma alcuna di poterci difendere. Da altro canto se e' franzesi lo pigliano, la vicinitá loro non ci porta alcuno pericolo, perché oltre che non aranno tante opportunitá di confinare con noi da piú parte, né pretendono ragione fresche allo stato nostro, né vi hanno le dependenzie che ha questo altro, né sono uomini atti o per virtú militare o per industria ed acume di ingegno a acquistare e conservare gli stati come sono gli spagnuoli.

Lo odio per tante ingiurie fresche e nuove, e per la emulazione che hanno con lo imperadore è tale ed el timore della potenzia ed arme sue, che aranno sempre vòlto lo occhio a questo, né aranno pensiero o occasione di travagliarci, anzi procureranno di stare sempre uniti con noi, cognoscendo che con la nostra coniunzione terranno sicure le cose di Italia. Hanno fatto esperienzia con suo danno che frutto gli abbia fatto la lega di Cambrai e la ruina nostra, e cognosciuto molte volte la virtú o la fortuna degli spagnuoli essere maggiore che la sua; però non abbiamo da temere che recuperato lo stato di Milano ritornino a quelle unione, né che mai pensino a partito o divisione alcuna per la quale lo imperadore abbia in Italia a vicinare seco, perché la esperienzia gli ha ammaestrati di quello che non insegnò loro la prudenzia. Sanza che, le ragione di quelli tempi furono molto diverse, perché Massimiano era in comparazione di questo uno debole principe; né messono allora in Italia ed in sua vicinitá uno re potente come questo, anzi di qualitá che per la debolezza e disordini suoi si poteva sperare che n'avessi a uscire presto, come sarebbe intervenuto se non si fussi poi di nuovo unito tutto el mondo a battere loro. Se la fortuna buona di Italia avessi potuto piú che la imprudenzia di Lodovico Sforza, e poi, che la nostra o troppa paura o troppa cupiditá, non sarebbono oltramontani in Italia, e questa sarebbe la felicitá di tutta questa provincia e spezialmente la nostra, che eravamo temuti da li altri, ed in fatto davamo, si può dire, le legge a tutti; ma poi che le cose sono scorse in luogo che non si può sperare che Italia sia sanza barberi, è molto meglio per noi e per li altri italiani che ce ne sia due, che uno, perché la emulazione che aranno questi dua potenti insieme, sará la guardia de' manco potenti, ed in spezie ciascuno fará a gara di intrattenere la nostra republica, perché in tal caso troppo importerá la potenzia nostra.

Ed io fo tutto questo discorso presupponendo che lo imperadore terrá per civetta nello stato di Milano Francesco Sforza, mentre ará bisogno di servirsene; ma se gli cessassino le difficoltá ed e' sospetti de' franzesi, quello ducato è sí grosso boccone che non s'ha da dubitare che lo leveranno via, e gli sará facile, sendo lui sanza forze, sanza appoggi e sanza riputazione. Non cognosciamo noi la astuzia e la avarizia spagnuola, non la cupiditá tedesca? non la ambizione naturale di tutti e' principi? Lui è sanza figliuoli, sanza fratelli, di complessione, secondo si intende, debole; potrá mancare facilmente di morte naturale o dare colore di qualche morte artificiosa. Non ci inganniamo in questo: se e' franzesi si escludono dalle cose di Italia, siamo pazzi se non tegnamo per certo che lo imperadore sará signore di Milano, e noi circundati da ogni banda ed in quelli pericoli che ho detto di sopra.

La nostra salute adunche consiste che e' franzesi recuperino el ducato di Milano, e questo è in mano nostra in caso che loro passino, perché aggiunto gli aiuti nostri alle forze loro, non veggo difficultá che non abbino a vincere la impresa, perché gli spagnuoli non solo non aranno modo da potere stare in campagna, ma non potranno per mancamento di danari difendere lungamente le terre, le quali hanno bisogno di grossa provisione. Milano è oramai per sí lunghe spese molto esausto; di Spagna hanno avuto sempre pochi e tardi sussidi; hanno nel reame di Napoli posto tante taglie ed alienate tante delle entrate della corona che si può dire ne possono aspettare pochi danari; questa contribuzione di Italia in che loro fanno fondamento, non dura se non tre mesi, e finiti quegli, el papa che con difficultá vi si è condotto, ed è stato persuaso che in questo tempo la guerra si ultimerá, o cesserá o allenterá di contribuire. E' fiorentini doppo e' tre mesi non potranno piú, sí grossa soma gli hanno posta; e loro vi sono venuti non per volontá ma per la potenzia del cardinale de' Medici; e' sanesi e lucchesi per paura. Però non solo si straccheranno con questo tempo, ma come vegghino e' franzesi in Italia e noi uniti con loro, tale ora tace che allora ardirá di parlare.

Nella impresa passata gli spagnuoli si valsono assai di danari del regno e di Milano, ed ebbono e' populi piú freschi e piú gagliardi che non sono ora; ed all'incontro e' franzesi ci vennono quasi a caso per soccorrere le reliquie dello stato di Milano e con poca provisione di danari, in modo che furono forzati a abbandonare presto la impresa; cose che ora saranno tutte in contrario, perché franzesi hanno avuto tempo a respirare e, secondo che si intende, hanno messo insieme grossa somma di danari; e perché hanno scoperto el modo della difesa di costoro, sapranno meglio governarsi; ed in effetto è da credere che la vittoria sará di chi potrá piú reggere la spesa, e questi saranno sanza dubio e' franzesi.

Resta considerare quello che sia da fare in caso che e' franzesi non passino. In che io tengo la medesima opinione, perché essendoci pericolosissimo che Cesare si faccia signore di Milano, la utilitá nostra ricerca che noi ci dilunghiamo da tutti quelli partiti che gli diano facultá di stabilirsi in quello stato; e se bene fussimo certi che e' franzesi non siano per passare di presente, non debbiamo levare loro le occasione, né quanto è in noi serrare loro la via di passare a altro tempo; perché mentre che lo imperadore temerá di questo, bisognerá che mantenga in Milano Francesco Sforza, ma assicurato da questo timore lo leverá cosí volentieri come lo potrá fare facilmente. A questo mi sará risposto che io direi bene se noi non ci tirassimo la guerra addosso, la quale sanza dubio ci sará mossa se noi non ci accordiamo con Cesare, ed e' franzesi non passino; e lo implicarsi ne' pericoli e spese presente o per interesse di altri o per fuggire le spese ed e' pericoli futuri, non è uficio di savi, e' quali sogliono ponere questa regola, che uno de' potenti rimedi che siano contra e' mali, è allungare quanto si può, perché el tempo per sé stesso porta seco spesso accidenti che te ne liberano. E sono ragione verissime, quando fussi vero che noi fussimo per avere la guerra; ma io credo el contrario, perché ancora che e' franzesi non passino, non hanno guerra in Francia né tali impedimenti che gli proibischino el passare; però ogni volta che costoro ci irritino, hanno da credere che noi fareno a' franzesi di quegli partiti che insino a ora non abbiamo voluto fare, e gli fareno passare, e cosí el romperci guerra per assicurarsi da' franzesi, non gli assicura ma gli mette in manifesto pericolo. Questa è la ragione che con tanti imbasciadori, con tanti prieghi e con tante summissione hanno cercato lo accordo nostro, il che non arebbono fatto se avessino veduto potersi assicurare da noi per via della guerra, la quale non cominceranno, sendo massime noi potenti e di danari e di terre forte come siamo, perché provocherebbono la venuta de' franzesi, ed allo arrivare loro si troverrebbono, nel molestare noi, consumate quelle contribuzione che hanno procurate con tanta difficultá per potere spenderle contro a' franzesi.

Invano adunche temiamo di questo pericolo; el quale se non ci muove, nessuna ragione ci debbe muovere di essere contro a quelli la vittoria di chi ci è utile, e fare grandi coloro che ci saranno sempre inimici. El variare sarebbe scusato quando la necessitá ci inducessi, ma la utilitá nostra è stare fermi, perché e' membri principali di Italia non venghino in mano di uno solo, ed alla degnitá nostra si conviene dimostrare constanzia e generositá, e che non temiamo di quelle cose che non sono da temere.

Dirò piú oltre, ma in questo voglio insistere poco per non parere di tôrre fede al vostro oratore, che molte ragione promettono che e' franzesi siano ora per passare; perché questo è certissimo che lo animo del re è acceso, anzi ostinato in questa impresa: ha avuto tempo di respirare e mettere danari insieme, e si intende che l'ha fatto, né si vede dal canto di lá preparazione che per molti mesi gli possa essere fatto guerra di Inghilterra e di Spagna; alle quali cose io presto piú fede che alle asserzione loro, massime che avendogli noi fatto piú volte intendere che sareno necessitati a pigliare partito, è credibile che accelereranno per non dare alli inimici le arme nostre, delle quali possono valersi per loro. E se pure e' passassino, collegati che noi fussimo con questi altri, pensate che dolore sarebbe el nostro, considerando avergli aspettato tanto tempo in mezzo di tante difficultá e di tanti inimici, e poi avergli abbandonati a punto quando venivano; e quanto saremo imputati apresso alle altre nazione, o di poca diligenzia, o di poca prudenzia, o di troppa timiditá. Né vi persuadete che se loro sono in procinto di passare, che lo accordarsi noi con questi altri gli faccia mutare sentenzia: non è questa la natura de' franzesi che per uno accidente nuovo ritardino uno moto giá cominciato, né la potenzia loro è tale, avendo massime questa opportunitá de' svizzeri, che anche ragionevolmente debbino farlo, perché aranno tante forze e tanta copia di danari, che non sará gran fatto che sanza tentare la fortuna consumino questi altri; e vincendo ci saranno inimici, e perdendo, vincono gli inimici nostri. Però faccendo fine al parlare, el parere mio è, che noi, o passando o non passando e' franzesi, non abbiamo da temere guerra da questi altri, e però che sia molto piú a proposito nostro non si discostare dalla amicizia loro, e dargli animo a venire in Italia per la salute nostra, che collegandoci con lo imperadore, inimico nostro naturale, dargli co' nostri danari occasione di stabilirsi nel ducato di Milano, acciò che fatto questo, lo stato nostro resti totalmente a discrezione sua.

 

 

 

IX

 

[Sullo stesso argomento.]

 

In contrario per la opinione che prevalse.

 

Quanto è piú importante, onorevoli senatori, la deliberazione che noi abbiamo a fare, tanto piú si conviene esaminarla bene, il che non si può fare se la non si disputa diligentemente; però non solo non debbe essere ributtato con interpretazioni strane chi viene in questo luogo a dire liberamente quello che gli intende, anzi merita essere laudato ed invitato, e si debbe riprendere chi si sforza, con dare carichi falsi, spaventare chi viene a dire la opinione sua; perché è officio di ognuno di voi dire largamente el suo parere, e detto che l'ha, rimettersi al iudicio del senato, né cercare con gare o con modi indiretti che la sentenzia sua prevaglia e che nessuno abbia ardire di contradirla.

E perché tra molte cose che occorrono considerarsi in questa materia, e dalle quali depende la vostra deliberazione, è una: considerare se è a proposito nostro che el re di Francia torni nella ducea di Milano, io comincierò da questa; e dico che io concorro che avendo a essere signori di Milano el re di Francia o lo imperadore, è manco pericoloso per noi che sia el re di Francia, per le ragione che sono state saviamente considerate. Ma non confesso giá che di necessitá abbia a essere l'uno de' dua, anzi se noi sareno savi, ho speranza non piccola che el duca di Milano vi s'abbia a stabilire, che è quello che sopra ogni cosa abbiamo a desiderare; perché, può essere che io mi inganni, ma io mi persuado che, se noi accordiamo con Cesare, che e' franzesi, se bene avessino deliberato di passare, se bene fussino mossi, muteranno sentenzia, né ardiranno venire contro a uno imperadore e la unione di tutta Italia, cosa che in tempo alcuno non hanno mai ardito di fare.

El re Carlo che fu el primo che venne in Italia, ancora che avessi el regno potentissimo, e che el nome franzese fussi spaventoso appresso a ogni nazione, e che con Inghilterra e Spagna fussi pacificato, non ardí venire alla impresa di Napoli, se non chiamato dal duca di Milano signore di Genova, ed assicurato, si può dire, che noi stessimo neutrali. El re Luigi non venne alla impresa di Milano se non accordati noi, e lasciataci una parte di quello stato, e fatta amicizia col papa. El medesimo re, ancora che giá duca di Milano, collegato con noi e seguíto quasi da tutto el resto di Italia, non fece la impresa di Napoli, se prima non partí el reame col re di Spagna; non roppe guerra contro a noi, se prima non si accordò seco tutto el mondo. Questo re Francesco, della ostinazione ed ardire del quale si dicono tante cose, se non avessi avuto lega con noi, non sarebbe venuto allo acquisto di Milano. Però quelle gagliardie che in altri tempi non hanno avuto ardire di fare, manco le faranno ragionevolmente ora, che per la guerra passata sono esausti, sono inviliti e sbattuti, avendo a venire contro a inimici da chi sí frescamente sono stati vinti, e non avendo di lá da' monti pace alcuna, ma da ogni banda sospetto di guerra. Ma che cerchiamo noi gli esempli piú vecchi? Non ci ricordiamo noi quante volte questo anno gli abbiamo stimulati al passare, offerendoli le gente a che eravamo tenuti per e' capituli vecchi? E se non gli è bastato l'animo, o non hanno potuto farlo avendo in compagnia noi, molto manco lo faranno avendoci contro.

E quando questo sia cosí, cioè che loro non passino, se noi accordereno con Cesare, a me pare che si apra la via di consolidare nello stato el presente duca di Milano; perché se el fine delle guerre tra questi dua re fussi che e' franzesi restassino sbattuti di sorte che lo imperadore potessi tenerne poco conto, io in tal caso crederrei che torrebbe lo stato di Milano per sé, e questo può facilmente intervenire se e' franzesi passano, perché potrebbono avere qualche rotta sí notabile, o tirarsi in Francia qualche umore di tale importanza, che non si temerebbe piú di loro; ma se loro non passano, bisognerá che Cesare proceda con rispetto nelle cose di Italia, satisfaccia a' popoli di Milano, tenga bene contenti noi e li altri, acciò che non richiamiamo in Italia e' franzesi. E le cose facilmente, o per accordo universale, o per invecchiare la impresa de' franzesi, o per accordare e' svizzeri col duca, potranno avere questa fine che el duca resti in Milano, e gli spagnuoli, non avendo causa di dimorare piú in Lombardia, si ritornino a Napoli.

Però a me pare che el perseverare nella amicizia franzese non sia altro che volere correre di presente pericoli e spese, per cercare che le cose abbino qualche fine pernizioso per noi; e pel contrario lo accordarsi con Cesare sia assicurare di presente lo stato nostro da ogni pericolo e spesa, con speranza che in futuro questi moti si abbino a riducere in qualche grado piacevole, massime che el ritornare e' franzesi in Milano, se è bene minore male che lo esservi Cesare, tamen per sé stesso è grande male, perché la vicinitá loro non fa per noi, come n'abbiamo fatto altra volta esperienzia, che sanza alcuna ragione si messono a precipitare per distruggerci. Né mi confido che abbino imparato a spese loro, e che non sia da credere che facessino unione con Cesare per riducerlo loro vicino, perché io mi riposerei in su queste ragione se gli cognoscessi prudenti, ma gli cognosco leggieri ed ambiziosi come sempre, ed essendo questo umore suo naturale, chi crede che l'abbino smaltito, crede lo impossibile.

Ricordomi ancora che innanzi alla lega di Cambrai, sendoci fatto instanzia dal re de' romani di accordarsi seco a' danni de' franzesi, furono allegate le medesime ragione, che non era da credere che e' franzesi mettessino in Italia e' tedeschi, perché quella vicinitá sarebbe loro troppo pericolosa, e per volere giudicare savi loro, che furono e saranno sempre pazzi, fu rifiutata quella amicizia; donde seguí la lega di Cambrai ed a noi tanti pericoli e disordini, che ancora gli sentiamo. Dunche l'avergli in Milano sará sempre pericoloso, massime che come vanno le cose del mondo, potrebbono anche a Cesare venire degli accidenti, che e' franzesi ne terrebbono poco conto; nel quale caso basterebbono loro soli a travagliarci. Però per noi non può nascere cosa buona, salvo che lo stabilire in Milano Francesco Sforza, ed a questo non ci è altra via che accordarci con Cesare; la quale se bene non siamo certi che ci conduca sicuramente a questo fine, pure se non ci conduce questa, nessuna altra lo fa; e debbiamo entrarci e cercare di vincere le difficultá e pericoli, massime che come è detto, ogni altro partito che noi pigliamo è piú pericoloso e pieno di spine.

Né sono io di opinione che, perseverando noi nella amicizia franzese, che la impresa di Milano gli riesca sí facile, perché io ci veggo le medesime difficultá e forse maggiori che nella impresa ultima, nella quale ebbono gli aiuti nostri e nondimanco la perderono. El modo del guerreggiare del signor Prospero, che è di farsi forte in dua o tre terre principaIi e non uscire alla campagna se non doppo molti mesi, è forte a proposito agli imperiali ed avverso a' franzesi, perché loro stanno drento nelle terre sanza pericolo, avendo massime Milano amicissimo come in veritá hanno, e dica el contrario chi vuole; ed e' franzesi, se fanno impresa di sforzarle, se ne partono con danno e con vergogna, come feciono l'altra volta da Milano; se si vogliono riducere a consumarli o per fame o per mancamento di danari, è cosa molto lunga e che stracca e logora e' franzesi, e' quali sono impetuosi e, come si mette tempo in mezzo, si raffreddano e disordinano in modo, che quando in capo di qualche mese gli imperiali escono in campagna, gli truovano giá sí deboli e confusi che sanza combattere gli vincono. Né credo io che abbino tanto mancamento di danari che non possino sostenersi per questa via, perché la contribuzione di questa lega è grossa, ed in capo di tre mesi el papa che è del seno di Cesare la prorogherá. El cardinale de' Medici, per essere nel grado che è con franzesi, fará el medesimo; cosí gli Adorni e gli altri minori bisognerá che cedino; da' mercatanti di Milano che sono molti e ricchissimi, sempre caveranno o per amore o per forza; e nel reame benché abbino alienato e cavato assai, vi resta ancora molto da alienare e cavare.

E la esperienzia mostra tuttodí che tutte le cose che hanno a finire per resoluzione e per logorarsi, hanno piú lunga vita che da principio non si capitula; perché e' rimedi degli uomini nelle necessitá sono molti, e non cognosciuti prima che la necessitá venga, e massime questa nazione che è sottile ed industriosa, e che, come spesso abbiamo veduto, serve al bisogno del principe suo con pochi danari. Dunche le difficultá de' franzesi saranno le medesime che nella altra guerra, né se ne difenderanno per avere scoperto el modo del guerreggiare di costoro, perché oltre che, etiam cognoscendole, le difficultá saranno le medesime, la esperienzia insegna a chi ha cervello capace a imparare, ma a' franzesi che sono di natura impazientissimi e poco consideratori delle cose, e che non sanno vivere altrimenti che a caso, nessuna esperienzia gli fará pigliare la pazienzia, né mai nelle loro azioni riceveranno lo ordine e la maturitá, perché la natura non glielo consente; e però tutto a mio iudicio torna in una conclusione, che el continuare con franzesi in amicizia ed el fargli passare ci mette in spesa ed in travagli, ed in pericolo di fare lo effetto contrario al bisogno nostro; e lo accordarci con Cesare ci libera da infinite spese e difficultá presente, e può in futuro essere la via della nostra salute.

E tutto quello che ho parlato insino a qui è stato in caso che e' franzesi, perseverando noi nella amicizia sua, passino; ma a tutti voi è noto quello che scrive el nostro imbasciadore, che nonostante le instanzie e le parole de' franzesi, lui non vede ordine di passare di presente; al quale se bene e' franzesi affermano el contrario, io presto fede come è conveniente, perché lui non ha interesse alcuno di dire altro che la veritá. Gli imbasciadori che si mandono fuori sono gli occhi e gli orecchi delle republiche, ed a loro si ha credere, non a quegli che hanno passione nelle cose. Sempre diranno e' franzesi di volere passare, come questo anno hanno detto molte volte, ancora che come ha mostro la esperienzia, non avessino modo di farlo; perché gli viene a proposito servirsi di questa riputazione per intrattenersi con noi e tenere sospesi gli altri; ma lo imbasciadore ha a referire quello che vede, e ragionevolmente non si può preparare una impresa sí grossa che non si vegga publicamente infiniti segni e movimenti. E piú facilmente dá a credere di volere fare una impresa chi non ha animo di farla, che non la cuopre chi la vuole fare, perché le demostrazioni si possono fare con simulazione sanza fare effetti, ma gli effetti di questa sorte è impossibile che si faccino, se non precedono le demonstrazioni necessarie; ed anche è piú da temere che uno imbasciadore che è apresso a uno principe gli creda e favorisca le cose sue piú che el debito, che le diminuisca o le abbatta.

Ci bisogna adunche credere, secondo ci scrive el nostro imbasciadore, che e' franzesi non passeranno questo anno, e presupposto questo, considerare se noi restiamo soli contro allo imperadore e tutto el resto di Italia, in che pericolo saranno le cose nostre; perché quando bene non ci facessino guerra, con le demostrazione sole di volerla rompere ci terranno in grande spesa; la quale noi non dobbiamo recusare quando è necessario, ma volerla fare per piacere e per interessi di altri non si può dire che non sia pazzia estrema, massime che noi sappiamo quanto debito ha questa signoria e con quanta difficultá e disordine si fanno le provisione de' danari. Sanza che, io non veggo cosa che ci assicuri che non ci abbia a essere rotta la guerra; perché el non passare e' franzesi bisogna che nasca da essere impediti o da mancamento di danari o dal timore della guerra di lá da' monti, o da qualche altra difficultá, e questo impedimento bisognerá che sia a notizia di costoro; e però ragionevolmente, vedendosi la opportunitá di non avere per qualche mese da temere la venuta de' franzesi, cercheranno assicurarsi di noi col farci guerra, la quale o sosterreno con grandissima spesa e pericolo, o sareno necessitati venire a qualche accordo disonorevole e dannoso, dove ora siamo pregati da tanti principi e lo possiamo fare con grandissima riputazione, e con partiti buoni, e con tanta sicurtá quanta si può avere in questi casi.

Noi abbiamo molte volte desiderato potere posare le cose nostre con Cesare con buona sua satisfazione; ora che ci è offerta la occasione, non so se sareno savi a lasciarla passare, massime che la è tale che per ora ci assicura ed è conveniente: pensiamo a' frangenti presenti, perché agli accidenti che succederanno di tempo in tempo, e' quali non si può giudicare quello che saranno, si piglierá partito alla giornata. Abbiamo per el passato avuto da' franzesi sanza alcuna ragione grandissimi mali, e quello poco di bene che ci hanno fatto è nato dalla utilitá loro; e nondimanco nelle loro difficultá siáno stati prontissimi: perduto in servizio loro grande parte delle gente nostre in Milano; soccorsigli poi con gente nuove in ogni luogo nella impresa ultima che feciono per la recuperazione; usciti di Italia gli abbiamo aspettati e chiamati, ed ancora che ci mancassino della promessa fatta di passare a primavera, siamo stati fermi insino a ora. Assai abbiamo satisfatto alla fede ed onore nostro, ed ecceduto di gran lunga le nostre obbligazioni: tempo è pensare a' fatti nostri ed alla sicurtá nostra; la quale ragione, ancora che e' capituli vegghiassino, ci libera da ogni promessa, perché el patto della difesa è reciproco, e ne' pericoli nostri loro sono obligati a difenderci, e noi a attendere prima alla difesa nostra che a aiutare le imprese di altri.

L'accordo con Cesare non è contro alla degnitá nostra: assicuraci da' pericoli presenti, liberaci di spesa, ed a giudicio mio è el principio a entrare nella via di consolidare el duca di Milano, ed in consequenzia riducere le cose di Italia in termini che ci sia la sicurtá e la quiete nostra. Lo stare co' franzesi ci mette in spesa ed in pericolo per gli interessi di altri, e tiene accesi e' travagli di Italia, in modo che è pericolo che alla fine non partorischino una grandezza dello imperadore tanto eccessiva, che lo stato nostro non vi possa resistere. Io ho detto liberamente quello che mi è occorso: a Dio piaccia indirizzare le vostre magnificenzie alla piú utile deliberazione.

 

 

 

X

 

[Sulla proposta di alleanza fatta da Carlo V

ai Veneziani.]

 

Doppo la cattura del re di Francìa ed andata sua in Spagna, trattavasi nel senato viniziano se si doveva fare lo accordo con Cesare, al quale instava lo oratore suo in Vinegia. Chi dissuadeva lo accordarsi parlò in questa sentenzia:

 

Dura, strana e quasi disperata, onorevoli senatori, è la presente consulta, perché in ogni partito a che noi ci voltiamo si riscontra grandissimi pericoli e difficultá; le quali sono sí implicate, che a volerle bene risolvere bisognerebbe avere piú del divino che dello umano, perché non basta el giudicio naturale in sí grandi viluppi a discernere el futuro; nondimanco è ufficio nostro non abandonare, in quanto per noi si può, la prudenzia né rimettere le deliberazione nostre al caso, e cosí non perdere di animo e di cuore, ma armarci di constanzia a tutto quello che possa succedere. Anzi, quanto e' pericoli sono maggiori e piú spaventosi, tanto piú ci bisogna aiutare da noi medesimi con la prudenzia e virilitá; con le quali cose, aggiunta la grazia di Dio, questa republica è altre volte uscita di gravissimi frangenti, e non abbiamo da desperarci che el medesimo abbia a succedere ora, pure che con lo aiutarci da noi diamo causa a Dio di volerci aiutare.

Noi presuppognamo tutti, per quanto io ho compreso ogni dí ne' nostri ragionamenti, che Cesare ci abbia malo animo, e che per lo appetito che ha di farsi signore di Italia, per lo odio e controversie antiche che la casa di Austria e lui hanno con noi, abbia a nuocerci in ogni occasione che ará di poterlo fare, o facciamo accordo con lui o no; perché questi rispetti possono piú apresso a' principi, che le fede e le capitulazione, massime che a chi ha malo animo e piú forze, non mancano ogni dí giustificazione. Però lo accordare con lui non ci assicura in perpetuo, né etiam per lungo tempo, ma fa solo questo effetto: che dove non faccendo lo accordo, ci fará forse guerra di presente, faccendolo, la differirá a altro tempo ed altre occasione. Né questa dilazione ci sará fatta per farci beneficio e commoditá, ché avendo desiderio di opprimerci come ha, s'ha a credere che ogni sua offerta ed amicizia sia insidiosa, ma perché lo accordo con noi gli viene a proposito per potere sanza ostaculo nostro attendere alli altri disegni suoi, e poi al tempo che gli sará commodo tornare a opprimerci con piú suo vantaggio.

Ci bisogna adunche considerare quale sia maggiore, o el beneficio che ci fa lo allungare la guerra seco, o el danno che ci risulti di dargli opportunitá di potere sanza rispetto ed opposizione nostra fondare le altre sue cose. Io non so vedere che lo allungare ci faccia altro beneficio che mandare in lá e' pericoli e travagli, con speranza che el tempo possa portare degli accidenti inopinati che ci liberino da questa fortuna; e però uno de' rimedi che sogliono dare e' savi nelle avversitá è che l'uomo si ingegni di differire el male quanto può, perché quando s'ha tempo, accade qualche volta che el caso ti libera da quegli mali da' quali non era bastante a liberarti la industria o forze tue. Pure questo è rimedio molto fallace, poi che non ha altro fondamento che di evento fortuito, e però è buono quando la dilazione all'incontro non augumenta el pericolo ed el male; ma quando el differire fa che el pericolo o che el male diventa maggiore, chi si governa con questa regola fa a giudicio mio come uno debitore, che per avere tempo a pagare, consente a usure grosse le quali augumentano sanza comparazione el danno suo; o come uno padrone di una nave, che stretto dalla fortuna, differisce tanto a gittare in mare parte delle sue robe per salvare el resto, sperando che pure la fortuna si possi mitigare, che poi alla fine o non è a tempo a salvarsi, o gli bisogna gittarne maggiore quantitá assai che non sarebbe bisognato da principio.

Noi siamo, se io non mi inganno, in termini simili, perché recusando lo accordo, se areno ora la guerra, lo inimico nostro è manco potente a offenderci, e noi abbiamo qualche speranza piú di poterci aiutare che non sará poi che, fatto lo accordo di presente, e datogli facultá con lo accordo nostro di colorire e' disegni suoi, tornerá con tutto el suo commodo a farci la guerra. Questo, quando io non ne vedessi altra ragione, me lo mostra abastanza la instanzia che fa Cesare con tutti e' modi ed e' minacci, perché noi ci accordiamo, il che non farebbe se non gli venissi a proposito; ed a noi che temiamo della grandezza sua è contraria ogni cosa che è commoda a lui; né può quasi errare uno che desideri sempre per regola el contrario di quello che cerca lo inimico suo. Ma dove si veggono le cose manifeste, non bisogna discorrere per conietture. Le cose di Cesare sono in grado, e la potenzia sua è sí formidolosa a ognuno, che ha da temere che per interrompere e' suoi disegni, non si faccia alla fine una unione del papa, duca di Milano, fiorentini e noi, fomentata da Inghilterra e franzesi; ed a questa sa che noi di Italia siamo disposti, se ci assicurassimo che e' franzesi, per la speranza che gli è data di recuperare el re per via di accordo, non ci mancassino sotto. E questa unione non solo sarebbe bastante a non lo lasciare crescere piú, ma a batterlo in Italia; ed a questo, quando veramente non voglia liberare el re, come insino a qui non si è veduto segno alcuno, non ha el migliore remedio che intrattenere quanto può e' franzesi in queste speranze.

Ma perché ragionevolmente non può andare molto a lungo con queste arti (ché bisogna o che lo accordo tra loro séguiti, o che e' franzesi presto si disperino) è necessario a lui, mentre tiene sospesi e' franzesi, fare qualche passo in Italia che lo assicuri dal pericolo, o che lo faccia piú potente a resistere [a] una piena che gli venissi adosso; ed a questo non ha la migliore via che accordare con noi; e' quali accordati, spaccerá subito el duca di Milano, che n'ha giá dato principio, e spacciato lui, volterá el papa ed e' fiorentini in sul verso che gli parrá, che non aranno rimedio; e cosí quando poi vorrá fare la guerra con noi, non solo ci ará levato la compagnia di costoro, ma si varrá a distruzione nostra delle forze e danari di quegli stati. E quello che è piú oltre, e' franzesi, se bene saranno disperati degli accordi ed accesi al passare ed invitati da noi, si raffredderanno molto quando vedranno cresciuto forze in grande quantitá allo inimico suo, ed a loro mancati quegli fondamenti de' quali arebbono sperato di valersi; dove se noi non facciamo questo accordo, questi imperiali staranno molto piú sospesi a manomettere Milano, el papa, fiorentini ed altri; e quando pure lo voglino fare, costoro avendo speranza della lega nostra, penseranno forse a difendersi, a che disperati di noi non potranno pensare; e se Cesare alla potenzia che ha in Italia aggiugne questi altri fondamenti, a noi non resta forma di poterci difendere.

Lo accordo nostro gli dá adunche occasione di assicurare e stabilire le cose sue; e pel contrario el non si accordare lo tiene piú sospeso ed in aria, e non ci toglie la speranza che a qualche tempo non siamo soli. E se si dicessi che a ogni modo, benché noi non ci accordiamo, questi altri si staranno sempre a vedere, perché non si può sperare unione di italiani se el papa non se ne fa capo, e della timiditá ed irresoluzione sua abbiamo veduto tanti esperimenti, che oramai siamo chiari non si può farvi fondamento, io risponderei che oppressato Milano, el papa e fiorentini, noi restiamo certissimi che non possiamo avergli piú con noi. Ma insino che sono vivi, potrebbono pure venire degli accidenti che concorrerebbono con noi, in caso cioè che e' franzesi desperati delle pratiche di Spagna, si risolvessino al passare in Italia; perché allora io credo pure che el papa, a chi siamo certi che dispiace questa grandezza, gli parrebbe vedere el giuoco tanto sicuro che piglierebbe le arme; e quando non le pigliassi, la speranza di farlo dichiarare farebbe piú gagliardi e' franzesi ed ognuno a questa impresa, e costoro, dubitando di non essere anche offesi da quella banda, arebbono tanto manco animo e riputazione; dove se saranno giá perduti, né gli inimici nostri arebbono causa di temerne, né gli amici di sperarne. Adunche poi che el non si accordare noi è mezzo verisimilmente di potere salvare questi altri, debbiamo fare ogni cosa per salvarli; non per beneficio loro, ché el papa non volendo aiutarsi da sé non merita essere aiutato da altri, ma per salute nostra, e perché, se mai le pratiche di Spagna si ridurranno in luogo che e' franzesi, cognoscendo essere ingannati, desiderino di passare in Italia come io spero che sará presto, che le cose non siano rovinate in modo che abbino a desistere da questo pensiero.

Da questa deliberazione ci può alienare el dubio che si ha che Cesare non accordi con Francia, nel quale accordo l'uno e l'altro convenga che noi andiamo in preda; e lo accordo può nascere da due cause: la prima, che Cesare vi abbia inclinazione come ha sempre detto di volere fare; la seconda, perché lo sdegno che ará con noi non volendo accordare seco ed el timore di queste unione quando e' franzesi saranno desperati, ve lo induca; e cosí essendo el principale nostro pericolo la unione di questi re, noi col non volere accordare con Cesare, lo augumentiamo. A questo io rispondo, che io non credo che lo accordo tra' re abbia effetto, perché non so vedere come vi abbia a essere la sicurtá, massime ora che e' franzesi, non temendo guerra in Francia per la lega fatta con Inghilterra, non hanno da precipitarsi per paura; però non penso accettino mai uno accordo nel quale si abbino a fidare che la liberazione del re abbia a stare a discrezione dello imperadore, massime che la cosa è andata tanto alla lunga che oramai possono comprendere che non generositá o desiderio di pace o amore lo induce alla liberazione, ma che lo accordo si faccia o per necessitá o per ingannare; e da altro canto Cesare non si può fidare, né avere mai sicurtá alcuna bastante a fargli credere che, liberato che sará el re di Francia, abbia a mettere in esecuzione capitoli che faccino Cesare signore dei mondo, e lui e gli altri principi schiavi suoi.

E che questo sia vero, ve lo mostra la instanzia che si fa a noi di questo accordo, la quale e' non farebbe se volessi accordarsi con franzesi, perché non gli servirebbe a niente, anzi, disegnando rovinarci col braccio di quella unione, gli sarebbe piú giustificazione e piú onore a non avere accordato l'uno dí con noi per mancarci l'altro. E quando lo accordo tra' re fussi in disposizione da dovere seguire, perché l'uno e l'altro vi avessi buona inclinazione, non seguirebbe né piú né manco per accordarci o non ci accordare noi, però in questo caso è frustratorio el disputarne; e non vi essendo questa inclinazione, come io non credo che vi sia, ed essendovi la diffidenzia come per necessitá vi è, né lo sdegno né la paura non faranno precipitare Cesare a questo accordo. Lo sdegno no, perché non è di natura da adirarsi a suo danno; manco la paura, perché ará de' modi da assicurarsi, col proponere qualche partito in Italia, che el papa e noi, Milano e gli altri restiamo sicuri dal sospetto che abbiamo di lui; il che potrebbe fare con piú facilitá e con manco pericolo, che non sarebbe lasciare uno re di Francia, el quale creda che liberato che sia gli abbia a essere inimico insieme con noi altri.

E sanza dubio se io non mi inganno, el liberare el re di Francia per timore della unione di tanti, lo mette in maggiore pericolo, che non lo mette lo assicurarsi di noi, per via di acconciare le cose in modo che a tutti esca el sospetto che lui si voglia fare signore di Italia, a che e' modi sono facili. Di poi quando questo accordo tra' re avessi pure a seguire, n'areno manco a temere, in quanto migliore grado saranno e' franzesi quando lo faranno, ed in quante piú difficultá sará Cesare; perché e' franzesi aranno minore causa di mettersi a discrezione, e lui quanto sará piú guidato dalla necessitá, tanto manco potrá dare le legge loro, ed in questi casi verisimilmente la liberazione del re sará la prima cosa. Io vi dimando: quando saranno piú in riputazione le cose de' franzesi, o accordato che noi areno con Cesare o non accordando? Certo, per le ragione dette di sopra, in minore riputazione assai saranno se noi facciamo lo accordo, perché gli mancherá la speranza di travagliare Cesare in Italia. Ecco adunche che lo accordo nostro, nella unione che loro facessino insieme, favorisce Cesare e gli fa tirare piú le cose a modo suo, e in consequenzia a danno nostro.

Concludo adunche che o la unione è per seguire ordinariamente tra questi re, ed in tale caso non è in considerazione lo accordo nostro o la nostra rottura, o la non è per seguire per le difficultá che ha, se sdegno o necessitá non induce Cesare, ed in questo caso a giudicio mio el nostro non si accordare non lo fará fare, perché ará degli altri rimedi migliori a assicurarsi di noi; ed in ogni evento che lo accordo séguiti, sará con tanto piú danno nostro quanto maggiore sia el disfavore de' franzesi al tempo del farlo. Confesso bene che la materia è sí difficile ed incerta, che io mi potrei ingannare in questo facillimamente, perché potrebbe essere che tra' re si trovassi de' modi delle sicurtá che io non veggo, ed anche potrebbe essere che per gli andamenti di questi mesi Cesare fussi tanto insospettito di noi e degli altri di Italia, che riputassi minore pericolo el fidarsi del re, benché non sia verisimile; e però el fondarsi in su questa opinione è pericolosissimo e da fuggire, se ci fussi una altra via per la quale si potessi andare con manco pericolo. Ma a me pare che volendo noi accordare con Cesare per fuggire el pericolo di questa unione tra Francia e lui, noi andiamo, come ho detto di sopra, alla ruina nostra certa ed in uno termine che noi non possiamo avere aiuto se non da casi ed accidenti inopinati, in su' quali soli fondarsi è pazzia; dove tenendo questa altra via, possiamo avere la medesima speranza delle venture non pensate, ed anche ci è pure qualche ragione da sperare di salvarsi.

Però se andando per questo cammino siamo certi che vi è la ruina nostra, siamo necessitati andare per questo altro, nel quale è pericoli assai ma non sanza speranza; la quale può parere a chi maggiore, a chi minore, ma non si può negare che speranza non ci sia. Non metto ancora per assoluto che non accettando noi lo accordo, ci abbia a essere rotta guerra di presente, perché rispetto alle terre forte ed e' modi che abbiamo di difenderci, la non è impresa sí facile che abbino a sperare di correrla, e le cose sono condizionate in modo, e saranno tanto piú se questa unione non si conclude presto, che el desperarci gli fa pericolo che noi non ci gittiamo a fare sí grassi partiti a' franzesi, che gli allettiamo a passare piú che non arebbono fatto per lo ordinario; ed anche non hanno costoro tanti danari, che gli abbino a volere spendere intorno alle nostre terre munitissime, per trovarsi poi esausti se qualche piena grande gli venissi adosso. Pure quando io fussi certo che fussino per farla, io non muterei sentenzia, perché meglio è che l'abbiamo ora che, come è detto, lo inimico nostro è manco atto a offenderci, che non sará a altro tempo, per la occasione che ará di farsi grandissimo, e levarci tutte le speranze de' sussidi mediante lo accordo nostro. Ed in questo bisogna che apparisca la vostra antica prudenzia e virilitá, che la paura de' mali presenti non vi muova tanto che per allungargli entriate in mali e pericoli molto maggiori.

È uficio di chi governa le cittá fuggire le guerre quanto si può, ma appartiene anche alla sapienzia loro anticipare una guerra molesta e pericolosa per fuggirne una piú molesta e piú pericolosa; il che agli altri può essere difficile, ma non debbe giá essere alla nostra republica, la quale oltre alla potenzia ed opportunitá che ha di difendersi, ha avuto tanti anni guerra con questi medesimi inimici, ed a tempo che avevamo perduto tanto dello stato nostro che non ci restava in terraferma altro che Padova e Trevigi, avevamo perduto in Vicentino lo esercito nostro, ed affaticati da grandissime spese, e nondimeno nel furore della guerra, sendo el re di Francia nostro collegato battuto in Francia con gli inghilesi, tutta Italia e svizzeri con questi altri, ci bastò lo animo recusare accordi assai tollerabili secondo le condizione de' tempi, ché ci era restituito, da Verona in fuora, tutto quello che ora tegnamo. Però sendo esperti ne' mali, ci debbe parere minore fatica di tornare a questi travagli, a' quali ci conduce la necessitá, e considerare che a sostenere la guerra presente non abbiamo manco cosa alcuna, che non siamo per avere se la ci sará fatta a altro tempo, ma ne abbiamo molte in favore nostro, che a altro tempo ci saranno tutte in contrario. Per le quali ragione io consiglio che lo accordo non si faccia. Conforto bene che si faccia ogni diligenzia per intrattenere questa pratica se si può, tanto che si vegga che esito abbino tra' re le pratiche di Spagna, perché da quelle si potrebbono variare assai le nostre deliberazione; ma quando non si possa, io consiglio che piú tosto di presente si pigli una guerra molesta e pericolosa, che la si differisca a altro tempo, per averla con molestia e pericolo sanza comparazione molto maggiore.

 

 

 

XI

 

[Sullo stesso argomento.]

 

In contrario.

 

Io lascerò, onorevoli senatori, e' proemi da parte, perché noi siamo in termini che ci bisogna piú conclusione che parole, ed è tanto cognosciuto da ognuno la importanza di questa deliberazione, che è superfluo lo avvertirlo. Lo imperadore ci ricerca di accordo con condizione, se non buone e secondo la degnitá di questa republica, almanco secondo la natura de' tempi assai tollerabile; ed in effetto tale, che se non ci fussi altro male che e' capitoli che si propongono, nessuno farebbe difficultá di accettarli; proponci la guerra di presente in caso che recusiamo lo accordo, e nessuno di noi è che dubiti questa essere guerra perniziosissima, la quale soli abbiamo a sostenere con uno principe sí potente e fortunato, con uno esercito dove sono buoni capitani e buoni soldati, e che sono in reputazione grande per la astuzia loro, per la virtú militare e per essere in sul corso delle vittorie. Noi da altro canto esausti per le lunghe e continue spese, né pari di esercito agli inimici, perché abbiamo soldati mercennari raccolti tumultuosamente donde si possono avere, né quello numero di buoni capitani che sarebbe necessario al modo che noi vogliamo tenere di difendere le terre; s'ha a fare la guerra in sul nostro, che oltre a essere pericolosissima per infiniti accidenti che possono nascere e di rebellione e di altri casi, ci torrá al primo colpo tutte le entrate e publiche e private di terraferma.

Ed in effetto non possiamo avere peggiore nuova che avere di presente questa guerra; però secondo le regole che danno e' savi, è uficio nostro allungare quanto possiamo, e fare ogni opera perché questo male che noi temiamo differisca a cominciare el piú che si può; atteso che le cose del mondo sono sí varie, che infiniti casi di morte ed altri accidenti che non possiamo pensare, possono in processo di tempo accadere, che ci liberrebbono di questo travaglio; ché, come dice el proverbio, chi ha tempo ha vita. E differirla non si può, se non col fare questo accordo el quale è alla fine, de' partiti cattivi, el manco malo. A questo, chi ha parlato innanzi a me ha risposto che el temporeggiare sarebbe buono se non si augumentassi el male, ma quanto piú si differisce, tanto el male diventa maggiore, perché si dá facultá agli inimici mediante lo accordo nostro di appropriarsi totalmente lo stato di Milano, acconciare a suo modo el papa e fiorentini, di natura che, se mai venissi tempo che e' franzesi desperati dello accordo volessino passare in Italia e collegarsi con noi, o non ardirebbono farlo vedendo gli inimici tanto cresciuti di forze e di riputazione, o se lo facessino, saremo piú deboli, valendosi gli imperiali de' danari e stati di coloro che se si fussino conservati sarebbono forse in compagnia nostra; però debbiamo fare ogni cosa perché non abbino tanta facilitá di stabilire el resto di Italia a suo proposito, e perché a' franzesi non abbia a mancare lo animo di passare; massime che le pratiche di Spagna sono in termine che ragionevolmente o seguiterá presto lo accordo, o' franzesi si despereranno avere la pace e si volteranno forse alla guerra.

In questo caso io sono di opinione diversa, perché non mi pare che se la guerra si differissi a altro tempo, che l'avessi a portare seco maggiore difficultá e pericoli che l'abbia di presente, anzi, che quelle medesime condizione che l'ará allora l'abbia anche ora, chi considera bene. Principalmente Milano è in termini che, o accordando o non accordando noi, non ha rimedio, perché da Milano in fuora hanno tutto lo stato in mano, e quello non è confortato da nessuno, non ha forze né sussidio alcuno, e poi che hanno preso el Morone, è levato via quanto vigore vi era: el duca inutile per la infirmitá grave, e perché ordinariamente è sanza consiglio e sanza cuore, in modo che non solo la cittá, ma ancora el castello a giudicio mio porta pericolo di qualche accordo. Del resto di Italia non accade parlare, perché tutto depende dal papa, el quale è sí timido ed irresoluto, che piú presto si lascia andare alla morte certa, che volere correre pericolo di morire, ed in effetto non è per muoversi se non a partiti sicurissimi, cioè in caso che si muovino franzesi e tutto el mondo. Però la conservazione sua e de' fiorentini ci fa poco o niente, non si potendo da loro sperare virilitá alcuna, ed essendo disarmati di sorte che sanza essere manomessi altrimenti, a ogni minima lettera di costoro gli sovveniranno di danari e di ciò che saranno ricerchi. Non veggo adunche che la conservazione di costoro ci faccia tanto frutto che per questo abbiamo a pigliare la guerra, massime che a giudicio mio quello che noi possiamo sperare a altro tempo da Francia non è diverso da quello che noi n'abbiamo veduto a' mesi passati; perché ci saranno sempre le medesime ragione e forse qualcuna piú. Se si fa la pace tra' re, il che io non credo per le difficultá che saviamente sono state allegate, questa è per noi mala nuova, ma è ancora peggiore se non areno accordato, perché sanza alcuno rispetto, o sanza aspettare altra giustificazione, areno subito la guerra adosso; dove se areno accordato, questo principe che fa pure professione di fede e di bontá vera o simulata, si vergognerá forse a romperci lo accordo innanzi che e' capituli siano asciutti. Né io aspetto che la pace tra loro possi essere tale, che el re di Francia non l'abbia a osservare, perché la sicurtá sará piú dal canto dello imperadore, poi che ha el giuoco in mano; e quando bene fussino del pari, questa nazione è tanto piú astuta, che sempre tratterá el franzese da balordo.

Se la pace tra questi re non si fa, io non spero meglio, perché allo spagnuolo non mancherá arte di trastullare la pratica in modo che con facilitá terrá piú lungamente in speranza la simplicitá del franzese; massime che Madama che ha el pondo, è donna ed è madre, da spiccarsi mal volentieri di queste speranze. E di poi quando bene e' franzesi desperassino dello accordo, io non spero che faccino la impresa di Italia, perché ora che hanno fatto la lega con Inghilterra non temono piú la guerra in Francia; però non gli muove la necessitá dello assicurarsi, massime che loro natura è non considerare e' pericoli lontani e stimare poco le cose che non sono presente. E' baroni e la nazione sono stracchi, ed abominano naturalmente la impresa di Italia, dove hanno perso tanta nobilitá; sono stati battuti tante volte, che hanno in orrore el nome di questa provincia; la speranza di recuperare el re per via della guerra di Italia, non gli moverá perché è cosa troppo lontana; el governo oltre alla madre è in piú principi, che forse tutti non desiderano la liberazione del re: sono di vari pareri, invidiosi l'uno dell'altro, ed in fatto franzesi pieni di leggerezza e di vanitá, ed inviliti per tante percosse, da' quali non abbiamo aspettare impresa prudente o virile.

Tirerenci adunche ora la guerra addosso sotto speranze che a giudicio mio el mancheranno, e perdereno quelli benefici che qualche volta porta seco el tempo; dove che accordando, la guerra si differisce, e può intratanto venire qualche aiuto alle cose nostre che noi non veggiamo; né per questo accordo si toglie la via di venire e' franzesi in Italia, quando loro vi si inclinassino, ed a noi paressi che e' progressi di Cesare fussino tali che fussi a proposito nostro el conducerli; perché avendo seco e' svizzeri e noi, ancora che questi avessino occupato lo stato di Milano e battuto el resto di Italia, possono gagliardamente tentare questa impresa; di che abbiamo veduto esperienzia, che altre volte l'hanno tentata con minore opportunitá e con piú ostaculi.

Questo re che ora è prigione, la prima impresa che e' fece in Italia doppo la incoronazione sua, ebbe contrario lo imperadore, el re di Spagna, svizzeri, papa Leone, fiorentini, e da noi in fuora, Italia tutta; e nondimeno con lo aiuto di noi soli ardí di farla e la ottenne. Però molto piú, volendo noi, potranno tentarla ora che saranno stimolati e forse aiutati da Inghilterra: arebbono e' svizzeri, che alle cose di Milano sono di grandissima importanza; e' popoli di Milano, che per desiderare uno duca particulare, gli sarebbono inimici vedendo costoro insignoriti dello stato; el resto di Italia quanto piú fussi oppresso da loro, piú forse in una tale occasione si risentirebbe per desperazione, o almanco non ne trarrebbono quella commoditá che speravano trarre dal papa e gli altri, quando volontari erano con loro. Non leva adunche lo accordo nostro la via a' franzesi di venire in Italia, se giá noi per non osservare la fede e le capitulazione recusassimo di unirsi con loro; sopra che non è al presente tempo di disputare, né di mettere sanza proposito in compromesso la fede publica, perché io sempre conforterei a osservare gli accordi quando non sono fatti per timore e per forza, perché in tale caso obligano piú presto la parola che la voluntá, e quando la ambizione ed andamenti di coloro con chi l'uomo ha capitulato, non si vedessino tali che ci dessino dottrina come ci avessimo a governare.

Considero piú oltre che tre cose sono di che abbiamo di temere: la guerra di presente, cioè in tempo che e' franzesi siano ancora attaccati alle speranze della pace, perché mentre che loro sono in questa pazzia, non possiamo sperare di loro che sono abagliati da questa speranza, né del papa ed altri di Italia che stanno irresoluti per el timore che la pace non séguiti, e di non patire da tutt'a dua; abbiamo da temere come gli altri della pace di questi re, che, seguendo, sará con espressi capituli a danno nostro; ed in ultimo che, non seguendo lo accordo tra loro, lo imperadore o passato che sará in Italia, o ingagliardite e fondate bene per altra via le cose sue, non ci rompa guerra; ne' quali pericoli tutti, se io non mi inganno, abbiamo piú disavantaggio non accordando che accordando. Perché quanto alla guerra di presente, ed in tempo che e' franzesi ancora pendono dalle speranze della pace, lo accordarci ce ne libera, che sanza dubio la manderá tanto oltre che loro saranno certificati; non accordando, abbiamo da temerla, come ne veggiamo le demostrazione, di che parlerò di sotto.

Quanto al secondo caso, se la pace si fa tra' re e lo imperadore ci voglia assaltare, l'avere accordato o no non ci giova né nuoce; pure potrebbe essere che la vergogna dello accordo sí frescamente fatto, ed el non avere colore alcuno di giustificazione, gli fussi freno almanco a differire qualche tempo, e cosí in questo caso l'avere noi accordato non ci può nuocere; piú tosto ci può giovare almanco a darci qualche dilazione, che a chi è in partiti stretti non è di poco beneficio. Nel terzo caso, cioè quando e' franzesi siano disperati della pace, non veggo che lo accordo nostro ci nuoca, perché se lo imperadore ci vorrá offendere, potreno valerci de' franzesi, quando avessino voluntá di passare in Italia, non altrimenti che se lo accordo non fussi fatto, massime che le forze loro, de' svizzeri e nostre, saranno bastante a ogni impresa; e quello beneficio che noi potremo sperare dal papa e gli altri di Italia, non è in questo caso sí grande né sí certo, che per questo abbiamo a volere perdere di godere el beneficio del tempo, dal quale possiamo sperare molto piú. E se lo imperadore, ancora che ci avessi malo animo, pensassi a fare prima guerra in Francia che offendere noi, questa impresa potrebbe tirarsi drieto tante difficultá e tanti casi, che questa sí lunga dilazione sarebbe la salute nostra.

Però in qualunque di questi tre casi, da' quali dependono e' pericoli nostri, o el fare lo accordo ci reca qualche frutto, o non ci dá tale danno che non sia molto piú utile godere, come dicono e' savi, el beneficio del tempo. E perché quello pericolo che importa piú è la pace tra' re, conciosiaché in questo caso potremo essere battuti tra le forze dell'uno e dell'altro, ed almanco non spereremo aiuto da nessuno, non è da dubitare che el recusare noi lo accordo con Cesare, è una delle grandi cagione che lo possino disporre a questa pace; perché sará certo che noi siamo parati a chiamare e' franzesi in Italia e fare qualche unione pericolosa alla grandezza sua, la quale non può interrompere piú sicuramente che col fare pace col re, ogni volta che truovi mezzo da potere essere sicuro di lui almeno per qualche tempo, il che non gli doverrá mancare. E questo gli sará piú utile modo che cercare di assicurare Italia dalla grandezza sua, perché questo non può fare se non lascia libero al duca di Milano lo stato suo, e ritira tutte le gente nel reame, e depone e' pensieri di passare personalmente in Italia; la quale sicurtá oltre che lui non ci può dare sanza sospetto di sé medesimo, perderebbe tutte le occasione e speranze di acquistare stati, che gli ha dato la cattura del re di Francia, né arebbe di questa vittoria guadagnato altro che la persona del re in prigione, la quale gli servirebbe a niente. Però è da credere che piú presto con liberare el re cercherá di guadagnare el dominio di Italia, che volere col tenerlo prigione non guadagnare niente.

El non accordare dunche noi facilita la pace co' re, la quale è a noi perniziosissima; ed essendo tutti e' pericoli nostri grandissimi, ma maggiori questi dua, la pace de' re e la guerra presente, noi col non accordare diamo quasi necessitá allo imperadore di fare la pace, la quale fatta, restiano sanza dubio abandonati da ognuno, ed a sua discrezione; e col non accordare ci tiriamo ora adosso la guerra, la quale io credo che loro ci abbino a fare, perché non per questo multiplicano spese, sendo forzati a ogni modo, mentre che le pratiche di Spagna stanno sospese, tenere lo esercito medesimo che hanno: nutriranno le gente in sul paese nostro, e sgraverranno el loro, donde disegnano trarre entrate ed utilitá. Stando in guerra, mantengono la riputazione delle arme; ed e' capitani, massime el marchese di Pescara, desidera di avere occasione di fare qualche effetto utile a Cesare. Non vanno a pericolo di perdere niente, e se venissi loro fatto di pigliare qualcuna delle nostre cittá, ci arebbono apiccato uno ferro adosso che non ce lo caveremo a nostro piacere; né stimeranno el pericolo di irritarci a fare partiti larghi a' franzesi, perché veduto che noi recusiamo lo accordo, saranno chiari che a ogni modo, sanza essere altrimenti irritati, questo sia el disegno nostro, anzi giudicheranno che a questo male sia a proposito el farci spendere.

In somma io credo che non accordando areno la guerra di presente, e guerra di tanto travaglio e pericolo che debbiamo fare ogni cosa per fuggirla, o almanco differirla quanto si può, massime che la dilazione ci può portare infiniti benefici e la liberazione di tutto questo male, né può a iudicio mio farci male alcuno che sia di molta importanza; ed è uficio nostro ricordarci che le cose del mondo sono tanto incerte e sottoposte a tanti e sí vari accidenti, che gli uomini etiam savi non sanno fare giudicio del futuro, e rade volte succede cosa che sia conietturato da loro. Però chi al presente si priva di uno bene, o si sottomette in uno male per paura di quello che ha a venire, si inganna spesso, perché molte volte quello di che dubitava non viene, e si truova sanza proposito per timore vano ed incerto avere patito di presente. Commendo bene che, come ha detto saviamente chi ha parlato innanzi a me, si faccia ogni opera che si può per intrattenere la pratica sanza rottura, benché le cose sono tanto ristrette che in questo si può sperare poco; ma quando sia necessario o fare lo accordo di presente o pigliare la guerra, io giudico che sanza comparazione sia minore male lo accordare. El nostro Signore Dio in partiti sí difficili allumini per sua grazia la mente vostra.

 

 

 

XII

 

[Sulla proposta di alleanza fatta da Carlo V

a Clemente VII.]

 

Debbono desiderare e' príncipi, Beatissimo Padre, che le cose sue vadino tranquille e prospere in modo che sanza difficultá conservino la degnitá e grandezza loro; e se pure gli viene adosso qualche avversitá, che almanco la sia tale che abbino a provedervi piú presto con molestia che con pericolo. Nondimeno perché nessuno per grande che sia può promettersi queste felicitá, ed essere sicuro di non avere qualche volta in pericolo la autoritá e grado suo, e vengono molti accidenti che non gli provedendo sono pericolosi, e non si possono provedere sanza pericolo, bisogna che el principe abbia prudenzia e virilitá per potere usare l'una e l'altra nelle avversitá simili. La prudenzia bisogna, perché, poi che è in caso che è necessitato o incorrere nel pericolo o cacciarlo con pericolo, non solo per discernere el remedio, ma eziandio per considerare la natura de' pericoli, e quale è minore e quale fa manco mali effetti, perché sarebbe pazzia per fuggire uno pericolo incerto, correre in uno pericolo certo, per fuggire uno pericolo di uno male, pigliare uno remedio che fussi equalmente pericoloso, ma di maggiore male; bisogna la virilitá, per non avere piú paura che si convenga de' pericoli che tu vuoi cacciare, e perché quando siamo in caso che è bene usare uno rimedio pericoloso, che la timiditá non ti ritenga e faccia che o el rimedio che tu vuoi usare ti paia piú pericoloso che non è in veritá, o che per non entrare in uno pericolo presente, tu lasci piú tosto per differire venire lentamente addosso el male maggiore.

A te, Beatissimo Padre, la fortuna dette uno principio di pontificato molto turbulento, ed ha fatto poi o la voluntá di Dio o la disposizione de' fati che le cose tue sono ridotte in grandissime difficultá; perché da uno canto ti è pericolosissimo lasciare crescere la grandezza dello imperadore, da altro canto ti è pericolosissimo tentare di opponertegli: sei adunche in termine che è pericolo a stare, pericolo a fare. Però volendo in tanto frangente governarti con la prudenzia e virilitá, le quali bisognano alla Santitá Tua tanto maggiore, quanto e' pericoli che si propongono sono maggiori, è necessario esaminare maturamente se la Santitá Tua ha causa di temere dello imperadore, e che hai da temere; e di poi di che qualitá siano e' pericoli ne' quali si entrerrebbe volendo provedere, cioè quanto siano pericolosi e che mettino in pericolo. E discorso sottilmente tutti questi punti, calculare quello che sia piú pericoloso o lo stare o el provedere, e se è maggiore posta o quella che si mette in pericolo stando, o quella che si mette in pericolo provedendo; e misurato con queste regole quale pericolo sia piú da stimare ed in consequenzia che sia meglio, o opporsi a questa grandezza o no, non si ritirare da quella deliberazione che parrá manco pericolosa, per timiditá né per poco animo.

Che Tua Santitá abbia da temere, ci sono le ragione pronte; perché s'ha a credere che Cesare desideri accrescere la potenzia sua, come fanno gli altri príncipi e ciascuno nel grado suo, e che in tanta occasione aspiri al dominio di Italia, a che ha la via facilissima; nella quale provincia tenendo la Chiesa apostolica tanto stato quanto tiene, ed a te essendo aggiunto lo stato di Firenze, è troppa parte questa da essere disprezzata da uno che aspiri al tutto; ed in termini pari aresti da temere da ogni principe che avessi tanta opportunitá, ma molto piú dallo imperadore, el quale non solo in Roma, e nelle altre terre che tiene la Chiesa, ed in Firenze, pretende titolo e ragione, ma sa ancora che lo imperadore ha una certa connessitá con la Chiesa, che in uno certo modo gli appartiene pensare alla reformazione e buoni ordini di quella; e si ricorda solere essere tanta la autoritá degli imperadori, che non valeva la elezione di uno pontefice se non confermato da loro. Però se vorrá riducere lo imperio in quella degnitá e potenzia che era, non gli parrá occupare quello di altri, non spogliare persona, ma recuperare el suo e reintegrarsi di quello che giá gli antecessori suoi hanno posseduto. La quale opinione di iustizia non solo sará abbracciata da uno principe ambizioso per colore del suo procedere, ma ará ancora forza di persuasione in uno principe buono, perché è facile darsi a credere le cose che fanno per sé, e massime quando quelli che sono intorno persuadono e stimolano al medesimo.

Non ti difende adunche da questo pericolo la bontá dello imperadore, o vera o simulata che la sia; non la amicizia che tu abbia in lui o la fede che lui possa avere in te, perché quando tra voi non si fussi mai proceduto se non sinceramente e sanza simulazione, il che Tua Santitá sa piú che non so io, non può tra principi essere amore o confidenzia quando e' fini non solo sono diversi, ma quello che è utile all'uno nuoce allo altro. Né ti difende che la potenzia tua sia sí poca che non abbia da tenerne conto, e però non ha a pensare di deprimerla; perché insino che lui non ha rovinato e' viniziani, non ha battuto e' franzesi in Francia, la potenzia di ogni papa, e la tua massime che hai lo stato della Chiesa grandissimo e quello di Firenze, è formidabile. Però dal canto suo né dal tuo non è ragione che ti assicuri, se giá non fussi chi dicessi che tu sia giá venuto in concetto di essere sí da poco e sí ignaro, che per questo rispetto non abbia a essere temuto, ma sprezzato; cosa che non è vera, né voglio che per questa opinione tu ti confidi o tu ti avvilisca. Hai adunche da temere di Cesare perché è certo che non si provedendo sará in potestá sua el farti male; ed è quasi certo che te ne fará.

Resta ora considerare di che qualitá sará questo male di che tu debbi temere; in che io non so cognoscere che non s'abbia a temere di mali grandissimi, perché se ti vorrá abbassare o per ambizione o per assicurarsi, bisogna ti abbassi assai, perché togliendoti poco non satisfarebbe né all'uno né all'altro fine: però s'ha a credere che principalmente ti leverá lo stato di Firenze, il che può fare con grande iustificazione, non sendo cosa ecclesiastica, e doppo questo procederá piú oltre, perché, lasciandoti tutto lo stato ecclesiastico, non resterebbe assicurato di te abastanza, e come ará cominciato a offenderti, gli parrá essere necessitato a andare piú innanzi, e ridurti in termine che non abbia per conto nessuno piú da temerti, il che non potrá fare se non ti toglie buona parte dello stato che tiene la Chiesa. E forse, perché la autoritá di uno pontefice, se non si mutano ordini nella Chiesa è grande, e potrebbono venire accidenti che etiam così smembrato saresti di importanza, penserá piú oltre, o a volere uno pontefice di chi si possa confidare, e cosí deporti per via di uno concilio, o pure con uno concilio limitare di sorte la autoritá de' pontefici, che tu abbia a restare piú presto vescovo di Roma che papa. La facilitá che ha di farlo è grande, perché oltre alle provincie che lui comanda, sai che per el malo concetto in che è el clero apresso a' laici, la Germania non desidera altro, e la Italia vi sará pronta; e questo modo, oltre a che può parere iustificato, perché si fará con colore di ragione, può anche parere iusto allo imperadore, presupponendosi lui la reformazione del clero la quale poi seguiterebbe o no, secondo che Dio volessi.

Hai adunche da temere o di essere ridotto a piccolo papa, o venire a quegli estremi mali che a te non si possono considerare maggiori, e questo al piú lungo a una venuta sua in Italia, o a uno accordo che facessi con franzesi a suo modo; e forse potrebbe cominciare di presente, perché avendo e' viniziani inimici, e non essendo sicuro che e' franzesi non si risolvino a passare in Italia, ha piú da temere di te ora, che non ará quando le cose fussino ridotte a uno de' dua casi. E però io non dico quanto a concili e deposizione, perché queste non può tentare se non ne' termini sopra detti, ma quanto a mutare lo stato di Firenze, a che, per essere tu disarmato ed a discrezione, ha grandissima facilitá, io non mi maraviglierei che lo facessino di presente, perché questo sarebbe uno grande smembrarti, e forse a travagliarti le cose di Roma con le arme de' Colonnesi, e' quali vedendo la occasione ti piglierebbono cosí sicuramente come fece Sciarra Colonna a Bonifazio. Pure quanto al tempo, Tua Santitá che ha notizia di infiniti particulari che non so io, lo può giudicare meglio che nessuno. Ma quomodocunque sit, nessuno non negherá che se non si fa opposizione a questa grandezza, tu hai a temere grandissima ruina, cioè o quella estrema o vicina, perché ti riduci a discrezione sua, el quale ha molte cause e quasi necessitá di fare questo effetto.

E se tu ti lasciassi pure ingannare dalla professione che lui fa di bontá, e massime che andando le cose sue prospere e tanto piú accordando con Francia, ará manco necessitá di fare questi effetti, non si può almanco negare che la grandezza sua, etiam non ti mutilando niente del tuo stato, ti toglie tutta la autoritá, tutta la degnitá, tutta la maiestá di principe; perché sará sí grande che arai a ubidire a' cenni suoi e fare ogni diligenzia ed usare ogni servitú perché non si alteri la sua buona disposizione, ed in effetto t'arai a raccomandare a lui ed a' suoi, che è quello grado che e' savi dicono che uno principe debbe fuggire quanto la morte, perché quando è condotto qui, è principe in nome, ma in fatto è ogni altra cosa che principe; ed a chi è uso a dominare el mondo ed essere stimato ed ambito da grandissimi príncipi, e quello che è solito a dare el moto alle cose, come eri tu a tempo di Lione, e come da uno tempo in qua sono stati gli antecessori tuoi, io non so quanto sia minore male che la morte e la perdita degli stati, el ridursi in condizione tale. Adunche quello male che tra tutti è el minore e che non si può fuggire, è grandissimo, e quegli estremi se non sono sí certi sono molto verisimili.

Consideriamo ora, volendo tentare e' rimedi, che pericolo e' portino, e quanto sia certo el pericolo che hanno seco. E' non è dubio che faccendo impresa contro alla grandezza di Cesare e succumbendo, che sarebbe la ruina totale di Tua Santitá, e gli ultimi mali che tu potessi avere da lui, perché per tutti rispetti ti tratterebbe totalmente da inimico; e però quando e' rimedi fussino pericolosi quanto el non provedere, meglio sarebbe starsi, perché in questo caso non s'ha certezza di avere gli ultimi mali, ma tentando le provisione e succumbendo, s'hanno a mettere al certo. Ma quando e' rimedi fussino manco pericolosi che el non provedere, non si debbono pretermettere, ancora che la ruina in questo caso fussi maggiore, perché chi teme di uno male gravissimo e vede che vi è qualche provisione, benché pericolosa, non debbe pretermetterla per dire: se la non riesce io sarò rovinato totalmente; altrimenti nessuno arebbe a pigliare la guerra, o a mettersi a altro pericolo per difendersi da' pericoli, perché communemente el fine di queste cose è che chi succumbe ha e' mali estremi, e patisce molto piú che non arebbe fatto se avessi ceduto.

A deliberare adunche se si debbe pigliare impresa per opporsi a uno grave pericolo, non s'ha a considerare quale sia maggiore, o el male che aresti opponendoti e perdendo, o el male che sei per avere non ti opponendo, ma si debbe considerare quale sia piú certo; e quando tu vedi che non ti opponendo arai al certo male grande, ed opponendoti potrá essere che ti liberrai dal male, ma non ti liberando arai maggiore male che se non ti fussi opposto, io dico che in questo caso hai a opporti ed a volere piú presto correre el pericolo di maggiore male per la speranza di poterti liberare, che aspettare el male minore sanza speranza alcuna di poterlo fuggire; presupponendo però che etiam in questo caso el male che tu aspetti sia grande, perché se fussi uno piccolo male, è articolo che ricerca altre considerazione, nelle quali io non entro perché non è necessario a' termini nostri.

Discorriamo adunche la natura de' rimedi: el primo rimedio e migliore che ci possi essere, è che e' franzesi voglino concorrere alla impresa di Italia con papa, viniziani, svizzeri e gli altri che ci restano; el quale ha dua pericoli: l'uno, che è commune a tutte le guerre, e' fini delle quale sono incerti, né si può farne giudicio ne' princípi, ancora che si vegga piú gagliarda una parte che l'altra; ed in questo non bisogna fermarsi, perché el male è sí grande ed è ridotto in luogo, che uno rimedio che non ha altro dubio che questi generali, non si può recusare. L'altro pericolo che ha questa unione, è che, cominciata che sará la guerra, non séguiti accordo tra questi re, per el quale non solo ci manchi lo aiuto de' franzesi, ma ancora abbiamo contro le forze dell'uno e dell'altro; e questo pericolo è maggiore che non era a tempo delle pratiche de' mesi passati, perché ora gli imperiali sono sí ingrossati di gente e fatti padroni delle terre di Lombardia, che non si possono cacciare sanza difficultá e dilazione di tempo come si poteva allora, e però ci sará tanta piú commoditá a fare accordo o a introducere nuove pratiche che raffreddino e' franzesi.

Questo caso non si può negare che non sia pericolosissimo e la chiave del giuoco, con la quale gli imperiali hanno doppo la cattura del re condotto le cose loro; nondimanco a chi è in termine quasi disperato come è Tua Santitá, non debbe fare paura el pigliare questo pericolo, perché ha pure seco speranza assai di salvarsi. Lo accordo è ora difficile come si vede per esperienzia, ma sanza comparazione sará molto piú difficile se di nuovo si viene tra loro alle arme, perché si turberá ogni pratica e ragionevolmente non sará accettato accordo da' franzesi, se non ha seco immediate la liberazione del re; la quale quando sia la prima esecuzione che si faccia, e' mali che si temono da quello accordo diventano molto minori non sendo da credere che el re libero, e liberato piú per necessitá che per umanitá, persista nella ruina sua per osservare le promesse violente; però se ci fussi facultá di avere questo rimedio, non ci è in contrario nessuna ragione probabile.

Ma se e' franzesi stanno irresoluti, el secondo rimedio che ci sia, presupponendo potere avere svizzeri, unirsi con viniziani, non per assaltare gli imperiali nello stato di Milano, che sarebbe troppa impresa, ma per essere armato e prevedere che costoro non faccino maggiori progressi insino che si vegga lo esito delle pratiche di Spagna, ed anche per soccorrere el duca di Milano, se si vedessi qualche occasìone; questo rimedio ha el pericolo dello accordo de' re, maggiore che non ha el primo, perché vi si troverrá modo piú facile ogni volta che lo imperadore vi si disponga, innanzi che le pratiche che ora sono in piede si rompino, ed innanzi che tra franzesi e lui nasca nuova rottura. Ha ancora el pericolo del fine ordinario della guerra, molto maggiore che non ha el primo, mancandoci le forze e danari de' franzesi, perché costoro hanno buoni capitani e buono esercito, ed e' nostri sono della sorte che sono; e sarebbe el pericolo tanto maggiore, se costoro avessino via di potere, a dispetto de' viniziani, fare venire nuovi lanzichenech, perché avendosi a ingrossare tanto di gente sarebbe difficultá che el papa e viniziani soli sostenessino tanta spesa, e massime mancandoci ora el duca di Ferrara, el quale alienare e desperare in questi tempi che agitur de summa rei, è stata estrema pazzia.

Ora in questo io non so risolvermi, perché non so che possiamo sperare de' svizzeri sanza fomento de' franzesi; non so a che gente si obligherebbono e' viniziani, né quello che possa fare la borsa del papa, al quale tocca a pensarci piú che a altri, perché el primo percosso sarebbe lo stato suo e de' fiorentini, per non essere forte come quello de' viniziani. Ma dico bene che se lui potessi sperare di conducere le cose in difficultá, che sarebbe pure meglio di avere qualche spezie di sicurtá, che stare a discrezione di costoro, massime se gli è in grado con costoro, che dubita di non essere offeso di presente, perché in tale caso la necessitá lo strigne a gittarsi a ogni rimedio etiam precipitoso; ma quando gli paressi che e' pericoli suoi avessino tempo, non sarebbe da tentare uno rimedio che avessi poca speranza, insino non si vedessi dove si riduce questa speranza dello accordo che tiene sospesi e' franzesi. Ricordo bene che quando el dubio del capitare male sia pari e provedendo e non provedendo, che è meglio provedere, perché aspettare la morte sanza provisione in contrario è una somma ignavia e da lasciare di sé una memoria infame; sanza che, a chi non si aiuta né Dio suole, né la fortuna può aiutare, ma a chi si aiuta Dio ha compassione, e la fortuna amore, e spesso a chi audacemente si getta ne' pericoli, fa succedere, contro a ogni ragione ed ogni speranza, effetti felicissimi. Sarebbe bene in ogni evento necessario, che la Santitá Tua risolvessi in quale caso e se la vuole o può fare rimedi, perché el procedere irresoluto non può se non nuocere incomparabilmente.

Se la fine ha a essere che tu abbia a aspettare la discrezione di Cesare sanza tentare remedi, quanto piú presto ne sei resoluto, meglio è, perché stando sospeso e non si lasciando intendere, lo insospettisci e lo irriti tuttavia piú, dove el bisogno tuo sarebbe cercare di assicurarlo e mitigarlo; ma se la fine ha a essere che tu abbia a gettarti a' rimedi tali quali saranno, la dilazione del resolverti è perniziosissima, perché con la irresoluzione tua si va tuttavia consumando di quelli remedi che ci sono. El duca di Ferrara è alienato, el quale se tu fussi stato resoluto di pigliare le arme, aresti intrattenuto; Milano è perduto, che si poteva confortare e non lasciare perire; perseverando tu in irresoluzione, ti sará forse mutato, sotto lo stato di Firenze; forse e' viniziani per differire e' loro travagli si accorderanno; e cosí le resoluzione che tu volessi poi fare non sarebbono a tempo. Confesso bene che se tu sei determinato non volere pigliare le arme sanza la lega de' franzesi, che tu sei necessitato aspettare la resoluzione loro; ma vorrei che almeno tu avessi tante arme, che costoro non potessino, mentre che e' franzesi stanno sospesi, mutarti lo stato di Firenze, o metterti in qualche altro disordine. Ma se tu sei in grado che la necessitá ti sforzi a pigliare le arme etiam sanza e' franzesi, quanto piú differisce Tua Santitá, tanto piú accresce le sue difficultá e pericoli.

 

 

 

XIII

 

[Ragioni che consigliano a Clemente VII

di accordarsi con Carlo V.]

 

Disputavasi innanzi a papa Clemente doppo la arrivata del delegato alla corte di Cesare e la partita di madama d'Alanson con la rottura delle pratiche della concordia tra lui e franzesi, se Sua Santitá doveva ristringersi in nuova confederazione con lo imperadore, quale gli era offerta con condizioni oneste e ragionevoli, overo temporeggiarsi per vedere le resoluzione de' franzesi. Sopra che, parlò come séguita chi consigliava Sua Santitá a intendersi bene con Cesare:

 

Io parlerò piú per obedire a Vostra Santitá che perché mi venga da cuore, avendo veduto, non dico che e' ricordi miei non siano stati accetti, di che uno servidore non si può lamentare, ma che io sia venuto a sospetto come troppo affezionato alle cose di Cesare; e nondimanco se io fussi stato creduto, non sarebbe Vostra Santitá e gli altri di Italia nelle difficultá che ora è. Perché se doppo la assunzione del papato, avessi continuato di favorire quella parte la quale, per avere lei procurata la grandezza sua, gli era obligata e schiava, e non cominciato a promettere al re, insino in Francia, la neutralitá, era facile cosa che lui non passassi, e le cose di Cesare non sarebbono diventate sí grande che fussino formidabile a Vostra Beatitudine. Anzi lui sentendoseli obligato ed avendo bisogno di conservarsela amica, gli sarebbe sempre stato ossequentissimo figliuolo, ed almanco se Vostra Santitá, o per fuggire la spesa o parendoli via piú sicura o piú conveniente a uno pontefice, si risolveva essere neutrale, avessi, come in secondo luogo io la confortavo, conservato sempre la neutralitá totalmente, e non col capitulare col re di Francia in sul colmo della guerra avessi dato ombra agli imperiali, ed offesigli col lasciare passare le munizione, col consentire el transito al duca di Albania, e per piú crescere e' sospetti e le querele, servitosi sanza alcuna necessitá delle loro gente nelle cose di Siena, se fussi, dico, stata totalmente neutrale, non sarebbe per la vittoria di Pavia spaventata tanto, che gli fussi bisognato, per fuggire una ruina, fare con loro nuovi capituli e perdere assai della sua degnitá.

E se pure doppo tanti inconvenienti avessi prestato piú fede a me di quello che io dicevo della buona mente di Cesare, e della devozione sua alla Sedia apostolica, e non lasciatasi persuadere el contrario da chi desidera farla saltare, e non attribuito a lui quello che procedeva da qualche suo ministro di qua, parte per la loro mala natura e parte per la condizione de' tempi, non arebbe intromessosi in pratica alcuna contro a Cesare, e considerando quanto era grande, e quanto fondata la vittoria sua, arebbe sperato piú nel temporeggiarsi ed intrattenersi seco e nel non gli dare causa alcuna giusta di querela e di sospetto, che in sulle leggerezze di chi gli mostrava facile le cose che erano impossibile a riuscire.

Ora che la infermitá è quasi incurabile, e che allo imperadore si è fatto toccare con mano, che non solo si impedirebbono volentieri e' suoi progressi, ma cercato di tôrgli el regno di Napoli, e che quanto le piaghe sono maggiori tanto piú bisognerebbe medico pesato e piú provata medicina, si cerca curare gli errori fatti con errori nuovi e piú perniziosi che e' primi, e precipitare deliberazioni importantissime in sulla necessitá, la quale loro medesimi hanno procurata co' suoi perversi consigli, non allegando ragione ma desperazione, e chiamando animo e virilitá quello che procede da somma viltá e timiditá. Io, Padre Beatissimo, poi che la Santitá Vostra vuole che io parti, non veggo che, se la piglia le arme, la possa avere alcuna speranza verisimile della vittoria; né mi diffido che, se la vuole, tagliate una volta veramente tutte le pratiche contro a Cesare, avere buona intelligenzia seco, che la non possa trovare luogo assai conveniente secondo la condizione de' tempi; e mi ingegnerò giustificare l'una cosa e l'altra.

Io credo che chi vuole fare giudicio chi abbia a avere vittoria di una guerra, la prima considerazione che fará, sará circa lo esercito, quale sia migliore, cioè dove sia migliori capitani e migliore gente; il che in questo caso è sí manifesto che non può essere piú. E' capitani cesarei sono oramai capitani vecchi, astuti, esperti, pieni di riputazione, della virtú de' quali non bisogna fare altro testimonio che le opere che hanno fatto, e le vittorie tante che hanno avuto con animo e con industria, in modo che la condizione loro non si può revocare in dubio; la gente anche lei è ottima, el nervo della quale è spagnuoli e tedeschi, nazione l'una e l'altra gagliarda ed animosa; gli spagnuoli di piú agilissimi e pieni di industria; e' tedeschi confidenti nella sua ordinanza, sono soldati avezzi in su queste guerre di Italia ed usi a vincere, cognosciuti da' loro capitani, e loro gli cognoscono; desiderosi, e che tengono conto quanto dire si può di questa gloria ed onore militare, devoti al principe suo, al quale reputano capitale non piccolo el satisfare, e da altro canto perdita equale el mancargli; sperano della vittoria avere Italia in preda; nel succumbere non solo perdere quello che posseggono ed el luogo grande che cognoscono avere in questa provincia, ma ancora mettere in pericolo la vita. In che riputazione siano oggi e quanto temuti, ognuno lo sa; el nome solo ed el terrore che n'ha tutta Italia, sará sempre in ogni conflitto momento grande alla vittoria.

Facciáno ora comparazione delle cose di questi altri, e vedreno che instrumenti voi avete da vincere. Principalmente e' capitani, se hanno a essere italiani, bisogna che e' principali siano el duca di Ferrara, se entrerrá in questa lega, ed el duca di Urbino; se franzesi, el migliore che abbino è Lutrech, el quale è stato vinto altra volta da' medesimi inimici, ed a tempo che era in Milano; però per tacere le altre sue qualitá che sono pure note, considerate che riputazione porterá seco, o con che animo andrá contro a costoro. El duca di Ferrara è poco esperto nella guerra, e ne' tempi che l'ha praticata si è visto di lui poca altra pruova che quello suo maneggio di artiglierie; chi ha notizia dell'ultima sua impresa per la recuperazione di Modena, ha sempre affermato che la fu governata con poco cuore e con poco ordine. Confesso che ha piú riputazione che altri di Italia, e che per la grandezza sua gli altri signori non faranno difficultá di deferirgli; ma questo non basta contro a inimici che si hanno a cacciare col ferro e non co' gridi. Ed a chi ha vinto e fatto prigione uno re di Francia con tutta la nobilitá di uno tanto regno, fará poca paura el vedere uno duca in campagna. Fassi, per quanto comprendo, fondamento in quello di Urbino, el quale io non biasimo, ma non si è però visto ancora di lui esperienzia tale, che una tanta impresa si abbia a fondare totalmente in su le spalle sue.

Altra cosa è guidare sei o ottomila uomini, altra a essere capitano di uno tanto esercito, e contra a inimici gagliardi, astuti ed esperti, ed in una impresa dove si può avere a maneggiare ogni spezie di milizia: la campagna, difendere terre, espugnare terre, invitare gli inimici a giornata, cercare di temporeggiarsi sanza combattere, ora fare el gagliardo, ora sapersi valere degli avantaggi. Però se voi mi direte che in questo esercito non sará uomo di chi si possa fare piú fondamento di questi, io lo cederò facilmente; ma se direte che siano tali che basti a tanta impresa, e che siano da paragonare a' capitani inimici, io tacerò per ogni rispetto, ma non avendo visto altra esperienzia, non mi dará giá el cuore di affermarlo.

Non voglio pretermettere che io non so quali dua maggiori inimici abbia Vostra Santitá in Italia, e forse nel mondo, che questi dua duchi: all'uno è stato tolto lo stato ed ancora si gli tiene occupata parte; allo altro sono state fatte tante persecuzione, quante ognuno sa, continuate in ogni accidente, in ogni tempo, insino a ieri, insino a stamani, né mai alcuno mezzo, alcuni suoi prieghi, alcuna umiliazione, alcune offerte hanno potuto mitigare queste asperitá, né in quanto a l'uno né in quanto a l'altro, ed ogni promessa, ogni blandizia, ogni reconciliazione che si è fatta loro, è stata una simulazione, una insidia; in modo che possono essere certi che in ogni fortuna che tornassi, sarebbono a' medesimi termini. Però non so come potete disporvi a fidarvene, a mettere loro in mano tutto lo stato vostro, a credere che si affatichino per la vostra grandezza, della quale sempre temeranno. Io sono stato sempre alieno dal perseguitarli, non vi vedendo drento acquisto, ma carico e perdita assai; non sono giá facile a confortarvi vi rimettiate sí liberamente in loro. Dio voglia che chi vi consiglia al farlo, abbia, per parlare modestamente, migliore fortuna in questo che non ha avuto nel consigliarvi a offendergli.

Resta comparare la qualitá delle gente, che è cosa troppo manifesta. El nervo della fanteria vostra saranno svizzeri, della natura ordinaria di chi, e delle difficultá che s'hanno a maneggiargli, non voglio dire altro; ma sono stati battuti tante volte da questi inimici, e tanto, come ognuno confessa, inviliti, che io non credo possino piú vedergli, non che sostenergli; lanzichenech non arete, o pochi, né vi potresti fidare di molti per andare contro a Cesare. Adunche bisogna una banda molto grossa di italiani, de' quali io parlerò costumatamente, perché io sono di altra nazione; ma infinite esperienzie hanno mostro che fondamento si possi fare, e che non sono da comparare alle fanterie forestiere. Né voglio dire che questo mancamento proceda dalla virtú degli uomini, quanto forse dalla condizione de' tempi e degli accidenti di Italia, e da' modi e luoghi dove sono stati adoperati. Non sono avezzi in sulla ordinanza come e' tedeschi; non hanno uno principe a chi pensino di satisfare come gli spagnuoli; le guerre da uno pezzo in qua sono state fatte quasi sempre sotto nome ed in compagnia di oltramontani, di sorte che non gli può muovere el desiderio di satisfare al suo re, non hanno potuto pigliare l'obietto della gloria della sua nazione; forse se fussino fuora di Italia sarebbono piú uniti tra loro, piú fermi ne' pericoli, piú obedienti, manco tumultuosi, tollererebbono meglio la dilazione delle paghe, non fuggirebbono con esse: o queste o altre cagione che siano, hanno tutti questi difetti.

E se voi avessi a servirvi solo di cinque o seimila fanti italiani, io crederrei gli troverresti forse da mettergli in ogni pericolo, ma bisognandovi maggiore numero, ve ne troverrete ingannati. Che credete che sará uno esercito fatto in fretta di queste generazione, dove saranno infiniti che mai veddono guerra, uno esercito di tanti pezzi, di tanti vescovadi? Metteretelo voi sicuramente contro agli spagnuoli, dove sono molti fanti che fanno lo uficio di connestabili, molti connestabili atti a essere capitani? La quale buona disposizione in tutti e' membri dello esercito ha fatto grandissimo onore a' capitani generali, perché ed innanzi a' pericoli vi sono assai, el parere de' quali è utile a intendere, e ne' pericoli non solo sanno bene osservare ed esequire gli ordini del capitano, ma etiam, bisognando, valersi per loro medesimi, cosa che fa utile grande a' capitani, come si legge di Cesare, in qualche difficultá. La bontá in effetto de' capi loro fa utile la virtú de' soldati, e la virtú de' soldati non solo è tale che fa bene gli offici suoi, ma fa anche operare a' capitani effetti migliori.

Io vi domando: con questi disavantaggi, in su che è fondata la speranza di vincere? Bisogna o che speriate avanzargli tanto di numero che loro non possino uscire in campagna, e vincergli nelle terre; o che se loro saranno potenti a uscire in campagna, non credo disegnate di combattergli, ma che el temporeggiare gli abbia a disordinare per mancamento di danari; overo che mentre el giuoco sta tavolato in Lombardia, accendergli uno altro fuoco nel reame, dove si faccia tale progresso, che vincendo lá, ringagliardisca la riputazione e forze vostre, e si indebolischino gli inimici, in modo che la vittoria di Lombardia diventi piú facile. Ne' quali discorsi quante fallacie voi pigliate, vi prego udire con pazienzia.

Principalmente io non credo che gli spagnuoli si rinchiudino nelle terre; perché se alle forze che hanno ora, aggiugneranno otto o diecimila lanzichenech, il che gli sará facilissimo, potranno comparire contro a ogni vostro esercito, perché sempre aranno piú uomini, ancora che voi avessi più gente; e quando gli eserciti sono sí grossi, importa poco che lo inimico ti superchi di quattro o cinquemila persone piú, perché a ogni modo non combattono tutti. E se pure al presente non uscissino, vi dimando se credete pigliare le terre con impeto, o con tempo: se con impeto, vi ingannate, perché almanco quando disegnassino abandonare Milano e Cremona, Lodi, Pavia ed Alessandria sono fortificate e saranno guardate in modo che non si potranno sforzare sanza grandissima difficultá; di natura che, poi che vi aranno aggirato dua o tre mesi intorno a esse, come feciono a' franzesi nello assedio di Pavia, ingrossati usciranno in campagna, e sará come se la guerra fussi al primo dí, salvo che el vostro esercito, stato giá nel cuore della vernata uno pezzo allo scoperto ed a' travagli, sará manco fresco e piú disordinato che el suo, che sará sempre stato con commoditá nelle terre. Però bisogna fare conto, o nel principio o nel progresso, avergli a vedere in campagna, dove se andrete con animo di fare la giornata, sará con troppo disavantaggio, né faresti mai deliberazione piú imprudente, né che piú siate per pentirvene. Se vi risolvete a non la volere fare, ma temporeggiare, guardate che debolezza è giá la vostra, poi che fate una impresa di andare a guadagnare uno stato, e la fate risoluti di non volere combattere cogli inimici per giudicargli piú potenti che voi.

Ma diciamo piú oltre: se costoro vi si avicinano, come sanza dubio faranno cognoscendo el suo vantaggio e la vostra timiditá, che procedere sará el vostro? Non sapete voi che quando dua eserciti sono vicini, che possono nascere infiniti casi che di necessitá conviene combattere, e massime quando vi è una parte che lo desideri? Sanza che, col cercare di impedire le vettovaglie e con altre arti vi potranno necessitare o a combattere o levarsi; di che l'uno sará contro alle vostre resoluzione, l'altro nella vicinitá degli inimici si fa con pericolo grande e con grande diminuzione di riputazione.

Ma diciamo che voi possiate fare questo, di intrattenervi sanza venire alle mani; che beneficio arete voi del temporeggiare? pensate voi che gli manchino danari per sostentarsi? Voi avete veduto la esperienzia nelle imprese de' franzesi, quanto questo disegno sia stato vano, perché hanno avuto danari piú lungamente che non si credeva, e quando gli sono mancati, e' loro soldati, le loro fanterie gli hanno servito tanti mesi sanza danari. Ora sará el medesimo e molto piú, perché Cesare, come io dirò di sotto, ha danari che non aveva allora, e questi soldati saranno piú facili a sopportare le dilazione, avendo visto che altra volta sono stati pagati di quello che erano creditori; e come saranno imbarcati di uno mese o di dua, il che sará facilmente, el non volere perdere quello che aranno servito, sará come uno pegno, perché gli fará stare fermi.

Ma ditemi: questo temporeggiare fa egli beneficio a voi, che avete per uno de' fondamenti e' svizzeri, la impazienzia de' quali è nota a ognuno; a voi, che sarete di tanti vescovadi e dependenti da tanti capi e da tante voluntá, che una che ne varii, mette ogni cosa in rovina?

Due sono le ragione perché le imprese di molti contro a uno, ancora che siano piú potenti, si perdono: la prima, perché le provisione non concorrono sempre tutte in uno tempo, ché quando uno ha proveduto, l'altro comincia a provedere, l'altro ancora non è in ordine, in modo che concorrendo rare volte el colore secondo e' disegni, non riescono nello esequire quelle conclusione che si sono dipinte per le camere; l'altro, che poi che el moto depende da molti, uno che ne manchi disordina ogni cosa, e di molti è facile el mancarne uno, quando si dá tempo, o perché muti sentenzia, o per morte, o per altri impedimenti che tuttodí occorrono, e piú facilmente a uno di molti che nella persona di uno solo. Però ricordano e' savi, che chi ha parte nelle imprese che dependono da tanti, si ingegni che gli effetti suoi siano presti, perché a lungo andare non si conservano ordinate, il che quanto voi osserviate, lascio pensare a voi, poi che fate fondamento in sul temporeggiarvi.

Ma consentiamo che lo allungare non vi abbia a disordinare; che beneficio vi fará egli? Nessuno; se giá mentre le cose di Lombardia stanno tavolate, voi non rivoltate el reame di Napoli, il che non sará facile come sarebbe stato al tempo del duca di Albania, perché allora il re di Francia era in persona in Italia, aveva Milano, e le cose cesaree parevano declinate; ora tutto è variato: el re prigione, la riputazione di Cesare al cielo. Però e' movimenti non saranno sí facili, ma ognuno aspetterá volentieri gli esiti di Lombardia, dove si daranno le sentenzie del resto, e quando pure si facessi novitá, si terranno almanco le fortezze di Napoli: terrassi Ischia, Gaeta e Taranto, che sono le briglie del regno, e le quali insino che Cesare non perde, non si potrá dire che l'abbia perduto; e tutto questo presupponendo che lui stia come morto, né soccorra le cose di Italia. Il che chi crede, si inganna grossamente, perché a lui non suole mancare uomini, pure che non gli manchi danari; e danari non gli mancano per el parentado di Portogallo, che tra la dota e sussidio che gli danno e' popoli, gli metterá in borsa piú di uno milione e mezzo di ducati, co' quali sará potente a fare guerra con tutti e' príncipi cristiani.

Sentirete presto prepararsi armate in Spagna per venire in Italia, nella Magna farsi diete e muovere gente; le quali nuove quando verranno addiacceranno el cuore a Vostra Santitá, ma sará tanto innanzi che non ará piú rimedio. Se Francia ed Inghilterra concorressino a travagliare Cesare di lá da' monti, in modo che bisognassi adoperare le gente ed e' danari di lá, io chiamerei questa impresa di qua assai sicura; ma se libero fuora di Italia potrá attendere con tutte le sue forze alle cose di Italia, come potrá, perché di questo non si parla, è pazzo chi crede che non l'abbia a soccorrere gagliardamente; e vi varrá poco la riputazione di Inghilterra, se non vi serve di altro che di nome, né le braverie de' franzesi, se non pigliano la impresa con tutte le forze del regno suo.

Dove è adunche fondata questa speranza di vincere, avendo gli inimici esercito piú potente di voi, sendo padroni di terre fortissime, né potendo sperare che abbino a cadere per mancamento di danari? Io non ne veggo nessuna, se giá non confidate nella mala fortuna di Cesare, la quale l'ha al continuo favorito sí estraordinariamente e fatto, io parlerò così, tanti miracoli per lui, che quando tutte le altre ragione fussino in contrario questa sola mi spaventerebbe. E quanto la fortuna possi nelle cose della guerra, e quanto si tema uno principe fortunato, ne sono pieni tutti e' libri, e testimonio infinite esperienzie. Questa ha acciecato e' principi a procurare la grandezza sua, alla quale dovevano essere inimici, questa fatto impazzare infiniti uomini per farlo grande, questa portatoli le vittorie a casa quando aspettava le rotte, questa fatto che e' soldati mercennari, che non l'hanno mai veduto né cognosciuto, l'hanno servito sanza danari piú amorevolmente, piú caldamente che non fu mai servito principe alcuno che fussi in persona in sulla guerra; questa non solo gli ha fatto guadagnare gli stati, ma dato el modo di poterli acquistare giustificatamente, come ora di Milano, che ognuno sa el duca, el Morone avergli dato giustissima causa di punirgli; questa gli fa avere contrasti, non per farlo succumbere, ma perché con lo sbattere le opposizioni diventi piú potente, e lo necessita per farlo maggiore a entrare di impresa in impresa, il che forse non farebbe per sua natura; questa dubito che, non contenta di averlo fatto re di tanti regni, di averlo fatto imperadore, di avergli aperta la via alla monarchia temporale de' cristiani, voglia anche farlo papa o padrone dello stato della Chiesa, poi che fa precipitare uno pontefice a pigliarli l'arme contro, acciò che lui vincitore abbia non solo potestá ma quasi necessitá di riformare a suo modo la Chiesa e la autoritá pontificale. Forse che a questo la Germania non sará punta? forse che la Italia lo biasimerá? forse che la Ispagna non lo seguirá? forse che tutti e' laici non sono inimici a' preti?

Ricordisi Vostra Santitá che la grandezza della Chiesa è nelle arme spirituali, e che le sue arme temporali valsono sempre poco. La sa quale è el proverbio di Italia con irrisione degli eserciti della Chiesa; di quelli de' viniziani non parlo, che non vinsono mai se non con la spada nella guaina. Adunche, crediamo che el papa e viniziani bastino a cacciare di Italia una potenzia sí grande, uno esercito sí vittorioso? El timore ci inganna, la passione ci accieca, la fortuna di Cesare ci conduce a precipitare. Ma diciamo piú oltre: se la guerra riuscirá grave a Cesare, non ha egli in mano la pace co' franzesi? non gli fará egli posare le arme ogni volta che, come dice el proverbio de' fiorentini, mostrerrá loro la civetta? Per recuperare el suo re, la madre tenera del figliuolo, e' baroni per non si opporre alla liberazione del re, el regno perché veduto non mutilare la Francia terrá poco conto de' casi di Italia, vi lasceranno in preda ogni dí; né mai, pure che riabbino el re, ricuseranno uno accordo, dove non solo vi lascino a discrezione, ma ancora venghino a' danni vostri.

Sapete di che natura sono state le loro pratiche, sapete che a' mesi passati, quando vi ebbono invitati e giá condotti a' disegni loro, in sul bello delle speranze, mossi da qualche buona parola di Cesare, vi lasciorono in asso, e mandorono madama di Alanson in Spagna con animo di rivendervi el dí cento volte. Questo medesimo faranno sempre, perché vi saranno le medesime ragione che vi sono ora, né mancherá a Cesare, se accorderá con loro, modo di assicurarsi; di sorte che almanco le prime esecuzione, e massime quelle che siano contro a Italia, aranno effetto. Cosí bisogna perdiate in ogni modo, perché o sarete sforzati dagli inimici o abandonati dagli amici, e la prima ruina sará adosso al papa e fiorentini, perché e' viniziani hanno le terre forte, loro le hanno debole e sbandate, e lo stato in mezzo del ducato di Milano e del regno di Napoli, e Siena imperiale in mezzo delle viscere della Chiesa e di Firenze.

Adunche nessuna ragione può giustificare questa impresa, se non lo fa la necessitá; né questa anche la giustifica, chi non vuole avere piú paura che el bisogno, e non considerare che el remedio a' pericoli ed a' mali non è mettersi in maggiori pericoli e mali, ma cercare di diminuirgli quanto si può, e se, perché le cose del mondo girano cosí, non si può liberarsene totalmente, accommodarsi a' tempi ed abracciare per buono quello manco male che l'uomo può avere. La paura che si ha di Cesare procede da dua fondamenti: l'uno, che si dubita che lui tenendosi offeso delle pratiche tenute a' mesi passati o almanco insospettito, per vendicarsi, per assicurarsi, voglia abassare Vostra Santitá; a che se mette mano, non sará contento di poca ruina e cercherá di fare el piú male potrá, ed essendo quella a sua discrezione, potrá fare tutto quello che disegnerá; e vedendosi che ha in animo rovinare franzesi e veneziani, imprese grandi e che potrebbero tirarsi drieto molte difficultá e pericoli, vorrá ragionevolmente, innanzi ci metta mano, dare forma alle altre cose di Italia, ed assicurarsi del papa sospetto ed inimico, acciò che, se per sorte le cose sue si riducessino in qualche angustia, non possi el papa, del quale non si può piú fidare, unirsi insieme con gli altri alla sua ruina.

L'altra ragione che fa temere è la ambizione naturale di tutti e' principi, che sempre cercano augumentare; e questo si vede che aspira alla monarchia. Lo stato della Chiesa è grande e bello e da non disprezzare da uno che cerchi el tutto: è da credere gli torrá el temporale e vorrá riducere e' pontefici in quello grado che solevano essere quando le elezione e tutti e' progressi loro dependevano dalli imperadori; in che non solo satisfará alla ambizione, ma gli parrá anche non offendere la conscienzia, recuperando allo imperio le ragione che hanno tenuto e' suoi antecessori, e lasciando lo spirituale al papa, et quae sunt Dei Deo; el temporale et quae sunt Caesaris Caesari. Io credo che chi dice cosí non è certo che questo abbia a succedere, né io posso essere certo che abbia a essere el contrario; ma dico bene che la ragione persuada piú di gran lunga la opinione mia che la loro, perché, discorrendo prima el capo della ambizione, io dico che questo principe ha dimostrato sempre in tutte le azioni sue buona mente, e fatto professione di conscienzia, di essere devoto alla Chiesa e di non volere turbare quello di altri, o almanco desiderato che si creda che lui procede giustificatamente e con ragione. Ne potrei di questo allegare molte testimonianze, ma perché sono notissime a Vostra Santitá, e lei molte volte me l'ha confessato, non le replico; e se questa è veramente la mente sua, non abbiamo da temere di questi pericoli, perché non sendo, come di sotto si dirá, el maggiore premio questo che sia, non debbiamo credere che di principe buono, divoto, osservantissimo della Sedia apostolica, diventi in un momento uno ladrone, uno assassino, e che sí vituperosamente, sí impudentemente spogli la Chiesa di quelle cose che ha avuto non da altri che dagli antecessori suoi, e possedutole centinaia di anni, in modo che non sono piú di Cesare, ma di Dio e de' vicari suoi.

Se questa è simulazione, dico che piú gli importa e piú gli vale, avendo a fare ancora grandissime guerre e faccende, el conservarsi questo nome che ha acquistato e questa professione che ha fatto, che non gli vale el tôrre lo stato alla Sedia apostolica, massime che, sendo grande in Italia, sa che Vostra Santitá lo gratificherá e lo accommoderá di tutto quello che potrá, in modo che avendola per amica e congiunta, ne trarrá molto piú frutto ed in Italia e fuori di Italia che non farebbe a spogliarla; sanza che, di piú si publicherebbe per tutto el mondo uno scelerato e perderebbe quella opinione di che si vede che fa capitale assai.

Non abbiamo adunche a credere che per ambizione pigli uno partito che non lo fa piú grande, né gli accresce la utilitá, ma gli oscura assai della gloria e dello onore; né anche a mio giudicio che per vendicarsi; perché oltre che le ingiurie che può pretendere da Vostra Santitá sono state pratiche e non effetti, oltre che sa averla mossa parte el sospetto, parte e' mali trattamenti e delusione fatte a quella del viceré e suoi capitani, di che si è piú volte lamentato ed escusato con Vostra Santitá, non è da credere che lo sdegno lo muova a quelle cose che non gli sono utile e gli sono vituperose; el quale quando pure potessi in lui, è piú verisimile serberebbe la vendetta a altro tempo, cioè poi che avessi espedito le imprese maggiore, perché cosí ricerca la utilitá e l'onore suo. La quale cosa si tira drieto tanta dilazione che possono nascere facilmente accidenti da liberare Vostra Santitá di questo pericolo; o lo spazio del tempo, aggiunto a' buoni modi che tenessi seco Vostra Santitá, mitigherebbe verisimilmente questa indignazione.

Non resta adunche altro che el sospetto, el quale io non credo che sia sí grande in lui che gli faccia fare questi salti, perché naturalmente tra Vostra Santitá e lui è stata benevolenzia ed amore, né la Chiesa pretende al dominio di Francia o di Italia, ma solo a conservare quanto a altri tempi gli hanno dato gli imperadori, però ogni volta che lui non molesti quella, gli acquisti suoi non vi hanno a essere ingrati, e lui non ha da temere che la potenzia sua dispiaccia a Vostra Santitá, quando sia sicura che lui non la voglia opprimere. E questa sicurtá è in mano sua el darla, perché ogni volta che Vostra Santitá lo vedrá in Italia in persona, e lui la onori, gli osservi le promesse e l'abbia in quello rispetto che si debbe avere uno pontefice, resterá sicurissima di non avere da temere di lui, e la sicurtá sua assicurerá Cesare, perché non ará causa di temere di Vostra Beatitudine, e sará questo piú facile, piú giusto, piú glorioso modo a assicurarsi di quella, che non sará el cercare di opprimerla e di ruinarla. Tanto piú che se Vostra Santitá rifiuta ora quelle pratiche che gli sono proposte e stabilisce gli apuntamenti fatti seco, questa sará una cura dello animo vostro, la quale comincerá a persuadergli che voi volete vivere seco in buona intelligenzia; e vi si confermerá ogni dí piú, vedendo che la tagli in futuro simili ragionamenti, né presti piú orecchi a cosa alcuna che gli sia proposta contro.

Diranno, Padre Santo, questi che la vogliono fare pigliare le arme, che presupposto ancora che Cesare non gli sia inimico, tamen che la grandezza sua vi offende, perché sendo lui in Italia potentissimo, la riputazione vostra diminuisce, dependendo in tutto dalla sua discrezione. Ed io confesserò che se le cose si potessino riducere in termini che in Italia non ci fussi principe alcuno che potessi dare le legge agli altri, che questo sarebbe el migliore stato che si potessi avere; ma dirò, poi che è piaciuto a Dio o è cosí el circulo ordinario del mondo, che la grandezza di Cesare sia tale, che questo si può desiderare ma non sperare; in modo che chi vorrá calcitrare contro a lui calcitrerá contro allo stimulo. E però è officio di prudenzia non volere con la desperazione peggiorare le condizioni sue e precipitarsi interamente, ma accommodarsi a questa necessitá e cercare di avere manco infelice luogo che si può; e se non si può vivere con le qualitá e con la autoritá che l'uomo desidera, non per questo volere morire. Perché oltre che la vita è meglio che la morte, possono facilmente tornare de' tempi e degli accidenti, che a chi sará morto non faranno frutto alcuno, ma a chi fussi ancora vivo restituirebbono la sua degnitá.

Io, Padre Beatissimo, non voglio dire che a uno pontefice sarebbe forse meglio ommettere questa signoria e cure temporali e conservarli la autoritá spirituale: volere in effetto essere pontefice e non principe; perché se bene io ho questa opinione per vera, cognosco che è parlare troppo insolito a chi si lascia ingannare da' mali abiti; ma accommodandomi al gusto e corruttela commune, dico che se io vedessi speranza che si potessi, col pigliare l'arme, moderare questa grandezza di Cesare, conforterei a farlo ancora che fussi con pericolo. Ma non el vedendo altro che partiti disperati e sanza alcuno fondamento, ed e' quali chi piglierá non solo accelererá l'ultima sua ruina, ma sará notato da ognuno per uomo poco prudente e poco misuratore delle cose, non saprò mai consigliare Vostra Santitá che per paura della voluntá di Cesare, la quale non si può negare che ci sono molte ragione che persuadono che abbia a essere buona, faccia una deliberazione che non ci sia ragione che dia speranza che el fine abbia a essere buono; che per paura che la potenzia di Cesare non faccia parere minore la sua autoritá, pigli uno partito che non solo sia per diminuirgli la autoritá, ma per ruinarla in tutto e del temporale e dello spirituale.

Ricordisi Vostra Santitá che non è tenuto animoso ma timido e vilissimo chi per paura di uno male dubio abbraccia per desperazione gli ultimi mali, che non è generositá el precipitarsi ma estrema pazzia, e che al grado e degnitá sua ed alla prudenzia ed esperienzia che ha delle cose si conviene non essere autore di ruinare la Sedia apostolica, né pigliare rimedi temerari e da giovani, ma procedere pesatamente e con tale maturitá in una deliberazione di tanta importanza, che quando mille volte gli effetti riuscissino infelici, che almanco non si possa mai dire che e' consigli non siano stati buoni né bene considerati, e che a quella non sia mancata piú presto la felicitá che la prudenzia.

Io pregherò Dio che la illumini a risolversi bene; ma in ogni resoluzione che la fará, sia di che sorte la voglia, me gli offerisco cosí fedele e cosí amorevole ministro, come sono obligato a essere e come sono stato sempre per el passato.

 

 

 

XIV

 

[Sullo stesso argomento.]

In contrario.

 

È superfluo parlare delle cose passate, Beatissimo Padre, perché è fuora di tempo; e se pure se n'avessi a parlare non meriterebbe essere ripresa Vostra Santitá di non essere stata neutrale, ma piú presto di non avere fatto scopertamente ogni opera perché e' franzesi pigliassino Milano; e di manco passione sarebbe da essere giudicato chi confortava questo, perché le cose di Italia restassino contrapesate, che chi consigliava el favorire la grandezza di Cesare, la quale porta seco la servitú degli altri. Ma pretermettendo el parlare di questo perché è tardi, dico che se negli andamenti passati Vostra Santitá non ha veduto quanto bisognava, o se come io credo e lo saprei giustificare facilmente, è mancata al consiglio di quella piú la fortuna che el giudicio, e se però le cose di Cesare ne sono venute in tanta riputazione ed esaltate insino al cielo, non debbe però Vostra Santitá perdersi di animo, né spaventarsi per avere errato, o per avere avuto poca fortuna, perché lo abandonarsi non servirebbe a altro che, con notarsi di eterna infamia, augumentare e' suoi mali e pericoli, e' quali quanto sono maggiori tanto bisogna maggiore vigore e generositá.

Non è quella el primo principe che in partiti ardui non abbia bene eletto; anzi interviene spesso a tutti gli altri, perché gli uomini non sono dii, ed el futuro è incertissimo; non è quella il primo principe che sia venuto in avversitá, di poi con l'aiuto di Dio e di quello che s'ha fatto da sé medesimo, abbia ridotto in buono termine le cose sue, e quella fortuna che da principio se gli mostrava inimica, gli sia tornata prospera e serena. Anzi è proprio della navicella di santo Piero essere combattuta dall'onde e da' venti, ed alla fine avere non solo el mare pacato ma etiam obedientissimo. Però quella con buono e gagliardo animo si sforzi contro alle difficultá in che si truova, e francamente abbracci quegli rimedi che ci sono, togliendoli sicuri se gli può avere; se non, non gli lasciando ancora che siano dubii e pericolosi: perché è manco male fare provisione difficili e con pericolo, che lasciarsi perire al certo.

Ha detto bene lo arcivescovo che nessuno può essere chiaro come Cesare si abbia a portare con Vostra Santitá in caso che venga personalmente in Italia o stabilisca in altro modo le cose sue di qua, perché essendo articulo che dependerá dalla voluntá di lui solo, non si può avere certezza alcuna che gli abbia o ará nello animo. Pure a me pare che sanza comparazione siano più e piú potente le ragione che portano dubio, che quelle che portano speranza. È naturale de' principi, come anche fanno gli uomini privati nello essere suo, cercare sempre di augumentare la sua grandezza; e quanto sono maggiori tanto piú desiderano conducersi a quelli gradi suppremi, e tanto piú pare che se gli convenga, ed ordinariamente avendo per obietto questo, tengono poco conto di ogni altra cosa, e fanno uno piano di tutti gli altri rispetti.

Però se io temo che Cesare, quale io veggo che pretende al dominio di Italia, anzi forse alla monarchia de' cristiani, e che non contento in Italia del regno di Napoli, ha ora occupato lo stato di Milano, abbia a volere farsi signore di Firenze, farsi padrone di Roma e di tanto stato che tiene la Chiesa, e comandare a tutti con assoluta autoritá, mi pare temerne piú ragionevolmente che non fanno coloro che si assicurano del contrario, perché el timore mio è fondato ed in sugli andamenti suoi particulari, ed in sugli appetiti universali di tutti e' principi.

La sicurtá di questi altri non so che altro fondamento abbia che la voluntá, e questa ragione sola, quando non ci fussino le altre che io dirò apresso, basta a tenere Vostra Santitá in diffidenzia grandissima; ma ci sono di piú le altre. Noi abbiamo veduto che come Vostra Santitá si discostò dalle contribuzione e si ridusse alla neutralitá, quanto mala satisfazione n'ebbono questi ministri suoi, e le parole insolente che usò el viceré, perché quella non volse aiutargli nella impresa di Provenza; perché giá gli pareva debito che l'avessi a essere non compagno loro ma ministro, ed aiutargli non manco nelle imprese che erano solo per la grandezza loro, come aveva fatto in quelle che tendevano a commune beneficio. Sa poi quanto restorono male satisfatti dello apuntamento che fece col re di Francia, quando era sotto Pavia, ancora che non avessi altre obligazione che di neutralitá; perché ogni volta che Vostra Santitá non ha voluto spendere e pigliare la guerra per loro, l'hanno ricevuta per ingiuria, come quelli che giá si erano presupposti che la Chiesa avessi a servire debitamente allo imperadore.

Se adunche innanzi che avessino vinto, e gli paressi che el mondo ragionevolmente fussi loro, pigliavano per offesa la neutralitá, come pensa Vostra Santitá che siano disposti con quella, sapendo le pratiche che ha tenuto per cacciargli di Italia, da poi che ebbono condotto el re in Spagna? Le quali se bene si possono escusare essere nate per e' cattivi modi che hanno tenuto con quella, questo bastrebbe innanzi a uno giusto giudice, ma apresso a chi gli pare ragionevole che ognuno faccia a suo modo, e che con pazienzia si lasci disporre de' danari e stati suoi come viene loro bene, non è ammessa ragione alcuna; anzi cosí gravemente offende quello che ricevendo le bastonate non ringrazia, come quello che non provocato se gli oppone.

Ha posto Cesare la mira sua ed e' fini suoi, e giusti o ingiusti che siano, bisogna che abbia per inimico e desideri la ruina di ognuno che cerchi disturbare e' suoi disegni; il che avendo fatto Vostra Santitá, e nel modo che ha fatto, erra assai qualunque presuppone che non gli sia inimicissimo; la quale inimicizia se a lui venissi bene occultarla o dimetterla, come direno di sotto, ci resta el sospetto, che non gli può lasciare usare questa o prudenzia o bontá che la sia. Giá è chiaro che la grandezza sua dispiace a Vostra Santitá e che l'ha cercato di batterlo, in modo che conviene sia impresso che ogni volta che quella vedessi la occasione, gli sarebbe contraria. Né a questo si può trovare mezzo di sicurtá, perché la gelosia è troppo naturale negli stati; né la sicurtá che da' portamenti suoi potrete avere voi, dará sicurtá a lui, come ha detto l'arcivescovo, anzi saprá che el sospetto che lui ha, tiene di necessitá in sospetto Vostra Santitá, ed el sospetto di quella multiplica el sospetto suo; e' quali sospetti non si possono medicare se non dal canto di colui che resterá in grado che l'altro non abbia facultá di offenderlo. Adunche quando la ambizione cessassi, quando la indignazione non ci fussi, el sospetto lo sforza a pensare di assicurarsi, ed assicurare non si può se non vi deprime; deprimendo Vostra Santitá, la fa al tutto sua inimicissima, e però mettendovi mano è necessitato o ruinarla totalmente, o abassarla tanto che la resti poco manco che ruinata.

Le quali ragione doverrebbono essere capace a chi non avessi veduto segno alcuno; ma a chi ha tocco con mano, come ha fatto Vostra Santitá, non bisognano anche altre ragione a fargliene credere. La capitulazione fatta doppo la giornata di Pavia, ancora che fussi in grande beneficio suo, perché gli assicurò quella vittoria e fu la scala di conducere el re in Spagna, ancora che da Vostra Santitá fussi osservata cumulatissimamente, ed aggiunto, oltre alle obligazione de' capituli, tutte le demonstrazione che lui ed e' suoi seppono desiderare, ancora che la non usassi mai né in fatti né in parole cenno alcuno che gli potessi dispiacere; nondimeno dal canto suo è stata sprezzata in ogni parte, e non solo mancato degli effetti, ma usati termini pieni di contempto e di delusione. Nel pagamento grosso de' danari vi furono contro a ogni onestá intercetti trentamila ducati; caricato di soldati el paese della Chiesa donde avevano promesso diloggiare; condotto doppo molte irrisione el legato a Pizzighetone, sotto speranza di ordinare la restituzione di Reggio e Rubiera a che erano obligati, e di poi licenziatolo con manifesto ludibrio; ed intratanto fatto promesse contrarie al duca di Ferrara e mostrato desiderio di capitulare seco e pigliare la sua protezione. Mille altre pratiche sono passate piene di contempto, di fraude, di inganni, come sa Vostra Santitá, non per altro che per dispiacere loro la sua grandezza, la sua autoritá, per tenergli aperte queste piaghe acciò che la sia debile, la sia enervata, e stia a discrezione loro; perché o desiderano torgli lo stato suo, o l'hanno in odio, o la temono.

Né mi sia detto che questi modi sono nati da' ministri suoi contro alla voluntá di Cesare, perché se fussi uno fatto momentaneo che non aspettassi consulta o approvazione di lá, si potrebbe credere; ma in uno fatto successivo di tanti mesi ed in una cosa di tanta importanza, è scusa troppo ridicula dire che e' suoi capitani hanno fatto contro alla voluntá sua, massime che chi non è cieco ha potuto vedere, che se bene dalla corte sono venute parole diverse, tamen che in quanto agli effetti el modo di procedere è stato el medesimo, e nelle speranze che hanno dato al duca di Ferrara ed in ogni altro accidente. Però per gli andamenti de' ministri Vostra Santitá può essere certa dello animo del padrone, ed aspettare da lui, se verrá in Italia o si stabilirá altrimenti, la medesima disposizione, ma gli effetti tanto peggiori quanto sará maggiore la facultá di offendere.

Né si assicuri Vostra Santitá in sulle ragione che dice lo arcivescovo della sua buona natura, della professione che fa di procedere iustificatamente, dello essere poco guadagno el ruinare Vostra Santitá; perché della bontá sua io non voglio parlare, non sendo conveniente parlare di uno tanto principe altro che con somma reverenzia, né voglio dire che la grandezza non sta troppo bene con la conscienzia, e che ogni principe può piú facilmente essere buono principe che buono uomo. Ma Vostra Santitá che è allevata negli stati e ne' maneggi grandi, ed ha veduto molte cose presenti, e lette ed udite molte delle passate, sa quanto è difficile frenare lo appetito di crescere la sua grandezza, e quanto sarebbe larga questa materia a chi volessi contradire; perché sono occulti e' cuori degli uomini, e spesso profonde le simulazione, in modo che facilmente si inganna chi fonda el suo giudicio in sulle parole e cose estrinseche; ed in questo, come è notissimo, sono superate tutte le altre nazione cristiane dagli spagnuoli, che non sono altro che arte e simulazione; e' costumi de' quali che abbia preso in qualche parte uno principe che è tra loro io non lo dico, perché in veritá non lo so, ma non sarebbe grande maraviglia. Né è da arguire che insino a ora abbia fatto professione di procedere iustificatamente, che se bene fussi vero, il che per la medesima ragione non voglio disputare, chi lo fa per simulazione lascia communemente queste arte da canto, quando se gli appresenta uno tratto grosso che si può tirare, ma cavandosi la maschera; perché conseguendo uno de' fini per e' quali ha usato le simulazione, gli pare minore fatica el porla da canto; ed in proposito el premio di assicurarsi in questi tempi di uno pontefice è sí grande, che se Cesare per farlo uscirá del passo suo non sará maraviglia.

Io non stimerei tanto che si movessi per la cupiditá di tôrre le terre della Chiesa, benché anche questo non sia poco guadagno, quanto per essere sicuro che la potenzia di uno papa non lo possi offendere, anzi avere uno papa di sorte che lui possa fidarsene e valersene; il che potria fare non giá giustamente, ma in modo che non gli manchi qualche colore di iustificazione, sotto nome di uno concilio di reformazione della Chiesa, a che potrebbe fare concorrere tante provincie che si potria quasi chiamare concilio universale. Gli effetti de' quali quando cominciano con questi modi, sono deposizione di pontefici; o dove sia grande uno imperadore, possono essere abassare tanto la autoritá de' papi che non restino piú formidolosi. E pigliando queste vie satisfará alla utilitá sua, allo odio che avessi con Vostra Santitá; ará colore di iustificazione, e forse, perché gli uomini sono facili a ingannare le loro conscienzie massime in quello che gli torna bene, gli parrá non fare cosa che non sia lecita e laudabile.

Non sará questa ambizione o pensiero nuovo in Cesare, perché sempre chi è stato grande ha desiderato unire alla potenzia temporale la autoritá spirituale. Chi in Roma era Cesare era anche pontefice massimo; e' re di Ierusalem osservorono questo medesimo; alla etá nostra Massimiano, avo di questo, poi che restò vedovo, ebbe tra le altre sue chimere questa di pensare al papato; gli imperadori cristiani antichi, quando erano grandi, perché secondo le legge nostre non erano capaci di essere pontefici, volevano non si potessino eleggere sanza loro ed avergli a suo beneplacito. Che ci maravigliereno se uno pensiero simile nascerá in Cesare presente, quale veggiamo che per le pedate degli altri grandi tende al cammino della monarchia?

Le cose del mondo hanno questa condizione o vogliáno dire circulo: che sempre quello che è, ha similitudine col passato, e quello che sará, sará simile a quello che è stato. È diverso nelle superficie e ne' colori, ma simile nelli intrinsechi e sustanzialitá; però non si può errare a misurare questo con la misura di quello, ed a temere che e' príncipi presenti abbino di quelle medesime ambizioni e fini ed arte, che hanno avuto e' passati; e se noi veggiamo tuttodí e' pontefici avere appetito alle signorie temporali, che ci maravigliamo che uno imperadore abbia inclinazione alla autoritá spirituale? E quando abbia questo intento, la ragione vuole che non differisca doppo le imprese de' viniziani e di Francia, perché, come ha detto lo arcivescovo, hanno tempo e potrebbono portare molti accidenti, che non gli sarebbe sicuro lasciarsi drieto uno papa potente e sospettissimo. E però innanzi entri in maggiori pelaghi è conveniente faccia questo, e vadia prima con destrezza smaltendo le cose di Italia che, non avendo ancora digestite queste, si metta nuovi cibi in sullo stomaco. Non sono costoro franzesi che procedono con appetito e con furia; è questa nazione attissima a conservare gli imperi, perché gli sa fondare ed assicurare bene; e però considerando e la ragione e la consuetudine sua, abbiamo a credere che se non aranno opposizione subito che lo imperadore passi in Italia, o non passando, come aranno avuto el castello di Milano, metteranno mano a assicurarsi, secondo la occasione, in tutto o in parte di Vostra Santitá.

Ma consentiamo, sanza alterare però la veritá, che la buona natura di Cesare vi assicuri che lui sia per osservare le capitulazione e per portarsi bene con Vostra Santitá; non resterá ella in ogni caso, se lui prevale in Italia, sanza riputazione, sanza autoritá, sanza degnitá e maiestá alcuna di principe? Hanno e' predecessori vostri dato le legge agli imperadori, el moto a tutte le cose del mondo; Vostra Santitá, quando era cardinale, era si può dire adorata da grandissimi re: ognuno faceva a gara di guadagnarla; ora, pontefice, ará a stare a discrezione dello imperadore, a cercare di satisfare non solo a lui, ma di essere grata a e' suoi; saprá ognuno che la dependerá da quello, però resterá sanza riputazione, sanza credito. Se e' principi seculari fussino buoni e moderati, io confesserei che uno pontefice arebbe minore causa di curarsi della temporalitá, perché assai sarebbono grande le sue iurisdizione, se gli fussino conservate illese; ma chi non sa quanto sia esposto alle ingiurie uno papa che non sia armato e temuto? quanto si stimino poco le sue censure ed arme che non tagliano, e quanto lo spirituale e lo ecclesiastico, se la potenzia del papa non lo fa riguardare, sia in preda di ognuno? Dunche non potete conservare la autoritá del papa, se non conservate quella del principe; e quella del principe resta annichilata, come ha a riconoscere l'essere suo dalla discrezione di uno maggiore, come ha a dependere da' cenni suoi. La sustanzialitá del principe, l'anima del principato è el comandare; però, come ha a obedire, ancora che abbia el nome del principe, e' vestimenti e le immagine del principato, è in fatto ogni altra cosa che principe.

Truovasi apresso gli scrittori essere stato parola de' savi antichi, e se bene ho in memoria uno ricordo dato a Giove, che fuggissi non manco che la morte el ridursi in luogo d'avere a raccomandarsi a altri. Però vegga Vostra Santitá che bene gli promette, che luogo gli lascia tra' principi, che gli dá speranza di buona compagnia da Cesare, chi la conforta a metterli el capo in grembo; che non vuole dire altro che spogliarsi di non essere piú principe, che ridursi per paura di male in uno grado che a ogni uomo generoso e virile non è niente piú leggiere che la morte. Non è questo temporeggiarsi ma ruinarsi, non conservarsi vivo, ma morire con eterna infamia; perché tanto si dice vivere el principe, quanto conserva la maiestá sua ed el grado di principe: perduto quello, è piú che morto, piú che sotterrato. Però io ardirò di dire che Vostra Santitá non solo debbe pigliare la impresa di conservare el suo principato, quando la fussi piena di molti pericoli, ma etiam quando fussi quasi desperata; di che parlerò di sotto, esaminato che areno prima, quanto el fare questa lega sia pericoloso, o quanta speranza ci sia di buono fine.

Io non negherò che lo esercito che Cesare ha in Italia, e quello che facilmente potrá ingrossare di lanzichenech, sia esercito gagliardo di capitani e di buone fanterie, e di riputazione grande per tante vittorie e tanta fortuna, e che lui abbia oggi modo di danari per el parentado di Portogallo, di che soleva per el passato essere debole, e che per questi rispetti e per le terre forte che hanno in Lombardia, la impresa di cacciargli dello stato di Milano sia dubia, difficile e pericolosa; ma non consentirò giá che la sia desperata, e che dalla parte di Cesare non siano molte difficultá e pericoli a mantenersi.

E lasciate da canto le ragione generale che sono: che gli effetti delle guerre sono dubii; che spesso la vittoria è da chi pareva inferiore; che molte volte uno piccolo accidente, uno piccolo caso fa variazione ed effetti di momento grandissimo; che nessuno ha la fortuna in potestá, e che chi la ha avuto lungamente propizia e serena, non solo non si può promettere che l'abbia a continuare, ma ancora ha da temere piú che gli altri della mutazione di quella, e tanto piú quanto piú eccessivamente è stata favorevole, perché el solito suo è sempre stato ed è e sará di essere incerta, inconstante ed instabile; lasciate, dico, da canto queste ragione generale ed altre simili che si possono allegare, io confesso che gli inimici hanno buoni capi e buona gente, ma non però tali che si debbino temere tanto che si abbia a abbandonare loro lo imperio del mondo sanza opporsegli. Non sono altro che uomini; e chi considera e' loro progressi diligentemente, cognoscerá che hanno vinto piú forse per mala fortuna ed imprudenzia degli inimici che per propria virtú; e se per virtú, non è però stata sí rara e sí mirabile che gli altri abbino a disperarsi di potervi aggiugnere. Le pruove loro sono state fatte in Italia non con altri che contro a' franzesi, la imprudenzia de' quali, el disordine e la impazienzia è sí nota, che è superfluo el parlarne; e manco è maraviglia che siano stati vinti, perché tutto consiste in sapere sostenere quello loro furioso ed inconsulto impeto, nel principio del quale non sono giá piú che uomini, ma doppo quello sono forse manco che donne.

La impresa ultima di Italia non l'hanno perduta e' franzesi se non per loro malo governo, avendo perduto tanto tempo ed opportunitá con tanta ignavia intorno a Pavia, sanza mai stringerla di altro che di...; e di poi usciti gli imperiali in campagna, risolutosi, ancora che avessino diminuito molto lo esercito ed inferiori di numero di fanteria agli inimici, di aspettarli in uno alloggiamento pericolosissimo. La vittoria prima di Milano, della quale fu capo Vostra Santitá, quella sa se fu piú fortuna che virtú, e se al principio di impresa facile diventò per la freddezza de' cesarei in modo difficile e pericolosa, che molte volte e' franzesi si trovorono con avantaggio. Non voglio discorrere la giornata di Ravenna, e le cose del Garigliano particularmente; ma la conclusione è che chi gli propone sopra gli altri uomini e gli battezza invincibili, si lascia menare piú al grido che alla ragione.

El grosso del campo loro saranno fanti lanzichenech, all'incontro de' quali saranno svizzeri, che in fatto di disposizione, di ordinanza, di animo e di esperienzia in sulle guerre sono una medesima cosa che loro, né mai sono soliti a fuggirgli; e se nella giornata di Pavia, si sono portati male, piú presto per disposizione de' cieli o per malo ordine de' franzesi, che per altra cagione, questo mi accresce la speranza che abbino ora a portarsi bene, e come hanno fatto in tante giornate in Italia; non solo perché si tratta dello stato loro, sendo la grandezza di Cesare la sua ruina, ma etiam per desiderio di scancellare questa ultima ignominia, e ricuperare la sua antica riputazione. È in effetto verissimo e' nostri svizzeri essere di virtú almanco equali a' lanzichenechi; gli spagnuoli che sono tanto temuti non sono piú che tre o quattromila fanti al piú, e se multiplicheranno, saranno uomini nuovi e che non aranno quelle qualitá che mettono tanto spavento; contro a' quali una fanteria italiana di quattro o seimila uomini scelti, munita bene di scoppietteria ed archibusi, guidata da uno signore Giovanni, combatterá valorosamente, e messa in sulla concorrenzia degli spagnuoli, non ará manco desiderio di vincere, né manco obietto della gloria militare e de l'onore della nazione, che s'abbino loro, né manco saranno uomini a ogni cosa che siano eglino. Quando è accaduto combattere italiani particulari con spagnuoli, e che hanno combattuto la gloria della nazione, n'hanno fatto dimostrazione; ed in ogni luogo dove persone scelte, cioè che stimino l'onore del suo mestiere, saranno bene guidate, faranno el medesimo. Di gente d'arme non aranno vantaggio a noi, né anche a iudicio mio di capitani, ne' quali confido tanto piú, perché oltre allo stimulo della riputazione e gloria delle arme, ciascuno de' nominati dallo arcivescovo giucherá lo stato suo.

La quale ragione fa che Vostra Santitá si potrá fidare di loro perché hanno el medesimo interesse, anzi necessitá; e lo essere gli spagnuoli notissimi oramai in Italia di fraude e di infidelitá, è el maggiore freno che si possa avere che nessuno de' collegati italiani, per migliorare le sue condizione, non cerchi di accordarsi separatamente con loro. De' capitani cesarei che hanno la pratica di Italia, se manca el Pescara la salute del quale si intende essere disperata, nessuno da Alarcone in fuora è pure in mediocre estimazione apresso a quello esercito; ed a lui mancano molte di quelle parte che sogliono notarsi ne' grandi capitani. Però se noi vogliamo avere paura solo delle sustanzialitá e degli effetti, e non de' nomi ed opinione vane, io non so perché questa lega s'abbia a diffidare di potere fare uno esercito da metterlo a riscontro di costoro.

Non so giá rendere conto ora se la guerra s'ará a fare con impeto o con dilazione, se la giornata s'ará a fuggire, a cercare o aspettare, perché questi partiti s'aranno a pigliare in sul fatto; e se gli inimici abandoneranno la campagna, questo esercito potrá campeggiare le terre forse con piú virtú che non feciono e' franzesi; e se si ristrigneranno in Lodi, Pavia ed Alessandria, non sará poco principio cavargli el primo di Milano e di Cremona; se le vorranno tenere tutte sará per loro troppo peso, massime che oggidí, come ognuno sa, hanno e' popoli inimicissimi, el favore de' quali nella prima impresa spaventò e' franzesi in modo, che vilmente si lasciorono tôrre Milano, e di poi è stato el principale instrumento con che e' cesarei hanno difeso tante volte quello stato. Allora per avere e' viniziani amici o neutrali, e Mantova a suo piacimento, era facile el transito a' lanzichenechi; ora per avergli contrari, se lasciono Cremona e Milano, potrebbe facilmente difficultarsi questo soccorso.

Se usciranno in campagna e lo esercito nostro sia della qualitá che io dico, potrá, se sará per altro in proposito, non fuggire la giornata; se sará bene non farla, avendo el ridosso di buone terre e facultá di fortificare gli alloggiamenti, potrá facilmente discostarsene sanza pericolo, sendo oramai imparate da ognuno le arte del signor Prospero. Ed ancora che Cesare abbia danari del parentado di Portogallo, saranno piú danari sanza comparazione quelli della lega, e da durare piú lungamente el temporeggiare; tanto piú che gittandosi el fuoco disegnato nel regno di Napoli, se Cesare non vi fará provisione, potrá fare tale incendio che metterá in troppo disfavore le cose sue, e cominciando a ruinare da uno canto, si tireranno drieto la ruina dall'altro. E' popoli del reame non possono essere peggio contenti: e' signori inquieti e cupidissimi per molti rispetti di cose nuove; el regno sanza arme, sanza governo; non ci sará la persona del re di Francia, ci sará el nome franzese, la speranza di uno re particulare che abbia a risedere quivi, cosa sopra modo desiderata da tutti, ci sará la riputazione del papa, de' viniziani e di tutta Italia: fondamenti da fare maggiore moto in uno regno facile a turbarsi per minore vento.

Alle quali cose se Cesare vorrá provedere, non potrá farlo sanza tempo, difficultá e spese grandissime; e male potrá sostenere a Napoli, che non abbandoni o raffreddi assai le provisione in Lombardia. La guerra apre alla giornata di molte occasione, ed a chi è assaltato gagliardamente scuopre molti impedimenti che da principio non si possono giudicare; de' quali se bene non si ha certezza, non si ha anche certezza di molti pericoli che sono stati considerati in contrario; e' quali tutti mettere a entrata è cosa troppo timida e troppo passionata. Gli uomini che per non cognoscere le difficultá ed e' pericoli, giudicano facile le imprese difficile, sono imprudenti, né hanno nome di animosi ma di bestiali, perché animoso è quello che vede e' pericoli ma non gli teme piú che si convenga; e questa è la differenzia tra due savi, de' quali l'uno è animoso, l'altro è timido: che l'uno e l'altro prevede e' pericoli, ma el timido mette per certi quelli che sono dubii, e gli pare giá vedere in atto tutti quelli che considera che possono accadere; lo animoso cognosce e' medesimi pericoli, ma sapendo che non sempre succede quello che è pericoloso di potere succedere (perché molti ne sono repulsi dalla forza, assai schifati dalla industria e prudenzia degli uomini, da alcuni ne libera qualche volta el caso e la fortuna per sé stessa), nel pigliare le deliberazione non presuppone tutti e' pericoli per certi, anzi ne abatte quella parte che gli pare che con qualche speranza si possa abattere.

Con la quale misura se Vostra Santitá misurerá e' fondamenti di questa impresa, sono certissimo non la troverrá sí desperata, né sí imprudente; anzi avendo el favore de' populi, piú danari e modo a mettere e mantenere piú forze insieme, la causa (se questo importa) piú giusta, cioè la libertá della Chiesa e degli altri, mi persuado che ogni uomo che sia savio e sanza passione giudicherá che, presupposto che e' franzesi non variassino, siano molte piú e maggiore le speranze della lega che di Cesare.

Ma quello che ha dato e dá animo allo imperadore, che fa gagliardo chi contradice, e che in veritá è ragione che importa assai, è el timore che e' franzesi in sul furore della guerra, per el desiderio di avere el suo re, non si accordino con lui; e poi che si è veduto che l'hanno voluto fare col dargli la Borgogna tutta o parte, saranno molto piú larghi delle cose di Italia; cosa che importa tanto che, levato questo pericolo, la impresa sarebbe per ogni altro rispetto con grandissimo vantaggio. E questo solo non si può negare che la fa dubia, difficile e pericolosissima, massime sendo e' franzesi imprudenti come sono, ed el regno in mano di donne che si governerammo piú con la tenerezza che con la ragione; nondimanco se noi potessimo camminare per altra via sicura o meno spinosa che questa, sarebbe pazzia sottoporsi a questo pericolo, ma essendo ogni altra via piena di maggiori pericoli, anzi ruine, mi pare che la necessitá ci sforzi a andare per questa, nella quale chi bene considera tutti e' casi, possono occorrere facilmente degli accidenti che allevierebbono molto questo pericolo.

Le cose sono in termini che, séguiti accordo o no, non può essere tra questi dua re altro che grandissimo odio; perché el re di Francia, in luogo delle buone promesse che aveva avuto, e della umanitá e generositá che si era presupposto avere a trovare in Cesare, faccendosi conducere a lui in Spagna, ha trovato delusione e tutto el contrario delle speranze sue: a lui negata la presenzia di Cesare, se non quando fu in grado di morte, e Borbone inimicissimo suo, favorito ed onoratissimo; in modo che è certissimo che non amore, non animo regio, non desiderio di pace inclinerá Cesare agli accordi, ma che della sua prigione o liberazione si fará mercatantia.

Però tutto el punto consiste che la liberazione sua si faccia in modo, che uscito che sia non resti legato di maniera che per necessitá séguiti quelle conclusione che ará fatto nello accordo a danno di Italia. E questo a mio giudicio s'ha a sperare ogni volta che el principio di questa lega avessi qualche buono progresso, di sorte che Cesare si conducessi alla concordia per necessitá e per timore; tanto piú che trovandosi la lega in sulle arme, ed avendo seco e' svizzeri, e' quali presuppongo che resteranno con noi ancora che e' franzesi accordassino, perché è el suo interesse, le esecuzione che s'avessino a fare contro a Italia non possono essere altro che lunghe, il che darebbe tempo al re di Francia di pensare a' fatti suoi; e ragionevolmente lo moverá piú el timore che lo imperadore, suo inimicissimo e che si vede che aspira alla monarchia, non pigli el dominio di Italia, che sarebbe instrumento a batterlo in Francia, che ogni rispetto di qualunque freno, di figliuoli statichi o di altro che per liberarsi avessi messo in mano di Cesare.

Dirò piú oltre che se bene io fussi certo che cominciata la guerra el franzese avessi a accordare, ed el re liberato avessi a osservare queste prime esecuzione a danno di Italia, cioè a lasciarla cadere in mano di Cesare, che io forse non muterei proposito; perché mi pare questo minore pericolo che lasciare correre le cose di Cesare, perché in questo caso Vostra Santitá si ritirerebbe in Francia, dove el re, liberato già da' suoi legami per la osservazione delle prime convenzione, e vedendo el pericolo piú propinquo per essere tanto cresciuta la potenzia di Cesare, arebbe causa di intrattenere Vostra Santitá e ristrignersi con quella; ed el medesimo è da credere farebbe el re di Inghilterra. Ma nello altro partito è molto peggio, perché se è in fatis che le cose di Italia abbino a ruinare, è molto meglio che Cesare per ruinarle sia constretto a lasciare el re, che ci resterá pure ancora qualche speranza, che gli abbia facultá di farsi padrone di Italia tenendo ancora el re in prigione, perché in tal caso o batterá la Francia sanza difficultá, o almeno Vostra Santitá non v'ará refugio sicuro, perché ará da dubitare che e' franzesi, per recuperare el suo re, non lo vendino di nuovo. Sono questi, io lo confesso, partiti estremi, ma non sono manco estremi e' termini in che si truova Vostra Santitá; e sono partiti che nelle estremitá hanno usati gli altri principi e spezialmente molti pontefici romani, e' quali hanno eletto piú presto queste deliberazione che mettersi in mano ed a discrezione degli imperadori. E lo può fare piú facilmente uno papa che qualunche altro principe, perché questo non può portare seco lo stato suo, ma el papa porta seco sempre almanco parte del pontificato e di quella reverenzia e maiestá che ha in Roma.

In somma calculato ogni cosa, non è dubio che se Vostra Santitá insieme con gli altri non piglia le arme contro a Cesare, che lui si insignorirá presto totalmente dello stato di Milano, verrá a suo piacere questa state in Italia, o ci ingrosserá di esercito quanto vorrá. Ed aspirando, come si vede che aspira, alla ruina de' viniziani ed a battere la Francia, le quali imprese non è sicuro tentare se non stabilisce bene el resto di Italia (e questo non può stabilire se non abbassa Vostra Santitá), ogni ragione fa credere anzi tenere per certo, che lui metterá mano subito a questo, e la riducerá a piccolo pontefice, e forse procurerá che in questa Sedia sia messo altri che dependa in tutto da lui; ed almanco chi confida di bene non negherá che essendo lui grandissimo, Vostra Santitá resterá suo ministro e cappellano, ed in grado che, vedendosi quanto agli effetti privata della maiestá e degnitá sua, ará ciascuno di cento morte.

Sono questi mali certissimi e presti, e se può venire caso alcuno di morte o simili che ve ne sullevi sará el medesimo se la piglia le arme, le quali non si può negare che abbino qualche speranza di liberarvi da questi pericoli, grandissima se e' franzesi tengono el fermo; non lo tenendo, ci è pure qualche refugio con piú speranza di salvarsi, che non è se Cesare, grande in Italia, vorrá malignare. Però chi si spaventa de' pericoli della guerra, debbe risguardare a' mali della pace, e con quello occhio medesimo che si risguarderanno quando sará passata ogni opportunitá di fare la guerra; e' quali sono piú certi, non manco tardi ed in qualche caso maggiori; ed in quegli che sono pure minori, cioè presupponendo che Cesare non volessi la ruina vostra, non si può negare che saranno tanto grandi che Vostra Santitá gli debbe riputare poco manco gravi che la morte; e nondimeno chi spera questo manco acerbo grado, spera a mio giudicio quello che non è ragionevole, non è verisimile, non si debbe sperare.

Veggo bene che lo accordare Vostra Santitá con Cesare gli accresce la facultá di poterla offendere, ma non veggo gli faccia mutare la voluntá; sanza che, chi considera quale partito sia piú glorioso, piú generoso e píú degno di principe, troverrá che lo sforzarsi e fare ogni conato per non andare in servitú, è cosa virile e degna di uomo, ed el contrario è pieno di eterna infamia ed ignominia. Si è veduto a' tempi nostri, e se ne legge infiniti nelle istorie antiche, re e principi grandi che per mala sorte hanno perduto gli stati loro, perché questo è naturale nelle conversione del mondo, che gl'imperi ora creschino, ora abbassino; ma non se ne è visto o udito forse nessuno, parlo de' grandi e simili a quello di Vostra Santitá, che con piú facilitá si sia mutato. Questo, se Vostra Santitá, di che Dio la guardi, lo perderá sanza fare opposizione, non si potrá dire che gli sia stato tolto, ma bisognerá confesserá che dapocamente gli sia cascato.

Non fu mai alcuno uomo privato sí debole, sí abietto, che vedendo venire chi lo vuole spogliare del mantello che ha indosso, non abbia fatto forza di difendersi o di fuggire; e Vostra Santitá che vede evidentemente che costoro vogliono spogliarla della degnitá ed autoritá sua, si risolve a stare ferma, a non si muovere, a lasciare fare agli inimici quello che vogliono? Non è questa la aspettazione che s'aveva di Vostra Beatitudine; non conviene alle esperienzie che aveva fatto in minoribus, dove aveva provato e la buona e la avversa fortuna. La notizia che Vostra Santitá ha delle cose, lo ingegno suo, quella capacitá che ha universale, quella diligenzia, quella assiduitá che ha nelle faccende, quella confidenzia che ragionevolmente gli debbe dare la integritá sua, la sua buona mente ed intenzione al bene publico, non meritano giá che ora che si tratta de summa rerum suarum, la faccia una resoluzione tanto vile, tanto dapoca, tanto ignava.

Bonifazio antecessore di Vostra Santitá, sendo rinchiuso da' Colonnesi nel palazzo suo in Alagna, non avendo modo da difendersi né da fuggire, almanco con animo generoso messosi nella sedia pontificale con lo abito apostolico, oppose agli inimici tutta la autoritá, tutto lo splendore, tutta la maiestá che portano adosso e' vicari di Cristo; il che se bene non gli bastò a fuggire quella infelicitá, fu causa almanco di fare celebrare la generositá sua, e fare che nella mala fortuna avessi laude, come uomo che agli ultimi pericoli avessi fatto con franco animo tutta quella opposizione che potette. Vostra Santitá ed ogni principe hanno a desiderare che le cose sue vadino prospere, né avere mai a tentare medicine pericolose; ma quando pure caggiono nelle avversitá, hanno con animo constante a tentare tutti e' remedi che si può, per non perdere lo stato, per non venire in servitú, etiam per non oscurare el grado e la maestá sua. E se non gli succede, perché sempre non si può resistere alla fortuna, non gli resta altro che mostrare nelle estremitá la sua virtú, la sua generositá; la quale quando conservano, possono finire infelici, ma finiscono almanco onorati, lasciano di sé memoria gloriosa apresso a' posteri, ed apresso a' presenti compassione. Ma se periscono ignavamente, resta el nome suo infame ed abominabile ed alla etá presente ed alla futura; e questa gloria, questa degnitá della memoria, a chi tocca a considerarla piú che a' príncipi? E' quali come sono stati posti in grado eccelso sopra gli altri, hanno anche le azione loro a essere eccelse, gloriose e splendente piú che quelle degli altri, ed a desiderare, se io non mi inganno, piú presto la morte che la vita, quando abbino diminuta una dracma della degnitá e maestá sua.

È adunche Vostra Santitá condotta in luogo che agitur lo stato, la autoritá, la memoria e l'onore suo; accordando con Cesare, questo non si può negare che al tutto annichila la autoritá, el grado del principe ed ogni speranza di memoria onorevole, sanza che, infinite ragione ci sono da credere che el medesimo sará dello stato e della salute. Pigliando le arme ci è qualche speranza di conservare ogni cosa con augumento ancora della gloria e dignitá sua. Ricordisi Vostra Santitá che chi si abbandona da sé medesimo, è abbandonato non solo dalla fortuna ma etiam da Dio, el quale, come è in proverbio, non aiuta chi non si aiuta da sé stesso; e pel contrario la fortuna volentieri favorisce chi si arrischia. Le istorie sono piene di infiniti esempli di persone che da estremi casi si sono liberati con la animositá e con lo entrare francamente ne' pericoli, de' quali non debbe spaventare chi è in caso di necessitá; né è temeritá el pigliargli sanza vedere le cose troppo misurate, perché ne' casi difficillimi non si può avere la sicurtá, né si può una infermitá di tanto pericolo cacciare sanza usare rimedi pericolosi; anzi la troppa prudenzia è imprudenzia nelle difficultá, ed in fatto merita di essere chiamato prudente cosí colui che, quando la natura delle cose lo ricerca, sa rimettersi in qualche parte alla potestá della fortuna, come chi sa eleggere e' partiti sicuri, quando la sicurtá si può avere. Ma ristringendo el ragionamento, el pigliare la guerra è partito, io lo confesso, molto pericoloso; ma nell'altro partito mi pare che siano certissimi e' mali; ruinando, la ruina in ogni caso sará grande, ma nell'uno, el fine sará onorevole ed el conato generoso, nell'altro, el procedere ignavissimo, el fine vituperosissimo.

La conclusione, per non mi stendere piú oltre, mi pare che sia questa: se a Vostra Santitá dá el cuore di potere vivere col nome di principe, ma spogliata della degnitá e maestá del principe, se di potere sostenere infinite indegnitá sanza vivere desperata, anzi per dire meglio, sanza morire ogni dí mille volte, e si confida che Cesare, contento di poterla comandare e sforzare, gli abbia a osservare le convenzione, e non gli fare perdere el pontificato e non gli occupare el dominio temporale, può risolversi agli accordi seco. Ed a volere bene determinare questo, bisogna non solo considerare le cose presenti, ma etiam che ingrosserá eserciti, che vorrá venire in Italia e forse in Roma, e secondo el successo di tutti questi casi fermare bene el punto suo; perché sarebbe pazzia chi volessi temerne allora, non cominciare a difendersi ora. Ma se non può risolvere l'animo a vivere in questa fortuna umile ed ignominiosa, o se pure potendo ridursi a questa bassezza, non confida che Cesare abbia a usare seco umanitá e non gli mancare delle promesse, giá dico che e' consigli sono superflui, e che Vostra Santitá è fuora di ogni deliberazione, perché la necessitá la sforza, etiam con sommi pericoli, a pigliare la via delle arme, per fare pruova pure con qualche speranza di fuggire quelli mali grandissimi e certissimi che sono nella via della pace; ed avendo a fare questo, quanto piú presto si fará giudico sia meglio, perché el tempo dá a' cesarei facultá di provedersi, ed è loro commodo per molti rispetti, ed a noi può portare facilmente molte difficultá ed impedimenti. Non dico giá el medesimo, se Vostra Santitá si risolvessi a amicizia con Cesare, perché quanto piú lungamente si potessi tenere sospeso, tanto sarebbe meglio, per ritardare quanto piú si possa el corso de' progressi suoi, e perché non sará mai troppo tardi el precipitarsi in servitú.

 

 

 

XV

 

[Giustificazione della politica di Clemente VII.]

 

È sentenzia approvatissima appresso a tutti e' savi che gli eventi delle cose non sono sicuro giudice delle deliberazione che fanno gli uomini, ma solamente le ragione che gli hanno mosso a deliberare; perché la esperienzia ha mostro spesso consigli prudenti avere sortito infelice fine, e pel contrario in molte azione avere avuto piú parte la felicitá che la prudenzia. E questa diversitá tra gli effetti e le cause accade piú nelle guerre che in qualunche altra cosa umana; perché le sono tanto sottoposte alla potestá della fortuna, che a ogni ora per ogni minimo accidente ricevono variazione grandissima, portando molte volte per caso estraordinario la vittoria a chi era ridotto in ultima desperazione.

Se adunche ne' tempi nostri ed in questi prossimi anni è accaduto che la guerra la quale prese Clemente VII pontefice romano in compagnia del re di Francia e de' viniziani contro a Cesare, ebbe infelicissimo fine, poi che in luogo della sperata vittoria e quiete di tutta Italia ne successe carcere nella persona sua propria, el sacco crudelissimo di Roma, ed infinite calamitá universale; non per questo solo s'ha a fare conclusione che la deliberazione di pigliare la guerra fussi imprudente e male considerata. Ma chi vuole condannare el papa di temeritá debbe, se non vuole essere temerario lui, esaminare diligentemente le ragione che lo mossono, perché da queste, non dallo evento, s'ha a fare giudicio della prudenzia o imprudenzia sua.

Io credo che ordinariamente sia officio di ciascuno principe essere alieno dal fare guerra se non concorrono dua fondamenti: el primo, quello della necessitá, cioè quando si pigliano l'arme per liberarsi da' pericoli, o almanco per acquistare quello che giustamente se gli appartenessi; l'altro, della facilitá, cioè quando le cose sono disposte in modo che verisimilmente può sperare vittoria, o almanco non sia escluso totalmente della speranza; e che cessando qualunche di questi dua fondamenti, sia tutta ambizione o leggerezza. La quale debbe essere sommamente ripresa, perché nessuna cosa è piú perniziosa a' popoli che la guerra del suo principe, nessuna partorisce piú e maggiori mali; e l'officio d'ogni principe è astenersi quanto può da tutto quello che offende Dio, da chi ha ricevuto tanto beneficio; curare quanto può la salute de' suoi sudditi, per interesse de' quali, non per utilitá propria, è stato messo in tanta altezza. E questa circunspezione si conviene molto piú a uno pontefice romano, di chi è principale la cura spirituale, né gli è stata data la potestá temporale se non per accessoria e sustentacolo di quella; in tanto che se bene gli è concesso pigliare l'armi per difendere da' pericoli sé e la autoritá della Sedia apostolica, non so se sia sufficiente giustificazione quando lo facessi per recuperare stati temporali della Chiesa, eccetto dove non fussi lo interesse della religione o fede cristiana; perché è forse a lui piú conveniente tollerare qualche danno, che suscitare guerre; cosa tanto calamitosa alle persone ed anime de' cristiani.

Ma lasciando ora da parte questa disputa come superflua nel caso nostro, io voglio presupporre che se la necessitá di liberarsi da' pericoli non indusse Clemente alla guerra, che lui merita essere biasimato come pontefice poco consideratore dello officio suo. Dico ancora che se secondo le opportunitá che allora si mostravano, non poteva almanco avere qualche speranza della vittoria, che e' debbe essere ripreso di imprudenzia; perché non solo chi si muove a acquistare quello che se gli appartiene è temerario a pigliare l'arme se non spera verisimilmente la vittoria, ma ancora chi è nella necessitá, non debbe entrare in guerra se è escluso di ogni speranza di vincere, massime quando el non difendersi non gli porta subito la ruina totale; perché el tentare di ovviare con le arme a' pericoli, senza avere forze di farlo con effetto, sempre gli accelera e gli accresce, ed è stultizia grande per fuggire el pericolo minore entrare nel maggiore. Ed in questa vicinitá della ruina totale e presente non pareva fussi Clemente; perché se bene temeva che la grandezza dello imperadore fussi per diminuire la autoritá sua e della Sedia apostolica, non aveva forse da temere che la fussi per distruggere o annichilare el pontificato; e minore male era tollerare qualche indignitá o depressione, che sanza speranza di vittoria pigliare una guerra, donde e lui e la Chiesa fussi per cadere in quegli estremi mali e pericoli. Consideriamo adunche quale fussi allora lo stato delle cose, e se in Clemente fu necessitá e speranza sufficiente a fargli pigliare l'arme.

E' non è dubio alcuno che la potenzia di Cesare, quando ebbe vinto e fatto prigione el re di Francia, diventò formidolosa a tutta Italia, non vi sendo restato ostacolo che potessi interrompere el corso delle sue vittorie; el quale pericolo apparí molto maggiore quando lui ebbe occupato lo stato di Milano, e ridotto in castello el duca Francesco Sforzia in tanta angustia che, non essendo soccorso, bisognava venissi presto alla dedizione. Ma si mostrò ancora piú spaventoso quando Cesare liberò el re di Francia, ricevuto, tra gli altri patti, cessione da lui delle ragione del ducato di Milano, e promessa di non si intromettere piú in alcuna cosa di Italia, e di dargli armata per favorire la venuta sua a Roma alla incoronazione; per el quale accordo restava certo esclusa ogni speranza di potere resistere a Cesare se el re stava fermo nella osservanzia delle promesse. Spaventava questo pericolo tutti e' potentati di Italia ed el papa particularmente, che si trovava sanza arme, sanza danari, e con lo stato della Chiesa condizionato di sorte, per la debolezza delle terre e per le fazione de' sudditi suoi, che essendo assaltato da Cesare, non arebbe avuto forma alcuna di difendersi; in modo che avendo lui da dubitare e della ambizione ordinaria degli uomini e della insolenzia naturale di chi è vincitore, non gli restava altra sicurtá, non volendo cercare nuovi compagni ed amicizie, che confidarsi nella maestá del pontificato e nella opinione, che insino allora era divulgata da molti, della bontá di Cesare. La quale sicurtá era molto dubia, poi che in tutto dependeva dalla potestá e disposizione di altri; e di chi? D'uno principe oltramontano, principe giovane, potentissimo, fortunatissimo, e che poteva numerare piú vittorie che anni di imperio, ed el quale aveva facultá di coprire le imprese ambiziose con titoli apparenti di ragione; e si sapeva che era ardentemente stimolato da molti suoi ministri di aprire el seno a tanto favore della fortuna, e dirizzare lo animo a fare una monarchia, della quale era el principale fondamento stabilire a vóto suo le cose d'Italia.

Ed ancora che per la bontá sua e per la esperienzia che si è veduta poi di lui, si fussi potuto credere el contrario, nondimeno molte ed efficacissime ragioni concorrevano a farne giustamente sospettare. Prima le antiche e generale: che la potenzia delli imperadori suole essere perniziosa a' pontefici, essendosi per esperienzia di lunghissimi tempi veduto, che rare volte tra queste dua supreme potestá è stata vera unione e concordia; né è maraviglia, perché l'uno domina e risiede in Roma, l'altro ha el titolo dello imperio di quella e di tante terre che tengono e' pontefici; e come el papa pretende che la cura spirituale sia tutta sua, cosí lo imperadore pretende essere lui amministratore di tutto el temporale, ed iuridico signore di tutto el mondo. Sono queste dua potestá, cioè la spirituale e la temporale, nomi ed effetti diversi, ma tanto bene corrispondono e quadrano l'una con l'altra, che sempre e' príncipi hanno cercato di unirle quanto hanno potuto: però ed e' pontefici pigliano spesso piú della autoritá temporale che non ricerca l'officio loro, ed e' príncipi seculari, sempre quando n'hanno avuto occasione, si sono fatti padroni dello spirituale.

Appresso agli ebrei el piú delle volte uno medesimo era principe e pontefice massimo; e se non uno medesimo, era el pontefice massimo creato dal principe e da lui dependeva; e communemente era di quelle persone che sono reputate una cosa medesima, cioè figliuoli, fratelli o nipoti; nella religione gentile chi era Cesare appresso a' romani era anche pontefice massimo. Non hanno permesso gli ordini della religione cristiana che sia facile questa coniunzione, ma gli antichi imperadori, benché cristiani, mentre potettono, vollono che 'l pontificato dependessi da loro, sí nella forma della elezione, la quale non aveva effetto sanza la confermazione de' Cesari, come in volere essere giudici delle calunnie ed imputazioni che fussino loro date. Ed a noi è ancora fresca la memoria di Massimiano, Cesare avo di questo, che essendo restato vedovo, aveva tra le altre sue chimere, avuto disegno di farsi pontefice. Che sicurtá adunche, che certezza poteva avere Clemente, che Cesare, in chi non solo è el nome e titolo cesareo, ma le ragione, la autoritá, la potenzia simile a quella delli antichi Cesarì, non aspirassi a restituire la corona imperiale in quella pristina sua maestá e dignitá? a abbassare la autoritá e potenzia de' pontefici, non tanto per appropriarsi el dominio che loro tengono, quanto perché deprimendo loro o reducendogli dependenti da sé, si toglieva uno de' piú potenti ostacoli a conseguire el dominio d'Italia, ed a ampliare mirabilmente la sua grandezza?

Aggiugnevansi a queste ragione altre piú particulari e piú fresche; perché se bene Clemente mentre era cardinale avessi favorito caldamente le cose di Cesare, anzi fussi stato uno de' principali instrumenti a fondare in Italia la sua grandezza, nondimeno poi che fu assunto al pontificato, era cessata presto la confidenzia grande che era prima tra loro, ed in progresso di tempo diventata mala satisfazione, essendo parso a Cesare che nella venuta del re di Francia in Italia el papa non avessi voluto correre piú seco la medesima fortuna, ed a Clemente essere stato doppo la vittoria di Pavia trattato in molti modi male da' capitani suoi; e non solo sprezzato le sue querele da Cesare, ma veduto che lui non ratificava la capitulazione fatta coi viceré, per osservanzia della quale el papa aveva sborsato grossa somma dì danari, e che contro alla forma de' capitoli, le cose dei duca di Ferrara erano intratenute da loro, e mantenute le guarnigione nelle terre della Chiesa, era entrato in suspizione che Cesare non fussi di animo sincero verso di lui, e che per questo e per molti altri segni che tuttodí si vedevano, Cesare non aspirassi al dominio d'Italia.

Le quali suspizioni multiplicando ogni dí in infinito, secondo che è la natura di queste cose come è aperto loro lo adito, spinsono el papa a prestare orecchi a certe pratiche che per mezzo di Ieronimo Morone si tenevano col marchese di Pescara, di dissolvere lo esercito, e dare al marchese el regno di Napoli; le quali essendo venute a luce, accrebbono da ogni banda el sospetto: in Cesare, perché gli parve avere compreso lo animo del pontefice alieno in tutto da sé; nel papa, perché pensò che la suspizione e l'odio fussi cresciuto in Cesare. E tanto piú che lui subito, o necessitato di assicurarsi, o pigliando el pericolo per occasione, occupò lo stato di Milano ed assediò el duca Francesco in castello, donde si augumentò el timore ed el sospetto di tutti, parendo che Cesare caminassi scopertamente al dominio d'Italía, e che gli altri tutti restassino a sua discrezione, se alla autoritá dello imperio ed a tanti regni, e spezialmente a quello di Napoli, parte tanto notabile d'Italia, si aggiugnessi el farsi padrone del ducato di Milano. E tanto piú che in tutte le pratiche che si tennono con Cesare di volere assicurare le cose d'Italia, non si potette mai spiccarlo dal proposito di volere disporre di quello ducato nella persona di monsignore di Borbone, persona che per essere inimicissimo del re di Francia era necessitato dependere totalmente da lui.

Partorirono questi princípi una fine molto suspiziosa per el pontefice; perché avendo lui strettissima pratica di collegarsi col governo di Francia e co' viniziani in soccorso del duca Francesco, ed avendo a instanzia delli agenti di Cesare, che promettevano che lui accetterebbe certi capitoli proposti da Sua Santitá, consentito di aspettare dua mesi la risposta sua, Cesare, parendogli essere necessitato convenire o col re di Francia o col papa e con gli altri d'Italia, elesse piú presto lo accordo di Francia, mettendo in libertá lo antico inimico suo; che parve segno manifestissimo di pensare a farsi padrone d'Italia, poi che per poterla avere a sua discrezione aveva manco stimato tante ragione che erano in contrario. Potriansi riferire molte altre particularitá, ma tutte tendono a questo, che per la ambizione ordinaria degli uomini, per quelli fini che communemente hanno avuto gli imperadori, per le diffidenzie nate tra loro e per moltissimi segni, el papa aveva grandissima causa di temere la grandezza di Cesare, al quale lui per sé solo non poteva resistere.

In questo stato delle cose sopravenne la certezza che el re di Francia, giá ritornato nel regno suo, era parato collegarsi col papa e co' viniziani, ed in compagnia loro soccorrere el duca di Milano; a che el re d'Inghilterra confortava molto el papa, promettendo ancora lui di accostarsi alla lega, e' viniziani ardentemente lo stimolavano. Che aveva adunche a fare el papa, presupposto che le forze di tanti principi collegati fussino tali da potere sperare la vittoria? Aveva egli a volere piú presto che in potestá di Cesare fussi sottoporre Italia, deprimere la persona sua o la autoritá della Sedia apostolica, che mettersi a fare pruova di conservare la libertá della Chiesa e di tutti, e riducere le cose in termine che gli stati di ciascuno fussino sicuri? Certo non poteva dire questo, se non chi avessi portato sicurtá da Cesare, che lui, contento al suo, non fussi per turbare la quiete degli altri, o chi fussi di opinione che a uno pontefice romano, essendo vicario di Dio in terra ed avendo per principale obietto la salute delle anime, si appartenessi piú presto lasciare ogni cosa in preda che implicarsi in guerre.

Delle quali ragione nessuna è vera, perché la sicurtá che Cesare non avessi a travagliare gli stati di alcuno, si poteva piú presto sperare che affermare, non potendo alcuno prudente promettere quello che depende da altri. Ed ancora che la fama che insino allora era in bocca di molti, e la esperienzia di quello che si è veduto di poi, avendo lui nella venuta sua in Italia onorato santissimamente ed esaltato la persona del pontefice, restituito con somma bontá e generositá al duca Francesco Sforzia lo stato di Milano, e fatto ogni opera perché Italia, sicura della potenzia e delle arme sue, restassi tutta in pace, faccia fede che lui anche allora sarebbe stato inclinato alla sicurtá e quiete di tutti; nondimeno neanche queste ragione bastavano a fare deliberare el papa a rimettersi totalmente a sua discrezione. Perché se bene tutto quello che ora ha fatto Cesare, l'abbi fatto per sua natura e per desiderio di pace, e non perché per la lunga esperienzia e travagli seguiti poi, abbia cognosciuto piú difficultá d'appresso che non immaginava da lontano, o perché al presente le cose d'Italia si trovassino in altri termini che non erano allora, o perché sia stato necessitato pensare a' pericoli imminenti da' turchi e da' luterani alla Ungheria ed alla Germania, essendo, dico, certissimo ciascuno che la sua bontá e non alcuna necessitá è stata causa di queste sante deliberazione, chi poteva allora prometterselo sí al sicuro, che avessi a lasciare riducere le cose totalmente in arbitrio suo?

Non si era ancora veduto di lui e della mente sua sí certa esperienzia che assicurassi questa opinione; anzi dava ombra in contrario le dimostrazioni e le opere de' capitani suoi d'Italia, delle quali se bene venivano le querele agli orecchi suoi, non si vedeva farvi alcuna provisione; facevano dubio tante altre ragione discorse sopra, ed el considerare bene la natura de' príncipi, e' quali ancorché lungamente siano stati buoni ed alieni dalla ambizione, accade spesso che invitati dalle occasione, alterati dagli sdegni, spinti da' sospetti, mutano natura ed operano el contrario di quello che prima hanno avuto in animo; ed è anche vizio naturale degli uomini, che dove hanno qualche apparenzia di ragione si persuadono facilmente le imprese sue essere giustissime e santissime. Ed in Cesare mancano forse colori di potere tirare a sé legittimamente tutta la autoritá temporale? poi che le legge dicono che lui è signore di tutto el mondo, ha gli esempli degli antichi Cesari, e quando bene non avessi voluto deprimere la autoritá della Sedia apostolica, gli mancava occasione di cercare di abbassare el papa, con chi forse aveva odio, per via di concili desiderati e ricercati da molti come necessari per la eresia di Luther che ogni dí ampliava, e per molti disordini che sono nella Chiesa? Di poi che cosa piú oscura, piú incerta, piú fallace che e' cuori delli uomini pieni di infinite latebre e laberinti? Però è stata sempre opinione verissima de' savi, che mai alcuno o principe o privato si può chiamare sicuro d'altri, se non quando le cose sono disposte in modo che lui non ti possa nuocere, perché della voluntá d'altri non si può avere alcuna certezza o sicurtá, poi che è nascosta e mutabile; e quando bene ne potessi restare sicurissimo, ciascuno principe che è veduto dependere in tutto dalla discrezione di altri, resta senza riputazione, senza degnitá, senza maestá, piú presto col nome, con l'abito, con gli ornamenti di principe che con la potestá, con la sustanzia ed effetti.

Le quali ragione, se io non mi inganno, ci sforzano a concludere che se bene, considerato quello che Cesare ha fatto di presente, el papa sarebbe potuto riposarsi in sulla opinione della sua bontá, che e' non sarebbe stato prudente a farlo, né a volere correre pericolo di ingannarsi in caso tanto importante non solo alla persona sua, ma alla Sedia apostolica ed al beneficio commune di tutta Italia. Né si può, anche se si discorrono le cose per l'ordine loro, dire che el papa dovessi lasciare piú presto in preda lo stato e la autoritá della Chiesa che pigliare l'arme, perché io credo che sia officio d'ogni buono e prudente pontefice conservare el grado e la autoritá lasciatagli dagli antecessori suoi, massime che declinando di quella perderebbe non manco lo spirituale che el temporale.

Io confesso essere proprio ufficio del papa la cura spirituale, e dico piú, che molto maggiore e piú potente farebbe uno pontefice la autoritá spirituale, se non gli fussi turbata, che tutta la temporale che lui potessi avere; e che el dimettere le cure temporali lo farebbe piú sicuro, piú grande, piú reverendo nel conspetto di tutta cristianitá, se gli uomini fussino di quella bontá che doverebbono essere. Ma essendo el mondo pieno di malignitá, chi dubita che se uno pontefice non aiutassi le cose sue con ogni spezie d'arme e di potenzia, che sarebbe annichilato non manco nello spirituale che nel temporale? Perché ciascuno principe lo vorrebbe constringere a distribuire a modo suo e' benefici, le dignitá, le dispense e gli altri tesori e facultá ecclesiastiche; a' quali consentire sarebbe perniziosissimo, ed el recusare pericoloso alla persona sua ed alla Chiesa, e di gravissimo scandolo universale.

Le cose per lunghissimi tempi sono transcorse in luogo, e si è tanto smarrita la reverenzia, la devozione ed ogni forma di santo vivere, che solamente la vita esemplare e la santitá de' pontefici non basta a riducerle al grado suo se non in processo di lunghissimo tempo; bisogna sia seguitata dal resto della corte, accompagnata dalla voluntá de' principi e favorita dal consenso universale. Le quali cose se uno pontefice volessi conducere per violenzia, sarebbe prima oppresso che vi avessi fatto alcuno fondamento; ed el tirarle innanzi con persuasioni e con lo esempio, ha bisogno di tempo sí lungo e di tanta fortuna, che prima sarebbe ridotto in ultimo disprezzo el pontificato e perito lo infermo, innanzi avessi potuto aspettare la operazione della medicina. Però è necessario che uno pontefice, essendo di costumi integri ed esemplari, e ritenendo sempre ottima mente, accompagni el governo universale del pontificato con la memoria di essere ancora principe, e che non si può lasciare cadere l'uno che non vadia in terra l'altro; sprezzate le opinioni false di chi si persuade altrimenti, non pigli le arme per cupiditá d'imperio, non per odio o per vendetta, ma si difenda piú presto con le arme che lasciarsi tôrre la potestá temporale; perché poi che quella gli è stata o data o tollerata sí lungamente, è sua; e statagli lasciata dagli antecessori è obligato restituirla a' successori; e perché non può essere violata questa che non patisca la autoritá spirituale, ed aprasi la via a mettere l'ordine ed el governo ecclesiastico ne' principi laici; che è quello che e' sacri canoni hanno al continuo tanto proibito e detestato.

Era adunche Clemente, acciò che in potestá di Cesare non fussi violare la autoritá del pontificato e sottoporsi Italia, in necessitá manifesta di pigliare l'arme, pur che avessi speranza verisimile di potersi difendere. Circa a questo, che è l'ultimo articolo del discorso nostro, io parlerò brevemente, perché sarebbe troppo lungo discorrere tutti e' particulari, e perché la cosa è sí fresca che gli uomini facilmente possono riducersi in memoria e' fondamenti principali. Dico adunche, che pigliando Clemente le arme con la lega ed apparati che si feciono, non solo non doveva desperare la vittoria, ma n'aveva quella speranza che si può avere nelle guerre, del fine delle quali non si può avere certezza alcuna, essendo tutte dubie e sottoposte alla potestá della fortuna. Perché essendo da una banda apparato grandissimo d'arme e di danari; dall'altra uno piccolo esercito senza provisione alcuna necessaria alla guerra, e massime penurioso di danari; senza speranza di soccorso propinquo; co' popoli dello stato di Milano inimicissimi e con molte altre difficultá; Cesare lontano, ed a chi secondo e' capituli della lega aveva el re di Francia a rompere subito guerra di lá da' monti; ed e' collegati tutti correndo in questa impresa grandissimi interessi, non pareva restassi altro dubio di felice fine che o la fortuna di Cesare stata insino a quello di grandissima, o che el re di Francia, per essere e' suoi figliuoli in mano di Cesare, procedessi freddamente.

El dubio della fortuna non era cagione sufficiente a fare ritirare e' príncipi da una impresa che pareva quasi vinta; perché questo è proprio della fortuna, essere instabile ed incerto; e chi lungamente l'ha avuta favorevole tanto piú debbe temere la sua mutazione, e coloro massime che non la sapendo o ricevere o conservare, l'hanno provocata a partirsi da sé, come pareva che avessi fatto Cesare; poi che, con consiglio che da ciascuno fu giudicato imprudentissimo, aveva liberato el re di Francia e voluto piú presto fidarsi di uno inimico suo naturale che di quelli che, rimosso el timore, desideravano essergli amici. Né era ragionevole che el re di Francia non procedessi nella guerra con la debita caldezza; perché avendo mancato di osservare la capitulazione di Madril, né voluto recuperare e' figliuoli per via della pace, anzi collegatosi a nuova guerra contro a Cesare, quanto piú la guerra si faceva gagliarda e potente, tanto piú poteva sperare la recuperazione de' figliuoli, e che el rigore dello accordo fatto si riducessi a qualche condizione piú piacevole; e tanto piú che per la etá tenera de' figliuoli, la dilazione del recuperargli non era di tale preiudicio che per questo avessi a mancare allo onore ed utilitá sua, e per dire meglio, a sé medesimo.

Che la speranza della vittoria fussi grande in favore della lega ne è sufficiente testimonio el progresso della guerra, che per sé medesima, per la grandezza delle forze e difficultá infinite degli inimici, senza favore alcuno estraordinario della fortuna, senza industria o virtú de' capitani, andò insino all'ultimo punto della vittoria, né ebbe altro inciampo che gli errori manifesti di chi aveva el carico della impresa, nonostante che lo esercito de' collegati si fussi condotto in sulle mura di Milano sanza svizzeri, che era el fondamento principale che si era disegnato ed ordinato. Ma che maggiore testimonio vogliamo noi che quello degli inimici medesimi, e' quali innanzi che si rompessi la guerra e poi, mostrorono temere di non potere sostenere tanto impeto? Che indusse Cesare a liberare el re di Francia se non el diffidare di potere resistere alla Italia ed alla Francia insieme? E se temé di questo quando si trattava la lega col governo di Francia confuso ed attonito per la prigione del suo principe, quanto è da credere che piú ne temessi poi che el re di Francia libero e ridotto in Francia era diventato capo della lega? Nel quale tempo Cesare dubitò tanto dello esito delle cose che mandò al papa in poste don Ugo di Moncada con espressa commessione di rilasciare lo stato di Milano, che era la causa per la quale sola el papa e viniziani entravano nella nuova guerra; la quale offerta si sarebbe accettata, se el papa, essendo giá fatta la lega nuova, avessi voluto mancare della sua fede al re di Francia.

Sentiva adunche Cesare in quanto pericolo erano le cose sue; sentivanlo e' capitani e li agenti suoi, e' quali, soliti sempre confortarlo alla guerra, persuadevano in questo tempo e desideravano la pace. Furono intercette lettere di don Ugo a Cesare date in Siena, quando partito da Milano andava a Roma per trattare la concordia col papa, nelle quali avendo el dí medesimo avuto certezza in Firenze della lega fatta, lo conforta caldissimamente alla pace, mostrando la grandezza del pericolo ed uno consenso ardentissimo di tutta Italia contro a' soldati spagnuoli. Furono intercette lettere del marchese del Guasto e di Antonio di Leva, capitani allora dello esercito, scritte al duca di Sessa, oratore cesareo in Roma, ed al medesimo don Ugo, nelle quali largamente concludono le cose loro non avere rimedio, riscaldando e sollecitando quanto potevano la concordia col papa. Adunche non senza cagione el papa sperò la vittoria; adunche con buoni fondamenti cominciò una guerra desiderata estremamente da tutta Italia, come giudicata necessaria alla salute universale; e se allo effetto delle guerre importa cosa alcuna la giustizia della causa, che cagione se non onorevole, se non giusta, se non santa, indusse el papa a questa impresa? Nella quale non cercò altro che, restituito lo stato al duca di Milano, cosa di tanto momento alla sicurtá commune, Italia tutta si riducessi in una ferma e tranquilla pace; non capitulò di occupare quello d'altri; non acquistò alcuno particulare o per la Chiesa o per la famiglia sua; non di spogliare Cesare degli stati suoi, se non in quanto si trattò, che non bastando la guerra di Lombardia a indurlo alla pace, si assaltassi el regno di Napoli, con condizione però che eziandio acquistato che fussi, si restituissi a Cesare, se fra certo tempo accettassi e' capitoli della pace, e che alla fine persistendo lui nella sentenzia sua, vi si eleggessi con consenso commune de' collegati, uno re che fussi a proposito per beneficio di tutti.

Indusse adunche el papa a questa impresa e la necessitá e la speranza, l'una e l'altra grandissima e ragionevole, e però chi temerariamente e mosso solo dallo effetto, lo biasima di imprudenzia o di cupiditá, tacia in futuro; o se pure non vuole farlo, si può debitamente usargli contro la giustissima imprecazione di colui, che sdegnato della ignoranzia di quelli che giudicano le cose dagli effetti, pregò che tali persone in tutte le sue azioni mancassino sempre di prosperi successi, acciò che con la esperienzia in sé proprio imparassino, che la prudenzia ed e' buoni consigli degli uomini non sono sufficienti a resistere né alla voluntá di Dio, né alla potestá della fortuna.

 

 

 

XVI

 

[Ragioni che consigliano la signoria di Firenze

ad accordarsi con Clemente VII.]

 

Io sono certissimo che se le Signorie Vostre fussino state capace della ottima mente che ha la Santitá di Nostro Signore verso questa nobilissima cittá, e quanto dispiacere abbi avuto ed abbia de' danni che quella ha sopportato e sopporta, e de' pericoli gravissimi in che al presente si truova, che tra Sua Santitá e Vostre Signorie non sarebbono mai state né sarebbono di presente alcune difficultá, anzi che Vostre Signorie arebbono avuto ricorso in ogni occasione a Sua Santitá come a vero e amorevolissimo padre, e quella, come è stato sempre l'animo suo, arebbe atteso a beneficare ed esaltare questa sua dilettissima patria. Ma la mala fortuna dell'uno e dell'altro ha voluto che in questa cittá doppo la mutazione dello stato si sia sempre avuta sinistra opinione dell'animo di Sua Santitá, nonostante che quella abbia fatto ogni diligenzia di fare cognoscere la veritá; che è stato el principio donde sono nati tanti mali da' quali è ora oppressa questa infelice patria. E certo se Vostre Signorie vorranno sanza passione considerare le cose passate, confesseranno avere dato a Sua Santitá molte cagione di sdegnarsi contro a questa cittá. Lasciamo andare le ingiurie fattegli immediate doppo la mutazione dello stato, come fu guastare le immagine che erano nella chiesa della Nunziata, in che certo si doveva pure almanco avere rispetto e riverenzia a quella gloriosa Madre; come fu el levare le arme de' Medici non solo de' luoghi publici ma ancora degli edifici che loro avevano edificati del suo proprio; e molte altre indegnitá di parole, le quali si possono forse in qualche parte scusare per la caldezza in che erano gli uomini in sulla mutazione dello stato, ancora che non fussi stato mutato per forza e con arme, ma ceduto volontariamente da' ministri di Sua Santitá.

Lasciamo andare tutte queste cose; ma non si è egli sempre continuato, insino al principio della guerra, in offendere ed ingiuriare sanza rispetto Sua Santitá e come pontefice e come uomo particulare della casa de' Medici; molestatogli e' beni e le entrate sue contro alla forma della legge che si fece quando si mutò lo stato; non voluto mai restituirgli la sua poveretta nipote, ancora che per la etá e per el sesso la fussi innocentissima; posto sanza rispetto alcuno di vostra autoritá imposizione gravissime al clero; e ancora che Sua Santitá avessi mandato sí liberamente la assoluzione, continuato poi sempre nel medesimo errore, sforzando a vendere e' beni delle chiese, sanza rispetto alcuno di offendere Dio e la autoritá della Sedia apostolica; non voluto non solo mandargli imbasciadori come a pontefice, come fanno tutti gli altri principi cristiani, ma recusato di udire, e proibito con tanta inumanitá lo entrare in Firenze messer Antonio Bonsi vescovo di Terracina vostro cittadino, che non era mandato a altro effetto che per fare fede della buona mente di Sua Santitá, e che si pigliassi qualche modo per el quale questa cittá fussi sicura che la mente di Nostro Signore non era di alterare la vostra libertá ed el vostro governo, e Sua Santitá fussi assicurata che le cose sue non fussino molestate e che la cittá lo ricognoscessi ed onorassi come pontefice? Nelle quali cose trovò sempre tanto poca disposizione che non solo fu rifiutata ogni offerta, ogni opera che a questo effetto fece Sua Santitá, ma alla fine levato ingiustamente di palazzo Niccolò Capponi vostro gonfaloniere, cittadino buono, e che era stato tanto amatore della libertá, non per altro se non perché cognoscendo e' disordini e la ruina che era per seguire da questi modi, desiderava e cercava inducere qualche concordia tra Sua Santitá e questa cittá.

Sarebbe lungo narrare tutti e' particulari; ma con che colore, con che giustificazione messono le Vostre Signorie mano alle cose di Perugia, essendo cittá della Chiesa e nella quale non potevi pretendere ragione alcuna? E nondimeno, benché queste ingiurie fussino grande e dispiacessino assai a Sua Santitá, non lo mossono mai né a desiderare né a pensare di volere fare male a questa cittá, perché piú poteva in lui lo amore della patria, la considerazione della autoritá che ci avevano avuto sí lungo tempo e' passati suoi, gli oblighi e gli interessi della casa sua con questa cittá, che ogni ingiuria; e ricordandosi del tempo che era stata in Firenze e in che modo ci era vivuta, e con quanto amore e dimestichezza di tutti voi, non si è mai potuta persuadere che questi modi sinistri siano proceduti tanto per odio verso lui o per malignitá, quanto per uno sospetto imprudente che si è avuto di Sua Santitá, el quale ha a poco a poco traportato gli uomini forse piú oltre che loro medesimi non arebbono voluto.

Però Sua Santitá, ancora che con suo carico e con indegnitá della Sedia apostolica, era deliberata piú presto andare tollerando e aspettare che el tempo e la veritá aprissi gli occhi di chi aveva mala opinione di lui, che travagliarsi mai direttamente o indirettamente di cosa alcuna della vostra cittá; e cosí arebbe continuato di fare se la necessitá ed el desiderio di salvare la patria sua non l'avessi sforzato a fare altrimenti. Perché essendo per venire lo imperadore in Italia e reputandosi molto ingiuriato da questa cittá, perché aveva mandato le gente nel reame, e in molti modi offesolo sanza alcuno rispetto, non è dubio che e per vendicarsi e per assicurarsi del governo presente, del quale per essere tenuto tanto franzese non si sarebbe mai confidato, che era disposto o di distruggere questa cittá o di pigliarne la signoria e farla camera di imperio, o almanco torgli Pisa e Livorno, Arezzo ed e' piú importanti luoghi di questo dominio.

Al quale pericolo volendo provedere Sua Santitá, e reputandosi come cittadino di questa patria essere obligato a aiutarla e salvarla, non ci avendo trovato altro espediente, nella capitulazione che fece con lo imperadore in Barzalona, capitulò che lo imperadore si contentassi di non volere piú oltre che la mutazione del governo di questa cittá, mostrando che questo gli bastava a restare sicuro di questa cittá, e pregandolo che per rispetto suo volessi rimettere alla sua patria le ingiurie ed el desiderio che aveva di vendicarsi. Il che Sua Santitá chiama Dio in testimonio che non cercò per interesse suo particulare, né per rendere lo stato di Firenze alla casa sua, ma solo per amore e per desiderio di salvare questa patria, sperando che fatto questo gli fussi facile persuadere Cesare a contentarsi di una forma di governo libero e ragionevole, e che fussi commune a tutti e' cittadini, e che a Sua Santitá paressi sicuro, a Sua Maestá e allo interesse di tutti. E certo Sua Santitá si dette sempre a intendere che questa cittá, cognosciuto tanto pericolo che gli veniva addosso, certificata che fussi dell'animo di Cesare, avessi piú presto a cedere alla necessitá e pigliare quegli apuntamenti che ricercava la condizione de' tempi, che volersi tirare addosso questi eserciti e, trovandosi abbandonata da ognuno, pigliare una guerra sí pestifera.

Il che se si fussi fatto, non arebbe questa povera cittá sostenuto tanti mali drento e fuora; non sarebbono ridotte in sul vostro le arme che erano sparse in tutta Italia; non arebbono e' vostri danni, le vostre spese, e' vostri pericoli fatto utilitá a' viniziani, al duca di Milano, al duca di Ferrara, a' quali tutti ha giovato mirabilmente la vostra resistenzia, la vostra guerra; sarebbono salve le vostre possessione, le vostre case; goderesti la pace nella quale si truova ora, da voi in fuora, tutto el mondo, e che voi avete tanto tempo desiderata ed espettata per esercitare e' vostri traffichi, le vostre mercatantie; sarebbe questa cittá piú ricca, piú fiorita che la fussi mai, perché l'animo di Nostro Signore, se voi vi rimettevi in lui, non era tôrvi la vostra libertá, non appropriare el vostro governo a sé o a' nipoti suoi, ma col lasciarvi liberi, col ricorreggere e' difetti che ha el presente reggimento, e riducerlo in una forma giusta e santa, acquistare questa gloria apresso a tutti e' príncipi cristiani, lasciare questa memoria eterna nella vostra cittá, di avere amato piú la patria ed el bene suo che alcuno interesse particulare di casa sua.

Piacessi a Dio che fussi stata cognosciuta la voluntá sua, e che e' sospetti vani non avessino occupato in modo le mente vostre, che avessi procurato la ruina della vostra cittá! Ma poi che quello che è fatto non si può ricorreggere, bisogna pensare al futuro, e di salvare almanco quello che resta di questa misera cittá; di che volessi Dio che le Signorie Vostre avessino quello pensiero che ha Sua Santitá! La quale non pensa continuamente a altro, e ne vive con uno affanno incredibile, dubitando che per la durezza vostra questa povera cittá non vadia a sacco; ed a questo effetto sono piú dí m'arebbe mandato qui per ricordarvi ed avvertirvi del pericolo grande in che vi trovate, el quale augumenta ogni giorno; ma avendo compreso per gli andamenti vostri e per molte lettere intercette, che voi, pasciuti da speranze vane, eri in speranza grande di liberarvi dallo assedio, giudicò che el mandare qui in quello tempo servirebbe piú presto a farvi crescere le opinione false che a fare frutto alcuno, perché voi aresti creduto che lui mandassi per diffidenzia di potersi sostenere piú questa impresa, e per debolezza.

Ma ora che, se voi non vi volete ingannare, le cose sono ridutte in luogo che non si vede rimedio alcuno, e che tutte le speranze vostre sono annichilate, si è persuaso che mandando a confortarvi del bene vostro, non sia nessuno che possa negare che non lo muove altro rispetto che la compassione e la pietá che ha di questa povera sua patria; perché, ditemi un poco: che speranza vi resta piú? E se volete cognoscere che se alcuna ve ne resta è vana e che ve ne troverrete ingannati, ricordatevi quante n'avete avute poi che cominciò questa guerra, e di quante opinione false vi siate pasciuti, e che ogni cosa è ritornata vento e fummo. Sperasti nel principio, quando lo imperadore venne in Italia, che non gli avessi a piacere la grandezza del papa, e che la amicizia tra loro fussi per durare poco tempo; nondimeno lo effetto v'ha mostro el contrario, perché non furono mai dua principi in tanta fede e amicizia quanto sono questi, e per durare perpetuamente. Sperasti che poi che el primo esercito che venne col principe di Orange non bastava né a sforzarvi né assediarvi, che lo imperadore non avessi a mandare piú gente, anzi parendogli essere giustificato col papa d'avere fatto quanto poteva, avessi a tirare el principe in Lombardia, dove pareva n'avessi maggiore necessitá; e nondimeno lo imperadore vi mandò adosso uno nuovo esercito, e per poterlo fare pacificò tutte le cose di Lombardia. Sperasti che el papa non potessi reggere lungamente la spesa, e nondimeno l'ha retta tanti mesi e non è dubio che ha modo di reggerla ancora lunghissimo tempo. Sperasti, quando lo imperadore se ne andò nella Magna, che lo esercito avessi poco di poi a fare el medesimo, o perché lo imperadore fussi necessitato condurlo seco, o perché non volessi piú spendere, o perché e' disordini che pareva fussino nel campo l'avessino a risolvere; e nondimeno è tanto tempo che lo imperadore partí, e lo esercito non solo non è levato come di giorno in giorno vi persuadevi, ma è riordinato e ristretto lo assedio di sorte, che potete essere capaci che lo imperadore è per continuare insino alla fine; e cosí ogni dí sono a Roma lettere e uomini suoi che sollecitano a Napoli le provisione de' danari e confortano e riscaldano el papa a fare el medesimo. Sperasti, quando ripigliasti Volterra, col fare una grossa testa di fanti dovere aprire lo assedio, e nondimeno in sul colmo di questa speranza perdesti Empoli, èvi stato tolto Volterra, avete in pericolo Pisa, ed è tagliata la via a tutti e' vostri disegni.

Avete sperato lungamente nel re di Francia, e nondimeno in tanto vostro bisogno non avete veduto se non parole, e potete essere certi che el medesimo sará in futuro, perché secondo el costume franzese, piú conto tiene del papa perché può piú; e per mettere lo imperadore in piú necessitá di restituirgli e' figliuoli, gli è venuto a proposito che vi mantegnate vivi, per fare, come hanno fatto gli altri, mercatantia della ruina vostra. Avete pure lo esempio come vi trattò lo anno passato, quando contro a' capitoli della lega, contro alle promesse che tuttodí vi faceva, accordò con lo imperadore lasciandovi totalmente in preda ed a discrezione sua. Che credete sia per fare ora? Credete sia per rompere una guerra ed entrare per voi in nuovi travagli? Non lo pensiate, non lo crediate, perché avendo sborsato allo imperadore tanti danari si truova esausto.

Vedete e' viniziani accordati con lo imperadore; el papa d'accordo con lui; truovasi in Italia sí grosso esercito; è vicino a Italia, da potere a ogn'ora mandare nuove gente, e co' danari che ha avuto dal re di Francia può nutrire ogni grossissima guerra. Pensate che forse el re di Francia o altro re vi mandino danari sotto mano? Vi ingannate: non lo faranno per le ragione dette di sopra; e quando bene lo facessino che profitto vi sará? Perché, ora che è perduto Empoli e ridotte le gente in quello di Pisa, questi danari servirebbono a guardare Pisa, non a allargarvi lo assedio; ed ogni speranza di questa sorte non fa altro effetto che, allungando piú la guerra, allunga le vostre difficultá, e' vostri danni e vi mette a estremo pericolo del sacco. Speriamo, dirá un altro, che Dio ci aiuti, che non lasci perire questa cittá, dove sono tanti monasteri, tanti santi uomini, dove si fanno tante buone opere; soccorso certamente migliore di tutti gli altri quando venissi, ma che certezza n'avete voi tale che per questa debbiate governarvi imprudentemente? Non hanno scritto quelli in sulle predizione de' quali vi fondate, che vi governiate sempre saviamente, che facciate tutte le provisione umane, che non tentiate Dio? Non è questo tentare Dio, pigliare tutti e' partiti a contrario, pigliare una difesa sopra le forze vostre, volere soli resistere a tutto el mondo? Non si offende egli Dio a essere causa che tanti contadini, tanti poveri uomini muoino di fame, che tante donne vadino male, che una cittá sí bella, sí nobile si distrugga? Credete che Dio abbia misericordia di voi, poi che voi medesimi non l'avete? È bene conveniente collocare la speranza sua in Dio, raccomandarsi con le orazione e con le buone opere, ma di poi pigliare e' partiti con la ragione e sperare che Dio v'aiuti se vi governerete da savi, non fare el male perché venga bene, e governandosi secondo el debito della ragione, rimettersi del resto a Dio; altrimenti faccendo non lo placate, ma lo irritate e gli date cagione di voltare la sua misericordia in giusto sdegno.

Queste, se bene le considerate, sono le speranze vostre, le quali doverrebbe oramai toccare con mano ognuno che sono vane e sanza fondamento, e però essere certi che el papa si è mosso a mandare qui per compassione che ha di questa povera cittá, e nondimeno arebbe differito a mandare tanto che per voi medesimi vi fussi mossi a ricercarnelo; ma el timore che differendo piú non si sia co' rimedi a tempo, l'ha sforzato a non tardare. Perché Vostre Signorie hanno da sapere che se bene el papa desidera quanto può che questa cittá non vadia a sacco (e Cesare è della medesima opinione), nondimeno che la difficultá ha a essere con lo esercito, el quale giá tanti anni sono, non ha altra voglia, non ha altra sete che el sacco di Firenze. Ecci ora qualche rimedio a liberarvene; ma quanto piú si tarda a pigliare partito e quanto piú crescono le vostre necessitá, tanto augumenta questo pericolo, perché come lo esercito si accorgessi che la cittá fussi in termini che avessi da vivere per pochi, non bastrebbe alcuna autoritá de' capitani, non el papa, non Cesare se ci fussi in persona, a farlo ritirare; anzi la fama che la cittá fussi in grado che fra pochi dí avessi a cadere, ci farebbe concorrere molti altri fanti. Però el rimedio unico a tanto male è anticipare lo accordo; differendo, andate manifestamente al sacco. El papa, poi che con altro modo non può provedere a tanto pericolo, né salvarvi se anche voi non vi volete salvare, desidera almanco essere giustificato con Dio e con tutto el mondo, e particularmente con voi e con le pietre di questa cittá.