Pietro Metastasio

(pseudonimo di Pietro Trapassi)

LETTERE

 

 

I - A Francesco d'Aguirre,Torino

Roma I4 gennaio I7I8,

 

Il dolore, la confusione e la natural repugnanza a sì funesto ufficio mi scuseranno appo V. S. illustrissima, se nello scorso ordinario non le recai la dolente novella dell'immatura morte del mio caro maestro e benefattore, del fu signor abate Gravina, che Dio abbia in cielo. Fra le lagrime di tutta l'Europa, che farà giustizia a quel grande uomo, so che più giuste non potranno spargersene delle mie che, dopo essere stato da lui dall'undecimo fino al vigesimo anno dell'età mia con tanto dispendio e contraddizione alimentato e educato, e, quello che maggior tenerezza mi desta, ammaestrato, sono ancor dopo la sua morte rimasto con più vivo argomento dell'amor suo nell'elezione ch'egli ha di me fatta per suo successore nei beni così di Roma che di Napoli. Raccolga ella in qual costernazione io rimanga di ciò che ho perduto. Ma, poiché così piace a chi può dell'universo a suo talento disporre, cangi almeno V. S. illustrissima per mio conforto, tutto l'affetto ed amicizia che pel povero mio maestro nodriva, in altrettanto compatimento e favore verso di me, poiché così ella facendo mi renderà in gran parte ciò che la disavventura mi tolse. La mia umilissima servitù, che a lei ho fin da' più teneri anni già consacrata, come cosa non più mia non istimo dover nuovamente offerirle; in niun tempo però mi sarebbono più soavi i riveriti di lei comandi che in questo; onde di essi divotamente supplicandola, resto facendo sì a lei che alla gentilissima signora sua consorte e a tutti di casa umilissima riverenza.



II - A Francesco d'Aguirre,Torino

Roma 26 febbraio I7I8.

... A ciò ch'ella mi richiede sopra gli scritti e la morte del fu signor abate risponderò brevemente; e forse sarà ancor troppo tardi, essendolene, come credo, per altre parti giunto l'avviso.

Gli scritti in primo luogo sono in sicuro, e si penserà a suo tempo di non defraudare il mondo letterario di così belle produzioni e insieme di accrescere ornamento alla memoria di quel grande uomo, perché altrimenti facendo crederei mancare alla mia educazione ed all'obbligo di gratitudine.

Quanto alla malattia, giacché il di lei comando mi richiama alle lagrime, dirò solo che fu tanto breve, e così poco da lui e da me, per l'abituazione di tale infermità, apprezzata, che non diede neppur tanto timore che bastasse a preparare né anche in piccola parte l'animo nostro al funesto accidente. La domenica alle sei ore della notte egli fu assalito da' soliti dolori di stomaco ferocemente, i quali durarongli tutta la notte ed il seguente giorno. Il martedì poi mancarono di molto, e gli lasciarono un intermesso singulto. Io senza sua saputa mi portai dal medico Campioli, ed avendogli raccontato lo stato dell'infermo ebbi una piccola ricetta, colla quale si ottenne di rimovere quasi pienamente il suddetto singulto, talché il martedì notte riposò qualche tempo. Il mercoledì mattina egli si sentì sgravato quanto al dolore considerabilmente, ma si sentiva altresì una eccessiva fiacchezza ed affanno. Il mercoledì sera io, secondo il mio costume, tornai dal Campioli, e, riferitogli il tutto, egli ordinò varie cose, che furono tutte eseguite. Si sollevò egli in qualche parte, ma non potea in verun conto prender riposo. In fine alle dieci ore supraggiunto da un vomito d'atra bile, e forse da accidente, spirò nelle mie braccia.

Questa è la funesta istoria del mio povero benefattore e maestro. Ella intanto, se qualche momento le avanza dalle pubbliche cure, non isdegni darmi talora argomento dell'alta sorte ch'io godo della sua grazia; e facendo umilissima riverenza alla signora sua consorte e a tutti di casa, mi confermo...



III - A Francesco d'Aguirre,Torino

Napoli 23 dicembre I7I9.

Non ascriva V. S. illustrissima a mia dimenticanza o trascuraggine l'aver fino ad ora differito l'ufficio da me particolarmente dovutole nell'occasione delle presenti solennità e del principio del nuovo anno, avendo io ciò fatto a bello studio per rendermi in tal forma distinto dalla numerosa serie degli altri suoi servitori, siccome lo sono per venerazione, per stima e per affetto, fin dall'età puerile. Augurandole adunque adesso ogni piena felicità così in queste S.S. Feste come nel nuovo anno, ed in molti altri insieme, espongo a V. S. illustrissima sotto gli occhi quel desiderio che in ogni tempo nudrisco della sua prosperità, e l'assicuro che fra gl'infiniti che ne avrà ricevuti, questo augurio ch'io faccio è il più sincero ed il più appassionato.

I miei domestici interessi mi trasportarono, già molti mesi sono in Napoli, e mi ci ritenne poi la considerazione del pertinace odio che ancor si conserva in Roma non meno al nome che alla scuola tutta dell'abate Gravina, beata memoria, mio venerato Maestro. Qual odio, se non in tutto almeno in parte, si è trasfuso, e come discepolo eletto e come erede, sovra di me. Ed ancorché possa io con le mie rendite onestamente vivere in Roma, ho stimato prudente risoluzione il vivere lontano per non vivere fra nemici. Confesso però con tutta l'ingenuità che mi riesce più noioso questo soggiorno perché la rozzezza del paese, cagionata dalla mancanza della Corte, è così contraria al commercio civile, che malagevolmente un onest'uomo, educato in una città dominante, può assuefarvisi. Felice V. S. illustrissima che ha avuta la sorte d'incontrarsi in un principe che sa così bene conoscere ed esaltare il suo merito, così rara cosa ad incontrarsi presentemente. Le giuro su l'onor mio, ch'io sono così innamorato di codesto re, fin da quando ella ritornando in Roma me ne fece quel vivo ritratto, che tutte le mie meditazioni sono sempre state dirette a rendermi possibile il vantaggio di vederlo prima ch'io muoia. Poté bene la mia disavventura troncarmi nella morte del mio maestro la vicina speranza, già da me concepita, di adempiere allora questa brama, ma non fu già valevole ad iscemare un punto del mio desiderio; anzi tanto più mi si accrebbe, quanto era stato più vicino il conseguimento. La mia toleranza in questo paese non so quanto sia per durare, onde è certo che volendo io esentarmi di qui, e non potendo sperare in Roma alcun incamminamento fin che dura questo vento, passerò ultra montes, per cercare ove far nido, e probabilmente a Vienna, ove molti padroni ed amici, che colà dimorano, mi persuadono e promettono assistenza ed aiuto. In tal caso voglio in ogni conto passar per costà, e la supplicherò che mi dia l'onore di vedere, e, se sarà possibile, inchinarmi a Sua Maestà.

Se in cotesta città appresso ad un principe così distinto per tante sue particolari qualità mi fosse lecito di sperare qualche decente impiego, lascerei di buona voglia qualunque altro incamminamento, sì perché così mi persuade il mio genio, come ancora perché senza uscir d'Italia in tal caso avrei ritrovato a fondar le mie radici. Ed in fine perché potrei allora vivere appresso al mio caro e riverito signor avvocato, il quale fra tanti e tanti conoscenti, e miei e della beata memoria dell'abate Gravina, è stato il solo e l'unico che senza doppiezza mi abbia mostrato costantemente un amore candido e sincero ed una vera amicizia a differenza degli altri, che invece di difendere e sostenere nella mia persona l'onore della scuola e l'elezione del comune Maestro, hanno caricato e detratto le mie operazioni, pieni di malignità e di veleno. Io mi tratterrei volentieri più lungamente in questa lettera, ma non voglio che il mio piacere abbia a rendersi noioso a V. S. illustrissima. Si degni adunque di passare a mio nome il medesimo ossequioso ufficio, che con lei passo, con la signora sua consorte, e con tutta la sua riveritissima casa. E pregandola a rammentarsi della mia servitù e della mia vera amicizia, le faccio umilissima riverenza.

 

IV - Ad Apostolo Zeno, Vienna

Roma 5 novembre I729.

Non credeva di poter aver maggior titolo di rispetto per V. S. illustrissima di quello che m'imponeva il suo nome, che da me fu dal principio de' miei studi insieme con tutta l'Italia venerato; ma ora mi si aggiunge una inescusabile necessità, poiché senza taccia d'ingrato non posso dissimulare di dovere alla generosità sua tutta la mia fortuna. Ella mi ha abilitato, facendosi da me ammirare ed imitare; mi ha sollevato all'onore del servizio cesareo col peso considerabile della sua approvazione; onde ardisco di lusingarmi che, riguardandomi come un'opera delle sue mani, seguiti a proteggere quasi in difesa del suo giudizio la mia pur troppo debole abilità ed a regolare a suo tempo la mia condotta, facendomi co' suoi consigli evitare quegli scogli che potrebbe incontrare chi viene senza esperienza ad impiegarsi nel servizio del più gran monarca del mondo. La confessione di questi miei obblighi verso di V. S. illustrissima e le speranze che io fondo nella sua direzione, sono finora note a tutta la mia patria, e lo saranno per fin che io viva, dovunque io sia mai per ritrovarmi, unico sfogo della mia verso di lei infruttuosa gratitudine. Non essendomi prescritto tempo alla partenza, ho creduto che mi sia permesso di differirla fino alla quaresima ventura. Ho spiegato prolissamente a Sua Eccellenza il signor principe Pio le cagioni di tale dilazione. Supplico V. S. illustrissima ancora a sostenerle, perché io possa venire senza il seguito di alcun pensiero noioso, quando però sia tutto questo di pienissima soddisfazione dell'augustissimo padrone; e baciandole umilmente le mani, le faccio profondissima riverenza.

 

V - A un amico, Roma

Vienna 25 luglio I730.

Tornai martedì all'udienza per ordine del padrone a Laxenburg, assistei alla tavola, pranzai col signor principe Pio, e poi alle tre dopo il mezzogiorno fui ammesso alla formale udienza di Cesare. Il cavaliere che m’introdusse mi lasciò su la porta della camera nella quale il padrone era appoggiato ad un tavolino in piedi con il suo cappello in capo, in aria molto seria e sostenuta. Vi confesso che per quanto mi fossi preparato a quest'incontro, non potei evitare nell'animo mio qualche disordine. Mi venne a mente che mi trovava a fronte del più gran personaggio della terra e che doveva esser io il primo a parlare: circostanza che non conferisce ad incoraggire. Feci le tre riverenze prescrittemi, una nell'entrar della porta, una in mezzo della stanza, e l'ultima vicino a Sua Maestà; e poi posi un ginocchio a terra, ma il clementissimo padrone subito m'impose d'alzarmi, replicandomi: Alzatevi, alzatevi. Qui io parlai con voce non credo molto ferma, con questi sentimenti: Io non so se sia maggiore il mio contento, o la mia confusione nel ritrovarmi a' piedi di Vostra Maestà Cesarea. È questo un momento da me sospirato fin da' primi giorni dell'età mia, ed ora non solo mi trovo avanti il più gran monarca della terra, ma vi sono col glorioso carattere di suo attual servitore. So a quanto mi obbliga questo grado, e conosco la debolezza delle mie forze, e se potessi con gran parte del mio sangue divenir un Omero, non esiterei a divenirlo. Supplirò per tanto, per quanto mi sarà possibile, alla mancanza di abilità, non risparmiando in servigio della Maestà Vostra attenzione e fatica. So che, per quanto sia grande la mia debolezza, sarà sempre inferiore all'infinita clemenza della Maestà Vostra, e spero che il carattere di poeta di Cesare mi comunichi quel valore che non ispero dal mio talento.

A proporzione che andai parlando, vidi rasserenarsi il volto dell'augustissimo padrone, il quale in fine assai chiaramente rispose: Era già persuaso della vostra virtù, ma adesso io sono ancora informato del vostro buon costume, e non dubito che non mi contenterete in tutto quello che sarà di mio cesareo servizio, anzi mi obbligherete ad esser contento di voi. Qui si fermò ad attendere se io voleva supplicarlo di altro, ond'io, secondo le istruzioni avute, gli chiesi la permissione di baciargli la mano, ed egli me la porse ridendo e stringendo la mia: consolato da questa dimostrazione di amore strinsi con un trasporto di contento la mano cesarea con entrambe le mie, e le diedi un bacio così sonoro, che poté il clementissimo padrone assai bene avvedersi che veniva dal cuore. Vi ho scritto minutamente tutto, perché approvo la vostra curiosità ragionevole in questo soggetto.

 

VI - A Marianna Bulgarelli Benti, Roma

Vienna 27 gennaio 173I.

Ricevo questa mattina le lettere non solo della presente ma anche della scorsa settimana, e mi sollevo dalla malinconia che nella mancanza di quelle mi avea assalito, pel sospetto che qualche anima pia si fosse impiegata a scemarmi la pena di leggerle prevenendomi alla posta. Vi rendo grazie delle minute notizie che mi date di coteste opere e commedie, e godo che il nostro Ciullo si sia fatto onore. Spero che il posto in cui l'ha fatto impiegare Sua Santità non gli sarà infruttuoso. Avvisatemene, e frattanto salutatelo a mio nome. Oggi è appunto il primo giorno delle maschere, e io son qui a gelarmi. Pure mi trattengo piacevolmente, figurandomi voi impiegata e divertita. In questo momento, che secondo l'orologio di Roma saranno le 21 ore, comincerà la frequenza de' sonagli pel Corso. Ecco il signor canonico de Magistris, che apre l'antiporta. Ecco il signor abate Spinola. Ecco Stanesio. Ecco Cavanna. Ecco tutti i musici di Aliberti. Chi sarà mai quella maschera che guarda tanto le nostre fenestre? Fa un gran tirar di confetti, e non può star ferma. — È certo l'abatino Bizzaccari. — E quel bauttone così lungo che esamina tutte le carrozze, fosse mai il bellissimo Piscitelli? — Certo senza dubbio. — Ecco il conte Mazziotti, che va parlando latino. — Ecco i cortegiani affettati vestiti di carta. — Ma che baronata è mai questa! Quasi tutte le carrozze voltano a San Carlo. — Che cosa è? — Il segno. — Presto. — Viene il bargello. — Venga, signor agente di Genova. — Non importa. — Ma se v'è luogo per tutti? — Vede ella? — Vedo benissimo. — Ma mi pare che stia incomodo. — Mi perdoni, sto da re. — Eccoli, eccoli. — Quanti sono? — Sette. — Chi va innanzi? — Il sauro di Gabrielli, ma Colonna lo passa — Uh, Gesù Maria! — Che è stato? — Una creatura sotto un barbero. — Sarà morta certo. — Povera madre! — Lo portano via? — No, no. Era un cane. — Manco male. — Dica chi vuole, è un gran piacere la forte immaginativa. Io ho veduto il Corso di Roma dalla piazza de' gesuiti di Vienna. Ora, per passare dal ridicolo al burlesco, io sto tormentato al solito dalla mia tossetta, e non mi resta oramai altra speranza che la buona stagione. Ho finito l'Oratorio, che in qualche maniera verrà a Roma subito stampato. Ho parlato all'ambasciatrice di Venezia per la toilette consaputa, ed è rimasta stupita, perché le avevano scritto d'averla consegnata: sentiremo che rispondono alle repliche della medesima. Dalle nevi e dal freddo che soffrite in Roma argomentate quelli di Vienna. Non passa settimana che non si senta qualche povero villano o passeggere sorpreso dal freddo e rimasto morto per le campagne. Qui per la città si cammina sopra tre palmi di ghiaccio cocciuto più delle pietre. La neve poi, che cade continuamente, si stritola e si riduce a tal sottigliezza che vola e si solleva come la polvere dell'agosto. Eppure vi sono delle bestie che vanno in slitta la notte. Io so che per reggermi in piedi ho dovuto far mettere le sole di feltro alle scarpe, perché in quel solo passo indispensabile che debbo fare per montare in carrozza ho dato solennemente il cul per terra, senza danno però della macchina. Insomma conoscendo la lubricità del paese mi son premunito. Voi mi domandate parere di un sonetto d'Ignazio de Bonis che io non ho veduto e non so di che tratti per conseguenza.

Al signor agente di Genova le mie riverenze e ringraziamenti pei saluti che mi ha mandati nelle lettere del segretario della sua Repubblica. Addio N. M., state allegra.

 

VII - A Marianna Bulgarelli Benti, Roma

Vienna I2 gennaio I732.

Voi sarete in mezzo a' divertimenti teatrali, ed io ho cominciato a seccarmi intorno all'Oratorio. Divertitevi voi per me; ché vi assicuro che il piacer vostro fa gran parte del mio.

Ho molto pensato per mandarvi un foglio di direzione, toccante il mio Demetrio: ma esaminando l'opera, parmi così poco intricata, che farei torto a voi ed a me se volessi istruirvi. L'unica scena un poco intricata, per la situazione de' personaggi, è quella del porto nell'atto primo, quando la regina va a scegliere, e sopraggiunge Alceste. In detta scena il trono deve stare, secondo il solito, a destra e deve avere da' lati quattro sedili o sian cuscini alla barbara, cioè due per parte; e questi servono per li Grandi del regno. Due altri somiglianti sedili debbono esser situati in faccia al trono, dalla parte del secondo cembalo, ma più vicino all'orchestra che sia possibile. Ed appresso a questi, altri tre sedili pur simili per Fenicio, Olinto ed Alceste. Onde i sedili in tutto dovranno essere nove, cioè sei per li Grandi e tre per li personaggi. Quelli però per li Grandi possono farsi attaccati a due per due per comodo maggiore: ma i musici devono avere ciascuno il suo. Se conserverete la situazione che vi ho detto, che comprenderete anche meglio nel disegno che vi accludo, troverete che tutto il resto va bene.

L'altra scena poi non facile a recitare è quella delle sedie nell'atto secondo fra Cleonice ed Alceste: debbono sedere dopo il verso: Io gelo e tremo. — Io mi consolo e spero. Alceste deve alzarsi al verso So che non m'ami, e lo conosco assai: e Cleonice fa l'istesso al verso Deh non partir ancor! Tornano entrambi a sedere al verso: Non condannarmi ancor. M'ascolta e siedi. Cleonice comincia a pianger al verso: Va: cediamo al destin; e quando è arrivata alle parole Anima mia, non deve più poter parlare se non che interrotta da pianto, e con questa interruzione ed affanno ha da terminare il recitativo. Alceste s'alza da sedere e s'inginocchia al verso: Perdono anima bella, oh Dio, perdono! e poi s'alzano entrambi ai versi: Sorgi, parti, s'è vero — ch'ami la mia virtù. Questo ordine io ho tenuto ed ho veduto pianger gli orsi. Fate voi.

L'eminentissimo arcivescovo Coloniz per far la fede della mia sopravvivenza vuol vedermi: onde non posso mandarla che nella settimana ventura.

Non vi è cosa di nuovo della malattia della madre della padrona, onde l'Issipile si farà. Vi è una parte preziosa da corsaro che raggira tutta l'opera; e sarà preziosa per il nostro Berenstadt, che insieme coll'amica rondinella abbraccio teneramente. Lo stesso dico a Bulga e a Leopoldo. Ed a voi raccomandando voi stessa intendo raccomandare il vostro N. Addio. Avrete lo scenario, ma oggi non posso.

 

VIII - A Marianna Bulgarelli Benti, Roma

Vienna 2I giugno I732.

Che sconvolgimento è mai questo di tutte le cose del mondo, così picciole che grandi? Si può immaginare accidente più funesto di quello che vi scrissi l'ordinario scorso? E si può in altro genere immaginare maggiore desolazione di quella che voi vivamente mi rappresentate nella lettera di questa mattina? In somma, dove si mischia Porpora entra per necessità la disgrazia. Guardatevi per carità di non aver mai il minimo affare in sua compagnia. È però una gran cosa, che una città intera abbia a soffrir la pena de' capricci di un solo: e che per motivi così leggieri non si abbia repugnanza di nuocere a tanti, e dispiacere a tutti. Compatisco quei che risentono il danno, perché, senza questo motivo, sento la mia repugnanza ad essere indifferente.

Il padrone, dopo l'accidente funesto, tornò a Praga, dove, per quello che dicono, chiuso in una stanza senza voler vedere persona, rimase un giorno ed una notte. Il principe Eugenio fu il primo che con rispettosa violenza penetrò fino a lui, ed interruppe la sua solitudine e la profonda afflizione nella quale era immerso. Frutto della sua cura si crede universalmente l'aver permesso alla fine il padrone che per lo sconvolgimento sofferto se gli cavasse sangue, e l'essersi poi portato in Carlsbad, dove presentemente dimora e dove intraprenderà la cura già stabilita delle acque. La minore arciduchessa Marianna è stata assalita, già sei giorni sono, dal vaiuolo, notizia che accrescerà le agitazioni de’ padroni per esser così lontani da lei. È ben vero che il male non ha sintomi che minaccino pericolo ed i medici pronosticano esito felice. Intanto la maggiore arciduchessa Teresa è stata divisa dalla sorella per evitare che non le comunichi l'infermità. L'imperatrice Amalia, vedova di Giuseppe, è uscita dal suo monastero, dove vive ritirata, per assistere la suddetta arciduchessa Teresa, e coabitar seco nell'imperial Favorita finché il male dell'altra permetta che le sorelle si riuniscano.

Io sto bene di salute, ma male d'animo. Tutte queste cose mi funestano, e la pubblica malinconia si comunica insensibilmente anche agl'indifferenti. Finora non si sanno le direzioni del ritorno de' padroni. Il caso avvenuto e la malattia dell'arciduchessa si crede che lo solleciterà; ma finora sono pure induzioni. Non ho cosa che mi rallegri, se non la vostra buona salute: conservatela gelosamente e credetemi il vostro N. Addio, N. M.

 

IX - A Giuseppe Riva, Linz

Vienna 20 settembre I732.

Non da bella e candida mano, ma da man maestra ed eccellente avete avuto il mio Adriano, e se non di primo colpo, almeno di ripicco. Io non vi dissimulo la mia collera contro chi mi ha levato il piacere, che mi figuravo, di leggervelo io medesimo, e contro chi osserva così poco le leggi che impone agli altri. Nulladimeno tacerò. Il vostro amore per me è così eccessivo che non lascia maniera di dubbio; onde non già i vostri savi ed amichevoli avvertimenti, ma le vostre replicate proteste con cui gli accompagnate, meritano qualche risentimento. Ho tanta stima di voi e son così dubbio sul merito de' miei scritti, che senza esaminar il peso delle vostre osservazioni avrei forse riformati i luoghi da voi disegnati. Ma facendo il conto de' giorni io non potea essere in tempo a mandar le variazioni in Italia. Ricevei la vostra lettera il mercoledì passato la sera, ed anche per casualità, non avendo pensato che per accidente a mandare alla posta di Lintz, donde non attendevo lettere, avendole ricevute nel piego di madama Ferrari. Per Casalmaggiore non si scrive che il mercoledì; e s'io lo facessi oggi, lo farei invano, perché all'arrivo della mia lettera sarebbe necessariamente terminata la musica; e se non lo fosse, non sarebbe in tempo l'opera pel giorno di San Carlo. Questa impossibilità d'ubbidirvi mi ha fatto pensar minutamente a quanto mi scrivete; e così pensando, combinando e riflettendo, a poco a poco (forse effetto dell'amor proprio) mi sono cominciate a parer molto leggere le vostre opposizioni. E perché non abbiate a credermi sulla mia parola, ve ne dirò brevemente le ragioni colla nostra amichevole e confidente libertà.

Quell'Aquilio gran Brighella del dramma intrica troppo. Egli non fa che due macchine, ed una molto distante dall'altra, occorrendo una nel primo atto e l'altra nel terzo. Giudicate se questo è troppo pel numero o per la qualità, non ingannando che donne.

Non mi par verisimile che quella romana aderisca al consiglio d'Aquilio etc. Primieramente, ella ubbidisce ad un ordine, non aderisce ad un consiglio. Cessando il supposto ordine d'Adriano, cessa il fondamento della risoluzione di Sabina. Supponiamo prima che l'ordine sia vero; Sabina deve ubbidire, altrimenti farebbe, contro il suo carattere tollerante e virtuoso, un'azione irregolare e temeraria. Ha da dubitar della verità dell'ordine? perché? forse per sospetto d'Aquilio? non mi pare. Ella sa che questo è il favorito d'Adriano, e che sino a quel punto non ha compresa cosa alcuna dell'amore del medesimo per lei; né dee figurarlo cattivo senza ragione. Una malvagità eccessiva non si crede facilmente, quando non si veggono le utilità ch'essa si propone: notizie che appunto mancano a Sabina.

Dovrebbe ella forse dubitar della verità dell'ordine per relazione al carattere d'Adriano? Neppure. Ella ha cento motivi convincenti per credere che l'imperatore sia così cieco per Emirena e così freddo per lei, che non vegga l'ora di levarsela d'intorno, e come impedimento alla di lui felicità e come rimprovero continuo della sua incostanza. Né deve Sabina (prudentemente ragionando) riferire ad altro motivo l'esser ella tollerata in Antiochia che alla mancanza d'un apparente e lodevole pretesto per allontanarla. Sente da Aquilio che pur questo si è ritrovato nel consiglio e nell'aiuto da lui prestato nella fuga di Emirena e Farnaspe: reato che, ingrandito dalla passione di Adriano, è velo soprabbondante per mascherare di giustizia il comando interessato e violento: onde alla povera Sabina non rimane ragione di sperar né su l'amore di Adriano, né su la cura del medesimo di salvar l'apparente onestà. Eppure le rimane qualche filo di speranza. Dee esser quello di poter vincer cedendo e tollerando. Questo è il consiglio al quale si appiglia, sì perché non ve ne sono altri, come perché si confà col carattere ch'io le do dal principio dell'opera sino al fine. Osservate che, qualunque volta, per non fingerla insensibile, io la faccio scaldare su i torti che riceve, faccio che immediatamente rifletta e si corregga, ritornando alla naturale sua prudenza e tolleranza. Qualità che fanno strada, anzi sono necessarie, perché possano gli spettatori crederla capace della straordinaria generosità che usa nello scioglimento dell'opera. Qualità che mi hanno fatto rigettare, come distruttive delle medesime, l'espediente di farla partire per motivo di gelosia e di proprio consiglio, benché nel mio primo scenario io l'avessi scritto, come vedrete. Poiché, per ridursi a tale risoluzione, bisogna supporla non solo gelosa, ma altiera, intollerante e violenta; il che io non voglio, né debbo.

Finora ero sicurissimo che gl'imperatori romani, quando la prima volta si mostravano agli eserciti, erano per lo più sollevati su gli scudi de' soldati. Il vostro dubbio però mi fa dubitare. Nulladimeno aprendo Svetonio ho ritrovato nella vita di Ottone: Omissa mora succollatus et a praesente comitatu imperator consalutatus etc.; e poco dopo nella vita di Vitellio: Imperator est consalutatus circumlatusque etc. Qui non si nominano scudi, ma naturalmente non gli avranno portati a cavalluccio. Di questo però spererei di potervi promettere testi più chiari e precisi. Non mi sono determinato di chiamar testuggine quella unione di scudi sopra cui farò portare Adriano, poiché quella voce è troppo comunemente intesa per una testura di scudi atta agli assalti murali d'una città, e le figure di esse sono e più vaste e più semplici di quella che faremo vedere in teatro, che sarà più picciola e più ornata. Né mi è occorso vocabolo più significativo che carro artificioso, appunto perché quella tale unione di segni aquile e scudi imiterà la forma di un carro trionfale, che non farà cattivo effetto ben eseguito; e conservando per quanto si può il costume, lusinga il genio del teatro, che ha bisogno di spettacoli maestosi. Finalmente non posso chiamarla testuggine, perché la testuggine era composta di soli scudi, e nella macchina che noi esporremo gli scudi avranno, per così dire, la minor parte.

La parola grossolana è tale che non saprei trovar l'eguale per ispiegare il mio sentimento. Il vocabolario della Crusca nella voce grossolanamente spiega semplicemente, rozzamente, senza delicatezza; ed è appunto quello che io voglio dire in una sola parola. Il vocabolo è bello, usato, sonoro e significativo. Perché non vi finisce? Questi sono odii peccaminosi.

Fra gl'infiniti significati della voce convenire il Vocabolario mette prima di ogni altro venire nella medesima sentenza: onde è certo che questo è il senso più ovvio di tal parola. Vi saranno senza dubbio molti esempi di poeti epici e lirici che l'avranno usata in questo senso, ma io non saprei produrveli così di repente. Vi dico però che, quando anche in tali poeti non si ritrovasse, non dovrei per ciò astenermene; poiché i lirici e gli epici, parlando essi pensatamente, in materia di locuzione sono soggetti a leggi più ristrette di quello che sieno i poeti drammatici, che introducono persone che parlano all'improvviso, e perciò dobbiamo valerci assai discretamente degli ornamenti de' quali i primi abbondano, ed avvicinarci, quanto si possa senza avvilimento, al parlar naturale, ch'è quello della prosa. Onde pochissime sono le voci ch'essendo permesse al prosatore siano viziose nel poeta drammatico.

Io credo che vorreste esser digiuno di avermi mai avvertito, tanto vi avrò seccato colla mia prolissità. Soffritela pazientemente; e credete che, quantunque io sia molto quieto per le accennate ragioni su i dubbi che mi proponete, io ve ne sono nulladimeno gratissimo, perché mi confermano nella sicurezza della sollecitudine che avete per i progressi della mia riputazione. Cura tenerissima, obbligantissima e generosissima, che mi farà essere perpetuamente.

 

X - A Marianna Bulgarelli Benti, Roma

Vienna 6 giugno I733.

Ho passata la metà del terzo atto della mia prima opera, onde sabato che viene spero di potervi scrivere d'averla finita. Ma quando sarà che sia terminata anche l'altra, alla quale non ho né pur pensato? E pure al fin d'agosto bisognerebbe che fosse. Auguratemi salute e pazienza, che tutto anderà bene. Con tutta la mia assidua applicazione, e la stagione ben poco favorevole, io mi son quasi affatto rimesso: dico quasi, perché di quando in quando la testa non vuole stare a segno, effetto senza dubbio del poco che si traspira per cagione dell'aria umida e fresca che qui pertinacemente dura. Ed io, quanto già in Italia provava nemico il calore, altrettanto in Germania esperimento nocivo il freddo: tanto fa variar natura la variazione del clima. Io non lo sento solo in questo; le pruove continue di tolleranza alle quali io presentemente sto saldo, non sono certamente miei pregi naturali. Conosco che la tardità di quest'aria si comunica agli spiriti e ne scema la soverchia prontezza.

Eccovi un sonetto morale, scritto da me nel mezzo d'una scena patetica che mi moveva gli affetti, onde ridendomi di me stesso che mi ritrovai gli occhi umidi per la pietà d'un accidente inventato da me, feci l'argomento ed il discorso nella mia mente che leggerete nel sonetto. Il pensiero non mi dispiacque e non volli perderlo tanto più che serve per argomento della mia esemplare pietà. Leggetelo, e se vi pare, fatelo leggere. Dopo averlo composto mi è venuto a solito uno scrupolo, ed è che l'undecimo ed il decimo verso spieghino una proposizione troppo generale dicendo

E non vorrei che un seccapolmoni potesse dirmi: "Non temete voi l'inferno? Non isperate voi in Dio benedetto? Or Dio benedetto e l'inferno sono a parer vostro menzogne?". È vero ch'io potrei rispondergli: "Signor Pinca mia da seme, lo so meglio di voi, che Dio e l'Inferno sono verità infallibili, e se non fosse questa la mia credenza, non mi raccomanderei a Dio come faccio nella chiusa: e le speranze ed i timori, di cui si parla nel sonetto, sono quelli che procedono dagli oggetti terreni". Vedete che la risposta è assai solida, ed il contravveleno si ritrova nel sonetto medesimo. Nulla di manco ho voluto mutare l'undecimo verso per meglio spiegare di quali timori e speranze m’intendo di parlare. L'ho cambiato, l'ho fatto sentire, e trovo che non solo a me, ma a tutti gli altri ancora piace più la prima maniera, ed in quella ve lo scrivo, aggiungendo nel fine del sonetto il verso mutato, per vostra soddisfazione, e per poter contentare alcuno che vi trovasse le difficoltà mie. Leggetelo e ditemene il vostro parere, senza tacermi quello del nostro monsignor Nicolini, che mi fa molto peso dopo quella dispendiosa legatura.

Saluto tutti di casa, ed a voi raccomando il vostro N. N. M., addio.

 

XI - A Marianna Bulgarelli Benti, Roma

Vienna 4 luglio I733.

Mi volete suggerire un soggetto per l'opera che ho da incominciare? sì, o no? Io sono in un abisso di dubbi. Oh non ridete con dire che la malattia è nelle ossa, perché la scelta di un soggetto merita bene questa agitazione e questa incertezza. La fortuna mia si è che bisogna risolversi assolutamente, e non vi è caso di evitarlo. Se non fosse questo, dubiterei fin al giorno del giudizio, e poi sarei da capo. Leggete la terza scena dell'atto terzo del mio Adriano: osservate il carattere che fa l'imperatore di se medesimo, e vedrete il mio. Da ciò si comprende che io mi conosco; ma non per questo correggomi. Questa pertinacia di un vizio, che mi tormenta senza darmi in ricompensa piacere alcuno, e ch'io comprendo benissimo senza saperlo deporre, mi fa riflettere qualche volta alla tirannia che esercita su l'anima nostra il nostro corpo. Se discorrendo ordinatamente, e saviamente riflettendo, l'anima mia è convinta che quest'eccesso di dubbiezze sono i vizi incomodi, tormentosi, inutili, anzi d'impaccio all'operare, perché dunque non se ne spoglia? Perché non eseguisce le risoluzioni tante volte prese di non voler più dubitare? La conseguenza è chiara: perché la costituzione meccanica di questa sua imperfetta abitazione le fa concepire le cose con quel colore che prendono per istrada prima di giungere a lei, come i raggi del sole paiono agli occhi nostri or gialli, or verdi, ora vermigli secondo il colore del vetro o della tela per cui passano ad illuminare il luogo dove noi siamo. E quindi è assai chiaro, che gli uomini per lo più non operano per ragione, ma per impulso meccanico: adattando poi con l'ingegno le ragioni alle opere, non operano a tenore delle ragioni; onde chi ha più ingegno comparisce più ragionevole nell'operare. Se non fosse così, tutti coloro che pensan bene opererebbero bene; e noi vediamo per lo più il contrario. Chi ha mai meglio d'Aristotile esaminata la natura delle virtù, e chi è stato mai più ingrato di lui? Chi ha mai meglio insegnato a disprezzar la morte e chi l'ha più temuta di Seneca? Chi ha mai parlato con più belle massime d'economia del nostro don Paolo Doria, e chi ha mai più miseramente di lui consumato il suo patrimonio? In somma il discorso è vero ed ha salde radici; ma non curiamo di vederne tutti i rami, perché si va troppo in là.

Non vi seccate se faccio il filosofo con voi: sappiate che non ho altri con chi farlo; e facendolo per lettera mi risovvengo di quei discorsi di questa specie, co' quali abbiamo passate insieme felicemente tante ore de' nostri giorni. Oh quanta materia ho radunata di più con l'esperienza del mondo! Ne parleremo insieme una volta se qualche stravaganza della fortuna non intrica le fila della mia onorata e faticosa tela. Conservatevi voi intanto, e credete costantemente che io penso e travaglio sempre per maturare la mia prima risoluzione e non sono in cattive acque. Addio, N. M. Io sono e sarò sempre il vostro N.

 

XII - A Marianna Bulgarelli Benti, Roma

Vienna I8 luglio I733.

Viva per mille anni il mio augustissimo padrone, il quale ieri fece pubblicare nel supremo Consiglio di Spagna un suo veramente cesareo decreto, col quale mi conferì la Percettoria, o sia Tesoreria della provincia di Cosenza nel regno di Napoli, ufficio che non si perde che con la vita. Questo a chi lo esercita di persona rende un pingue frutto, autorità e decoro in quella provincia; ma non potendosi, o non volendosi esercitare di persona, come succede a me, si può sostituire un'altra; avendo l'espressa facoltà nel decreto di farlo, e lasciando al sostituto ogni provento, se ne ritrae, come per ragion d'affitto, una sufficiente annualità, la quale mi fanno sperare che non sarà meno di mille e cinquecento fiorini per ciascun anno. Voi vedete che la grazia è considerabile pel suo lucro; ma assicuratevi che l'onore, qual mi produce la maniera sollecita, affettuosa e clemente con cui il padrone si è degnato di conferirmela, sorpassa di gran lunga qualunque utile. Si è dichiarato alla pubblica tavola con uno de' consiglieri del Consiglio suddetto di voler ch'io l'avessi, ricordandosi delle mie fatiche e presenti e passate, ed è arrivato a dire ch'egli pretendeva questa grazia nel Consiglio per me e che per giustizia mi conveniva. Questa pubblica dimostranza di parzialità dell'augustissimo a mio favore ha fatto tale impressione che ieri, contro il solito, quando si pubblicò il decreto non vi fu alcuno dei consiglieri che ardisse di replicare una parola; ma parte dissero seccamente che si eseguisse, e parte uscirono nelle lodi della giustizia che il mio padron mi rendeva. Il più bello è che non mi sono prevaluto della minima raccomandazione per ottener simil grazia; onde la deggio interamente al gran cuore di Cesare, che Dio faccia vivere lungamente e sempre più fortunato e glorioso. Converrà adesso ch'io stringa un poco i denti per le spedizioni, che credo saranno assai dispendiose; ma comincerò subito a rimborsarmi.

Ieri dopo il pranzo, per moderarmi il piacere di questa fortuna, mi successe una disgrazia che poteva esser grande, ma non fu niente: nel salire a riconoscere il teatro della Favorita per obbligo del mio impiego, mi si staccò sotto i piedi una scala di legno, sopra la quale io era; onde, in un fascio con quella, andai a ritrovare il piano; e pure, a riserva di due leggiere ammaccature, non ne ho risentito alcun danno. Questa grazia non è stata minor della prima. In questo punto vado a dimandare udienza per ringraziare l'augustissimo padrone. Nel venturo ordinario saprete quello che mi dirà. Addio, N. M. Il vostro N.

 

XIII - A Domenico Bulgarelli, Roma

Vienna I3 marzo I734.

Non so donde incominciare questa lettera, tanto son io oppresso dal doloroso colpo della morte della povera signora Marianna. Egli mi è intollerabile per tante parti, che non so da qual canto gittarmi per provare meno sensibile il dolore; onde non mi fate accusa se non vi produco argomenti per consolarvi della vostra perdita, perché fin ora non ne ritrovo alcuno sufficiente per consolar me medesimo.

L'ultima disposizione della povera defunta a mio favore aggrava a ragione di piangerla, e mi mette in obbligo di dare al mondo una prova incontrastabile della disinteressata amicizia che le ho professata vivendo e che conserverò alla sua onorata memoria fino all’ultimo momento della mia vita. Questa prova sarà un effetto di quella cognizione che io ho di ciò che voi avete meritato dalla povera Marianna col vostro amore, assistenza e servitù esemplare, ed a me darà motivo d'esser grato alla memoria della medesima, facendo cadere nella vostra sola persona quel beneficio ch'ella ha voluto dividere fra voi e me. In fine io faccio libera rinuncia dell'eredità della medesima, non già perché io la sdegni (Dio mi preservi da sentimenti tanto ingrati), ma perché credo che questo sia il mio dovere e come uomo onorato e come cristiano. Non avrò ricevuto piccol vantaggio da questa eredità, quando il sapere che mi era destinata mi serva per continua testimonianza della vera amicizia della generosa testatrice, ed il poterla rinunciare a voi mi serva di prova del mio disinteresse a riguardo di quella e della mia giustizia a riguardo vostro.

Io (grazie a Dio, che mi felicita tanto soprabbondantemente a' miei meriti) non ho presentemente bisogno di questo soccorso, onde non vi faccio sacrificio alcuno che abbia a costarmi sofferenza.

Benché nella rinuncia che vi accludo non ponga condizione alcuna per non intrigarvi, ho nondimeno delle preghiere da farvi e de' consigli da suggerirvi.

La prima preghiera è: che la suddetta rinuncia non abbia da dividere in conto alcuno la nostra amicizia, ma che, seguitando il desiderio della povera Marianna, viviamo in quella medesima corrispondenza come se ella vivesse, subentrando voi in tutto e per tutto in luogo di lei. Secondo: che vi piaccia incaricarvi dell'esazione delle mie rendite, cioè delli tre miei uffici esistenti in Roma e di tutte le mie entrate di Napoli, appunto come faceva la vostra incomparabile Marianna. A qual fine vi mando procura per esigere con facoltà di sostituire (e scrivo in Napoli al signor Niccolò Tenerelli che vi consideri come la signora Marianna medesima, e mandi in vostra mano il denaro che andrà di tempo in tempo esigendo per conto mio), continuando alla mia povera casa il solito assegnamento, e vivendo, se così vi piace, col mio fratello.

I consigli che sono obbligato a darvi sono: che abbiate riguardo alla povera famiglia del signor Francesco Lombardi, e, per quanto potete, cerchiate di far loro sperimentare quegli atti di carità che desiderereste voi di esigere nel caso de' medesimi. Io avrei potuto nella rinuncia obbligarvi a qualche soccorso per loro; ma, oltre che non ho voluto intrigarvi, son troppo sicuro del vostro buon cuore; onde nella carità che loro farete ho voluto lasciare tutto il merito alla vostra libera determinazione. Pel di più provvedete voi come padrone ed erede a tutti quegli espedienti che richiederanno le occasioni e vi suggeriranno la vostra prudenza e necessità. Io sono in istato presentemente di non fissarmi a pensare come consigliarvi su i particolari della vostra condotta. Dico bene, che mi parrebbe che doveste vender tutto quello che non vi serve, per farne capitale, restringendovi in una casa più piccola.

Io credo di non potervi dare testimonianze più sicure della mia amicizia e della mia confidenza in voi. Datemene voi altrettante della vostra corrispondenza, considerando i miei interessi come vostri ed il mio come vostro fratello. Non posso più scrivere. A mente più serena vi dirò qualche altro pensiero che possa venirmi. Intanto amatemi; consolatevi; e se posso io far altro per voi, siate sicuro che lo farò. Addio.

 

XIV - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna I3 marzo I734.

Nell'agitazione in cui sono per l'inaspettato colpo della morte della povera e generosa Marianna, io non ho forze per dilungarmi. Posso dirvi solo che il mio onore e la mia coscienza mi hanno persuaso a rinunciare in persona del signor Domenico di lei consorte l'eredità, per cui la medesima mi aveva nominato. Io son debitore al mondo di un gran disinganno; cioè che la mia amicizia per essa avesse fondamenti d'avarizia e d'interesse. Io non devo abusare della parzialità della povera defunta a danno del di lei marito; ed il Signore Iddio mi accrescerà per altre parti quello che io rinuncio per questa. Per la mia persona non ho bisogno di cosa alcuna, per la mia famiglia ho tanto in Roma, che potrò farla sussistere onestamente; e se Dio mi conserverà quello che ho in Napoli, darò altri segni dell'amor mio a' miei congiunti, ed a voi penserò seriamente. Comunicate questa mia risoluzione a nostro padre, al quale non ho tempo di scrivere. Assicuratelo della mia determinazione d'assisterlo sempre, come ho fatto finora; anzi di accrescere le assistenze, se non mi mancheranno le mie rendite di Napoli: in somma fatelo entrar nelle mie ragioni affinché non mi amareggi con la sua disapprovazione questa onesta e cristiana risoluzione. Di più, vedendo il signor Luti, riveritelo a mio nome, e ringraziatelo. Pregatelo poi a compatirmi, se oggi non gli rispondo, perché non ho veramente forza, né tempo di farlo.

Voi seguitate intanto ad essere unito col signor Domenico, che spero mostrerà con voi quella buona amicizia, che merita la maniera e confidenza con la quale tratto con lui. Egli ha procura per esigere con facoltà di sostituire: onde tutte le cose andranno come andavano. Solo la povera Marianna non tornerà più, né io spero di potermene consolare; e credo che il rimanente della mia vita sarà per me insipido e doloroso. Iddio mi aiuti, e mi dia forza a resistere, perché, caro Leopoldo, io non me la sento.

Scrivetemi per carità ogni settimana, ve ne priego per mia consolazione e per vostro vantaggio. E riposate sopra di me, che io penserò a voi, se Dio mi darà il modo. Non disapprovate la mia risoluzione. E credete ch'io sarò sempre.

P.S. Cercate di vedere il signor Francesco Lombardi e ditegli che se l'intenda col signor Bulgarelli, che ho pensato a lui, e che gli scriverò l'ordinario venturo.

 

XV - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 24 aprile I734.

La vostra sorpresa intorno agli affari di Napoli non è niente maggior della nostra.

Vi sono circostanze così contradditorie che, per coloro che non sono ne' segreti del gabinetto, si rendono inconciliabili. Ragionando finora ordinatamente su le nozioni pubbliche, non ho mai dedotta una conseguenza che l'evento abbia poi verificata. Onde se non ho saputo pronosticar felicemente, ho almeno acquistata l'umiltà di non tentarlo più in avvenire. Nel caso presente poi è più necessaria che in qualunque altro questa rassegnazione; poiché a voler investigare i principii di tali effetti, chi sa dove mai si andrebbe a dar di capo? Lasciamoci portare dal vortice che ci rapisce; e giacché non ne possiamo regolare i moti, non ne cerchiamo le cagioni. Chi sa, voi mi dite, come anderà per noi circa le rendite di Napoli? Questo pensiero mi ha alquanto turbato, e non già per me, ma per voi e per la mia famiglia. Io mi sento già tanto capital di costanza da non risentirmene molto, ma non posso promettermi tanto dagli altri. Nulladimeno la favola non è terminata: chi può mai indovinarne la catastrofe? Io mi sono tante volte rattristato di cose che mi hanno poi prodotta utilità, e tante volte rallegrato di quelle che ho poi trovate nocevoli, che non so più di che io abbia veramente a rallegrarmi o dolermi: e quando finalmente l'evento presente fosse di quelli che possono chiamarsi disgrazie, contento di non averlo meritato, e persuaso di non poterlo evitare, lo soffrirò come si soffrono le intemperie delle stagioni, e gli assalti delle infermità non procurate con l'irregolarità della vita.

Consegnate l'acclusa al signor Parrino; abbracciate a mio nome il signor Domenico, dal quale avrete inteso qual uso dobbiate fare delle mie lettere che la povera signora Marianna avea conservate. Queste non possono servir che d'imbarazzo; onde ardetele pur tutte, come fedelmente lo stesso ho fatto anch'io delle sue. Al signor Residente di Genova ricordatevi di portare i miei rispetti, ed agli altri amici che si sovvengono di me ringraziamenti e saluti. L'istesso a casa. E voi amatemi e credetemi.

 

XVI - A Giuseppe Peroni, Roma

Vienna 8 gennaio I735.

A dispetto delle modestissime preparazioni che si vanno facendo in Roma per la rappresentazione delle mie due opere, il sentir parlar solamente de' nostri teatri, il figurarmi il vespaio di questi nostri inquietissimi abatini, la gara delle belle cacciatrici, il calor delle fazioni, la moltiplicità dei giudizi e quel bulicame universale che costì si risveglia in somigliante stagione mi fa stare in quella inquieta intolleranza colla quale stanno i cavalli barberi al canape aspettando il momento della libertà. E se le pubbliche circostanze influissero meno su le private, avrei senza fallo ottenuta per quest'anno la permissione di venire per alcun tempo a respirare l'aria paterna ed a purgarmi nel Tevere della fuliggine che mi va insensibilmente ricoprendo coll'assiduo fumo di queste stufe: ma questo per ora non è possibile; onde converrà accomodarsi al mondo, giacché non si può accomodare il mondo a noi.

Voi l'intendete assai bene, facendo da pacifico spettatore nelle concorrenti vicende teatrali. Desidererei che il nostro Bulgarelli non si lasciasse trasportare a segno dal zelo di assistere alle mie opere, che avesse da incontrare anch'egli qualche amarezza. A proposito di ciò, non ricevo in questo ordinario lettere né dal suddetto né da mio fratello. Non so figurarmi onde nasca la mancanza. Dalla posta no certo, perché ho ricevute le altre di Roma; e mi parrebbe troppo strano che si corrispondesse così male alla mia non interrotta premura d'informarli regolatamente ogni ordinario dello stato di mia salute; tanto più che questa piccola fatica in loro è alternativa, per mio consenso, e però più leggera della mia, che sono solo. Ricordatevi, vedendoli, di farne loro a mio nome una fraterna rimostranza.

Leggerò, e consegnerò al padre Timoteo, la parte della vostra lettera che gli appartiene: intanto io, approfittandomi dell'opportunità, l'ho letta, e non ho lasciato di accompagnarla colle dovute risate. I miei soliti sinceri rispetti alla gentilissima signora Caterina; e voi, come solete, amatemi, comandatemi e credetemi.

 

XVII - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 25 giugno I735.

Se per suggerire soggetti bastasse formare un indice di eroi romani, voi me ne avreste fornito a dovizia: ci vuol altro che pannicelli caldi. Bisogna trovare un'azione che impegni; che sia capace di soffrire il telaio; che sia una; che possa terminarsi in un luogo ed in un giorno solo; che sospenda l'attenzione o per le vicende di un innocente sventurato, o per la caduta di qualche malvagio punito, o per le dilazioni di qualche felicità sospirata, o pel rincontro in fine di tali eventi che diano occasione al contrasto degli affetti, e campo di porre nel suo lume qualche straordinaria virtù per insinuarne l'amore, o qualche strepitoso vizio per ispirarne l'aborrimento. Che mi dite mai, accennandomi: io ci ho Silla; io ci ho Cesare; io ci ho Pompeo? Gran mercé del regalo: questi ce li ho ancor io, e gli ha ognuno che sappia leggere. Bisogna dirmi: nella vita di Silla mi pare che si potrebbe rappresentare la tale azione, perché interessa per tal motivo; perché dà luogo a tali episodi; perché sorprende per tal ragione. Io ci ho il Silla! oh bontà di Dio! E che vorreste voi? che io ne scrivessi la vita? Non mi mancherebbe altro! In quanto poi al volermi persuadere a scrivere soggetti già scritti, suderete poco perché non vi ho la minima repugnanza. Vedetelo dal Gioas, che è un archetipo di monsieur Racine, e non mi ha spaventato. Quelli che non iscrivo volentieri sono i soggetti trattati dallo Zeno.

Mi sono incontrato già due volte con lui; e non è mancato chi subito voluto attribuirmi la debolezza d'averlo fatto a bello studio, che mai non mi è caduto in pensiero. Questo non mi piace per non dare occasione o di rammarico o di trionfo; tutto il resto è campo libero, e non ho dubbio di mettervi la mia falce, purché vi sia che mietere. Io ci ho il Silla! oh madre di Dio!

State sano, abbracciate il nostro Bulgarelli, e credetemi.

 

XVIII - A Leopoldo Trapassi, Roma

 

Vienna 7 aprile I736.

Vi rendo grazie della cura che vi prendete della lite del signor Bulgarelli; procurate di ridurla a buon fine, ed io ve ne sarò grato come di cosa propria, dimostrandovene qualche segno in effetto. Non potreste avvertirmi di cosa più grata al mondo, che di questa per altro così dovuta vittoria. In quanto poi alle mie speranze non dico che siano estinte, ma si sono andate tanto allontanando che, per non perderle di vista, ho di bisogno del cannocchiale del Galileo. Con tutto ciò il grande argomento di consolarmi è la medesima violenza con la quale la fortuna ci ha così d'improvviso assaliti. Se seguita questo stile, non possiamo sperare che bene. Ella è incostante ed il male è all'eccesso.

Tutto si muta in breve,

e il nostro stato è tale,

che, se mutar si deve,

sempre sarà miglior.

È egli possibile che la nostra plebe istrutta ed assuefatta per tanti secoli alla cristiana rassegnazione, prorompa ora in questi sediziosi tumulti? Chi le ha mai ricordato che così facevano altre volte radunati sul Monte Sacro o su l'Aventino gli atavi de' tritavi de' loro bisavi? Il Signore gli illumini. Sarà fuoco di paglia; ma oggetto di molta curiosità, perché nessuno l'aspettava. Informatemi esattamente del come è finita. Al signor Peroni, ai signori abate Fiorilli e Staniz mille saluti. Abbraccio il signor Domenico, e voi con lui. Addio.



XIX - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 9 dicembre I736.

Nello scorso ordinario non vi scrissi, perché non ricevei vostre lettere. Sento dalla vostra, che oggi mi giunge, che avrei dovuto riceverne, onde mi avveggio essersi disperse. Qualunque ne sia la cagione, importa poco, né io voglio esaminarla. Il matrimonio del signor Domenico non so quali conseguenze sarà per avere; ma non dubito che, con tanta esperienza di mondo, egli avrà maturamente pensato a' casi suoi; e quando, trasportato da una violenta passione, non avesse esaminato l'affare che superficialmente, non toccherebbe a me altra parte che quella di compatirlo, come suo buon amico. Ognuno erra, e non bisogna usar rigore negli errori degli altri se pretendiamo indulgenza a' nostri. Nel giudicar di voi sono più scrupoloso, e lo sono in eccesso con me medesimo, perché l'amor proprio mi fa desiderar perfezione in quello che mi appartiene; onde mi offende qualunque picciolo fatto. Dalle cose succedute comprendo non esser più possibile che né voi né altri di mia casa abbiano più commercio col signor Domenico senza pericolo di qualche commedia. Io provvederò presto che non abbiate necessità di trattar con esso lui. Intanto non ne parlate né bene né male, siccome altre volte vi ho incaricato, e siate sicuro che io non lascerò di pensare a voi se seguiterete le mie massime e mi farete giungere migliori notizie della vostra condotta. Godo che sia stata provata la vostra innocenza e che con questa occasione vi siate fatto conoscere.

Voglia Dio che, siccome voi medesimo sperate, sia questo un principio del vostro incamminamento; conferiteci principalmente voi, ch'io non trascurerò di farlo ancora, sol che me ne sappiate aprir la via. Mille riverenze a mio padre, col quale vi prego di regolarvi saviamente; cioè tollerando con pazienza ed insinuandovi con dolcezza ed aria di sommissione, che per legge di natura è nostro debito di conservare.

Del resto conservatevi ed amatemi, se volete ch'io v'ami, ma amatemi da uomo, che vuol dire rivolgete in vostro utile e gloria quell'amor proprio che suol essere lo scoglio di ciascheduno; e questo si conseguisce sacrificando il presente al futuro. Addio.

 

XX - A Leopoldo Trapassi, Roma

Di Vienna 5 gennaio I737.

Bench'io entri necessariamente a parte del vostro turbamento e della vostra oppressione d'animo, nella quale vi conosco immerso nell'ultima vostra lettera, non posso dissimulare che me ne raddolcisce la compassione la speranza che, uscito da questa tempesta, diverrete miglior piloto di quello che non siete stato per lo passato. Io mi sono spiegato abbastanza nelle mie precedenti che vi credo innocente ma non eccessivamente prudente, e come le massime hanno minor efficacia a persuadere che l'esperienza, parmi ben fondata la mia speranza. Del resto dipenderà da voi il ritrovarmi sempre lo stesso, siccome mllle volte mi sono professato, ma vorrei cominciare a veder qualche frutto utile a voi della mia fraterna benevolenza. E vi avrei perdonato volentieri la poca costanza alle applicazioni lucrose, se il mondo avesse qualche vostra lodevole produzione che ve ne scusasse, compensandovi con usura di lode le mancanze dei comodi. Ma, caro fratello, il vedervi all'età che siete egualmente digiuno e di questi e di quella, anzi obbligato a scrivere apologie, non posso negare che mi contrista e mi irrita. Ma il fatto è fatto. Io non voglio rammentarvi il passato se non quanto possa servirvi di stimolo per l'avvenire. Eccomi l'istesso in assistervi, siate voi tutt'altro in corrispondermi. Prendete un sistema costante, e sia qual più vi piace. Fate miglior uso de' felici talenti e delle erudite notizie delle quali siete provveduto, e credete costantemente che così facendo troverete non solo in me un fratello, ma un amico il più tenero che possiate mai desiderarvi. Nelle sanguinose discussioni fra voi ed il Bulgarelli, io ho dovuto fortificarmi contro la natural passione dalla quale mi sentivo troppo inclinato a pronunciar per voi. Sarò forse stato ingiusto per soverchio timore di divenirlo. Se mai vi avessi fatto torto (che in questo caso di tutto il mio core lo desidero) ve ne dimando scusa, e procurerò di ristorarvene. Del resto amatemi quanto io vi amo, che saremo contenti l'uno dell'altro. Addio.

 

XXI - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna I4 giugno I738.

Facciamo un poco di parentesi al mal umore: voi ne abbondate, io non ne ho penuria, e la materia è comunicabile. Se ce la fomentiamo a vicenda troveremo la via più corta per impazzare. Moto di mente e di corpo vuol essere per non affogarsi in questo pantano. Non si va a galla senza menar le braccia e le gambe. Questa è la miserabile condizione degli uomini: non possono liberarsi dalla fatica né pure rinunciando a tutte le felicità che promette l'avarizia e l'ambizione; e quando nulla si desideri, conviene ad ogni modo agitarsi per non imputridire come un'acqua stagnante. La tranquillità alla quale continuamente si aspira ha tanta solidità in rerum natura quanto l'imaginata età dell'oro e la sognata felicità degli dei d'Epicuro. Quindi vedete più miseri quelli appunto che abbondano di tutto ciò che a noi manca, perché, oltre i mali universali, soffrono quelli ancora che produce il soverchio riposo, il quale a conto lungo stanca e danneggia assai più di qualunque fatica. Dunque che dobbiam fare? Occuparci, scuoterci, e non crederci più infelici degli altri.

Ricordi ch'io scrivo a voi e ripeto a me stesso esposto pur troppo alle medesime malattie.

Salutate gli amici e tutti di casa e credetemi.

 

XXII - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna I2 settembre I739.

Il calore col quale voi declamate scrivendo contro il costume de' tempi correnti, mi fa argomentare quel che farete parlando. Se la vostra eloquenza potesse introdurre una riforma, io vorrei espormi con voi al pericolo di urtar nell'ira de' potenti; ma senza sperar di giovare né a sé né ad altri, io non posso perdonarvi questa imprudenza. Cessate per l'amor di Dio di farmi sempre tremar per voi: riflettete che non siete il più infelice de' viventi, se non quanto volete esserlo: pensate che potete errare ne' vostri giudizi, e che, quando ancor non erraste, la copia de' conoscitori rende assai meschina la gloria della scoperta. Se poi l'abbondanza dell'atrabile non vi soffre tranquillo, scatenatevi contro Newton, contro Cartesio, contro Aristotile e gridate finché abbiate fiato. Fratel caro, se mi amate e se vi amate, pensateci.

Dite al signor Peroni che non ho ricevuta la risposta dell'amico ch'egli mi accenna; che per l'affare di Centomani mi trovo avergli scritto fin dall'altra settimana alla quale in tutto il resto mi rimetto. Abbracciatelo per me, e non gli parlate delle nuove d'Ungheria, come io non ne parlo con voi. So che vi sorprenderanno, e vi compatisco, ma noi che ignoriamo le cagioni non possiamo giudicar degli effetti. Procurerò di valermi a vostro vantaggio della notizia che mi avanzaste intorno all'agenzia del principe di Bamberga. Saluto tutti di casa, bacio la mano a mio padre, v'abbraccio, e sono.

 

XXIII - A Giuseppe Peroni, Roma

Vienna 20 ottobre I740.

Ieri nell'entrare del giovedì un'ora e mezza dopo la mezzanotte passò all'altra vita il mio augustissimo padrone Carlo VI. Non occorre che vi dica di più per farvi concepire la mia desolazione. Gli ultimi giorni della sua vita preziosa ci hanno fatto conoscere il peso della nostra perdita, poiché non ci è stato momento in cui non abbia date prove di pietà, di costanza ed amore verso i suoi popoli. È spirato, adempiendo fin all'ultimo istante le parti di cristiano, di padre, di principe e di eroe. Le mie lagrime, che non ispargerò più giustamente, non mi permettono di dilungarmi. Mi trovo così oppresso dall'aspetto della pubblica disgrazia, che non sono ancora capace di esaminare le circostanze della mia. La sua infermità ha durato sette giorni ed alcune ore, ed è stata una infiammazione di stomaco mal conosciuta da' medici. Imploratemi costanza da Dio, che veramente non me ne sento abbastanza provveduto. Addio, caro amico.

 

XXIV - A Luidi di Canale, Roma

Czakathurn, I3 ottobre I74I.

La felicità del nostro comodissimo viaggio, la sibaritica lussuria del nostro soggiorno, la salute e la tranquillità che godiamo in quest'isola incantata già vi saranno note, veneratissimo mio signor conte, e per le lettere di monsignor nunzio e per quelle del signor marchese Bartolommei, onde sarà bene di trascurarne la repetizione, e di risparmiare in tal guisa qualche senso peccaminoso d'invidia alla vostra delicatissima conscienza. È vero che

ma pure questo beneficio ha la sua punizione, ed è la mancanza di notizie. Non già delle pubbliche (perché questa non saprei se vada fra' difetti o fra le prerogative del nostro ritiro), ma bensì delle private, e di quelle che specialmente riguardano le persone più stimate e più care. Io lasciai partendo da Presburgo la vostra stimabilissima persona con un catarro (per altro meritato con una corsa in sedia scoperta), e sono sollecitissimo d'assicurarmi che sia stato pienamente superato, come spero. La degnissima signora contessa era in procinto d'arricchir la terra di nuovi Canali, e sono impazientissimo di sapere se l'abbia valorosamente fatto: e con quella felicità ch'io le augurava. Di me non vi figurate cosa alcuna di lodevole. Son divenuto più pigro che mai, e così in nihil agendo occupato che a gran fatica ho rubato il momento per scrivere questa lettera. Egli è vero che la stagione è bellissima, e noi aspettando di giorno in giorno l'arrivo dell'imminente inverno, procuriamo con somma diligenza di ritrarre tutto il profitto possibile da questo deliziosissimo autunno. Ho fatto proponimento d'esser uomo di garbo ne' mesi freddi: vedrete allora le belle cose ch'io vi scriverò, e come il nostro Giovenale sarà trattato. Intanto per tutti i disegni del caro Bertoli vi scongiuro a non corrucciarvi meco, ed a trattarmi come il vostro Orazio vuol si trattin gli amici chiudendo gli occhi a' loro difetti, o cambiando lor nome: Strabonem appellat paetum pater.

La nostra generosa benefattrice mi ha commesso di dirvi tante cose in suo nome, e tante altre mi ha imposto di pregarvi che diciate alla signora contessa Canale ch'io non so donde incominciare. Non saprei esprimervi la sua impazienza di saper vostre nuove e quanto le sia sensibile questa divisione ch'ella non può figurarsi sì corta come vorrebbe.

Chi sa se vi sarete rammentato di attestare al signor ambasciatore di Venezia ch'io procurai di far loro riverenza partendo da Presburgo? Se non volete una satira in lode fatelo almeno adesso, adornando quest'atto del mio dovuto ossequio con la vostra incomparabile energia.

La carta finisce e la posta pure, onde abbracciandovi con quella tenerezza che la bontà vostra permette al mio vero rispetto vi prego ad amarmi ed a credermi.

 

XXV - A Luidi di Canale, Roma

Czakathurn, 8 dicembre I74I.

Le vostre private amarezze, veneratissimo signor conte, e le pubbliche calamità, delle quali mi date contezza nella felice vostra epistola scritta in data del 2 di dicembre, mi hanno oppresso di tal sorte che non so ancora riguadagnare quell'aria filosofica con la quale voi le soffrite, ne parlate, e ne scrivete in latino. Oltre mille altri titoli per i quali io vi rispetto ed onoro, certamente codesta vostra invidiabile imperturbabilità, che non è frutto in modo alcuno di poca delicatezza nel senso, mi fa riguardar con particolare ammirazione la fermezza poco comune dell'animo vostro, atto a canonizzarvi fra noi, ed a contarvi fra i Catoni dell'antichità. Mi figuro di vedervi intenerito dalla perdita d'una figlia, commosso dal giusto dolore d'una madre che amate, ferito dalle sventure d'un'adorabile regina, di cui vi conosco parziale; spettatore della desolazione di tanti e tanti amici che giustamente vi apprezzano, e circondato da mille incomodi che portan seco i presenti universali sconvolgimenti, ed a dispetto di tante interne ed esterne agitazioni ricercar placidamente fra i tesori della vostra memoria le più elette frasi de' latini scrittori di cui faceste già da tanto tempo raccolta, e di cui fate ora così buon uso. Felice voi che nella scuola del mondo avete così presto conseguito ciò che costava tante meditazioni e sudori a tutti gli eroi del vostro Diogene Laerzio! Io confesso che, avvezzo a trovarmi sempre involto fra la rappresentazione delle più violente passioni, e per abito contratto e per fiacchezza di natura non mi sento capace di tanto. Tutto ciò che mi appartiene risente vivamente gli effetti dannosissimi di questa orribile tempesta, toltone la mia salute: questa ancorché lentamente va ogni giorno acquistando terreno, e bench'io non ne senta il progresso son forzato a confessarlo comparandomi al passato. Non so spiegarvi quanto sia stata sensibile la mia generosissima ospite alla vostra domestica sventura; ma mi ha commesso dopo i soliti saluti di condolermene vivamente con esso voi, rimettendo alla vostra prudenza il passar a nome suo il medesimo doloroso ufficio con la povera signora contessa Canale, quando e come stimerete che si corra rischio minore di ritentar indiscretamente la troppo recente ferita. Quando aggiungo al già detto che qui la campagna comincia ad esser poco praticabile, che le nuove che ci mandate non ci provvedono di materia onde rallegrarci in casa, ho finito di spacciar tutta la mia mercanzia: provvedeteci per carità di novelle da rallegrarci, amatemi, come per bontà vostra avete fatto sin ora e credetemi pieno d'una tenera e rispettosa amicizia.

 

XXVI - A Francesco Algarotti, Dresda

Vienna I742.

Sarei colpevole, riveritissimo signor conte, di troppo grave fallo presso la pregiabilissima sua persona, se avessi tanto tempo volontariamente differita la risposta ch'io dovea all'obbligantissima sua lettera, capitatami fin dagli ultimi giorni dello scorso settembre, ma un violento catarro che, corteggiato da molte incomode circostanze, mi ha lungamente afflitto e non ancor del tutto abbandonato, se ha potuto già farmi comparir disattento vaglia almen ora per discolparmi. Non è facile ch'io le spieghi quanti motivi di ammirazione e di compiacenza abbia incontrato nel suo riveritissimo foglio. Che un'opera mia sia costì stata scelta al divertimento reale; che la Didone abbia potuto esser eletta, anche senza l'incendio a cui l'ho sempre creduta in gran parte debitrice di sua fortuna; che dovendo farsi in essa cambiamento sia caduta in mani così amiche e così maestre che la sua scrupolosa delicatezza abbia e voluto e saputo far uso così leggiadro de' più minuti ritagli d'un panno immeritevole di tanto risparmio; e che finalmente l'incomparabile sua cortesia si sia ridotta fin all'eccesso di giustificarsi d'un beneficio, son tutte riflessioni che mi sorprendono e mi consolano, e che mi tentano tanto di vanità, quanto mi riempiono di riconoscenza. Quali grazie poi le renderò mai per la bellissima licenza di cui si è compiaciuto di farmi parte? essa è ben degna e del soggetto e dello scrittore, ed ha saldamente confermata in me la stima che da lungo tempo mi aveano giustamente inspirata per lei non meno il voto del pubblico che le dotte ed ingegnose sue produzioni. Me ne rallegro seco, ma forse meno che con me stesso, di cui è tutto profitto l'aggiunta d'un ornamento di tanto pregio.

Oh son pur contento che ella sia finalmente risoluta di far godere all'Italia il frutto delle sue lunghe peregrinazioni! Ponga sollecitamente in effetto così giusto pensiere; io ne sono impaziente e per la gloria che ne presagisco alla nostra patria e per quel piacere che mi prometto nel suo passaggio per questa città. Riserbo a quel tempo tutti i rendimenti di grazie ch'io debbo alla sua troppo generosa parzialità, la quale per altro è così prodiga delle mie lodi che giungo ad arrossirne, benché poeta. Se ella non pensa a moderarla, è pericolo che alla fine il mio rossore degeneri in vanità. Io non sono incallito abbastanza nelle massime di Zenone e di Crisippo per difendermi da simili tentazioni, che congiurano per sedurmi con tutto il merito d'un lodator così degno.

Subito che mi sia permesso d'uscir di casa, dirò al signor Bertoli quanto si è ella compiaciuta di commettermi. Ei ne sarà contentissimo, né lo sarà meno il signor conte Canale nel trattar un uomo così ammirabile per la sua eccellenza, come adorabile per il suo costume. E augurandomi intanto la sorte di meritare alcun suo comando pieno di stima, di gratitudine e di rispetto mi sottoscrivo.

 

XXVII - A Felice Trapassi, Roma

Vienna I3 giugno I744.

Gratissima, come tutto ciò che da voi mi viene, mi è stata l'affettuosa vostra lettera delli 16 del caduto, sì per le felici nuove di vostra salute, come per le prove, che in essa mi date, del vostro affetto. Le quali, benché superflue a persuadermi, sono sempre opportune a consolarmi. È verissimo che le torbide circostanze nelle quali io mi son trovato secondano il maligno lavoro che gli anni vanno facendo in questo mio non solidissimo edifizio. Mi avevano ridotto più malinconico che io per natura soleva essere, ma ora, lodi al Cielo, mercé l'aspetto funesto de' pubblici affari e l'assiduo commercio co' miei libri, che mi seducono dalle riflessioni moleste, ho sensibilmente migliorato. Io v'imito nel desiderio delle felicità che voi presagite, ma non già nelle speranze. Sono tanto avvezzo ad esser deluso da queste, che allora meno me ne fido quando paiono più ridenti; e con questa incredulità divido gran parte del colpo che si riceve quando svaniscono. Voi fate ottimamente a nudrirle, perché vi approfittate intanto del piacere che si gode nell'aspettazione di un bene riputato sicuro; e quando giunge il disinganno, avete in pronto una copia invidiabile di speranze nascenti che immediatamente succedono all'estinte e vi sostengono nel felice possesso di consolarvi del presente immaginando il futuro. Io, che per mia disgrazia sono sterilissimo di speranze, prendo il cammino opposto; altrimenti quello che per voi è balsamo per me sarebbe veleno. Voglia il Cielo che siate profeta, e che io possa darvi segni meno limitati del mio amore e del mio rispetto.

Non ho ancora le lettere della posta, onde non ho che scrivere al signor Perroni. Vi prego di abbracciarlo per me e dargli nuove di mia salute. Fate lo stesso con tutti di casa, e voi conservatevi attentamente, beneditemi, e credetemi con la devota sommissione.

 

XXVIII - A Francesco Algarotti, Dresda

Vienna 7 maggio I746.

A dispetto d'una febbretta che chiamano questi signori medici efimera estense depurativa, la quale mi favorisce da tre giorni in qua, non tralascerò di rispondere alla gratissima vostra scritta petrarchevolmente nel giorno che al sol si scoloraro ecc. Circostanza che non mi dispiace perché mi lusinga di qualche specie d'analogia fra la corrispondenza di madonna Laura col Petrarca e quella di voi con me. Duolmi bene che abbiate risentito nella salute l'avvicinamento de' sette gelidi Trioni: ma non dubitate che il vostro amico Apollo, che si va di giorno in giorno accostando, prenderà cura di conservarvi.

Il signor conte di Canale, tanto sollecito di possedere il cuore degli amici del vostro merito quanto tranquillo sul corso delle sue faccende, è stato lietissimo della vostra memoria, e con molti saluti mi ha commesso ringraziarvene ed abbracciarvi: rimettendo le sue commissioni al quando al come ed al se vi caderà in acconcio, o vi piacerà di eseguirle.

E la signora contessa d'Althann, ed il suo divino Correggio desiderano che venghiate voi medesimo ad assicurargli della vostra ricordanza, e frattanto la prima mi ha ordinato di rendervi grazie con tutte l'espressioni di stima che vi sono giustamente dovute.

Non ho nuova letteraria da darvi, se non che l'Arte poetica del nostro Flacco è già quasi affatto travestita. Grazie al Cielo che non è vera la metempsicosi. S'ei fosse in corpo di qualche uccel di rapina, verrebbe senza fallo a beccarmi gli occhi. Conservatevi, amatemi, che io non cesserò mai d'essere il vostro tenerissimo.

 

XXIX - A Francesco Algarotti, Dresda

Joslowitz 27 ottobre I746.

Come per lo più avviene di tutto ciò che piace e si desidera, la carissima vostra lettera del 20 d'agosto con l'epistola sul commercio e la nuova stampa del Congresso di Citera mi sono giunte tardissimo.

Non prima d'avanti ieri mi furono trasmesse da Vienna dal nostro signor conte di Canale, ed io mi son vendicato della lunga aspettazione rileggendo già ben tre volte questo vostro nuovo componimeno, e sempre con nuova specie di piacere. L'idea che voi avete saputo render poetica è degna d'un savio e buon cittadino. Vi trovo de' versi incomparabili, come

Parte maggior del veneto destino...

Piagata il sen dalle civili guerre...

ed i tre seguenti:

La tarda prole del palladio ulivo...

L'obbliquo riso...

e molti altri ch'io non voglio trascrivere. Vi si conosce per tutto l'uomo che pensa, e non il parolaio, carattere d'una gran parte de' nostri cinquecentisti. Si vede quanto voi conoscete che gli aggiunti sono il colorito della poesia, onde i vostri non son mai oziosi. E soprattutto ho ammirato la facilità con la quale vi è riuscito di superare quella vostra natural propensione alla folla de' pensieri, scoglio di tutti gl'ingegni fecondi, per cui avviene delle idee quello che delle piante, che germogliando in copia non proporzionata al terreno si usurpano a vicenda e lo spazio ed il nutrimento, onde la maggior parte riman soffocata e quasi nessuna matura. Io mi rallegro con esso voi di questo invidiabil dominio che avete su voi medesimo per cui sarà sempre per voi l'istesso il conoscere il buono che il conseguirlo. Ma, perché non crediate ch'io voglia unicamente lisciarvi (mestiere indegno dell'amicizia, e di cui ho tanto orrore che procuro evitarne fino il sospetto), vi dirò sinceramente ancora tutto quello in che io ho inciampato: non intendo che la mia delicatezza sia però misura del vostro giudizio. Il verso Te vidi un tempo ecc. co' quindici seguenti pare che interrompano l'unione del proemio con la materia, nella quale entrate dal verso Piagata il sen ecc. Veggo benissimo che non è così, poiché in detti versi voi provate la proposizione, che al vostro eroe stia sempre nel cuore il patrio bene. Ma io avrei voluto che voi aveste un poco più aiutato il lettore a conoscer subito la legatura; essendo io persuaso che nessuno di quanti ci leggono vuole affaticarsi per lodarci, ma che tutti all'incontro precipitano i giudizi che ci condannano. Desidererei che alcuna volta aveste un poco più di condescendenza per la ritrosia dell'orecchio italiano, avvezzo come quelli de' Greci e de' Latini a distinguere la lingua della poesia da quella della prosa: legame che non hanno i Francesi. Voi talvolta, benché non frequentemente, pur che una parola esprima la vostra idea e goda la cittadinanza fiorentina non avete repugnanza a valervene, ancorché sia essa straniera a' poeti, come imbriacare, rinculare, banderuole, molla o altre simili. Sono parole ottime e sonore; ma, non impiegate fin ora affatto, o pochissimo, ne' lavori poetici, fanno una tal qual dissonanza dal tenore di tutto il rimanente, e presentano i pensieri non rivestiti di tutta quella decenza che, come appunto nelle vesti, dipende in gran parte dal costume. È bellissima, per esempio, la voce molla nel senso metaforico in cui voi l'usate; ma non crediate che muova con la medesima sollecitudine ad un italiano l'idea medesima che muove la parola ressort ad un francese, appresso di cui il senso traslato di detta voce è divenuto proprio per la forza dell'uso. Se ne conoscerà fra noi il prezzo, ma dopo qualche riflessione, e questo sensibilmente diminuito dal rincrescimento della novità e dalla malvagità dei lettori, che tutti son uomini e per lo più ci puniscono della tardità del loro intelletto. La vivacità del vostro talento, intollerante d'ogni specie di servitù, vorrebbe scuotere questo giogo, ed io mi unirei volentieri in lega con voi, se credessi la provincia men dura: ma così in questa come nella maggior parte delle costumanze civili io credo impresa meno difficile l'accomodar me alla moltitudine che quella di disingannarla, ed evitando in tal guisa una quantità di risse importune procuro d'acquistare tempo per opere migliori di quello che sogliono essere i pedanteschi contrasti de' letterati, ripieni per lo più di ciancie inutili e di mal costume. A tutta questa lunga cicalata voi per altro risponderete con due parole dicendo: che lo stile della vostra epistola come che talvolta a seconda della materia e sorga e s'ingrandisca su l'esempio di Orazio, è nulla di meno sempre stile d'epistola, esente da' rigori della tibia, della tromba e della lira, e non obbligata a comparir sempre vestita da festa. Non avrei che replicare a questa risposta, se voi non aveste eletto e sostenuto in tutta l'epistola vostra un tuono nobile e poetico che non s'accosta mai al familiare; onde contraete co' lettori una specie d'impegno di non cambiarlo senza evidente ragione. Oltre a ciò, quella metafora al fiume un giogo ecc. non finisce di contentarmi, particolarmente nel sito in cui la trovo: essa è sempre un poco ardita (con buona pace della venerabile autorità de' Latini), ma in bocca de' barcaiuol parmi che s'allontani troppo dall'imitazione del parlare de' medesimi; e l'imitazione è il primo debito dell'arte nostra. Veggo che abuso indiscretamente della vostra pazienza: ma poiché ho intrapreso d'ubbidirvi, soffrite ancora quest'altra breve seccaggine. Nel terzo verso dell'ultima pagina voi dite

Ma non però, signore, il piede arresta.

Ora non mi sovviene esempio d'un imperativo usato come voi l'usate, e non ho qui libri per cercarlo. So che si dice ottimamente t'arresta, fa, dì, vieni, va; ma con la particola negativa non ho memoria d'aver trovato tale imperativo se non che con la terminazione dell'infinito, Non t'arrestare, non fare, non dire, non venire, non andare. Può essere che siano mie traveggole; ma questa volta ho risoluto di dirvi quanto penso; onde fatene voi quel caso che meritano. Ed eccovi quanto, rivestendo con grandissima ripugnanza il personaggio di censore che mi sta sì male, ho saputo ritrovar di dubbioso nella vostra bella epistola. Sono tutte bazzecole, e più tosto miei per avventura che vostri errori. Bisogna amarvi quanto io vi amo e stimarvi quanto voi meritate, per rompere il proposito di non credere all'istanze degli autori che dimandano il rigoroso giudizio degli amici, per esigere panegirici in contraccambio della loro apparente sommissione. Incominciando prima da me medesimo, io non credo infallibile se non il papa quando pronuncia ex cathedra; e so che avendo ancor voi questo giusto concetto degli uomini, vi compiacerete di quello che trovate tollerabile negli scritti miei, e mi perdonate le inavvertenze, quas vel incuria fudit vel humana parum cavit natura. Ma ormai potrebbero offendervi queste lunghe proteste, e con molta ragione.

La nostra degnissima signora contessa d'Althann mi commette mille saluti per voi. La disposizione in cui eravate di trattenervi un mese e più con esso noi ha resi più sensibili gl'impedimenti che ci hanno defraudato di tal piacere; desideriamo almeno che siano tanto a voi profittevoli, quanto sono stati a noi svantaggiosi. Amatemi intanto, perdonate la negligenza della lunga lettera che non ho tempo di rileggere, e credetemi.

 

XXX - A Francesco Algarotti, Dresda

Vienna I dicembre I746.

Ho intrapreso ben quattro o cinque volte di scrivervi, ma sono tanti i debiti de' quali voi mi caricate, e così poco discreti gli acidi miei e gli stiramenti de' nervi del mio stomaco e della mia testa, che, non sapendo trovar proporzione fra quel ch'io posso e fra quello che vi deggio, sono andato differendo, e senza aumentare in facoltà ho perduto il merito della diligenza. Onde, per non rendermi più reo di quel che già sono, ho risoluto d'arrossir piuttosto per la mia debolezza che somministrarvi motivi onde ragionevolmente dubitare dell'amor mio e della mia riconoscenza. E incominciando per ordine vi dirò in primo luogo che mi piace molto il cambiamento fatto da voi nella lettera del commercio, usando ingegni invece di molle, ed io non trovo che facciano oscurità i due significati della parola ingegno; nulladimeno, come io so già il vostro sentimento, non è meraviglia se lo riconosco immediatamente: per assicurarmi io ne farei pruova leggendo il passo a persona non prevenuta, ed osserverei se la parola muove l'idea che si vuole, con la necessaria sollecitudine. A tutte le altre vostre ingegnose ed erudite difese troverete la replica nella mia prima lettera; e a quella delle venerabili autorità che voi producete, per sostener l'uso delle parole, che sono straniere in Parnaso, io vi dirò che negli scritti de' nostri divini maestri v'è numero considerabile di cose da rispettarsi sempre, e non imitarsi mai, e che a dispetto della profonda venerazione che voi ed io abbiamo per il nostro Dante, non sarà possibile che ci riduciamo a scrivere:

E quello che del cul facea trombetta.

Nessuno è reo,

se basta a' falli sui

per difesa produr l'esempio altrui.

Ho riletto attentarnente il Congresso di Citera, e mi sono tanto compiaciuto delle sue nuove bellezze, quanto del più vantaggioso lume in cui avete poste le antiche; me ne congratulo con esso voi: vi consiglio di non accostar più la lima a così forbito lavoro, perché alla fine si perde il buono cercando l'ottimo, e l'eccesso della diligenza tira seco gli svantaggi della trascuraggine, e ve ne parlerei più lungamente se l'impazienza di ragionar della bellissima lettera che vi è piaciuto indirizzarmi non vincesse ogni altro mio desiderio. Sappiate dunque che io l'ho già letta molte volte e sempre con nuovo piacere; che mi pare ch'essa si lasci molto indietro l'altra sua sorella del commercio; che scintilla tutta d'un certo vivace fuoco poetico ond'è tutta ripiena d'anima in ciascuna sua parte; che vi sono de' versi che hanno subito occupato luogo nella mia memoria, e non saprei farli tacere, tanto essi vi risuonano, come per esempio:

Il nuovo Achille tuo, che già nel seno

l'omeriche faville agita e versa.

Né il latino Ocean tentar nel greco.

Giaceano a terra squallide e dolenti,

involte ancor nell'unnica ruina.

Né ancor avea

Michelagnolo al Ciel curvato e spinto

il miracol dell'arte in Vaticano.

E quella invida lode

che solo in odio a' vivi i morti esalta.

Degli erranti fantasmi ordinatrice

aura divina.

e altri molti che io tralascio per non trascriver la maggior parte della vostra lettera. È frutto in somma che mi fa compiacer de' miei presagi sul vigore del vostro ingegno, quando non se ne ammiravano che i fiori. Né vi cada in mente che questo mio giudizio sia un cortese contraccambio delle lodi, delle quali con tanta profusione mi caricate. Veggo assai bene che queste potrebbero risvegliarmi quell'invidia che non sono giunti gli scritti miei a meritare: mi compiaccio in esse della cagione che vi seduce, e trovo argomenti in loro d'esser più contento di voi che di me. Comunque la faccenda si vada, io confesso il mio debito, ma non intenderei mai pagarlo con la moneta adulterina di menzognere lodi, indegne di essere introdotte ne' sacri penetrali dell'amicizia. E perché abbiate nuovi argomenti della mia sincerità, io vi dirò liberamente quanto nella vostra lettera ho incontrato capace di qualche maggiore ornamento, non bisognoso di correzione.

Per ragion d'esempio io farei che scambiasser luogo il quinto verso col quarto, e direi:

...ov'io

Orazio non ugual d'Augusto al peso,

le giuste lodi al mio signor scemai.

e ciò solamente per approssimar quel nominativo d'opposizione all'io da cui egli è retto, ed alleggerirne la fatica al lettore.

Dal decimo terzo sino al decimo ottavo verso, tratto per altro ammirabile, io inciampo tre volte: desidero in primo luogo che abbia il suo articolo quella tragica Musa come cosa non generica ma particolare. È vero che vi sono dei casi ne' quali l'articolo si trascura con eleganza, ma voi sapete meglio di me quando, come e perché; né questo è il luogo di fare una dissertazione. Secondariamente (oh qui sì che mi chiamerete la seccaggine) non mi si accomodano all'orecchio quei vostri palchetti, profanatori d'uno de' più nobili poetici tratti della vostra lettera; e finalmente quel bellissimo aggiunto di grato, che voi date al popolo, vorrei che fosse o in principio di verso o altrove situato in guisa che, senza dover tornare in dietro con la mente, facesse conoscere ch'ei regge tutto ciò che siegue del periodo, e per darvi un'idea della maniera che io intendo di spiegare, eccovi come vorrei organizzato tutto quel passo:

Al tragico tuo canto

dal basso pian, dagli ordini sublimi,

sonori ognor, di giusto plauso, il folto

popolo spettator tributi invia:

grato che alfin le invereconde un tempo

scurrili scene, or, tua mercé, pudico

passeggi e grave il Sofocleo coturno.

La correzione in margine evita il pericolo di attribuir l'aggiunto sonori ad altro che a' tributi. Forse non vi piacerà la lunga trasposizione, ed io non intendo difenderla: voglio solamente farvi comprendere qual sarebbe l'ordine che io desidererei, lasciando a voi la cura di eseguirlo a vostro talento quando così non v'aggradi. Nel verso 23 vorrei che faceste dono d'un articolo a quel: da tua Dido infelice cosa facilissima col suo cambiamento dell'aggiunto, come per ragion d'esempio:

... dall'afflitta tua Dido.

Voi potrete difendere la vostra maniera, se così vi piace; troverete esempi confacenti, e chi volesse convincervi con grammatici, dopo aver riletti il Salviati, il Pergamini e il Buommattei, non saprà ancora con qual sicurezza, dove possa trascurarsi l'articolo, e dove no; tanto infelicemente si sono questi studiati di darne regola certa. Sicurissimo è per altro che l'articolo particolareggia e determina il nome a cui s'unisce. Fiume che inondi i campi, non disegna qual fiume. Ma il fiume inondò i campi disegna quel tal fiume, di cui si è parlato; questa regola ha alquante eccezioni, e più che ogni altra cosa gli orecchi bastantemente sicuri mi sogliono determinare i dubbi di tal fatta.

Nel v. 33, quel non ti dolga l'udire, parmi che muova l'idea di stato d'afflizione e di bisogno di consolatore e lusingherebbe assai più la mia umanità e seconderebbe il vero chi dicesse:

v. 33 A ragion tu non curi obliqua voce.

v. 37 Sai che di tal reo verme è pasto e nido.

v. 38 Né meraviglia è già.

Nel v. 43, Col valor che ha negli occhi io direi su gli occhi, poiché negli occhi vuol dir dentro.

V. 45, E i buon Pisoni, quel buon per buoni è licenza della quale non farei uso in piccolo componimento, tanto più che E fra' Pisoni sta ottimamente.

v. 55 Che più d'uno è tra noi (bene su l'Istro

ten' pervenne il romor).

Quel più d'uno, val molti. Io spero che non lo siano paragonati a' loro contrari, e se lo fossero, non mi par salubre il confessarlo. Direi dunque

Che taluno è fra noi (bene su l'Istro ecc.

Quel bene dovrebbe esser tronco, come ben su l'Istro. Vi saranno pochi esempi in contrario, e quando anche ve ne fossero a dovizia, io credo che si debbano evitare al possibile le licenze che sempre accusano l'angustia dello scrittore. Che sia pervenuto su l'Istro il romore ch'han fatto i nostri Pantili, fa loro molto onore, e non è vero; onde se non avete motivo politico per asserirlo, io direi: Ben taluno è fra noi ritrovo, e impronto ecc.

V. 69, Non aureo tutto ecc. desidererei che la fedele e bella traduzione del verso: nil praeter Calvam et doctum cantare Catullum, non fosse tanto disgiunta dal nome Demetrio, tanto più che quell'in tempo non aureo tutto, e pien d'opre antiche, non si conosce subito a qual oggetto si dice.

V. 95, O di servile età povere menti: io non mi scaglierei contro il secolo, che non è certamente del genio di Pantilio, anzi odia lo stile petrarchevole secco ed esangue, ed esclamerei piuttosto contro Pantilio, dicendo:

O di mente servil miseri ceppi,

lacci meschini o comunque meglio vi piacerà.

V. 121, Lungo la costa, e su per li valloni: questo verso mi par che cada, né so perché, forse quel per li è la pietra dello scandalo:

Su pe' valloni e per la scabra costa,

si sosterrebbe più.

V. 186. Se io fossi l'autore della bellissima vostra lettera, sarei vivamente tentato di terminarla con quel verso di Dante, ma in modo che il verso medesimo chiudesse il senso e non rimanesse staccato, cioè nella seguente o altra simil maniera:

A piena man spargete

sovra lui fiori, e del vivace alloro

nobil mercé, de' bei sudori altrui

"Onorate l'Altissimo Poeta".

Non perderete i quattro ultimi versi, che rappresentano l'invidia domata; quella immagine entrerà in altro componimento quando vi piaccia; ed io sarei contento che il fine della vostra lettera lasciasse il lettore più persuaso dell'amor vostro per me che del vostro sdegno verso Pantilio.

Un cavaliere d'ottimo gusto, che ha trovata la vostra lettera sul mio tavolino e che l'ha tutta letta con sommo piacere, mi sono accorto ch'è inciampato nel v. 67: Di costoro cotale è il cicalio. Se in grazia sua volete o togliere o troncare quel vostro cotale, eviterete che un altro non se ne offenda.

Ma io abuso troppo della vostra docilità e della vostra pazienza, non meno che della povera mia testa tormentata dagli incomodi suoi: tutto quello che ho osservato nella vostra lettera può difendersi quando si voglia: io non intendo di far da correttore, come voi sapete, anzi protesto di nuovo che il più grande argomento che io possa darvi dell'amor mio è la fiducia con la quale con voi ragiono delle vostre cose, fiducia che (avendola appresa a mie spese) non avrei con chicchessia.

Eccovi acclusa la lettera di ritorno del povero Gorani, che avete ragion di compiangere e per i meriti suoi e per l'amore che vi portava.

Rispondo con questa a tre vostre lettere, che tutte fedelmente ho ricevuto. Vi assicuro del sommo aggradimento della degnissima contessa d'Althann alla vostra gentile memoria, ed abbracciandovi teneramente insieme col mio conte Canale, pieno di stima e di riconoscenza sono e sarò eternamente il vostro.

 

XXXI - Alla Contessa di Sangro, Napoli

Vienna I5 aprile I747.

Mi onora a tal segno e solletica in guisa tale la mia vanità il suo desiderio di mie lettere provato dalla ingiusta accusa di negligenza che Vostra Eccellenza mi ripete nel veneratissimo suo foglio del 7 del caduto marzo, che (potendolo con somma facilità) io trascuro a bello studio di difendermi, anzi le rendo vive e sincerissime grazie d'un'ingiustizia di cui son superbo. La moderazione poi con la quale ella riguarda ciò che scrive non è misura del giusto pregio in cui tengo la sua eloquenza, nella quale ritrovo tutti i caratteri di una bella mente non contaminata dalla pedanteria. Ed io sono molto più contento di quelle amenità che somministra ad alcuni suoi favoriti terreni la maestra ed industriosa natura, che di tutti i parterri e bersò e di mille altre ridicole invenzioni che intraprendono d'adornarla e la disfigurano. Volesse il Cielo, riverita mia signora contessa, che le mie indisposizioni fossero solamente morali! contro di tali morbi io ho farmachi potentissimi, e sarei indegno di vivere se, avendoli tanto praticati nei versi miei, fossi poi così poco atto a farne uso ne' miei bisogni. Non mi creda così fanciullo. La teorica e la pratica delle vicende umane non mi hanno lasciato per esse se non se quella sensibilità che esse meritano. Ho abbastanza esaminato il di dietro del teatro, e so assai bene quanto sconce, sudice e puzzolente siano quelle tele medesime che rapiscono di piacere e meraviglia la credula e ingannata platea: ma tutta questa pratica dottrina, avvalorata dalle più solide massime di Zenone, di Crisippo, di Seneca e di Epitteto, non vale un fico contro gli incomodi fisici che, mercé del suo cattivo alloggio, tormentano questa povera animetta, mal difesa dalla pioggia, dal vento, e da tutte le inclemenze delle alterne stagioni. Quei buoni antichi, che credevano permesso di loggiarne a lor posta, aveano pur un ricorso; ma noi più illuminati di loro convien che fissiamo gli occhi nell'immortalità, della quale oltre l'autorità e la tradizione io trovo un grande argomento nelle nostre miserie medesime. Poiché non saprei come immaginarmi che l'Eterna Provvidenza avesse creata sì bella cosa, quale è l'anima nostra, unicamente per incepparla fra le imperfezioni di questa nostra fragile ed infelice macchinetta... Ma non predichiamo.

Temo pur troppo che la Palinodia sia giunta a Napoli prima di questa che le invio: ma non è mia colpa. Vostra Eccellenza sa a chi e perché ho dovuto darla. Per compenso della tardanza eccole la musica della medesima: cosa rara a' tempi nostri essendo musica d'un poeta. Ho sentito con somma pena l'incomodo dell'eccellentissimo signor conte suo consorte, cui dopo aver fatte le mie riverenze la priego dimandar se la filosofia è buona contro i dolori colici. E dalla sua risposta si regoli nel giudicar de' miei malanni, ma la carta manca: onde pieno di vero rispetto mi ripeto.

 

XXXII - A Francesco Algarotti, Berlino

Vienna I3 maggio I747.

Mi ha ben fuor di misura consolato la dolcissima vostra lettera del dì 28 dello scorso aprile da Potsdam con le liete novelle ch'ella mi reca, ma non mi ha punto sorpreso. Il mio socratico demone mi avea già fatto pregustare tutto il dolce delle vostre allor future vicende, e ciò fin dal dì che vi piacque di comunicarmi l'idea e gli stimoli di quel viaggio che, differito poi per cagioni a me ignote, avete pur finalmente ridotto ad effetto. Non credo necessario mettermi in ispesa per esagerarvi il mio contento: voi sottile investigatore del cuor degli uomini, e già da lungo tempo pacifico possessore del mio, ne conoscete ogni moto senza che io ve l'accenni. Dirovvi solo, ch'io sono oltremodo superbo che gli antichi miei sentimenti a riguardo del merito vostro vengano ora solennemente approvati dalle pubbliche e magnifiche decisioni di giudice così grande e così illuminato, e ch'io numero fra i fortunati eventi della nostra Patria felice l'esser voi stato eletto a sostenere nel settentrione il decoro delle nostre Muse italiane.

Né quando prima lessi l'ultima vostra lettera in versi, né quando poi replicatamente la considerai, riconobbi l'espressione di Dante, e me ne so buon grado; poiché a dispetto di tutta la mia libertà di pensare, il peso di tanta autorità avrebbe per avventura potuto sedurre il mio giudizio. Or poiché non v'è più tempo di affettar modestia, protesto francamente che né Dante né Omero medesimo né tutta la poetica famiglia farà mai piacermi quella metafora, delle mani del cielo e della terra. La metafora, a creder mio, dee condurre l'intelletto al positivo per la via di qualche viva e bella immagine, e la povera mia fantasia è miseramente confusa quando intraprende d'attribuir le mani al Cielo ed alla Terra, ed il mio intelletto suda a dedurre da una immagine così enorme il nudo senso dello scrittore. Ma voi non siete nel caso però d'esser ripreso, non essendo voi né inventore né imitatore di tale espressione, come io nel principio ho falsamente creduto. Veggo che il vostro oggetto è stato unicamente il nominar l'opera di Dante com'è piaciuto nominarla a lui. Or per mia sicurtà, s'io pensassi come voi pensate, avrei almeno gran cura d'informare i lettori di non esser io il fabbro di tale espressione, e scrivendola con diverso carattere ed accennando in margine il luogo. Già sapete ch'io sono seccaggine, ma poiché voi mi amate anche tale, non ho stimoli per correggermi.

La nostra degnissima contessa d'Althann, quanto più grata alla vostra gentil memoria, tanto memore de' pregi vostri, mi commette di congratularmi con esso voi a nome suo di questo incamminamento de' suoi presagi. Il conte di Canale vi darà conto con sue lettere del giusto pregio in cui tiene e voi e le cose vostre. Continuate ad amarmi, che io sarò fin ch'io viva veracemente.

 

XXXIII - A Giuseppe Bettinelli, Venezia

Vienna I0 giugno I747.

Quali grazie non debbo io rendervi, gentilissimo mio signor Bettinelli, per la obbligante cura che avete voluto prendervi di farmi capitare l'erudite considerazioni fatte sul mio Demofoonte? S'io avessi ozio per rispondere, la maggior parte della mia risposta non consisterebbe che in sentimenti di gratitudine per chi le ha scritte; tanto sente egli più vantaggiosamente delle mie fatiche, di quello ch'io medesimo ne senta. Le ho lette correndo ne' pochi momenti che ho avuti di tempo fra il riceverle ed il rispondervi, ma le leggerò molte altre volte per approfittarmi non meno degl'insegnamenti che dell'artifizio dello scrittore. Oh quanto faciliterebbe il mio profitto la pubblicazione della tragedia ch'egli promette! Allora, considerando le perfezioni di quella, conoscerei quel moltissimo di reprensibile ch'egli trascura di notare nel mio Demofoonte, bastandogli d'avvertire i lettori che vi sia, anzi contentandosi di concedere con esemplare carità che io medesimo abbia lasciato correre a bello studio quelle infinite irregolarità, perché non si ponga in dubbio che vi sono. Le parti del libriccino, di cui mi fate dono, le quali discendono a' particolari, sono la riflessione su la disuguaglianza de' caratteri di Timante e Creusa ed il paragone ch'egli propone fra il signor Apostolo Zeno e me: in quanto alla prima fors'egli ha ragione, ma io credeva che non fosse variazione di carattere il dipingere un personaggio medesimo in diverse situazioni. Il mio Timante è un giovane valoroso, soggetto agl'impeti delle passioni, ma provveduto dalla natura di ottimo raziocinio e fornito dalla educazione delle massime le più lodevoli in un suo pari. Quando è assalito da alcuna passione è impetuoso, violento, inconsiderato; quando ha tempo di riflettere, o che alcun oggetto presente gli ricordi i suoi doveri, è giusto, moderato e ragionevole. E in tutto il corso del dramma si vede sempre in esso questo contrasto o vicenda delle operazion della mente e di quelle del cuore, degl'impeti e della ragione. Così fa Torquato Tasso del suo Rinaldo: quando la passione lo trasporta, dice di Goffredo:

venga egli, o mandi, io terrò fermo il piede:

giudici fian fra noi la sorte e l'armi;

fera tragedia ei vuol che s'appresenti

per lor diporto alle nemiche genti.

Quando poi a sangue freddo ha tempo di riflettere e di ragionare dice al medesimo Goffredo:

e s'io n'offesi te, ben disconforto

ne sentii poscia, e penitenza al core.

Or vengo a' tuoi richiami, ed ogni emenda

son pronto a far che grato a te mi renda.

L'istessa regola con diversa proporzione ho tenuta nel carattere di Creusa. Ella è una principessa eccessivamente dominata dal fasto del suo grado e della sua bellezza: offesa inaspettatamente da Timante, e nell'uno e nell'altro senza aver un momento da ragionare, prorompe inconsideratamente nella richiesta d'una vendetta che, sedato l'impeto primo, non solamente trascura, ma conosce non esserle dovuta; anzi a forza di raziocinio si riduce com'era giusto, a compatire l'istesso che perseguitava. E questa mi pareva non disuguaglianza di carattere, ma diversità di situazione, senza la quale ogni carattere sarebbe insipido ed inverisimile. Qual uomo è sempre ragionevole e considerato? Qual uomo è sempre trasportato e violento? Il primo sarebbe un nume, il secondo una fiera. Dal contrasto di questi due universali principii delle operazioni umane, passione e raziocinio, nasce la diversità de' caratteri degli uomini, secondo che in ciascheduno più o meno l'una o l'altro o entrambi prevalgono; e questo concorso di principii diversi nel soggetto medesimo accorda il valore d'Enea con le frequenti sue lagrime, i deliri di Didone col senno che si suppone nella fondatrice d'un impero, e giustifica Orlando:

che per amor venne in furore e matto

d'uom che sì saggio era stimato pria.

Ma volete ch'io vi dica un mio pensiero? Io credo che il dottissimo scrittore delle considerazioni suddette senta diversamente da quello che scrive. Io lo stimo piuttosto un umore allegro che, desideroso di divertirsi, si studia d'appiccare una zuffa poetica fra il signor Zeno e me, per farsi poi spettatore della commedia. Il paragone, ch'è la seconda parte ma la principale della sua lettera, pare visibilmente che non tenda ad altro; ma in questa parte non mi sento punto inclinato a compiacerlo. Io professo al degnissimo signor Zeno infinita stima e rispetto, e so ch'egli mi contraccambia con uguale amicizia; onde dite pure a chi ve ne richiedesse che io non dico meno del signor Apostolo di quello che l'autore medesimo delle considerazioni ne possa avere scritto, e che, superbo di essere stato degno di tal paragone, mi unisco di buona voglia con chi pronuncia a favor di lui.

Io non ho mai scritto satire in tutta la mia vita, e non ne scriverò mai. Odio questo genere di scrivere, e non son provveduto d'atrabile e di mal costume abbastanza per potervi sacrificare i miei sudori; onde dite pure che se ne mente chi volesse applicarmene alcuna. Oltre di che il mio stile ha il suo carattere, e gl'intelligenti potrebbono difficilmente ingannarvisi. Se vi piace di dire i miei sentimenti su le considerazioni che m'inviaste, potete farlo liberamente, ma sarebbe finita la nostra amicizia se questa lettera, o per via di copia o in altra maniera, si pubblicasse: io non so quello che ho scritto in tanta angustia di tempo, ed ho solidissime ragioni per non volerlo. Amatemi e credetemi.

P. S. L'Opera, che ho terminata per agosto, non si rappresenterà in tal tempo. Vi servirò come volete, quando sarà stampata. Desidererei d'aver indietro o l'originale ovvero una copia di questa lettera, che non ho tempo di mettere in miglior ordine.

 

XXXIV - A Carlo Broschi, detto Farinello, Madrid

Vienna 26 agosto I747.

È in data del 2 di luglio l'ultima amabilissima vostra lettera, brevissima a rispetto della sete inestinguibile che mi trovo di cicalar con esso voi, nella maniera almeno da così enorme separazione permessa; ma lunga per altro abbastanza per servirmi d'argomento della parte che mi concedete ancora nel vostro cuore, senza qual circostanza non avreste certamente potuto sacrificar tanto tempo e tanto lavoro. La convenienza, la civiltà, la gentilezza e tutti gli altri comuni legami della società civile non sogliono ispirar tanta pazienza Una pruova sì convincente della tenera vostra amicizia, aggiunta alle antiche testimonianze ed alle nuove proteste, mi rende così sicuro dell'amor vostro, che di tutt'altro più tosto che di questo dubiterei. Questo basterebbe per obbligarmi ad amarvi: voi sapete per molte esperienze

che amore a nullo amato amar perdona.

Ora accumulate a così efficace motivo il merito vostro che vi ha reso tanto amabile quanto singolare, la confidenza con la quale mi parlate de' vostri affari, la cordialità con la quale vi offerite a raddrizzare i miei, la tenera premura che mostrate della mia salute, l'istruzione ed i mezzi che me ne somministrate, la somiglianza de' malanni, la protezione che mi procurate di coteste illustri ninfe, il generoso pensiero che vi prendete e del mio palato e quasi del mio naso, sommate tutto insieme, e poi ditemi se si trova aritmetico che sappia numerarne il prodotto. Io non so esprimermi meglio che dicendovi che v'amo quanto merita d'essere amato Farinello. Ma sospendiamo queste tenerezze, affinché qualche maligno non ci appicchi un'impostura di quelle che servono a consolar l'invidia intollerante dell'onesta, tenera, vera e disinteressata amicizia.

Non può essere né più viva né più lepida né più minuta la descrizione che mi fate e della vostra infermità e della cavata di sangue e del chirurgo francese e del fisico lombardo. Io ho dovuto rider più volte del sale comico col quale avete saputo condire un racconto per altro così tragico. Desidero che i voti di tutte le persone delicate e cólte d'Europa siano esauditi, e che possiate voi trionfar di tutti i vostri ipocondriaci cancherini interamente debellati. Datemi il buon esempio, come mi avete dato il cattivo; ed io procurerò d'imitarvi.

La vostra musica per la mia Nice è degna di voi. Comincia il suo merito dalla scelta dell'affettuoso tuono di fa-ut, e cresce con la nobile naturalezza che conviene a questa specie di componimento. Io vi cedo senza repugnanza, anzi son superbo d'esser superato da voi. Ed a chi mai può far vergogna d'esser superato in musica dal mio incomparabile Farinello? Non mi hanno incantato meno le due musiche della picciola dedica Se mi dài ecc. Ma nell'ultima particolarmente di queste vi siete dimenticato un poco che la natura non è prodiga di Farinelli, e che l'esecuzione di questa musica per esser perfetta abbisogna dell'eccellenza dell'autore. Benché io non sia musico se non quanto basta ad un poeta, comprendo la vostra intenzione e mi sbattezzo per secondarla; ma spiritus promptus est, caro autem infirma. Intendiamoci bene: io parlo della mia voce, non prendete qualche equivoco ingiurioso al mio credito.

Oh caro Farinello, quale agitazione, qual tumulto, qual tempesta mi avete risvegliata nell'animo confidandomi le tanto grandi quanto poco meritate fortune della mia Nice! Voi che conoscete la vanità de' poeti non mi tacete alcuna circostanza di quelle che possono farla crescere sino al sommo della sua elevazione. Non vi contentate d'assicurarmi che la mia Nice si canta sovente su le sponde del real Manzanare: mi fate intender DA CHI, e come, ed in qual sublime recesso, e fra quale illustre e felice compagnia. Né siete contento di questo: mi fate una rispettosa sì ma esattissima enumerazione delle veramente più che umane qualità di quella deità che rende felice cotesto clima con la sua presenza, e tanti, tanti altri, con gl'influssi suoi. In somma m'accorgo benissimo del vostro maligno piacere nel considerarmi agitato fra la superbia e la confusione, fra la compiacenza e l'invidia. Oh fortunata mia Nice! Chi avrebbe mai preveduto ch'io dovessi invidiarti? Con quanta venerazione dovrò riguardarti in avvenire!

Voi mi credete in gran pericolo per avervi io preferito ad una tranquillissima beltà teutonica. Oh quanto v'ingannate! Qui gli odii e gli amori non tolgono mai il sonno: qui l'anima s'impaccia pochissimo degli affari del corpo: la sera siete il favorito, la mattina l'incognito. Le premure, le agitazioni, le sollecitudini, le picciole guerre, le frequenti paci, le gratitudini, le vendette, il parlar degli occhi, l'eloquenza del silenzio, in somma tutto ciò che può dar di piacevole o di tormentoso il commercio delicato delle anime, è paese non conosciuto se non che come ridicolo ornamento de' romanzi. È cosa incredibile a qual segno arrivi l'indolenza di queste placidissime ninfe. Io dispererei di trovarvi una sola capace di trascurare un giuoco di piquet per la perdita o per la morte d'un carissimo amante; ve ne troverei ben quante mai ne volessi di quelle che non interromperanno l'insipido lavoro de' lor nodetti fra gli eccessi dell'estro più misterioso. E voi temete per me? Tranquillatevi pure. Non si corre questo rischio. Assicuratene pur francamente cotesta degnissima dama che, senza averlo io meritato, prende generosamente interesse nel mio supposto pericolo. Esprimete voi alla medesima gli ossequiosi miei e grati sentimenti per il patrocinio di cui onora gli scritti miei. Ditegli che il nobil ritratto che voi vi siete compiaciuto di farmene mi ha reso più sensibile al freddo del settentrione dove non germogliano di tali piante. Voi in somma siete nato a luna crescente, tutto vi va a seconda. Bisogna esser Farinello, amico e gemello, per evitar l'invidia mia; che per altro, s'io mi addormentassi un poco a queste descrizioni, prenderebbe troppo vigore.

Dalla franchezza, che non avrei usata se non con voi, potrete ben conoscere se io sia stato capace di credervi il mio volontario rivale nella percettoria di Cosenza. La notizia che l'avesse ottenuta il vostro fratello non era né da me cercata né sicura; e quando lo fosse stata, a tutto ne avrei attribuita la colpa fuori che al mio Farinello, che troppo teneramente mi ama e troppo nobilmente pensa. Ve ne ho parlato perché si parla facilmente di quel che duole. E come volete, caro amico, che non mi dolga di vedermi spogliar, così senza delitto, di tutto il frutto de' poveri miei sudori, di tutte le speranze ed i sostegni della vecchiezza? Volete conoscere quanto io sia sfortunato? Sentite, e compiangetemi. Carlo VI, in premio delle mie lunghe fatiche ed in supplemento di soldo non pagato, mi concede mille scudi in Sicilia da situarsi sopra vescovati o beneficii di quel regno. Divengono immortali tutti i vescovi, abbati e beneficiati; e si perde il regno prima che si sia potuto situare un quattrino. Vaca la percettoria di Cosenza nel regno di Napoli, e memore l'augusto mio padrone de' crediti miei me la destina: entro in possesso, spendo DEL MIO per le spedizioni ottocento e più ducati, e prima ch'io cominci a riscuotere il primo semestre entrano le armi spagnuole, ed io rimango con le carte in mano da farne vesti di camera ai pani di zucchero. La presente mia clementissima sovrana, obbligata dalle circostanze de' tempi, diminuisce i soldi; e per dare a me un compenso di tal diminuzione, come per consolarmi in parte degli antichi miei danni, mi assegna mille e cinquecento fiorini (e non un canonicato) in Milano. Corre il quinto anno che la grazia è fatta, ma colà non eseguita dove bisogna, per mille arzigogoli ch'io medesimo non intendo ma provo. Or che vi pare? Non è lagrimevole il caso mio? E pure è tale. Dopo diciasette anni di servizio, non già per colpa de' miei padroni ma della mia nemica fortuna, io sono in peggiore stato di quando ho lasciata la patria mia. Da questo fedele e patetico racconto argomentate quanta confidenza abbia io con voi: confidenza che vi deggio in contraccambio della vostra. Chi può rendervi mai grazie abbastanza della affettuosa e sincera prontezza con la quale vi offerite a procurar di condurre a buon porto questo mio sventurato affare? Io riconosco in questi moti non ordinari della vostra amicizia il cuore di Farinello; e son superbo di non essermi ingannato quando mille volte ho detto che tutto è armonico in voi e tutto al medesimo grado d'eccellenza.

Io vi son già così tenuto della vostra sincera premura come se avesse conseguito il suo effetto, poiché le ragioni d'esservi obbligato dipendono da quella e non da questo. Per darvi in mano qualche scrittura autentica vi accludo un solenne certificato della Segretaria di questo Supremo Consiglio d'Italia, così della concessione della nota Percettoria come del dispaccio con cui fu notificata allora a Napoli la mercede. Il mio possesso in Napoli si proverà subito che voi me lo accenniate. Io destinerò persona nella bella Partenope che assisterà dove ed a chi crederete opportuno, quando ne avrò da voi l'avvertimento. Oh se potesse riuscirvi di render nota all'augusta vostra sovrana la lagrimevole istoria mia! piena, come il mondo la prèdica e voi me la descrivete, di clemenza, di generosità e di giustizia, è impossibile che non inclinasse l'animo a consolarmi. Per me, io conterei come affatto nuova la grazia, qualificata da così grande benefattrice. Caderebbero le sue grazie in persona, se non meritevole, cognita almeno, onde non resterebbe certamente occulto questo benefico atto del reale animo suo, da servir per esempio agli altri suoi pari e di consolazione agli oppressi. E se la voce d'una povera cicala di Parnaso, qual io mi sono, potrà giungere sino all'orecchie de' posteri, sapranno i posteri ancora qual pietosa e potente mano ha saputo sostenermi e proteggermi a dispetto di tutti gli sforzi dell'iniqua e capricciosa fortuna.

E non vi bastano, caro gemello, tante e tante testimonianze che voi mi date dell'amor vostro? Credete necessari anche i doni per rendermene più sicuro! Vainilla, chinchina, estratti amaricanti, pensieri di tabacco... Ma questo è volermi sopraffare in guisa che non mi rimanga speranza di mai più potervi contraccambiare. Intanto comincio ad esser grato con la confessione del debito e coi voti di facoltà per pagarlo.

La Corte è in un feudo dell'imperatore in Ungheria, e per conseguenza anche madama Fuchs, ed io non la vedrò così presto, perché sono già con gli stivali per trasportarmi in Moravia, dove resterò a godere l'aria autunnale della campagna sino a tutto il venturo ottobre insieme con la nostra degnissima signora contessa d'Althann, parte per consiglio de' medici e parte per l'allettamento di così nobil compagnia. Onde le vostre commissioni fuchsiane non potranno eseguirsi che al ritorno. Ho ben subito eseguite quelle che mi avete date per la signora contessa d'Althann suddetta; e le ho eseguite nella camera del giardino nostra favorita, ed in mezzo ad una numerosa assemblea, e facendo pompa della vostra brevissima lettera. Non so dirvi a qual segno abbia gradito questa dama la vostra cortese memoria, con quali parziali espressioni mi abbia ordinato d'assicurarvene, e con qual premura abbia voluto esser minutamente e replicatamente informata e della vostra salute e delle presenti vostre circostanze, interessandosi per quella ed esultando di queste. Tutto il rimanente poi della compagnia mi è caduto addosso, e ho dovuto ricantar la canzone medesima poco meno di quelle che ne' reali recessi avete per tanti anni ricantate. Vi avrebbe per altro fatto piacere, come lo ha fatto a me grandissimo, il veder qual memoria viva ancora dopo sì lungo tempo di voi in un clima dominato dall'oblivione.

Dunque volete assolutamente il mio ritratto? Oh che dolori! La pazienza di servir di modello all'indiscretezza di un pittore è per me la virtù più difficile a conseguire: fin ora non vi sono altri ritratti miei che quelle satire furtive che hanno applicate gli stampatori in fronte de' libri miei; e mi muovono la bile ogni volta che me ne capita involontariamente alcuno sotto gli occhi. Ma chi può resistere alle istanze dell'amato gemello? Al ritorno dalla campagna prenderò per penitenza dei miei peccati l'esecuzione di cotesta vostra voglia di gravida, affinché non facciate qualche aborto. Non vi meravigliate per altro se avrò su la tela fisonomia ipocondriaca perché difficilmente farò faccia ridente al pittore; se pure non mi riesce di persuader qualche driade o napea a voler assistere all'operazione ed andarmene raddolcendo l'amaro.

Con tutte le diligenze fatte sino a' confini dell'impertinenza, non mi è riuscito di avere in tempo il certificato autentico, che di sopra vi ho accennato, da questa segreteria del Consiglio d'Italia. Onde partendo io per la campagna lascio ordine che subito che si abbia vi sia trasmesso per la strada medesima per la quale la presente lettera lo precede.

Ho fatto copiare un paio di cantatine, già da me scritte per la Corte e non ancora molto comuni. Ve le accludo, ma non già per voi. Intendo che ne facciate un tributo a cotesta illustre protettrice delle Muse italiane, signora contessa di Belalcazar. Se poi vorrete voi illuminarle con le vostre note e con la vostra maestra voce, il tributo m'assicuro che meriterà la superiore approvazione di una dama di così delicato discernimento.

Finisco perché deggio partire, e non dipende da me il differirne il momento. Addio, caro gemello. Amatemi quanto io vi amo, ché appagherete l'infinita avidità ch'io mi sento dell'amor vostro e renderete giustizia alla tenera sollecitudine con la quale io sono e sarò sempre.

 

XXXV - A Francesco Algarotti, Berlino

Joslowitz I6 settembre I747.

Incomincio quest'anno con ottimi auspici il mio autunnale ritiro; poiché la prima lettera che viene in esso a trovarmi è quella scritta da Berlino il 18 dello scorso mese dall'incomparabile mio signor conte Algarotti. Benché sommamente laconica ha essa appresso di me tutto il merito di qualunque più diffusa potesse egli mai scriverne, poiché non mi fugge la giusta riflessione del cortissimo ozio che costì gli concede il ben collocato amore d'un mio troppo grande e troppo venerabile rivale.

Il marchese Mansi, ancora caldo de' favori da voi ricevuti, me ne ha reso esattissimo conto: egli è tornato tutto vostro e Prussiano, ed ha pagato una rigorosissima usura della lettera che per lui vi scrissi, rispondendo con pazienza esemplare alle minute mie numerose e replicate interrogazioni. Io vi rendo grazie del credito in cui andate ponendo appresso gli amici il mio potere su l'animo vostro, e vorrei pure offerendovi in contraccambio, siccome faccio, tutto ciò che poss'io, non offrirvi sì poco. Se lo scioperato tenore della vita viennese non fosse in gran parte per me impiegato nell'ingrata occupazione che mio mal grado mi danno ancora, benché ormai meno indiscrete, le ineguaglianze di mia salute, intraprenderei certamente qualche lavoro, onde far uso e del poco che si è raccolto e della facoltà che mi resta: ma son io così mal sicuro di me medesimo, e son in guisa confusi gl'intervalli con le sorprese, che non ardisco ordir tela che possa troppo risentirsi dello svantaggio degl'interrompimenti. Non è però che il signor conte di Canale ed io abbiam rinunziato al consorzio delle Muse. Nel solito a voi noto recesso dell'angusta sua libreria, se molto non si è fatto quest'anno, si è voluto almeno far molto. Abbiamo in primo luogo assai confidentemente conversato con que' buoni vecchi, a' quali dedit ore rotundo Musa loqui, ora raccogliendo qualche gemma sfuggita a' cisposi espositori, riducendo ora al suo giusto valore alcun tratto soverchiamente esaltato dalla servile temerità de' pedanti, e facendo in somma tal uso d'una modesta libertà di giudizio, che tanto ci allontanasse dalla stupida idolatria quanto dall'impertinente licenza del Pulfenio di Persio: qui centum Graecos curto centusse licetur. La Minerva ateniese non ci ha per altro alienati affatto dall'Apollo Palatino. Siamo andati in tal modo alternamente temperando l'artificiosa fluidità greca con la grandezza romana, vicenda di frutto corrispondente al diletto che abbiamo con la vicina comparazione più vivamente sentito, e come la prima soavemente seduca e come la seconda imperiosamente rapisca. Si è travestita in terza rima la bellissima satira d'Orazio Hoc erat in votis, per compiacere al mio conte di Canale, non così avverso a cotesta ingratissima specie di lavoro. Quel pensar con la mente altrui, dir tutto, non dir di più, e dirlo in rima è per me schiavitù non tollerabile, se non se a prezzo del gradimento d'un sì degno amico e sì caro. Pure in questa traduzione un eccellente artefice, come voi siete, troverebbe per avventura di che appagarsi; poiché voi conoscereste esattamente quanto possa aver costato una certa franca e originale leggerezza, con la quale essa porta e non istrascina i suoi ceppi. L'occasione di tradurre la lettera Ad Pisones mi fece già sovvenire alcune mie riflessioni non del tutto le più comuni, che la lunga pratica del poetico mestiere mi ha di quando in quando suggerite. Ho incominciato a scriverle come non affatto inutili a' candidati di Parnaso, ma questa mia scomposta macchinetta interrompendone il filo, me ne ha estremamente intiepidita la voglia, onde non so quando o se mai porrò mano al lavoro. Il trattato di Plutarco dell'educazione de' fanciulli, ad istanza pure del mio conte di Canale che procura di rendere utili gli studi suoi ai doveri di padre e di cittadino, è stato nella fucina medesima già in buona parte volgarizzato: ma l'opera, più florida a dir vero che succosa, non ha stimolato abbastanza la nostra avarizia per affrettarci a terminarla. La traduzione della Poetica di Aristotile abbiam creduto che avrebbe fatta assai utile e decente compagnia a quella d'Orazio, già alcun tempo fa terminata, quando evitando con ugual cura e la licenza francese e la superstizione italiana si fosse da noi potuto accoppiare in guisa la chiarezza alla fedeltà, che né su l'orme dell'erudito Dacier si fosse costretto Aristotile a dire ciò che a noi fosse paruto bene ch'ei dicesse; né su quelle per l'opposto del dottissimo Castelvetro si fosse presentata al pubblico una esposizione più tenebrosa del testo. Ma... non vi raccapricciate, caro amico, al nome di Aristotile, non mi dichiarate così subito il signor Simplicio del Galileo né crediate ch'io creda, siccome il vostro Malebranches suppone di chiunque non calpesta lo Stagirita, che bastando all'Onnipotente la sola cura di creare gli uomini con due gambe, abbia poi commesso ad Aristotile tutta quella di renderli ragionevoli. Io non mi sento inclinato, difetto forse di coraggio, ad opinioni così vivaci, ma vi confesserò candidamente che in mezzo agl'ingiuriosi clamori delle nostre moderne scuole, la sola autorità di tanti secoli che per lui hanno professato rispetto ha fatto sempre nella mia mente sufficiente contrappeso a quello di chi avrebbe pur voluto inspirarmene compassione. Anzi subito che, non già per fiducia nel proprio vigore, ma per mancanza pur troppo intempestiva di condottiere, mi sono trovato in necessità di camminar senza appoggio, non ho trascurato di applicarmi con la più esatta cura che allor per me si potesse all'esame dei giudicii per autorità e per imitazione più che per proprio discernimento da me sino a quel tempo formati. E dirovvi che, a dispetto delle belle notizie fisiche delle quali mancava il nostro filosofo a' giorni suoi e noi presentemente abbondiamo; a dispetto di quel misterioso genio che, trapiantato forse dall'Egitto, e nel terren greco più del bisogno felicemente allignando, se non in favole e in caratteri arcani, nelle dubbie almeno e nodose voci degli scritti suoi frequentemente si manifesta; a dispetto di quell'eccesso di metodo, in grazia di cui egli opprime talvolta l'altrui discorso con la copia stessa degli stromenti che somministra per sollevarlo, a dispetto dico, e di tutto questo e del molto di più che si voglia, la stupenda vastità della sua mente, di tante e di sì preziose merci capace, l'impareggiabile perspicacità con la quale penetra egli e ricerca i più riposti nascondigli della natura, l'ordine inalterabile che regna in tutto ciò ch'egli pensa e di cui pure è figlio quello che oggidì s'impiega contro esso da' suoi contraddittori medesimi, m'inspirano per lui l'ammirazione e la riverenza a quei rari talenti dovuta, che di tanto agli altri sovrastano, che onoran tanto l'umanità e che riducono i Danti Alighieri a dir di lui:

Questi è il maestro di color che sanno.

Non trovai maggiori inciampi nelle sue categorie che nelle idee di Platone, nella trepidazione degli atomi d'Epicuro, ne' numeri di Pitagora, nella materia sottile di Renato e nell'attrazione di Newton. Né mi parve più che bastasse per pronunziar decisivamente contro Aristotile l'aver trascorsa l'arte di pensare d'Arnoldo, i principii, le meditazioni di Cartesio, l'aver a memoria il primus Graius homo di Lucrezio, il sapersi scagliare anche fuor di proposito contro i Gesuiti e contro la bolla Unigenitus, e l'esser provveduto delle Lettere provinciali, d'un Petrarca, d'un Casa, e d'un paio d'occhiali; inventario del grande arredo che ostentava nel tempo della mia adolescenza tutta la giovane illuminata letteratura. Ma dove siamo trascorsi? Vedete, amico, ch'io vado invecchiando, poiché comincio a compiacermi del cicaleccio. Or ritorniamo in istrada. Si è dunque e immaginata e fervidamente intrapresa la traduzione della Poetica d'Aristotile: ma sul bel principio dell'opera ci siamo trovati intricati in un ginepraio da non uscirne sì di leggieri. Fra i luoghi dell'autore stesso, almen per noi, non limpidamente prodotti; fra quelli che la malignità degli anni e l'imperizia de' copisti ha mal conci e sfigurati; e i molti ne' quali, per se stessi chiarissimi, l'acuta vanità de' commentatori ha introdotte contraddizioni, ci siamo ad un tratto arrestati, quasi disperando di poter mai supplire a tante mancanze e accordar pifferi così dissonanti; ciononostante io mi sento ancora inclinato a tentar di bel nuovo il guado, forse nel prossimo inverno.

Ho condotto meco in campagna il mio Attilio Regolo, i due primi atti del quale hanno ancor bisogno della lima, e il resto dell'ascia. Non vorrei più lungo tempo trascurarlo per rispetto almeno alla vostra approvazione. Ma in questa deliziosissima nostra segregazione da tutt'i malanni cittadini non siamo mai disoccupati; onde temo ch'ei ritorni a Vienna così scarmigliato come ne venne. Ed eccovi resa ragione degli studi nostri, della strana varietà de' quali voi direte, e direte benissimo, che fastidientis stomachi est plura degustare, e che nuova cosa vi sembra che, richiesto di ciò ch'io faccia, io vi metta in conto tutto quello che far vorrei. Ma vi par egli forse più commendabile codesto disfar vostro di questo inutile far mio? non finirete dunque mai di cancellare? Deh non vi studiate tanto ad iscemare con l'arte l'aurea fecondità di cui vi ha fatto dono la benigna natura. Codesta eccedente delicatezza potrebbe degenerare in istiticheria, siccome la soverchia parsimonia in gioventù suol farsi avarizia in vecchiaia.

La generosa ospite nostra, oltre le molte espressioni di gradimento per la gentil memoria che conservate di lei, mi commette di dirvi ch'ella si compiace della vostra propensione a passar con esso noi qualche tempo in queste sue ridenti campagne; ma che per le circostanze in cui siete ella non lo spera se non quanto basta a desiderarlo.

Sono certo che il conte di Canale donerà a noi tutti quei momenti de' quali potrà defraudare onestamente il suo ministero: onde scorgerà egli stesso originalmente nella vostra lettera l'invidiabil luogo ch'egli occupa nell'animo vostro. Amatemi voi intanto quanto io veracemente v'amo: donate all'inestinguibile sete di ragionar con voi la poca discreta estensione di questa lettera; conservatevi e credetemi.

 

XXXVI - A Giovanni Adolfo Hasse, Dresda

Vienna 2I febbraio I748.

Mi congratulo, amatissimo signor Hasse, e con voi e con l'impareggiabile vostra gentilissima consorte, ma non già de' meritati applausi, coi quali ha resa costì giustizia alla eccellenza d'entrambi la pubblica ammirazione al comparire in iscena il mio Demofoonte; dovete aver voi così incallite le orecchie al dolce suono della lode, che lo credo ormai inefficace a solleticarvi. Mi rallegro bensì giustamente con voi di quella considerabile porzione di gloria che dal vostro merito riflette sull'opera mia; sì perché questo avrà appagata l'affetuosa vostra costantissima parzialità, come perché mi figuro la vostra generosa compiacenza nel conoscervi utili agli amici. Io ve ne rendo le più vive e le più sincere grazie non meno che dell'obbligante cura dimostrata nel darmene così minuta contezza, con la quale avete placata in parte l'invidia mia verso coloro che ne sono stati e spettatori ed ascoltanti. Persone che si distinguono a questo segno dal comune degli uomini dovrebbero goder veramente qualche esenzione de' comuni malanni dell'umanità. Ma non entriamo negli arcani della Provvidenza. Spiacemi, amico carissimo, che il calor della disputa, o forse la poco dolce maniera de' contradditori abbia impegnata l'amabilissima signora Faustina a sostenere un'opinione nella quale io non posso esser il suo seguace senza far torto al vero e demeritar la stima di lei medesima, o come poco illuminato o come poco sincero. Come è possibile ch'io dica che un personaggio di condizione privata (almeno tenuto per tale) non debba su la scena ogni segno di rispetto ad altro di reale condizione? Achille è certamente la prima persona nell'opera del suo nome, ma facendo la figura di damigella in corte di Licomede non soffre alcun torto quando, in atto servile, vedendo gli altri a mensa, o suona, o canta, o reca piene le tazze al cenno di Deidamia. La forza, l'importanza e la passione d'una parte la rendono principale: e non mai la corona, lo scettro, il manto, le guardie, i paggi, la diritta o la sinistra. A questi luoghi rifletto così poco, che non penso di situare i personaggi se non al bisogno ed al comodo delle azioni che debbono farsi da loro: ancor che si trovi a sinistra il superiore, preceda d'un picciol passo e sarà nel luogo più degno. È vero che l'ignoranza che ha regnato nel nostro teatro drammatico ha quasi stabilita la diritta come luogo più onorato, ma è vero ancora che non convengono in questo stabilimento né tutti i secoli né tutte le nazioni delle quali s'imitano sul teatro i costumi, e voi sapete che in gondola a Venezia siede a sinistra il più degno. Né io ho voluto servir mai a questo errore, benché comune, quando il secondarlo ha recato il minimo incomodo alla necessaria coecuzione delle azioni. È facile (ancor che non me ne rammenti) ch'io abbia detto che la maniera come io scrivo i personaggi in principio d'ogni scena delle opere mie possa servir di regola a situarli nel teatro; so ch'io ho procurato d'aver questa attenzione nello scrivere i miei originali, ma io son uomo soggetto ad errare, e non si è fatta né pur una impressione delle opere mie me presente, come voi sapete: onde nel caso in cui si tratta, parlando così chiaramente la natura dell'imitazione, prima che credermi contrario a questa era giusto o di perdonarmi come ad uomo distratto, o a compatirmi come sfortunato nella impressione: caro amico, voi conoscete il mio core, e sapete quanto è vostro, onde intendete senza ch'io lo spieghi sino a qual segno mi dolga il dovere dissentire da voi.

Pregate la signora Faustina di darmi occasione onde ricompensarmi un così sensibile rammarico, e credetemi.

 

XXXVII - A Carlo Broschi, detto Farinello, Madrid

Vienna 28 maggio I749.

Dunque son così preziosi i vostri caratteri, che non si può aspirare ad ottenerli senza averli prima sospirati per alcune olimpiadi? Ah barbaro! ah ingrato! ah tigre ircana! aspide sordo! gatto pardo! tarantola di Puglia! In tanti e tanti mesi né pur venirvi in capo di farmi sapere se siete vivo! Io credo che l'acqua del Manzanare sia l'onda di Lete, e che voi vi sguazziate dentro come una trota. Credo che vi siate affatto dimenticato il mio nome, e che, se alcuno lo proferisce voi presente, dimandate Chi è chisso? Feci correggere dal Migliavacca l'Armida placata e si mandò sollecitamente: vi scrissi su questa e su gli affari miei: sarà costì pur giunto il ritratto e avrà eseguite le tenere commissioni ch'io gli ho date per voi: ma con tutti questi stimoli non date segno di vita. Orsù, alle corte: o pensate a disarmare il mio poetico sdegno, o io vi trafiggerò con una satira in lode da far tremar la barba al famoso Ercole di Farnese che l'ha di pietra. Attento; ed incomincio.

Una bella dama, i cui cenni per me son leggi, sa che siamo amici e vuol ch'io vi scriva proponendovi per cotesto teatro una delle sirene di questo da lei protetta. La ninfa raccomandata si chiama la signora Colomba Mattei: ella è romana: dimostra all'aspetto 22 o 23 anni al più. Canta il soprano: ha voce chiara, intonata, senza difetti, agilissima; e va comodamente per due ottave dall'uno all'altro bemì: ha buon gusto nel metodo di portar la voce: la figura è proporzionata: ha molta abilità per recitare: non è brutta: ha bellissimi occhi; ed ha gran voglia di farsi onore. Qui ha contratta l'approvazione universale così nell'azione come nel canto, con tutto che si trovi alle coste la nostra impareggiabile africana Tesi, il capriccioso Caffariello, ed un tenore dell'Elettor di Colonia chiamato Raffi che canta come un serafino. Io che sono il padre di tutti i cacadubbi la sento con gran piacere; e non saprei che cosa desiderar di più in lei, se la sua statura, siccome è proporzionata e gentile, fosse un poco più grande, e se la sua voce, siccome è agile e bella, avesse un tantin più di corpo. Ella ha recitato tre anni in Palermo da prima donna, a Napoli da seconda con l'Astroa, da prima alla Corte di Bayreuth dove è in servizio, e ora da seconda con la Tesi; ma non vuol più cantar da seconda se non che con alcune poche già celebri del mestiere, perché sa che le altre che corrono non vagliono più di lei. Questi cavalieri impresari l'hanno già richiesta di fermarsi qui per l'anno venturo; ma ella gli tiene in sospeso perehé si ricorda che sino da quando era in Napoli le fu parlato di Madrid non so da qual maestro di cappella, e mi pare che sia più parziale delle doppie di Spagna che degli ungheri di Germania. Io non ho impegno che la prendiate, ma l'ho grandissimo di far vedere alla dama ch'io l'ho esattamente ubbidita; onde, se non la volete, rispondetemi almeno una lettera ch'io possa mostrare; se poi la voleste, per abbreviare il trattato in una distanza così enorme di paesi, potreste in una cartolina inclusa nella vostra lettera comunicare a me la vostra intenzione in quanto all'onorario e alle condizioni; ed io mi regolerò con quella, cercando il vostro certamente più che il vantaggio d'alcun altro. Vi assicuro ch'io faccio un gran sacrificio ad entrare in questo commercio teatrale: ma, se voi vedeste da che belle labbra esce il comando ch'io eseguisco, approvereste la mia condiscendenza. Ma non parliamo più di sirene.

Che vuol dir mai il vostro profondo silenzio sul mio lagrimevole affare della perduta percettoria? Vi siete forse perduto d'animo alle prime repulse? Un poco di vento contrario vi avrebbe mai fatto fuggire in porto? No, caro gemello: questa poca costanza non starebbe bene a voi. Col vento in poppa non si ricorrerebbe a Farinello: le difficoltà dell'impresa la rendono degna di lui: se le porte non si aprono a' primi, s'apriran forse a' secondi colpi; e bene spesso chi ha resistito ad uno non resiste a due assalti. Ricordatevi che combattete per il vostro gemello, per una giustizia incontrastabile; e se si vuol che sia grazia, non farebbe certamente disonore in tutta Europa né alla mano che la concedesse né a quella che l'avesse procurata.

Avrete forse curiosità di sapere come abbia incontrato Caffariello: eccovene la vera istoria. Le meraviglie che ne avean detto i suoi fautori facevano aspettar cose sopraumane: ma la prima sera dispiacque positivamente a tutti, e fu chiarissima la disapprovazione universale.

Dice egli che, sopraffatto dalla presenza delle MM. LL. imperiali, si scompose e non poté più rimettersi. Credetene quello che vi pare. È vero per altro che nelle recite susseguenti è andato riacquistando il suo credito a segno che v'è una porzione di nobiltà e di popolo che presentemente lo esalta sino al firmamento e sino a far comparazioni eretiche. V'è per altro tuttavia una considerabile moltitudine di seccatori che trovano la sua voce molta ma falsa stridula e disubbidiente, a segno che non sforzandola non attacca e sforzandola riesce per lo più aspra. Dicono ch'egli non ha giudizio nel cantare, perché prende spesso impegni che non può eseguire e rimane a mezza strada: dicono che ha cattivo gusto ed antico, e pretendono di riconoscere in lui le rancide girelle di Nicolino e di Matteuccio. Gridano che non s'è mai rappresentato così male come egli rappresenta, che ne' recitativi pare una monaca vecchia, che in tutto quello ch'egli canta regna sempre un tono lagrimevole di lamentazioni da far venire l'accidia all'allegria. Confessano che tal volta ei può dilettare all'eccesso; ma riflettono che questo caso è molto incerto, come dipendente da' capricci della sua voce e della sua testa, onde non paga il molto che fa soffrire. Avvertite ch'io riferisco e non decido; anzi protesto che ho per questo virtuoso tutta la stima ch'ei merita. La disgrazia della prima sera, questa divisione di voti, e la poca sicurezza ch'egli ha d'aver conseguito quello dell'augustissima nostra padrona, principessa, come sapete, molto illuminata nella musica, l'hanno eccessivamente umiliato, di modo che non lo riconoscereste alla sua presente modestia e rassegnazione. Se potrà continuar così, spero che acquisterà molti de' voti che gli mancano.

La nostra contessa d'Althann, che in questa occasione si è molto ricordata di voi, vi manda mille saluti. Ed io sospendendo la mia collera v'abbraccio con tutta la solita benché mal corrisposta tenerezza, e sono il vostro fedelissimo gemello.

P.S. La Mattei è impegnata in questo teatro per tutto il venturo carnevale.

 

XXXVIII - Ad Anna Francesca Pignatelli di Belmonte, Napoli

Vienna I8 giugno I749.

Basta per me che partano dalle venerate mani di Vostra Eccellenza perché risveglino nell'animo mio le lettere cento non ordinari moti di vanagloria e di compiacenza; ma l'ultima, ch'io ricevo in data del 27 del caduto, aggiunge alla solita efficacia la sospirata novella della giustizia che si rende da cotesto pubblico al merito non comune del nostro amabilissimo Monticelli. Questa testimonianza tanto superiore a qualunque dubbiezza mi ha validamente munito contro le notizie affatto opposte che questo Caffariello asserisce aver ricevuto di Napoli. Mi sarei sempre lusingato, che un poco di rivalità di professione, secondata dall'adulazione di qualche amico, avesse potuto alterare il vero: ma da quella mendicata tranquillità a questa che mi inspira il venerato foglio dell'Eccellenza Vostra v'è la gran distanza che si trova fra una induzione ed un'evidenza.

Lunedì dell'antecedente settimana tre ore innanzi il mezzodì abbiam qui goduta l'inaspettata visita d'un terremoto, animale quasi affatto sconosciuto in queste regioni. Non fu certamente leggiero, poiché non v'è presso che veruno che non l'abbia sentito, e se non ha cagionato danni nella città ne ha prodotti ne' contorni, fra' quali il più degno d'osservazione è l'improvvisa scaturigine d'un'acqua incognita, che ha inondato considerabil tratto di terreno. Non è stato di consenso, perché il moto non era ondeggiamento, ma impeto retto di sotto in su. E non è stato solo, ma preceduto e seguito da altre scosse, assai per altro meno violente. Crederà Vostra Eccellenza che noi siamo pieni di terrore: sì perché la cosa per se stessa lo merita, ovunque succeda, essendo uno degli scherzi meno piacevoli della natura; come perché, succeduta in paese non assuefatto a somiglianti gentilezze, par che debba, regolarmente ragionando, portar seco oltre il solito spavento tutti i sintomi d'una terribile sorpresa. Crederà popolate le nostre chiese, deserti i nostri teatri, oziosi i musici, affaccendati i predicatori, noi ravvolti fra la cenere ed i cilici, e si rappresenterà in somma l'aspetto di Vienna somigliante a quello di Ninive penitente. Or vegga Vostra Eccellenza quanto si può talvolta, ottimamente ragionando, pessimamente concludere. Nulla è avvenuto di tutto questo. Mai non sono stati più frequentati i teatri, mai più sereni questi abitanti, mai queste assemblee più ridenti. Abbiam parlato a dir vero per un paio di giorni dell'accidente inaspettato: ma nulla di più commossi di quello che si suol essere all'arrivo d'un rinoceronte, d'un elefante o di qualche altro animal pellegrino. Nell'atto ch'io scrivo non v'è più chi ne parli: ed il passaggio di mademoiselle Tagliavini, celebre ballerina, che si è qui mostrata ritornando d'Italia in Sassonia, ha subito usurpato ne' nostri discorsi tutte le ragioni del terremoto. Argomenti l'Eccellenza Vostra da questo sincerissimo racconto quanto più delle loro sian tranquille le nostre coscienze: e come qui la benigna natura provveda senza lor fatica gli abitanti di quella superiorità alla violenza delle passioni, che costì s'ammira come il più tardo e più sudato frutto d'una lungamente esercitata filosofia. Né creda che un tale eroismo rimanga fra i soli Tedeschi: questo clima ospitale comunica i suoi vantaggi anche agli stranieri. Ho osservata in questa occasione la fermezza medesima in tutti gl'Italiani che qui dimorano: tanto è vero che il timore è uno de' morbi attaccaticci dell'animo, come lo sono fra quelli del corpo il vaiuolo, o le petecchie.

Io conosco pur troppo quanto mal corrisponda il corto merito mio a quel distinto grado di parzialità con cui l'Eccellenza Vostra parla e scrive di me: e pure, a dispetto d'un poco di rimorso, io non arrossisco tanto della mia usurpazione quanto mi compiaccio di questo indubitato argomento della favorevole propensione dell'animo suo a mio vantaggio: che non può esser mediocre, giungendo a sedurla a tal segno. Rendendo giustizia a se medesima non può dubitar l'Eccellenza Vostra della riverente mia infinita riconoscenza né di tutto quel trasporto che possono condonare alla vivezza de' miei sentimenti la venerazione ed il rispetto, con cui sarò sempre come sono sempre stato fin'ora, di Vostra Eccellenza, cui supplico a voler rammentare il profondo mio ossequio al degnissimo signor principe suo consorte.

 

XXXIX - Ad Anna Francesca Pignatelli di Belmonte, Napoli

Vienna 5 luglio I749.

All'umanissimo foglio di Vostra Eccellenza del 10 di giugno, ripieno al solito di nuove confermazioni della parziale sua generosa propensione a mio vantaggio, non aspetti ch'io risponda con un lungo rendimento di grazie. Io sono così superbo del suo favore, che per economia di modestia convien che mi trattenga parcamente su questa seduttrice compiacenza. A traverso di tutte le più umili proteste si travederebbe troppo la mia vanità mascherata. Spiegherò con minor rischio la situazione dell'animo mio ristringendomi ad assicurarla ch'io conosco perfettamente il valore delle sue grazie: e che non ignoro totalmente me stesso.

In contraccambio delle novelle armoniche che si compiace l'Eecellenza Vostra comunicarmi del nostro amabile Monticelli, io gliene renderò una bellicosa di questo valoroso Caffariello, che con pubblica ammirazione ha dimostrato pochi giorni sono non esser egli meno atto agli studi di Marte che a quelli d'Apollo. Io non fui presente per mia sventura al fatto d'arme: ma la relazione più concorde è la seguente.

Il poeta di questo teatro è un milanese di molto onesti natali, giovane, vivace, inconsiderato, tanto adorator del bel sesso quanto sprezzatore della fortuna, e non men ricco d'abilità che povero di giudizio. A questo hanno gl'impresari confidata, oltre la cura di raffazzonare i libretti, tutta la direzione teatrale. Non so se per rivalità d'ingegno o di bellezza, fra questi ed il Caffariello si è fin dal primo giorno osservata una certa ruggine, per la quale sono molte volte fra loro trascorsi a motti pungenti ed equivoci mordaci. Ultimamente il Migliavacca (che tale è il nome del poeta) fece intimare una pruova della nuova opera che si prepara. Tutti i membri operanti concorsero, a riserva di Caffariello: o per effetto di natura contradittoria, o per l'avversione innata ch'egli si sente per ogni specie d'ubbidienza. Su lo sciogliersi dell'armonico congresso comparve, nulla di meno, in portamento sdegnoso e disprezzante, ed ai saluti dell'ufficiosa assemblea rispose amaramente dimandando a che servono queste pruove?... Il direttor poeta disse in tuono autorevole che non si dovea dar conto a lui di ciò che si facea: che si contentasse che si soffrissero le sue mancanze: che poco conferiva all'utile o al danno dell'opera la sua presenza o la sua assenza: che facesse egli ciò che volea ma lasciasse almen fare agli altri ciò che doveano. Irritato più che mai Caffariello dall'aria di superiorità del Migliavacca, lo interruppe replicando gentilmente che chi avea ordinata simil pruova era un solennissimo c... Or qui perde la tramontana la prudenza del direttore; e lasciandosi trasportar ciecamente dal suo furor poetico cominciò ad onorarlo di tutti quei gloriosi titoli de' quali è stato premiato il merito di Caffariello in diverse regioni d'Europa: toccò alla sfuggita ma con colori assai vivi alcune epoche più celebri della sua vita; e non era per tacer così presto; ma l'eroe del suo panegirico troncò il filo delle proprie lodi dicendo arditamente al panegirista sieguimi, se hai coraggio, dove non vi sia chi t'aiuti: ed incamminossi in volto minaccioso verso la porta della camera. Rimase un momento perplesso lo sfidato poeta: quindi sorridendo soggiunse, veramente un rival tuo pari mi fa troppa vergogna: ma andiamo, che il castigare i matti è sempre opera cristiana: e si mosse all'impresa. Caffariello, o che non avesse mai credute così temerarie le Muse o che secondo le regole criminali pensasse di dover punire il reo in loco patrati delicti, cambiò la prima risoluzione di cercare altro campo di battaglia, e trincerato dietro la metà dell'uscio fece balenar nudo il suo brando, e presentò le pugna al nemico: non ricusò l'altro il cimento

Ma fiero anch'egli il rilucente acciaro

liberò dalla placida guaina.

Tremarono i circostanti: invocò ciascuno il suo santo avvocato: e si aspettava a momenti di veder fumar su i cembali e i violoni il sangue poetico e canoro, quando madama Tesi, in casa della quale si trattavano l'armi, sorgendo finalmente dal suo canapè, dove avea giaciuto fin'allora tranquillissima spettatrice, s'incamminò lentamente verso i campioni. Allora (o virtù sovrumana della bellezza!) allora quel furibondo Caffariello in mezzo a' bollori dell'ira, sorpreso da una improvvisa tenerezza, le corse supplichevole all'incontro, le gettò il ferro a' piedi, le chiese perdono de' suoi trascorsi, le fe' generoso sacrificio delle sue vendette, e suggellò le replicate proteste d'ubbidienza, di rispetto e di sommissione con mille baci che impresse su quella mano arbitra de' suoi furori. Diè segni di perdono la ninfa: rinfoderò il poeta: ripreser fiato gli astanti, ed al lieto suono di strepitose risate si sciolse la tumultuosa assemblea. Nel far la rassegna de' morti e de' feriti non si è trovato che il povero copista con una contusione nella clavicola d'un piede, contratta nel voler dividere i combattenti da un calcio involontario del pegaseo di Migliavacca. Il dì seguente al fatto ne uscì la descrizione in un sonetto d'autore incognito: ieri fui assicurato che v'è la risposta del poeta belligerante. Spero d'aver l'una e l'altra prima di chiuder la lettera e farne parte a Vostra Eccellenza. Oggi gl'istrioni tedeschi rappresenteranno nel loro teatro questo strano accidente. Mi dicono che già a quest'ora ancor lontana dal mezzodì non si trovano più palchetti per denaro. Io voglio aver luogo fra gli spettatori, se dovessi farlo per arte magica. Confesso d'essere stato troppo diffuso; ma in materia così sdrucciolevole, come trattenersi alla metà del cammino? Compenserò la loquacità presente con la brevità futura.

La mia traduzione della Poetica d'Orazio mi creda che non è atta a divertire se non che noi altri pedanti. Una dama di buon gusto come Vostra Eccellenza non vi troverà che moltissime spine e pochi fiori: nulla di meno, se vuole assolutamente esercitar la sua pazienza, la farò trascrivere e la manderò con la condizione ch'ella offerisce, che non sia letta che in sua presenza, e che nessuno ne tragga copia.

La degnissima nostra signora contessa d'Althann mi commette di dirle mille tenerezze a suo nome: io la supplico in contraccambio di tener sempre presente al signor principe suo consorte il mio riverente ossequio, ed a credermi col solito invariabile rispetto di Vostra Eccellenza, cui supplico di leggere se vuole a chi le pare questa lettera, ma di non farne girar copie per evitar qualche seccaggine.

 

XL - Ad Anna Francesca Pignatelli di Belmonte, Napoli

Vienna 30 agosto I749.

M'avveggo dal veneratissimo foglio di Vostra Eccellenza del dì 14 luglio ch'ella reputa svantaggio quella tardità di raziocinio che per lo più si osserva fra i viventi nelle artiche regioni. Ma io, sia detto con sua pace, la credo uno dei più preziosi doni che possa far a noi poveri mortali la Provvidenza, e non so che darei per conseguirla in grado eccellente. A che serve mai cotesta perspicace celerità di combinazioni? Forse a prevedere il futuro? Oh che vanità! In tant'anni di dolorosa esperienza mi sono avveduto, con mio rossore, che (ragionando sulle vicende del mondo) da giustissimi argomenti ho dedotte per lo più falsissime conseguenze: sono tante e tante le contingenze possibili, che la mente umana non è moralmente capace di prevederle tutte: ed una sola che se ne trascuri nel porre i fondamenti d'un raziocinio, tutto l'edificio ruina. Ella sa che se in un punto solo una linea s'allontana dalla sua parallela, sempre poi tanto più se ne scosta quanto più si produce. Quindi è ch'io mi sento infinitamente più tentato a ridermi de' presagi ragionati de' nostri Aristoteli di gabinetto che de' sogni dell'abate Gioacchimo o delle visioni di Nostradamo. Un apologhetto d'un poeta greco, puerile in apparenza ma di grand'uso in sostanza, mette sensibilmente avanti gli occhi e la fallacia e i danni del nostro raziocinio: ed essendo brevissimo, può ottener luogo nell'ozio di questa lettera. Dice egli che le anime nostre, quando son condannate a venire ad informare un corpo, escono dal loro tranquillo soggiorno per una porta che ha un vaso a ciascun de' lati: nell'un de' quali si contiene il dolce e nell'altro l'amaro, che rendono soave o penosa la vita. La novella pellegrina è costretta per legge del Fato d'arrestarsi in su l'uscita, e di gustare da ciascun de' due vasi ancora incogniti a lei ciò che in essi si contiene, molto o poco come le piace. Or come tutte portan seco la dannosa inclinazione di preveder ragionando: ecco ciò che lor ne deriva. Quella che per avventura s'abbatte a gustar prima il dolce, argomenta che sia della stessa natura ciò che si chiude nell'altro vaso: e volendo raddoppiarsi il piacere prende una maggior porzion dell'amaro, e si trova delusa. Quella all'incontro che prima nell'amaro s'avviene, falsamente al pari dell'altra ragionando, per isminuirsi il disgusto, prende picciolissima porzione del dolce, e se medesima inganna. E quindi è (soggiunge il poeta) che nel corso dell'umana vita il dolce è sempre tanto minor dell'amaro.

Ma si conceda alla superbia umana cotesta sognata facoltà di preveder ragionando: se non se le consente anche l'altra di poter svolgere il corso degli eventi, non le servirà che di pena. Sono assiomi che non han bisogno di pruova, che in questa valle di lagrime i malanni eccedono infinitamente il numero dei piaceri: e che i malanni imaginati sono più terribili che realmente sofferti. Un poeta a me tanto quanto cognito, in un suo scartafaccio non ancora pubblicato, spiega così la verità di questo sentimento:

Sempre è maggior del vero

l'idea d'una sventura,

al credulo pensiero

dipinta dal timor.

Chi stolto il mal figura,

affretta il proprio affanno:

ed assicura un danno,

quando è dubbioso ancor.

E se Vostra Eccellenza mi dice che le sventure prevedute, facendo prudente uso della libertà dell'arbitrio, possono evitarsi; io le risponderò che cotesto nostro despotismo è circoscritto dalla nostra macchinetta, e non si stende fuori di noi. Libero quanto si voglia, io non impedirò per questo la ruina d'un regno che desidero fortunato: la caduta d'un amico che vorrei felice: l'infedeltà d'una pastorella che mi piacerebbe costante. Sicché dopo tutti i più belli argomenti, raziocini, combinazioni ed arzigogoli: dopo esserci ben bene lambiccato il cervello fra le memorie del passato: e dopo aver sempre perduto il presente per correr dietro al futuro: ci ritroviamo alla fine (a dispetto di cotesto ridicolo privilegio di sapersi tormentare) fra gl'inconvenienti medesimi fra' quali si trova chi a buon conto è stato sempre tranquillo; ed abbiamo (come si suol dire) il male, il malanno, e l'uscio addosso. Che ci rimane allora? se non che ricorrere a quella invidiabile indolenza che per lo più promette e non dona l'arroganza stoica? e che senza i sillogismi di Seneca e d'Epitteto somministra gratuitamente a questi popoli fortunati il placido loro temperamento? Piano, signor abate, voi correte senza freno: il vostro argomento prova troppo, e senza avvedervene precipitate in un terribile assurdo: poiché secondo cotesta vostra maniera di ragionare la condizione d'un'ostraca o d'una testuggine sarebbe da preferirsi infinitamente alla nostra. Corbezzole! Vostra Eccellenza mi stringe crudelmente i panni addosso. S'io perdessi per un momento le staffe ella mi ridurrebbe a dir non volendo qualche eresia. Adagio. In primo luogo io protesto d'aver presente che le testuggini e le ostrache non son capaci del santo battesimo: e che questa sola miseria rende indegni della minima considerazione gli altri loro innumerabili vantaggi. In secondo luogo, mi difendo opponendo all'argomento di Vostra Eccellenza l'uscir questo affatto dalla nostra quistione: poiché non si disputa fra noi se sia migliore la sorte degli animali bruti o quella de' ragionevoli: ma bensì se fra questi ultimi siano più o meno infelici quelli che pensan troppo o quelli che pensan poco. Onde non mi vada Vostra Eccellenza cambiando le carte in mano. E le sosterrò finalmente che cotesto suo assurdo non è paruto tale a tutti in tutti i secoli, e che fra quelli che hanno avuta la disgrazia di nascere prima che Ottaviano Augusto chiudesse il tempio di Giano non si sarebbe durata gran fatica a rinvenire chi arditamente anteponesse la tranquilla stupidità d'un'ostraca o d'una testuggine alla tormentosa vivacità di Pitagora o di Platone. Io non asserisco fanfaluche, ma vengo coi miei testi alla mano. Un celebre letterato fiorentino, per nome Giambattista Gelli, che ha molto illustrata la sua patria duecento anni fa, pubblicò in istampa alcune memorie anecdote della Corte di Circe: le quali servono infinitamente al caso nostro. Questo illustre investigatore della più remota antichità racconta che trovandosi Ulisse dopo la ruina di Troia già da qualche tempo nella reggia di Circe suo prigioniero ed amante, a dispetto di tutti gli allettamenti di quel delizioso soggiorno non pensava perpetuamente ad altro che a rinvenire una via di riveder la sassosa sua Itaca, miserabile isoletta del mar Ionio, ma che aveva il pregio d'esser sua patria. Che, gran tessitore di stratagemmi, ne avea inutilmente imaginati moltissimi per mettersi in libertà: e che persuaso finalmente che tutti gli accorgimenti suoi non sarebber mai giunti a deludere la troppo cauta vigilanza della sua gelosa custode, tentò di vincerla a forza aperta. Che aspettando il momento opportuno, non so in quali circostanze e fra quali accessi di tenerezza, seppe così ben coglierlo un giorno che l'innamorata maga, incapace di resistergli, gli promise con uno di quei solenni giuramenti, così terribili agli dei d'Omero, la libertà d'una limitata assenza. Che il destro Ulisse, approfittandosi delle negligenti difese della disarmata nemica, spinse più oltre la sua vittoria, e dimandò di poter condur seco in Grecia un paio almeno de' molti suoi compagni, che già da lei trasformati in diversi animali erravano per quelle campagne. Che non solo un paio gliene furon concessi, ma tutti quelli che volontariamente seguitar lo volessero e riprendere l'umana forma. Che, già sicuro l'astuto Greco che nulla gli verrebbe negato, s'avvanzò a chiedere che fosse resa a' suoi compagni la perduta facoltà della favella per potere spiegarsi con esso loro; e l'ottenne. Oh quanto è stato poi per nostra disgrazia fecondo quello scandaloso esempio di far parlare gli animali! Ma non usciam di carriera. Ulisse (prosiegue l'autore), superbo del suo trionfo e più che certo di non lasciar né pur uno de' suoi prigioni alla maga, si svolse il più presto che seppe dalle braccia di lei, impaziente di perfezionar la grand'opra. Il primo in cui nell'uscir dall'incantato palagio casualmente s'avvenne fu uno di quei leggiadri animaletti, tanto dal popolo eletto ingiustamente aborriti, che deliziava sdraiato nel fango d'una pozzanghera non addormentato né desto. Gridò da lontano nel vederlo Ulisse e dimandò s'egli fosse de' suoi compagni. Alzò quegli, non già alle prime voci, lentamente il muso, e come chi vuol presto liberarsi da un importuno, in secchissimo stile spartano articolò fra i non ben distinti grugniti la patria ed il nome suo. Oh dolce amico (esclamò l'altro riconoscendolo), rendi grazie agli dei: son terminate le tue miserie; oggi riprenderai l'umana sembianza, oggi farem vela insieme alla volta di Grecia. Come? Perché? rispose lo spaventato animale: a cui palesò brevemente Ulisse la grazia da Circe ottenuta per se medesimo e per qualunque de' suoi compagni seguitar lo volesse. Rasserenossi all'udir che dipendea dal suo arbitrio il restare o il partire il trasformato Greco: ed augurò cortesemente un buon viaggio al suo duce. Questi non ben persuaso ch'ei parlasse da senno il dimandò se scherzava: scherzerei, riprese l'altro, s'io dicessi di voler venir teco. E mi credi, Ulisse, così dolce di sale ch'io mi risolva ad abbandonar volontariamente le sicure e reali delizie di questa tranquilla vita ed il pacifico consorzio degl'innocenti miei pari per immergermi di nuovo fra gl'infiniti malanni della condizione umana e per viver sempre tremando fra voi altri malvagi? Cerca d'ingannar qualcun altro: io non son così gocciolone. E fatto un chiocciolin su l'altro lato presentò gentilmente le spalle al distruttor di Troia: e senza onorarlo più di risposta lasciò ch'ei gracchiasse a sua voglia. Si figuri la sorpresa e la collera d'Ulisse. Scaricò contro il Greco un torrente d'eloquentissime ingiurie: non risparmiò né pur una delle licenziose espressioni d'Aristofane: e non cessò da convici se non che per proporre (ma senza frutto) il viaggio ad un orso, che curioso era comparso alle grida. Non abbattuto dall'infelicità della seconda pruova tentò non con sorte migliore la terza con un cavallo, la quarta con un cervo: in somma (per abbreviar la leggenda), dopo aver corso inutilmente e ricorso tutto il contorno, dopo aver perorato con più studio e con più vigore di quel che fece quando scroccò l'armi d'Achille; rauco, ansante, scalmanato e rifinito tornò finalmente a Circe senza aver persuaso di tanti suoi compagni che un solo: e questi fu un elefante.

Or che dice ella d'un così bel tratto di storia? Non è invenzione poetica come forse Vostra Eccellenza suppone. Le pruove de' monumenti antichi sono incontrastabili. C'è un palimpsesto, o sia libro di memoria di Circe, trovato scavando alle falde del monte Circello, in cui in caratteri toscani vien riferito distesamente il fatto: oltre le medaglie ed i fragmenti d'iscrizioni di quei secoli, che il marchese Maffei darà ben presto alla luce. Onde la cosa è certissima.

Quello che v'è di più certo, caro abate (mi risponderà Vostra Eccellenza), è che voi siete un gran seccatore, e che fareste a cicalar con le piche. Oh questo è pur troppo vero, e non intraprendo difesa. Il peggio dell'affare si è che questa nuova inclinazione ch'io mi sento a cicalare è uno de' molti dolorosi sintomi che mi convincono che invecchio. Dovrei veramente corregger oggi l'errore lacerando questa lettera invece di mandarla alla posta: ma rifletto che, s'io sono colpevole, Vostra Eccellenza non è innocente: non han data picciola occasione all'enorme lunghezza di questa l'eccessive lodi delle quali ha caricate Vostra Eccellenza le precedenti mie lettere: onde un pochetto di noia è castigo ben meritato dalla poca carità con la quale va ella secondando la vanità d'un povero poeta.

La nostra degnissima signora contessa d'Althann pensa nella prossima settimana di partir per Moravia all'annua solita villeggiatura: io partirò seco, o la seguirò poco dopo. Si figuri Vostra Eccellenza le tenere commissioni che ricevo da lei tutte le volte ch'io dico di scrivere a Napoli.

Questa sera si rappresenterà in questo teatro per la prima volta l'Achille in Sciro. La musica di Jumella alle prove ha ecceduto di molto la grande espettazione che si avea di lui.

Ecco un'altra lettera di Vostra Eccellenza del 29 luglio; per oggi non ho tempo che d'accusarne la ricevuta. È tardi, e l'ho seccata abbastanza. Al veneratissimo signor principe suo consorte la priego di tener presente il mio costante rispetto: al signor marchese di Galatone il rossore col quale ho lette le obbliganti sue e parziali espressioni: ed a se medesima l'invariabile tenore di quell'antico riverentissimo ossequio, con cui sono stato e sarò sempre.

 

XLI- Ad Adolfo Hasse, Dresda

Joslowitz 20 ottobre I749.

Dal dì ch'io son partito da Vienna il mio amatissimo monsieur Hasse mi sta sul cuore, ma non ho potuto finora esser suo, perché in questo affaccendatissimo ozio in cui mi trovo io sono appena mio quando dormo. Le passeggiate, le cacce, la musica, il giuoco, le cicalate c'impiegano di maniera che non resta un momento agli usi privati, senza defraudarlo alla società. Ciò non ostante io non so più contrastar col rimorso d'avervi negletto oltre il dovere, ed eccomi ad ubbidirvi.

Ma che cosa vi dirò mai che voi non abbiate pensata! Dopo tante illustri pruove di sapere, di giudizio, di grazia, d'espressioni, di fecondità e destrezza, con le quali avete voi solo finora interrotto l'intiero possesso del primato armonico alla nostra nazione, dopo aver voi, con le vostre note seduttrici, inspirata a tanti e tanti componimenti poetici quell'anima e quella vita, delle quali gli autori loro non avean saputo fornirgli, quali lumi, quali avvenimenti, quali direzioni pretendete mai ch'io vi somministri? se ho da dirvi cosa in questo genere, che voi non sappiate, la mia lettera è finita; se poi m'invitate a trattenermi ragionando con voi, sa Dio quando potrò ridurmi a terminarla.

Or poiché l'Attilio dee pur essere la materia di questa lettera, incomincierò a spiegare i caratteri, che forse non avrò così vivamente espressi nel quadro come in mente gli ho concepiti.

In Regolo dunque ho preteso di dar l'idea d'un eroe romano d'una virtù consumata non meno per le massime che per la pratica, e già sicura alla pruova di qualunque capriccio della fortuna; rigido e scrupoloso osservatore così del giusto e dell'onesto come delle leggi e de' costumi, consacrati nel suo paese e dal corso degli anni e dall'autorità de' maggiori; sensibile a tutte le permesse passioni dell'umanità, ma superiore a ciascuna; buon guerriero, buon cittadino e buon padre, ma avvezzo a non considerarsi mai distinto dalla sua patria, e per conseguenza a non contar mai fra i beni o fra i mali della vita se non gli eventi o giovevoli o nocivi a quel tutto di cui si trova egli esser parte; avido di gloria, ma come dell'unico guiderdone al quale debbano aspirare i privati col sacrifizio della propria alla pubblica utilità. Con queste qualità interne io attribuisco al mio protagonista un esteriore maestoso, ma senza fasto, riflessivo, ma sereno, autorevole, ma umano, uguale, considerato e composto: né mi piacerebbe che si concitasse mai nella voce o nei moti, se non che in due o tre siti dell'opera, ne' quali la sensibile diversità del costante tenore di tutto il suo rimanente contegno farebbe risaltar con la distinta vivacità dell'espressione gli affetti suoi dominanti, che sono la Patria e la Gloria. Non vi spaventate, caro monsieur Hasse, sarò più breve nella esposizione degli altri caratteri.

Nel personaggio del console Manlio io ho preteso di rappresentare uno di que' grandi uomini che, in mezzo a tutte le virtù civili o militari si lasciano dominare dalla passione dell'emulazione oltre il grado lodevole. Vorrei che comparisse questa rivalità e questa poco favorevole disposizione dell'animo suo verso Regolo così nella prima scena ch'egli fa con Attilia come nel principio dell'altra nella quale il senato ascolta Regolo e l'ambasciator cartaginese. Così il suo cambiamento in rispetto e in tenerezza per Regolo renderà il suo carattere più ammirabile e più grato: esalterà la virtù di Regolo nel dimostrarla feconda d'effetti così stupendi, e farà strada alla seconda scena dell'atto secondo, che è quella per cui io mi sento la maggior parzialità. Il distintivo del carattere di Manlio è la natural propensione all'emulazione, che anche dopo il suo ravvedimento rettifica, ma non depone.

Publio è quel leoncino che promette tutte le forze del padre, ma non ne ha ancora le zanne e gli artigli. Onde in mezzo agl'impeti, ai bollori e all'inesperienza della gioventù si prevegga qual sarà nella sua maturità.

Licinio è un giovane grato, valoroso, risoluto, ma appassionato oltre il dovere; onde si riduce tardissimo a convincersi d'essere in obbligo di sacrificare il genio della sua donna e la vita medesima del suo benefattore alla gloria e alla utilità della patria.

Amilcare è un Africano non avvezzo alle massime d'onestà e di giustizia delle quali facevano allora professione i Romani, e molto meno alle pratiche di quelle; onde da bel principio riman confuso non potendo comprendere una maniera così diversa da quella del suo paese. Comincia a poco a poco a conoscerla, ma per mancanza di misura va molto lontano dal segno; pure nella sua breve dimora in Roma, se non giunge ad acquistar la virtù romana, perviene almeno a saper invidiar chi la possiede.

La passion dominante d'Attilia è la tenerezza per il suo padre, alla quale pospone Roma medesima, non che l'amante, convinta dall'autorità e dall'esempio. Adotta finalmente anch'essa i sentimenti paterni, ma alla pruova di quella fermezza, ch'ella vorrebbe pure imitare, si risente visibilmente della delicatezza del sesso.

In Barce io mi sono figurato una bella, vezzosa e vivace Africana. Il suo temperamento, qualità propria della nazione, è amoroso, la sua tenerezza è Amilcare, e da quello e da questa prendono unicamente moto tutti i suoi timori, tutte le sue speranze, i pensieri tutti e tutte le cure sue: è più tenace del suo amante medesimo della morale africana, non solo non aspira al par di quello ad imbeversi delle magnifiche idee di gloria che osserva in Roma, ma è molto grata agli dei che l'abbiano così ben preservata da quel contagio.

Queste sono in generale le fisonomie che io mi era proposto di ritrarre. Ma voi sapete che il pennello non va sempre fedelmente su le tracce della mente. Or tocca a voi, non meno eccellente artefice che perfetto amico, l'abbigliare con tal maestria i miei personaggi che, se non da' tratti del volto, dagli ornamenti almeno e dalle vesti siano distintamente riconosciuti.

Per venire poi come voi desiderate, a qualche particolare, vi parlerò de' recitativi che, secondo me, possono essere animati dagl'istrumenti; ma io non pretendo accennandoveli di limitare la vostra libertà. Dove il mio concorre col voto vostro, vaglia per determinarvi; ma dove siete da me discorde non cambiate parere per compiacenza.

Nel primo atto dunque trovo due siti ne' quali gl'istrumenti possono giovarmi. Il primo è tutta l'arringa d'Attilia a Manlio nella seconda scena dal verso:

A che vengo? Ah! sino a quando.

Dopo le parole a che vengo dovrebbero incominciare a farsi sentir gl'istrumenti, e or tacendo, or accompagnando, or rinforzando, dar calore ad una orazione già per se stessa concitata, e mi piacerebbe che non abbandonassero Attilia, se non dopo il verso:

La barbara or qual è? Cartago o Roma?

Credo per altro, particolarmente in questo caso, che convenga guardarsi dall'inconveniente di far aspettare il cantante più di quello che il basso solo esigerebbe. Tutto il calore dell'orazione s'intepidirebbe, e gl'istrumenti in vece di animare snerverebbero il recitativo, che diverrebbe un quadro spartito, nascosto e affogato nella cornice, onde sarebbe più vantaggioso in tal caso che non ne avesse.

L'altro sito è nella scena settima dell'atto medesimo, ed è appunto uno di quei pochissimi luoghi ne' quali vorrei che Regolo abbandonasse la sua moderazione e si riscaldasse più del costume. Sono soli dodici versi, cioè da quello che incomincia:

io venissi a tradirvi ecc.

sino a quello che dice:

come al nome di Roma Africa tremi.

Se vi piace di farlo, vi raccomando la già raccomandata economia di tempo, acciocché l'attore non sia obbligato ad aspettare, e si raffreddi così quel calore ch'io desidero che si aumenti.

E già che siamo alla scena settima dell'atto primo, secondando il piacer vostro, vi dirò che dopo il verso di Manlio:

T'accheta: ei vene


parmi necessaria una brevissima sinfonia, così per dar tempo al console e a' senatori di andare a sedersi, come perché Attilio possa venir senz'affrettarsi, o fermarsi a pensare. Il carattere di questa picciola sinfonia dee essere maestoso, lento, e se tornasse bene al motivo che sceglierete, qualche volta interrotto, quasi esprimente lo stato dell'animo di Regolo nel riflettere che ritorna schiavo in quel luogo dove altre volte ha seduto console. Mi piacerebbe che in una delle interruzioni, ch'io desidero nel motivo della sinfonia, entrasse Amilcare a parlare, e che tacendo gl'istrumenti, né facendo ancora cadenza, dicess'egli i due versi:

Regolo, a che t'arresti? è forse nuovo per te questo soggiorno?

e che non si concludesse la sinfonia, se non che dopo la risposta di Regolo:

Penso qual ne partii, qual vi ritorno

avvertendo, per altro, che dopo le parole qual vi ritorno non facciano altro gl'istrumenti che la poca cadenza.

Nell'atto secondo non v'è altro recitativo, a parer mio, che la scena a solo di Regolo, che incomincia:

Tu palpiti, o mio cor!

ed è la settima dell'atto, che richiede accompagnamento. Questa dovrebbe essere recitata a sedere sino alle parole:

questo è il linguaggio...

e il resto in piedi. Ma perché è in libertà dell'architetto di far lunghe o corte le due scene delle loggie e della galleria, se per avventura la mutazione non fosse di corta in lunga sarà difficile che Regolo si trovi a sedere. Perciò affinché, se non può trovarvisi, possa lentamente andarvi, arrestandosi di quando in quando e mostrandosi immerso in grave meditazione: dicendo ancora, se vuole, qualche parola dal principio della scena, è necessario che gl'istrumenti lo prevengano, l'assistano e lo secondino, finché il personaggio rimane a sedere: tutto ciò ch'egli dice sono riflessioni, dubbi e sospensioni, onde danno luogo a modulazioni improvvise e vicine, a qualche discreto intervallo da occuparsi dagl'istrumenti; ma subito che si leva in piedi, tutto il rimanente dimanda risoluzione ed energia: onde ricorre la mia premura per l'economia di tempo, come di sopra ho desiderato.

E già che siamo in questa scena, io vi prego di correggere l'originale da me mandato, nella maniera seguente. V'è un senso che nel rileggerlo presentemente mi è paruto bisognoso di chiarezza:

questo è il linguaggio. Inutilmente nacque

chi sol vive a se stesso; e sol da questo

nobile affetto ad obliar s'impara

sé per altrui. Quanto ha di ben la terra

alla gloria si dee: ecc.

Benché nel corso dell'atto terzo non meno che negli altri due vi sian de' luoghi da me negletti, che potrebbero opportunamente essere accompagnati da' violini, a me pare che non renda conto il ridurre troppo famigliare questo ornamento, e mi piacerebbe che nel terzo atto particolarmente non si sentissero istrumenti né recitativi sino all'ultima scena. Questa è prevenuta dallo strepitoso tumulto del popolo che grida:

Resti, Regolo resti.

Il fracasso di queste grida deve esser grande perché imiti il vero, e per far vedere qual rispettoso silenzio sia capace d'imporre ad un popolo intiero tumultuante la sola presenza di Regolo. Gl'istrumenti debbono tacer quando parlano gli altri personaggi, e possono, se si vuole, farsi sempre sentire quando parla il protagonista in quest'ultima scena, variando per altro di movimenti e di modulazione, a seconda non già delle mere parole, come fanno, credendo di fare ottimamente, gli altri scrittori di musica, ma a seconda bensì della situazione dell'animo di chi quelle parole pronuncia, come fanno i vostri pari. Perché, come voi non meno di me sapete, le parole medesime possono essere, secondo la diversità del sito, ora espressioni di gioia, or di dolore, or d'ira, or di pietà. Io spererei che uscendo dalle vostre mani non potesse, tanto recitativo accompagnato sempre dagl'istrumenti, giungere a stancare gli ascoltanti. In primo luogo perché voi conserverete quell'economia di tempo ch'io tanto ho di sopra raccomandata, e principalmente poi perché voi sapete a perfezione l'arte con la quale vadano alternati i piani, i forti, i rinforzi, le botte ora staccate or congiunte, le ostinazioni or sollecite or lente, gli arpeggi, i tremuli, le tenute, e sopra tutto quelle pellegrine modulazioni delle quali sapete voi solo le recondite miniere. Ma se, a dispetto di tanti sussidi dell'arte, foste voi di parere diverso, cedo alla vostra esperienza, e mi basterà che siano accompagnati i versi seguenti, cioè i primi dieci dal verso:

sino al verso:

poi dal verso:

sino al verso:

e finalmente dal verso:

sino alla fine.

Voi crederete che la seccatura sia finita? signor no: v'è ancora una codetta da scorticare. Desidererei che l'ultimo coro fosse uno di quelli coi quali avete voi introdotto negli spettatori il desiderio, per l'innanzi incognito, di ascoltarli, e vorrei che regnando in esso quell'addio col quale i Romani danno a Regolo l'ultimo congedo, faceste conoscere che questo coro non è, come per l'ordinario, una superfluità, ma una parte necessarissima della catastrofe.

Ho finito, non già perché manchi materia o voglia di parlare con voi, ma perché sono veramente stanco e perché temo di stancarvi. Il signor Annibali desidera ch'io gli scriva alcuna cosa su la sua parte: vi prego di leggergli quello che può far per lui. Io non ho tempo di rileggere quello ch'ho scritto, pensate se posso averne per copiarne una parte. Dite mille permesse tenerezze a mio nome alI'impareggiabile signora Faustina e credetemi a qualunque pruova.

 

XLII - Ad Anna Francesca Pignatelli di Belmonte, Napoli

Joslowitz 23 ottobre I749.

Il veneratissimo foglio di Vostra Eccellenza de' 22 settembre è venuto a trovarmi in Moravia, dove in aria bellicosa vado esercitando la pazienza de' fagiani e delle lepri: delle quali per altro non iscemerà molto per colpa mia l'abbondanza, essendo infinitamente minori le stragi che le minacce. Abbiam fin ora goduta, e qui ed in Frain, la più ridente stagione che potesse desiderarsi: ma da quattro giorni in qua è comparso inaspettatamente l'inverno teutonico con tutto il suo magnifico treno: e senza aver mandato innanzi il minimo precursore del suo arrivo. Tutto è ricoperto di neve. Il fiume, non che i laghi e gli stagni, si sono in un tratto saldissimamente gelati: ed una sottilissima auretta, spirante da' sette gelidi Trioni ci rende i suoi omaggi fin dentro alle nostre più interne e custodite camere, nelle quali ci siamo fortificati. Con tutto questo improvviso e stravagantissimo cambiamento della natura io, che non era nato per la strepitosa magnificenza delle Corti ma per l'oziosa più tosto tranquillità d'Arcadia, ritrovo qui tuttavia, a dispetto degli allettamenti cittadini, moltissimo di che compiacermi. Mi diletta quell'uniforme candore che per così gran tratto di terreno io mi veggo d'intorno: mi piace quel concorde silenzio di tutti i viventi. Mi trattiene quell'andar ricercando con gli occhi le conosciute vie, gli alberi, i campi, i cespugli, i tuguri pastorali, e tutti quei noti oggetti, de' quali la caduta neve ha cambiato affatto il colorito, ma conservato rispettosamente il disegno; considero con sentimento di gratitudine che quell'amico bosco che mi difendeva poc'anzi con l'ombra da' fervidi raggi del sole or mi somministra materia onde premunirmi contro l'indiscretezza della fredda stagione; insulto con diletto all'inverno, ch'io veggo ma non provo nella costante primavera del nostro tepido albergo: ma quello di che, per impulso d'amor proprio, io più sensibilmente mi compiaccio, è l'andarmi convincendo che al pari delle altre stagioni abbia l'inverno ancora i suoi comodi, le sue bellezze e i suoi vantaggi.

Tornando in Vienna (che sarà ben presto) riprenderò fra le mani la mia Poetica, per vedere se l'ho lasciata in istato di mostrarsi o se ha bisogno di nuove carezze.

La signora contessa d'Althann, che ha veramente ritratto quest'anno sensibil vantaggio dalla sua villeggiatura, teneramente l'abbraccia.

La supplico d'assicurar del mio rispetto il signor principe ed il signor marchese, ed a credermi col solito riverente ossequio.

 

XLIII - Ad Adamo Filippo Losy, Vienna

Vienna I749.

Eccole, veneratissimo signor conte, l'Attilio Regolo, non so se la più popolare, ma la più solida certamente e la meno imperfetta di tutte le opere mie.

Alla fine l'impazienza d'ubbidire all'augusto clementissimo comando che si degnò Vostra Eccellenza comunicarmi, secondata nello scorso autunno dalla ridente stagione, ha vinte le crudeli repugnanze del mio capo, il quale da qualche tempo in qua par che voglia vendicarsi dell'abuso ch'io n'ho fatto nella mia gioventù. È per altro vero che io non sono più, lode al Cielo, nel deplorabile stato, in cui per tanti e tanti mesi mi son veduto, di non poter reggermi in piedi senza timor di non cadere; di non trovarmi abile alla fissazione che bisogna per una lettera d'una picciola pagina, senza cagionare una trepidazione universale in tutti i nervi di questa mia imperfetta macchinetta, e particolarmente di que' del capo, con sintomi così funesti, che mi han fatto mille volte credere d'essere all'estremo termine della mia peregrinazione. Il tempo, non già l'enorme quantità de' rimedi inutilmente usati, veggo che va ricomponendo questo tormentoso disordine; ma con lentezza così maligna, che per avvedermene ho bisogno di far sempre comparazione delle circostanze del passato con quelle del presente mio stato, come succede nell'indice d'un orologio, di cui è visibile il progresso e insensibile il moto. Ma ora, grazie a Dio, non m'inganno; gli assalti sono certamente più rari e meno efficaci, onde il miglioramento già conseguito mi autorizza a sperare ch'abbia una volta a terminare il noioso periodo di questa indisposizione; periodo, per mia disgrazia, di quelli di cancelleria, ne' quali si perde il fiato prima di raggiungere il verbo. Ho tentato più d'una volta d'approfittarmi degl'intervalli tranquilli; ma la violenta fissazione, della quale o per debolezza del mio talento o per necessità dell'arte io ho bisogno al mio mestiere, mi richiama subito alla testa un concorso tumultuoso di spiriti che incomincia infiammandomi il viso, procede turbandomi la vista e finisce togliendomi la facoltà di pensare, non che di produrre. E poi Vostra Eccellenza sa bene quanto è difficile che possa riuscir buona un'opera fatta per intervalli: interrompono questi la connessione delle idee, delle quali altre intanto si sfigurano, altre svaniscono affatto. Un'opera, perché possa sperarsene bene, deve essere gettata tutta in un tratto, come i cannoni e le campane, altrimenti non sarà mai cosa intera e vi resterà sempre la deformità delle commessure. Supplico l'Eccellenza Vostra a proteggere nelle occasioni queste verità, delle quali io spero sufficiente mallevadore tutto il tenore della mia vita. La semplicità e l'inavvertenza d'alcuno potrebbe rappresentarle svantaggiosamente per me, ed io non sarei più capace di consolazione se, dopo ormai vent'anni della più esatta e più fedele servitù, la disgrazia ch'io soffro in salute in vece di procurarmi il compatimento de' clementissimi miei sovrani me ne alienasse la benefica propensione. E col solito dovuto rispetto sono.

 

XLIV - A Giovanna Nepomucena di Montoja, Hermannstadt

Vienna I7 gennaio I750.

Non aspettate, gentilissima signora contessa, ch'io faccia il panegirico dell'ultima vostra bellissima lettera scritta in data del 27 dello scorso decembre. Voi lodate tanto la mia proposta che tutte le lodi ch'io vi rendessi sarebbero credute dalla vostra moderazione più tosto delicatezze di riconoscenza che dritti del vostro merito. È vero ch'io vi sono grato d'una parzialità che vi fa travedere a mio vantaggio, ma non deggio perciò permettere che la mia gratitudine si scarichi de' debiti suoi a spese della giustizia.

È possibile che il vostro talento non sappia trovar la via di rendervi soffribile cotesto soggiorno? In somma voi altre belle volete conservare in tutto il privilegio di non esser mai contente di cosa alcuna: nella solitudine bramate il tumulto, nel tumulto sospirate la solitudine; quando avete il biondo bramate il bruno, quando possedete il bruno impazzate per il biondo: il ritegno vi picca: la franchezza v'offende: la frequenza v'annoia: la negligenza v'irrita. E pure così difficile come siete, tutto il mondo vi corre appresso. Voi conoscete l'efficacia di cotesta vostra virtù magnetica, intraprendete con sicurezza qualunque difficile idea, e tutto vi riesce. Che felicità! Noi nòtiamo, secondo la vostra lettera, fra le delizie: or, per disingannarvi, sappiate che se a voi mancano costì le vivande, noi abbiamo perduto qui l'appetito; chi vi pare che goda miglior salute di noi? Abbiamo un'opera per confessione di tutti la più bella che qui si sia ancora veduta, ed il teatro è un deserto; vi sono balli tutte le sere, ed il numero de' concorrenti (a riserva d'una volta) non è mai giunto a 40 persone. Credetemi, riveritissima signora contessa, che noi rallegriamo i divertimenti, e non questi noi. Quando io mi sento internamente lieto ogni sciocchezza mi muove al riso, quando internamente son mesto mi farebbe piangere il solletico. Quanti luoghi che mi pareano altre volte deliziosi senza che siano punto cambiati mi paiono ora insopportabili! Quante persone che potevano una volta rendermi felice mi sarebbero al presente rincrescevoli! Dopo aver molto filosofato, io trovo impossibile d'accomodare a me le vicende del mondo. Onde procuro d'accomodar me stesso al corso di quelle. Per una dama del vostro merito, avvezza sin'ora a regolar 1a volontà degli altri, è nuovo ed incomodo mestiere quello di tenere a freno la propria. Ma quando si ha un capitale di talento, come voi avete, si fa quello che si vuole, e s'impara a volere quello che si può. La materia veramente che mi è corsa non volendo su la penna conosco che non è adattatissima per una lettera galante. Quanto riderebbero di me gli eroi del bel mondo, ch'io, scrivendo ad una giovane dama, m'affanno a spacciar morale. Non mi discreditate, vi prego: io son ben degno di scusa. Se scrivessi ad altra che a voi le descriverei due cuffie di nuova moda venute recentemente da Parigi delle quali si chiama l'una il Rinoceros e l'altra la Cometa. L'informerei di qualche nuova specie di nastro o di merletto: le darei conto di qualche fresca invenzione di sacchi e di palatine, o di dominò: saprei rendermi grato ancor io a spese della bellezza dell'una o della condotta dell'altra: e finalmente non mancherebbero miniere onde tirar fuori istoriette poco vantaggiose a qualche bella della stagione. Ma con voi, signora contessa, sarebbe un sacrilegio il far uso di questi rancidi artifici, che sono per altro le batterie le più sicure de' nostri conquistatori.

Il vostro merito non ha bisogno per distinguersi che si scemi quello delle altre: e l'estensione del vostro talento non è ristretta fra gli angusti limiti delle mode e delle maldicenze. Non vorrei che la giustizia ch'io vi rendo mi facesse passar per adulatore: per accreditar la mia sincerità, permettetemi ch'io vi confessi che il conoscer le vostre perfezioni non vuol dire ch'io vi creda senza difetti. Anzi ne avete alcuni (sia detto con vostra pace) che sono assolutamente insopportabili. È (per cagion d'esempio) cosa soffribile quel venire come voi avete fatto, ad istruirci quanto voi siete amabile, solo per il maligno piacere di farci risentire così presto la vostra perdita? È permesso di abbandonare i suoi amici con quella indolente freddezza con la quale voi gli abbandonate? Si può perdonare... Ma non trascorriamo alle satire; io non ne ho mai scritte finora, ed è troppo tardi per incominciare.

A proposito di difetti, voi avete sì mal eseguita la commissione d'assicurar del mio rispetto il signor conte vostro consorte e la signora contessa e conte di Braun, ch'io da buon Italiano vendicativo non voglio darvi la tenera riconoscenza della degnissima signora contessa d'Althann per gli auguri che gl'inviate. Non voglio farvi parola delle riverenze del generale suo figliuolo. Non voglio confessarvi con quale usura internamente io vi renda i voti di felicità che m'inviate: ed avevo risoluto di non mandarvi la mia nuova opera, ma ripensando meglio lo farò subito ch'io l'abbia di Dresda nella speranza d'annoiarvi. Voi direte che non v'è bisogno dell'opera, che questa lettera l'ha prevenuta: ebbene, già che vi dispiace, seguitiamo col pretesto di darvi qualche nuova. Il povero conte di Montesanto dopo tanti mesi ha finito di morire e seco il Consiglio d'Italia. Il conte di Cervellon e il marchese Cavalli, ch'erano i soli membri ancora viventi di quel corpo estenuato, sono stati giubilati. Il primo con tutto il soldo durante la sua vita, con lodi infinite al suo zelo, al suo sapere ed alla sua probità. Dell'altro non so le circostanze, ma, considerato il suo merito e la giustizia della nostra sovrana, non dubito che saranno a proporzione corrispondenti. Il conte di Tarroca è stato già pubblicato presidente d'Italia, ritenendo la presidenza de' Paesi Bassi; ma a riguardo del nuovo impiego non si sa ancora quali saranno i suoi subalterni. Ha lasciata la direzione delle fabbriche, ed è subentrato a questo peso il conte Losi. Il generale Pallavicini è qui da lungo tempo. Io sono stato a visitarlo, e l'ho trovato di salute e d'umore in perfettissimo stato. Non si vede molto: la città lo fa governator di Milano, ma la regina non ha ancora detto se sia vero. Dice parimenti la città che se il conte Ferdinando d'Harrach avesse voluto lasciar subito il suo governo e venir a prender qui possesso del nuovo impiego destinatogli, la Corte non si sarebbe opposta; ma che egli non ha stimato bene di farlo per non lasciar occasione ai maldicenti di spiegar a suo svantaggio un ritorno più sollecito del costume. Non vi divertono queste nuove? Aspettate: eccone un'altra. Il re di Napoli ha fatto insinuar ch'ei pensa mandar per suo ambasciatore un cavalier siciliano chiamato il principe di Camporeale di casa Bologna Agliati. Né pur questo vi soddisfa? Sarei inconsolabile se mostraste la svogliatezza medesima anche per quella che mi rimane di darvi, cioè ch'io sono e sarò fin ch'io viva con la solita e rispettosa stima.

 

XLV - A Carlo Broschi, detto Farinello, Madrid

Vienna 8 gennaio I750.

La carissima vostra del mese di decembre scorso mi consola in gran parte fra le mie agitazioni per la nota commissione cavallina per la quale vado facendo tutto il possibile e non avrò certamente rimorsi d'omissione. Con tutti i miei calori non ho fin ora che nove cavalli: tanto è qui difficile unirne un numero benché non eccessivo Ma, dovendo esser di razze note e grandi, sempre succede così. Con i cavalli danesi e di Holstein la faccenda corre con più felicità. Ma non c'imbarchiamo in un trattato di cavalli. Ho ricevute le copie delle lettere per Genova e per Barcellona. Ne farò uso se la spedizione si farà per quella parte. Ma, se i periti credono assolutamente che l'imbarcar cavalli così grandi sia un volerli perdere, io gli farò marciar per la via più corta di terra, cioè a dire per Basilea e Baiona. Per ora i ghiacci e le nevi qui sono così eccessivi che, s'io avessi tutta la spedizione in punto, non crederei farla partire. Spero che mentre io la preparo le strade si renderanno più praticabili.

Ricevei la prima di cambio de' fiorini 3000 e ne avvertii il signor Ridolfi, con lettera del quale mi pervenne. Il signor Rezzani di Hamburgo ha subito commesso a questi signori Smitmer in Vienna di farmene il pagamento, e questi me l'hanno offerto ad ogni mia richiesta. Onde non vi agitate per la seconda di cambio, che non mi è più necessaria. Non ho ancora uomo che mi piaccia per far da comandante generale di questa spedizione. Compatisco i poveri sovrani, quando sono in necessità di scegliere una persona all'arbitrio della quale debbono confidar le loro ragioni, le loro forze e l'onore dell'armi loro. Caro gemello, credo che il mestiere di re, fuori di teatro, sia un difficile mestiere. Noi ne abbiamo fatti e rappresentati una quantità, ed il mondo ci ha reputati, voi per giustizia e me per fortuna, non cattivi pittori: ma quel mondo medesimo che ci ha tanto applauditi farebbe pure le pazze risate, se per un capriccio della fortuna fossimo esposti a dover fare per un sol giorno da vero quello che per tutta la nostra vita abbiamo francamente fatto da burla. Non dice poi tanto male il vostro amico Metastasio, quando dice nel suo Gioas:

Con vigore al peso eguale

l'alme Iddio conferma e regge,

che fra l'altre in terra elegge

le sue veci a sostener.

Or vedete che maladetta connessione! parlando di cavalli, sono entrato nella morale. Compatitemi: è un salto da cavallo, ma voi ci avete colpa. Dopo la vostra commissione, io temo d'essere trasformato in uno di loro. Voi vedete come io penso; e se foste presente, chi sa che nell'osservare i miei passi non trovaste ch'io trotto galoppo e raddoppio come un ginetto di Spagna? Basta, se il mio timor fosse vero, non lasciate però d'amarmi: non sareste voi il primo galantuomo innamorato d'un cavallo. Alessandro sminuzzò un fiume reale per vendicar la morte del suo: un imperator romano ne fece console un altro: ed è impossibile che costì non vi siano, come per tutto, di questi animali che hanno il dono della parola e l'abilità di camminar su due piedi, e che con queste sole prerogative sono in commercio con gli uomini.

Tutti i foglietti son pieni della magnificenza reale con la quale avete prodotto il mio Demofoonte. In somma Madrid, mercé la vostra cura, ha occupato il primo luogo fra tutti i teatri d'Europa. Questo succede quando i principi hanno buon odorato per conoscere i poponi, e non comandano ai calzolari di far parrucche né ai parrucchieri di fare stivali. Tutto dunque il primato teatrale al quale è asceso il Manzanare è opera vostra, dopo quella de' primi mobili: e tutto quello che fa onore a voi solletica dolcemente la mia gemellina tenerezza.

Che cotesta generosa nazione giunga ad onorarmi col nome del gran poeta spagnuolo, potete imaginarvi se mi piace. Mi piacerebbe s'io fossi un eremita, biscottato ai rigori della Trappa: considerate a qual segno me ne compiaccio essendo un poeta che vive in Corte. Ma i venerati oracoli che pronuncia a mio vantaggio la prima stella di cotesto firmamento sono un premio così grande e così invidiabile de' poveri miei sudori, ch'io mi scordo della loro inefficacia a procurarmi qualche picciolo favore dalla mia nemica fortuna. Comincio a desiderare che venga voglia ad alcuno di scriver la mia vita, e vorrei che l'istorico senza tradir la verità dicesse sottosopra così: Che nel secolo del Settecento visse un abate Metastasio, poeta soffribile fra i cattivi, non brutto e non bello: più bisognoso che avaro: col bel sesso tenero, ma rispettoso: con gli amici fedele, ma inutile: provveduto di voglia di far bene, e nudo de' mezzi di farlo: perdé tutta la sua vita per istruir dilettando il genere umano; ma ebbe così avversa la fortuna che sin la rettitudine la pietà e la grandezza de' più giusti sovrani si lasciò sedurre a privarlo senza delitto della misera mercede di tanti e tanti suoi sfortunati sudori e dell'unico picciolo sostegno della sua vecchiezza: che a dispetto di tanta disgrazia morì superbo e contento perché una delle più grandi, delle più illuminate e delle più adorabili principesse della terra, fra tutti i poeti del secolo in cui visse, decise a favor di lui.

Per sollevarvi dalla noia della lunga lettera eccovi una canzonetta all'occasione della partenza di Nice. La troverete assai tenera, ma non mi fate il torto di credermi però innamorato. Voi sapete s'io son capace di tali debolezze. La musica è ordinaria, ed è mia: ma chi voglia cantarla con un poco d'espressione ci troverà quello che bisogna per persuadere una Nice. Il di più produrrebbe un applauso al musico, e minori vantaggi all'amante.

Il Jommelli è il miglior maestro ch'io conosca per le parole. Credetemi, io non ho parzialità. È vero il difetto delle repliche, ma è l'epidemia d'Italia, della quale si correggerà. Ha legati qualche volta i musici, ma non vi sono de' Farinelli all'arbitrio de' quali può ognuno abbandonarsi con sicurezza. Troverete in lui congiunte l'eccessiva abilità e la docilità senza eguale.

Una schiera di dame, di cui porta la bandiera la nostra degnissima contessa d'Althann, vogliono ch'io vi parli di loro, che vi dica che v'amano, a dispetto del gran danno che ci avete fatto di non poter soffrire i cattivi vostri imitatori. Ma la materia sarebbe lunga, ed a me resta a pena il tempo per dirvi ch'io sono il vostro costantissimo.

 

XLVI - Ad Anna Francesca Pignatelli di Belmonte, Napoli

Vienna 3I gennaio I750.

S'io non istessi ben su le mie, il venerato foglio di Vostra Eccellenza del 6 del cadente farebbe trionfare i miei flati ipocondriaci. L'ostinazione dell'incomodo suo catarro mi richiama a riflettere su la pertinacia de' miei cancherini. Questa riflessione mi fa osservare che sono esenti da queste gabelle dell'umanità tante persone che, non avendo altro merito, sarebbe ben fatto che avessero almen quello d'esser compatite. Questa osservazione m'invoglia ad esaminar la capricciosa (in apparenza) e sproporzionata distribuzione de' beni e de' mali. Questo esame m'impegna in uno spinoso ginepreto in cui m'affanno inutilmente a cercar la via d'accordare al raziocinio umano i decreti della Provvidenza. Questa inutile ricerca, invece d'introdurmi in un buon cammino, là mi presenta una montagna insormontabile; qua m'apre un orribile precipizio: or mi fa incontrar con una bestemmia, or mi fa urtare in una eresia, ond'io, stanco e confuso, mi spavento, dispero, e più ignorante di prima corro a salvarmi in Parnaso. Sì signora, la metafisica non fa per i melanconici: è assai miglior dottrina il non pretendere di sapere quello che non si può. Strappar da questa vita tutto il dolce che la buona morale non ci contende: mandar giù senza masticarlo tutto l'amaro che non si può evitare: servirsi per propria istruzione del passato, approfittarsi del presente, e sperar bene del futuro.

A tenore di queste comode regolette io spero che Vostra Eccellenza a quest'ora sarà perfettamente ristabilita, che i miei cancherini saranno più discreti di quello che sono oggi, e ch'io potrò venire a godere i frutti delle sue generose offerte in cotesto dolcissimo clima, dove mi prometto i più visibili vantaggi; non già da quelli ch'ella mi propone, ma dai bagni d'aria e di lingua italiana de' quali abbisognano i miei polmoni e le povere mie orecchie, maltrattati per tanti anni dalle asprezze di questo rigido clima e di questo irsuto idioma.

Penso alla Poetica: ma la mia testa altre volte sì compiacente è divenuta una bella capricciosa; e convien secondarla per non rompere affatto l'amicizia.

Il signor Perez esigge tutta la stima ch'ei merita dai professori dalla nobiltà e dalla Corte. Gli augustissimi padroni han voluto sentirlo, e si sono molto compiaciuti d'averlo voluto. Questi principii gli promettono una gloriosa spedizione, ed io lo desidero e l'aspetto.

Le approvazioni di Vostra Eccellenza alla mia lettera scrittale di Moravia su l'arrivo dell'inverno hanno invogliata la signora contessa d'Althann di vederla. Io non posso ubbidirla, se Vostra Eccellenza non ordina a qualche suo domestico di farmene una copia ed inviarmela la prima volta che mi onorerà di sue lettere.

Al degnissimo suo consorte ed all'illustre suo segretario mille ossequiose riverenze. Altrettante tenerezze al nostro Megacle. Attendo il suo giudizio sul mio Attilio, con quella sincerità che merita la costante divota osservanza di chi è sempre stato e sarà sempre.

 

XLVII - A Niccolò Jommelli, Roma

Vienna 8 aprile I750.

Oggi sarò breve, se potrà riuscirmi con voi. Ne ho certo gran bisogno perché ho gran penuria di tempo. Io sono di quei poveri goccioloni destinati a dover fare sempre quello che men vorrebbero. Mi piacerebbe verbigrazia di trattenermi col mio Jomella, e sono condannato a rispondere a tutti i ranocchi di Parnaso, che domandano per lo più correzioni per esigere panegirici: a cento indiscreti che mi prendono senza conoscermi per loro commissario generale. Or mi trovo assediato da musici, che pieni di buona fede credono ch'io possa far di ciascun di loro un Roscio Amerino solamente per manuum impositionem: ora uccellato da altri, che protestano lo stesso, credendo tutto il contrario e procurando di guadagnare il mio voto con questa simulata umiltà, alla quale mi suppongono per buona grazia loro puerilmente sensibile. Oggi si celebra il nome del conte; dimani la nascita della marchesa; torna quell'amico, bisogna correr col benvenuto; parte quell'altro, bisogna augurar buon viaggio; mademoiselle si sposa e si congratula; madama è di parto e si trotta. Un ministro è promosso ad maiora: un altro si fa applicar un cristiere, proficiat: insomma fra queste incomode inezie, che si chiamano uffici civili, fra l'andare, il venire, le riverenze, i complimenti, le offerte, le proteste, e molte altre gentilissime maniere di rompersi scambievolmente il più bel di Roma, ci troviamo al fine della settimana stanchi, rifiniti, senza aver fatto cosa alcuna. Veramente io strasecolo, quando rifletto che ci è così cara la vita, e ne perdiamo la più gran parte. Ma voi siete pure il gran cicalone! Venghiamo una volta a noi. Mi rallegro con chi vi ha resa in Roma giustizia e con eleggervi alla direzione dell'armonico Vaticano e con esentarvi dalle leggi comuni. Facendo altrimenti avrebbe fatto maggior torto al suo giudizio che a voi. Vorrei che i comodi corrispondessero al decoro, e che né questo né quelli s'opponessero alle mie speranze di rivedervi, d'abbracciarvi e di trovarmi altre volte con voi alle nozze del piacere con la ragione, che nelle note degli altri stanno quasi sempre in discordia. Basta: voi sapete le mie regolette morali d'approfittarmi quanto l'onestà permette del presente e di sperar sempre bene del futuro. Onde godo de' vostri vantaggi e non dispero de' miei. Addio.

 

XLVIII - Ad Anna Francesca Pignatelli di Belmonte, Napoli

Vienna I5 aprile I750.

Sapevo ben io che in bocca del mio Monticelli si sarebbe aumentata considerabilmente la bellezza e la vanità della mia figliuola vagabonda: e da quello che deduco dal veneratissimo foglio di Vostra Eccellenza del 17 dello scorso, ho gran ragion di temere che l'eccessive carezze che costì le vengon fatte siano più efficaci a guastare una ragazza modesta che a correggere una scostumata. Basta: io non m'intendo molto della buona educazione delle fanciulle; onde mi rimetto a chi ne ha date così illustri pruove come Vostra Eccellenza. Intanto io le confesserò così fra noi (a patto per altro che non pubblichi il mio segreto) che io grido così contro le parzialità che a colei si fanno più tosto per iscarico di coscienza che per interno dispiacere che io ne serbi. Perché alla fin fine, o storpia, o diritta, o bella, o brutta, o savia o matta ch'ella sia, non lascia per questo d'esser mia figliuola: ed il sangue (come sogliam dire) non è acqua.

S'inganna moltissimo l'Eccellenza Vostra se crede che vi sia bisogno d'impiegar molta rettorica per invogliarmi al viaggio di Napoli: se bastasse l'averne voglia, non avrebbe ella avuto il tempo di propormelo. Per farlo saviamente conviene accordar molti pifferi: e mentre se ne rassetta uno, se ne scompongono quattro. V'è una età nella quale è piacer l'incomodo: ve n'è un'altra in cui si compra volentieri con l'incomodo qualche piacere: e v'è finalmente quella in cui non si cura il piacere che dee costare un incomodo. Vostra Eccellenza già grida: già mi tratta di poltrone. Pazienza. Io non ho detto di volermi già contar nella terza classe: ma convien che io confessi che mi sento molto disposto ad incamminarmi a quella volta. Resisto tuttavia quanto posso, ma l'efficacia del nostro meccanismo ha una diabolica forza. Gl'interessi miei mi obbligherebbero a determinarmi, quando dovessi render grazie: ma per sollecitare io non sono al caso: ho troppo cattiva opinione della mia abilità a persuader certe cose ancorché ragionevoli e dimostrative. Con tutto questo l'assicuro che penso moltissimo a questo viaggio: che spesso me ne vado figurando le circostanze, e che me ne vaglio come d'uno specifico sicuro contro gli accessi de' miei flati ipocondriaci. Ma Vostra Eccellenza è in collera, e non vuol menar buone le mie ragioni. Oh la placherò ben io con un potentissimo incanto, a cui mi rido ch'ella sappia resistere. Eccole la musica del nostro Caffariello sopra la mia Partenza di Nice. La vegga, la canti, la consideri, l'ammiri e poi sia sdegnata se le dà l'animo. Egli ha conosciuto i difetti della mia musica, ha avuta compassione delle parole, le ha rivestite di migliore stoffa, e le ha presentate in abito più decente. Nel partir da questa Corte, io l'avrei mandata prima, se prima di questa mattina me l'avesse data il nostro Perez che ne avea copia: ed avrei ringraziato l'autore se non me ne avesse fatto mistero. Se Vostra Eccellenza vuol conoscere il merito di questa musica canti con essa più d'una strofa della mia canzone.

Le... e riverenze umilissime al signor principe ed al signor marchese, ed io sono intanto col solito rispetto.

 

XLIX - A Carlo Broschi, detto Farinello, Madrid

Vienna 27 maggio I750.

... Ho consegnata al signor Hibener un'opera mia intitolata Attilio Regolo. Io la scrivevo secondo il genio del mio buono e glorioso padrone Carlo VI, quando egli morì. L'augustissima mia presente sovrana lo volle terminato, e lo ritenne appresso di sé: ma, non essendosi più rappresentate opere d'ordine della Corte, non fu mai pubblicato. Il principe elettorale di Sassonia n'ebbe notizia, desiderò leggerlo; l'imperatrice gliene fe' dono; ed il re di Polonia l'ha fatto rappresentare in Dresda. Secondo le notizie che altre volte mi avete comunicate, questo libro non sarebbe per il teatro di costì. Manca d'amori e di macchine. È per altro il più solido ed il meno imperfetto di quanti ne ho scritto; ed in qualche ora d'ozio, se mai più ne avrete, son sicuro che vi divertirà.

Vi mandai molto tempo fa una canzonetta che incomincia: Ecco quel fiero istante ecc.: non so né pur se l'avete ricevuta. Oh gemello ircano!...

 

L - Ad Anna Francesca Pignatelli di Belmonte, Napoli

Vienna 4 gennaio I75I.

A Vostra Eccellenza manca il tempo; manca a me la facoltà di scrivere. Questo inverno esercita eccessivamente la mia pazienza, a segno che mi riesce gravissima anche la fissazione che esigge una breve lettera. Con tutto ciò per mantenermi nell'invidiabile possesso ella sua corríspondenza intraprendo di rispondere al veneratissimo suo foglio dello scorso novembre preparato a regolare l'estensione di questa risposta, con la discrezione de' flati miei.

Spero (o per dir meglio) temo che le saran giunti a quest'ora i due piccioli componimenti ch'ella mi ordinò d'inviarle. Questi per esiggere indulgenza han bisogno che il lettore abbia presenti le persone, il tempo e l'oggetto a cui è convenuto adattargli e che non si scordi che fra tanti ceppi è costretto l'ingegno a far più tosto uso di giudizio che di ricchezza. Ma già ne abbiam troppo parlato.

Dopo averlo assicurato della inalterabile mia venerazione, la supplico di rispondere al degnissimo signor principe suo consorte che il mio costante commercio di tanti anni con le Muse è ormai più tosto amicizia che tenerezza. Io conosco tutti i loro capricci, esse non ignorano alcuna delle molte mie imperfezioni. Io le lascio in pace quanto è possibile: esse non mi stuzzicano che per inavvertenza: e se talvolta ci accarezziamo, è più costume che affetto. Esse, incontentabili come la maggior parte delle belle, credono (ancorché nol dicano apertamente) ch'io non abbia fatto loro l'onore che meritavano: ed io credo all'incontro (benché dissimuli il mio rimorso) d'aver pagati troppo cari i loro favori coi dispendi de' quali ora mi risento, e di tempo e di salute. Consideri con questa vicendevole svogliatezza se io senza necessità andrò trescando con le Muse, o se queste senza un sovrano comando verranno a trattenersi con un ipocondriaco. Finalmente se il signor principe promette di non pubblicare il segreto gli confidi che non è affatto vero (come si crede) che coteste fanciulle siano state meco facili e cortesi: sappia che per farle fare a mio modo ho dovuto sempre sudar moltissimo ed affannarmi. e che ormai conosco che la loro compiacenza non merita una pena sì grande.

Orazio dorme e dormirà finché vegliano i miei flati. Quando si desti libererò con Vostra Eccellenza la mia parola.

Non le parlo della perdita che abbiam fatto dell'imperatrice vedova: la notizia costì sarà vecchia, ed io evito quanto posso di trattenermi su gli accidenti funesti. E pieno del solito ossequioso rispetto sono.

 

LI - A Francesco Algarotti, Berlino

Vienna 2I aprile I75I.

Non avrei ardito di lusingarmi che gl'influssi del santo Giubileo esercitassero la loro efficacia fin sul vortice di Potsdam, me ne ha dolcemente convinto il signor duca di Santa Elisabetta, che ieri di ritorno dal suo viaggio di Berlino mi consegnò la risposta ad una mia lettera dell'anno quarantasette. Questo spontaneo pagamento d'un debito così stantio suppone esame, rimorso, proposito e ogni altro materiale necessario ad una perfetta resipiscenza. Anche più che con esso voi, io me ne congratulo con me medesimo, come con quello che risente i più cari effetti di cotesta vostra giustificazione. Confesso che per qualche tempo un così ostinato silenzio ha rincrescevolmente esercitate tutte le mie facoltà investigatrici; sono andato alternamente dubitando or dell'innocenza mia, or della vostra giustizia, e non avendo saputo rinvenire né pur minima cagione per condannarle, ho rimesso il mio animo in assetto, e ho concluso finalmente che il tacer vostro non poteva esser sintomo di sinistro presagio alla nostra amicizia. Io credo che le nostre menti soggiacciano alle loro inappetenze, come gli stomachi nostri: ma so altresì che tutte le inappetenze nostre non sono funeste, né sono mai giunto a temere nella vostra svogliatezza un principio distruttivo dell'amor vostro. Povera scuola socratica, se dallo schiccherar d'un foglio dipendesse l'esistenza dell'amicizia! Non si amavan forse i viventi prima che gli Egizi, i Fenici, o chiunque sia stato, s'avvisassero d'inventare i caratteri? Gli animi accordati con certe scambievoli proporzioni hanno fra di loro, come le cetre, una corrispondenza arcana, per la quale a vicenda perfettamente s'intendono senza verun bisogno di quei materiali veicoli co' quali unicamente sanno far commercio di pensieri i profani.

Mi fu carissimo il dono de' vostri Dialoghi, ch'io rilessi per la terza volta con tutta l'avidità della prima; e mi parve ch'essi non avessero acquistato meno per quello che avete lor tolto, che per quello di che gli avete arricchiti. Or prego il Cielo che li difenda dalla vostra incude, su la quale non veggo come potessero tornare senza svantaggio.

Che pensiero ipocondriaco è mai quello che vi va per il capo, di volermi dedicare un vostro libro? Noi altri poveri ranocchi d'Ippocrene non siam figure da frontispizio. Questo è mestiere destinato a quei luminosi figli della fortuna che abbondano d'ogni spezie di merito, senza soggiacere alla dolorosa condizione di andarne comprando, come i miei pari, qualche minuto ritaglio a prezzo di vigilie e di sudori. Vi so buon grado dell'amore che vi fa travedere, e per debito di riconoscenza auguro al vostro libro un più decoroso protagonista.

Eccovi, poiché così vi piace, la satira d'Orazio, Hoc erat in votis, da me, come sapete, non per inclinazione a così servile impiego ma per condiscendenza d'amicizia volgarizzata. Voi e pochi altri sono capaci di conoscere quanto costi questo ingrato e difficile lavoro, di cui non sono men rari i giudici competenti che gli artisti soffribili. Ditemene il parer vostro dopo averla letta col mio celebratissimo signor Voltaire, a cui direte in mio nome ch'io sono così superbo del suo voto quanto lo sarei di quello d'Atene e di Roma alle quali avrebbe egli già accresciuto ornamento, come lo accresce ora all'illustre sua patria, non senza l'invidia di tutte le altre più colte provincie d'Europa.

Mi fu recata una vostra lettera dal signor abate Milesi: gli offersi a riguardo vostro e le mie premure e me stesso: ma egli, fornito forse di più utili o di più dolci conoscenze, né si è fatto più vedere in casa mia né ha voluto confidarmi la sua, onde mi ha risparmiato il rincrescimento di riflettere su la mia insufficienza a servirlo.

Un'altra me ne ha consegnata il gentilissimo signor Torres, col quale m'incontro quasi tutti i giorni. Io l'amo come vostro amico, come giovane di non ordinario talento e desideroso di sapere. Mi piace di ragionar seco e mi rapisce in lui quel grazioso misto d'autorità spagnuola e di vivacità francese. La contessa d'Althann ed il conte di Canale vi ringraziano, vi salutano e vi desiderano: ed io teneramente abbracciandovi vi prego di riamarmi e di credermi.

P.S. A dispetto de' miei tormentosi ed ostinati affetti isterici ho dovuto eseguire gli ordini augustissimi scrivendo una nuova opera da rappresentarsi in musica nel venturo autunno da dame e da cavalieri. Sono già alcuni giorni che mi trovo sul lido dopo una navigazione più breve e più felice di quello ch'io non ardiva promettermi. Ve ne dimanderò il vostro giudizio, subito che non sarà delitto il comunicarla. Addio.

 

LII - A Tommaso Filipponi, Torino

Vienna I0 giugno I75I.

Non attribuite alle povere Muse il mio rincrescimento nello scrivere lettere. Io non ho il dono invidiabile, che ammiro in tanti e tanti, di saper parlare eloquentemente sul niente; onde quando mi mancano materiali tanto quanto fecondi, non sapendo che dire, m'appiglio all'espediente di tacere. Chi potrebbe ridursi a scrivere ogni ordinario della pioggia e del buon tempo? O pure su lo stile di Pindaro parlar dell'acqua, dell'oro e delle belle vacche di Jerone a proposito dei giuochi olimpici? Può essere ancora che un poco di pigrizia naturale abbia parte in questo mio laconismo; ma ormai passò per me la stagione d'imparar nuovi vizi o nuove virtù, onde convien soffrirmi qual sono.

Approvo la distribuzione de' ritrattini, e se ve n'è bisogno d'alcun altro l'avrete al primo cenno che me ne darete. Cotesta edizione potrà distinguersi, se non si sceglieranno quei minuti miserabili caratterini de' quali finora si sono serviti per fare un vergognoso risparmio di carta tanti e tanti stampatori di calendari. Se potete mandarmene un saggio in una lettera, ve ne dirò candidamente il parer mio.

La mia nuova opera ha per titolo il Re pastore. Il fatto è la restituzione del regno di Sidone al suo legittimo erede. Costui avea un nome ipocondriaco, che mi avrebbe sporcato il frontespizio. Chi avrebbe potuto soffrire un'opera intitolata l'Abdolonimo? Ho procurato di nominarlo il meno che m'è stato possibile, perché fra tanti non avesse il mio lavoro ancor questo difetto. Si rappresenterà in musica da cavalieri e dame, ma non prima del venturo dicembre: e fin là non può pubblicarsi senza delitto. I miei soliti incensi alla gentil sacerdotessa, e sono costantemente.

 

LIII - A Francesco Algarotti, Berlino

Vienna I agosto I75I.

Mi è stata carissima, come tutto ciò che mi viene da voi, l'ultima vostra lettera del 26 dello scorso giugno, così per la vostra perseveranza nella rinnovata corrispondenza come per il favorevole e conforme giudizio da voi e dal signor Voltaire pronunciato sul mio travestimento del Sorcio d'Orazio. Né me ne ha punto diminuito il piacere il tenero e cristiano compatimento del mio traduttor francese su la parte che mi tocca del morbo epidemico della nostra nazione contaminata dalla scabbia de' concetti. Grazie al Cielo ch'egli ignora i sintomi della mia infermità. S'egli sapesse ch'io non m'avveggo di averla, dispererebbe affatto di mia salute. Il falso rende reprensibili i concetti, e io non mi son mai proposto che il vero: può darsi ch'io me ne sia alcuna volta inavvedutamente dilungato, ma non può essermi utile una correzione in genere, che non mi addita le lucciole prese per lanterne. Purché la verità sia il quadro, non v'è poeta né greco, né latino, né d'altra qualsivoglia nazione, che non si rechi a debito, non che a pregio, d'adornarlo d'una bella cornice. È vero che siccome altre volte i Goti contaminarono la nostra architettura, così dopo la metà del secolo XVII la nazione che dominava in Italia introdusse nella nostra l'arditezza della sua poesia, arditezza che non era ripugnante alla natura del suo clima, feconda in tempi più remoti de' Seneca, de' Lucani e de' Marziali, e accresciuta poi a dismisura dal genio fantastico della letteratura araba colà dagli Africani trasportata e stabilita. È verissimo che s'incominciò allora fra noi a perder la misura e la proporzione delle figure, e applicati unicamente a far cornici ci dimenticammo di far quadri: ma questa pianta straniera non allignò in guisa nel buon terren d'Italia che non vi fosse, anche nel tempo ch'essa fioriva, chi procurasse estirparla. Ed è poi palpabile che da un mezzo secolo in qua non v'è barcaiuolo in Venezia, non fricti ciceris emptor in Roma, né uomo così idiota nell'ultima Calabria o nel centro della Sicilia, che non detesti, che non condanni, che non derida questa peste che si chiama fra noi secentismo. Onde quando io fossi ancor tinto di questa pece, quod Deus omen avertat, non so come il mio traduttore fondi la sua compassione sopra un'infermità che la nostra Italia non soffre. Ha pur troppo la sventurata di che farsi compiangere senza inventarne i motivi. Io non ho letto ancora cotesta traduzione francese delle opere mie per una certa riprensibile mancanza di curiosità, che si va in me di giorno in giorno accrescendo, ma in gran parte ancora per delicatezza di coscienza. Io mi conosco incontentabile in materia di traduzioni, e non ho voluto espormi a divenire ingrato a chi mi ha reputato degno di così faticosa applicazione. Quando la mia curiosità si aumenti, e i miei scrupoli diminuiscano, saprete quanto mi abbia dilettato questa lettura.

Voi vorreste de' versi fatti da me improvvisamente negli anni della mia fanciullezza; ma come appagarvi? Non vi niego che un natural talento più dell'ordinario adattato all'armonia e alle misure si sia palesato in me più per tempo di quello che soglia comunemente accadere, cioè fra 'l decimo e undecimo anno dell'età mia: che questo strano fenomeno abbagliò a segno il mio gran maestro Gravina, che mi riputò e mi scelse come terreno degno della coltura d'un suo pari: che fino all'anno decimosesto, all'uso di Gorgia Leontino, m'esposi a parlare in versi su qualunque soggetto così d'improvviso, sa Dio come, e che Rolli, Vanini e il cavalier Perfetti, uomini allora già maturi, furono i miei contraddittori più illustri. Che vi fu più volte chi intraprese di scrivere i nostri versi mentre da noi improvvisamente si pronunziavano, ma con poca felicità, poiché (oltre l'esser perduta quell'arte, per la quale a' tempi di Marco Tullio era comune alla mano la velocità della voce) conveniva molto destramente ingannarci, altrimenti il solo sospetto d'un tale agguato avrebbe affatto inaridita la nostra vena, e particolarmente la mia. So che a dispetto di tante difficoltà, si sono pure in que' tempi e ritenuti a memoria e forse scritti da qualche curioso alcuni de' nostri versi ma sa Dio dove ora saran sepolti, se pure son tuttavia in rerum natura, di che dubito molto. De' miei io non ho alcuna reminiscenza, a riserva di quattro terzine che mi scolpì nella memoria Alessandro Guidi a forza di ripeterle per onorarmi. In una numerosa adunanza letteraria che si tenne in casa di lui, propose egli stesso a Rolli, a Vanini e a me per materia delle nostre poetiche improvvise gare i tre diversi stati di Roma, pastorale, militare ed ecclesiastico. Rolli scelse il militare, toccò l'ecclesiastico a Vanini, e restò a me il pastorale. Da bel principio Vanini si lagnava che per colpa d'amore non era più atto a far versi; e mi asseriscono ch'io gli dissi:

Da ragion, se consiglio non rifiuti,

ben di nuovo udirai nella tua mente

risonar que' pensier ch'ora son muti.

Poco dopo, entrando nella materia:

Vedi quel pastorel che nulla or pare?

Quel de' futuri Cesari e Scipioni

foce sarà, come de' fiumi il mare.

Parlando alla mia greggia:

Pasci i fiori, or che lice, e l'erbe molli:

d'altro fecondi in altra età saranno

che sol d'erbe e di fiori, i sette colli.

E nello stesso conflitto, ma in diverso proposito:

Sa da se stessa la virtù regnare,

e non innalza, e non depon la scure

ad arbitrio dell'aura popolare.

Questi lampi, ne' quali hanno la maggior parte del merito il caso, la necessità, la misura e la rima, e ne' quali si riconosce forse troppo lo studio de' poeti latini non ridotto ancora a perfetto nutrimento, sa Dio fra quante puerilità uscivano inviluppati. Buon per me che il tempo non mi ha lasciati materiali onde tradir me medesimo; temo che la passione di compiacervi avrebbe superato quella di risparmiare il mio credito. Or, per terminare il racconto, questo mestiere mi divenne e grave e dannoso; grave perché, forzato dalle continue autorevoli richieste, mi conveniva correre quasi tutti i dì, e talora due volte nel giorno istesso, ora ad appagare il capriccio d'una dama, ora a soddisfar la curiosità d'un illustre idiota, ora a servir di riempitura al vuoto di qualche sublime adunanza, perdendo così miseramente la maggior parte del tempo necessario agli studi miei: dannoso, perché la mia debole fin d'allora e incerta salute se ne risentiva visibilmente. Era osservazione costante che, agitato in quella operazione dal violento concorso degli spiriti, mi si riscaldava il capo e mi s'infiammava il volto a segno maraviglioso, e che nel tempo medesimo e le mani e le altre estremità del corpo rimanevan di ghiaccio. Queste ragioni fecero risolvere Gravina a valersi di tutta la sua autorità magistrale per proibirmi rigorosamente di non far mai più versi all'improvviso; divieto che dal decimosesto anno dell'età mia ho sempre io poi esattamente rispettato, a cui credo di essere debitore del poco di ragionevolezza e di connessione d'idee che si ritrova negli scritti miei. Poiché, riflettendo in età più matura al meccanismo di quell'inutile e maraviglioso mestiere, io mi sono ad evidenza convinto che la mente condannata a così temeraria operazione dee per necessità contrarre un abito opposto per diametro alla ragione. Il poeta che scrive a suo bell'agio elegge il soggetto del suo lavoro, se ne propone il fine, regola la successiva catena delle idee che debbono a quello naturalmente condurlo, e si vale poi delle misure e delle rime come d'ubbidienti esecutrici del suo disegno. Colui all'incontro che si espone a poetar d'improvviso, fatto schiavo di quelle tiranne, convien che prima di rifletter ad altro impieghi gl'istanti che gli son permessi a schierarsi innanzi le rime che convengono con quella che gli lasciò il suo contraddittore, o nella quale egli sdrucciolò inavveduto, e che accetti poi frettolosamente il primo pensiero che se gli presenta, atto ad essere espresso da quelle benché per lo più straniere, e talvolta contrarie al suo soggetto. Onde cerca il primo a suo grand'agio le vesti per l'uomo, e s'affretta il secondo a cercar tumultuariamente l'uomo per le vesti. Egli è ben vero che se da questa inumana angustia di tempo vien tiranneggiato barbaramente l'estemporaneo poeta, n'è ancora in contraccambio validamente protetto contro il rigore de' giudici suoi, a' quali, abbagliati dai lampi presenti, non rimane spazio per esaminare la poca analogia che ha per lo più il prima col poi in cotesta specie di versi. Ma se da quel dell'orecchio fossero condannati questi a passare all'esame degli occhi, oh quante Angeliche si presenterebbero con la corazza d'Orlando e quanti Rinaldi con la cuffia d'Armida! Non crediate però ch'io disprezzi questa portentosa facoltà, che onora tanto la nostra spezie; sostengo solo che da chiunque si sagrifichi affatto ad un esercizio tanto contrario alla ragione non così facilmente:

. . . . . . . . carmina fingi

posse linenda cedro, et levi servanda cupresso.

Benché lontana, mi solletica dolcemente la speranza d'abbracciarvi in queste parti. Io l'ho comunicata alla signora contessa d'Althann e al signor conte di Canale, che, più che pieni di riconoscenza alla vostra memoria, andranno raddolcendo meco l'aspettazione della vostra venuta con la lettura del libro che ci promettete.

Qui si è sparso che il signor di Voltaire, desideroso di fare un giro in Italia, ne abbia ottenuto il consenso reale, e che terrà questo cammino. Ditemi se posso ragionevolmente lusingarmene; abbracciatelo intanto per me e ricordategli la tenera mia costante e riverente stima. Ma perché non siate tentato di pubblicarmi per cicalone, verbam non amplius addam. Addio.



LIV - A Carlo Broschi, detto Farinello, Madrid

Vienna I8 ottobre I75I.

Voi vi meraviglierete della mia tardanza in rispondervi: ma informato delle circostanze nelle quali mi trovo vi meraviglierete più tosto ch'io trovi il momento di scrivere queste due righe.

Dopo l'ultima che avete ricevuta io corsi alla campagna di Moravia, esigendolo la mia salute, più incomoda del solito: ma invece di trovar sollievo peggiorai considerabilmente di condizione. Ci sorprese fra quelle montagne sul bel principio dell'autunno un inverno così stravagante, fornito di ghiacci, di venti, e di tutti gli ornamenti del dicembre, che a dispetto delle stufe, delle ciminee e delle pelliccie, non vi fu alcuno della comitiva che non guadagnasse il suo catarro, chi più chi meno qualificato: ed io come il più fortunato non fui dei più mal provveduti. Quando finalmente la stagione incominciava a raddolcirsi ed io speravo di rimettermi, ecco una staffetta con l'ordine augustissimo di trasferirmi subito in città, perché l'opera delle dame che dovea prodursi in decembre si volea che si producesse in ottobre. Sicché con i graziosi resti del mio catarro, e con le mie indivisibili affezioni isteriche, son qui fra una folla di tumultuose applicazioni: poiché (oltre l'istruzione di quattro damine affatto novizie e nella lingua e nel contegno teatrale) è caduto sulle povere mie spalle tutto il peso del cavaliere direttor di musica, senza averne né l'onore né il vantaggio. È questo pur un di quei fenomeni di Corte nel quale non avendo io la minima colpa pago tutta la pena. Voi sapete che vuol dire essere al timone d'un teatro: onde non vi descrivo lo stato mio. L'opera andrà in scena fra otto o dieci giorni. Vi mando il libro prima che sia pubblicato, perché il caro mio gemello abbia la preferenza anche in questo, come l'ha nel resto del mio core. E perché la credo molto adattata a' vostri bisogni. Addio: ho una schiera di gente che mi aspetta.

 

LV - A Carlo Broschi, detto Farinello, Madrid

Vienna 6 novembre I75I.

La vostra dell'Escuriale del 12 dello scorso mi affligge con le nuove poco felici della cara vostra salute ed aggrava gl'incomodi della mia, che fra lo strapazzo che mi è convenuto soffrire per la cura della rappresentazione del Re pastore è tuttavia meno soffribile del solito. Uno degli effetti dispiacevoli di questo tumulto è il non essermi stato possibile di secondare il desiderio dell'adorabile gemello scrivendo una Festa a tenore delle sue insinuazioni. Destinai la campagna per sacrificarmi a lui; ma in quella fui assalito, arrivando, da una febbre catarrale da cui, non ristabilito ancora, ebbi addosso una staffetta augustissima che mi fece galoppare in città, dove ho dovuto fare io solo tutti i mestieri del mondo, e fra le fatiche ed i freddi enormi del teatro vuoto il mio mal curato catarro ha preso radici profondissime, che hanno fatto lega con gli altri miei cancherini; onde sono intrattabile così d'umore come di salute. Mi consolo che il Re pastore, qual io vi mandai subito che fu impresso, potrà perfettamente servirvi. Egli è allegro, tenero, amoroso, corto, ed ha in somma tutte le qualità che vi bisognano. Qui non si ricorda alcuno d'uno spettacolo che abbia esatto una concordia così universale di voti favorevoli. Le dame che rappresentano fanno l'incredibile particolarmente nell'azione. La musica è così graziosa, così adattata e così ridente che incanta con l'armonia senza dilungarsi dalla passione del personaggio, e piace all'eccesso. Io l'avrei fatta subito copiare e ve l'avrei mandata; ma come in questa campagna, toltone Alessandro ch'è un tenore, le quattro dame sono soprane, non ho creduto che possa servirvi come sta. Se mai la voleste, leggete l'opera attentamente; destinate le parti, ed a tenore delle vostre disposizioni, se così ordinate, farò che l'autor medesimo riduca le parti al bisogno o faccia di nuovo quello che vi piace. L'autore è il signor Giuseppe Bono: egli è nato in Vienna di padre italiano, e fu mandato da Carlo VI ad imparar la musica sotto di Leo, e con lui ha passato la prima sua gioventù. Conosco ancora altri due maestri di musica tedeschi, l'uno è il Gluck, l'altro Wagenseil. Il primo ha un fuoco maraviglioso, ma pazzo; il secondo è un sonator di cembalo portentoso. Ha composto un'opera a Venezia con molta disgrazia; ne ha composte alcune qui con varia fortuna. Io non son uomo da darne giudizio.

Caro gemello, non posso più scrivere. La mia testa si ribella. Addio, se volete ch'io stia bene datemi il buon esempio: e credetemi ch'io sono più afflitto di voi di non avervi potuto compiacere. Voi sapete ch'io non mentisco: onde non mi dilungo. Amatemi e credetemi.

 

LVI - A Michele di Cervelloni, Madrid

Vienna 26 novembre I75I.

Sarei inconsolabile se all'impazienza da me sofferta nel mio lungo silenzio si mescolasse una benché minima parte di rimorso; ma non avendo fisicamente potuto rispondere finora all'ultimo veneratissimo foglio di Vostra Eccellenza del 23 d'agosto, benché io senta vivamente tutta la pena del danno, evito almeno tutto il rossor della colpa.

Venne a ritrovarmi la sua lettera suddetta nel terminare dello scorso settembre fra i boschi della Moravia, non così sollecita come avrebbe potuto, e mi venne accompagnata da Vienna da un frettoloso augustissimo comando di rendermi immediatamente alla Corte per dirigere la rappresentazione d'un'opera scritta da me d'ordine sovrano per esser cantata da dame e cavalieri nel venturo carnevale, e improvvisamente destinata al giorno di Santa Teresa; onde le disposizioni che avrebbero dovuto farsi in tre mesi si sono ristrette in due settimane. Si trattava d'esporre su le scene quattro damigelle tedesche, affatto novizie di tal mestiere, e questo solo pensiere richiedeva quattro de' miei pari; ma questa pesantissima commissione non è stata la sola. Per un concorso inesplicabile d'accidenti aulici, non si è trovato chi abbia voluto in questo caso far da cavalier della musica; onde non già l'onore ma il peso n'è tutto ricaduto su le mie spalle: quindi ho dovuto io solo caricarmi della direzione delle decorazioni e di tutte le minime infinite cure che precedono il componimento di tale spettacolo. In queste angustie potrà Vostra Eccellenza immaginarsi come io mi sia ritrovato; consideri ch'io non ho potuto trovare un momento per lamentarmi dell'incomoda mia salute, e che più d'una volta mi è mancato il tempo per gli uffizi necessari della vita. Pure a dispetto di tante difficoltà tutto fu pronto per il giorno destinato; ma perché questa specie di miracolo perdesse parte del merito, si ammalò una delle attrici e convenne trasportar l'opera otto giorni. L'esito finalmente ha pagato generosamente le penose mie cure. Non ho mai veduto in questa Corte spettacolo più degno degli augusti suoi spettatori; né mai ho veduto che potessero unirsi tutti i voti del pubblico, come si sono uniti nell'ammirazione di questo. Le dame superano, particolarmente nell'azione, tutte le più celebri attrici. So che non sarò creduto, ma perdono agli increduli perché ho dovuto perdonare a me stesso. La musica è del Bono, ed è impareggiabile: le scene e gli abiti sono magnifici, e il visibile straordinario gradimento de' clementissimi padroni aggiunse un insolito splendore a tutto lo spettacolo.

Gli attori sono stati il signor conte Bergen, quattro Fraile, cioè Rosenberg, Kollonitz, Frankenberg e Lamberg: si è rappresentata l'opera cinque volte, e finita la quinta, gli augustissimi padroni ritennero a cena gli attori ne' loro abiti teatrali, e ciascuno di essi nello spiegar della salvietta trovò il suo regalo, consistente in galanterie d'oro e di gioie adattate alla persona. La cena durò fin verso la mezzanotte, e gli attori ne partirono ricolmi di grazie, d'applausi e di mille replicate testimonianze del clementissimo sovrano gradimento. Dovea esser quella l'ultima rappresentazione; ma sento ora, che l'augustissima padrona desideri che si replichi alcune altre volte in città, e che si pensi a determinare il sito in Corte atto a ricevere le decorazioni che sono state a Schönbrunn. Il soggetto dell'opera è la celebre generosità d'Alessandro, che restituì il regno di Sidone al povero e sconosciuto Abdolonimo. Il titolo è il Re pastore per non prevenire svantaggiosamente i lettori innocenti con la barbarie di quel nome.

Benché tormentato più crudelmente che mai dai miei flati, angustiato dal tempo e spaventato dall'inesperienza degli attori che mi furono proposti, per un fenomeno inesplicabile non ho mai scritta alcuna delle mie opere con facilità eguale e della quale io abbia meno arrossito. Avrei voluto mandarlo a Vostra Eccellenza, ma ho incontrato tali difficoltà nel consegnare al ministro quella che avea commissione di mandare a Farinello, che non ho ardito di tentare il guado un'altra volta. Per la posta il valore della merce non si eguaglierebbe alla spesa, onde attendo occasione di mandarla evitando gl'inconvenienti.

La povera nostra signora contessa d'Althann ha risentito nel corpo il colpo che l'ha ferita nell'animo alla perdita del suo fratello.

L'aria di Moravia le ha reso molto ma non tutto quello che avea perduto nella salute. Le ho comunicata la lettera di Vostra Eccellenza, e mi ha commesso d'assicurarla del contraccambio della parziale memoria che conserva Vostra Eccellenza di lei. Con gli stessi sentimenti di riconoscenza e di stima ha letta il conte di Canale l'onorata menzione che fa Vostra Eccellenza di lui, e tutti conchiudiamo che la sua lontananza non è dannosa che a noi. Possedendo ella soprabbondanti capitali di dottrina e di esperienza onde popolar la solitudine o procurarsela in mezzo al tumulto. Rinnovi, la supplico, la memoria della costante mia divozione alle eccellentissime contesse madre e figlia e mi creda con rispetto eguale agli obblighi miei.

 

LVII - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna I2 giugno I752.

La vostra gratissima del 17 dello scorso non contiene che il giudizio sommario, sotto figura di reticenza, del mio Eroe cinese; onde non esige che un sommario rendimento di grazie per la vostra fraterna parzialità. La necessità d'allontanarmi dalla semplicità del Re pastore mi ha obbligato a ricorrere al genere implesso, genere più difficile a maneggiare con così pochi personaggi e con tale angustia di tempo. Mi ha costato molta cura di procurare che la brevità e il viluppo non cagionassero oscurità nell'azione; se mi sia riuscito, tocca agli altri di giudicarne.

Spero che rileggendolo troverete maggior artificio nella condotta di quello che non avrete a prima vista per avventura osservato. Non vi è quasi scena senza qualche peripezia; non vi è peripezia senza preparamento; non vi è il minimo ozio: l'azione semper ad eventum festinat, e l'agitazione s'accresce sino all'ultimo verso del dramma. Vi confesso con tutto ciò che il mio genio è più per il semplice. Mi pare che una gran figura, nella quale sia luogo d'esprimere ogni picciolo lineamento, esiga un più esperto maestro che le molte delle quali la picciolezza assolve dagli scrupoli d'un esatto contorno. Ma, oltreché il mio Leango non è figurina così minuta, quando altri è costretto a sporcar tante tele è inevitabile prudenza l'andar cambiando maniera, per non rassomigliar troppo a se stesso. Il merito maggiore di quest'opera è negativo. Non potete immaginarvi quante vive descrizioni, quanti curiosi racconti e quante affettuose situazioni mi avrebbe fornito con isperanza di lode il fatto medesimo; ma, obbligato a servire alla prescritta brevità, ho dovuto rigettar come soverchio tutto ciò che non era assolutamente necessario. È vero che se non ho potuto procurar questa lode al mio lavoro mi sono studiato in contraccambio di assicurarlo dal biasimo di qualunque irregolarità.

Tutte le unità e gli altri canoni drammatici, anche farisaici, vi sono superstiziosamente osservati: l'azione è sola: gli episodi son così necessari che ne fan parte. Può rappresentarsi tutto il dramma in una sala, in una galleria, in un giardino, o dove si voglia, purché sia un luogo della reggia; e basta a tutto lo spettacolo, senza bisogno d'indulgenza, il puro tempo della rappresentazione.

Ma non ho mai in vita mia parlato tanto di me medesimo. Or me ne avveggo e ne arrossisco; non già perché io mi senta reo di filauzia, ma perché potrei comparirlo con voi. Ricordatevi che poche persone dubitano di se stesse fino al vizio, siccome io faccio, e che nel comunicare a voi le perfezioni ch'io mi sono proposte non mi credo esente da' difetti a' quali e quella dell'umanità e la propria mia debolezza pur troppo mi sottopone. Addio.

 

LVIII - A Carlo Batthyany, Vienna

Vienna [novembre] I752.

Per eseguire i venerati ordini dell'Eccellenza Vostra eccomi a comunicar brevemente ciò ch'io penso intorno al metodo da tenersi per procurar l'intelligenza e l'uso della lingua italiana al serenissimo arciduca Giuseppe, sottoponendo i miei lumi a quelli dell'Eccellenza Vostra e senza eccesso di modestia, poiché tutti i vantaggi che possono essere dal canto mio come tolerabile esecutore, non mi autorizzano a decidere come metodico maestro, categoria molto differente da quella, nella quale mi han situato gli studi miei.

Io credo dunque in primo luogo che non solo le arti tutte, ma che le virtù medesime si debbano comunicare più per la via della pratica che della teoria. E, a riguardo particolarmente delle lingue, odio come un abuso e dannoso e crudele il caricare il povero principiante d'un fascio enorme di regole e d'eccezioni, le quali, in vece di procurargli la copia delle parole e di fornirlo di facilità a parlare ed intendere, debbano per necessità inspirargli avversione e rincrescimento, e fargli perdere la speranza di venir mai a capo d'impresa tanto difficile. Chi aspira ad essere autore è necessario che, dopo imparata la lingua, ne studi esattamente le regole e le ultime differenze; ma chi non si propone che la facilità di spiegarsi e d'intendere, non deve aver alcuna cura particolare delle regole, se non di quelle più generali e sicure, che in occasione di parlare o di leggere gli andrà per modo di discorso comunicando il prudente e discreto maestro.

In secondo luogo io non reputo cosa convenevole che un principe, obbligato dal suo grado a tanti studi così necessari come severi, senta addossarsene un altro: onde mi piacerebbe che questo della lingua italiana perdesse affatto per lui la fisonomia di studio, e che adottasse all'incontro, quanto è possibile, quella di divertimento e di riposo. In conseguenza di questi principii io bramerei che il maestro incominciasse dal comunicare al principe le pochissime cose necessarie ad osservarsi intorno alla pronunzia, per metterlo subito in istato di poter leggere. La pronunzia italiana conviene in tal guisa con la latina, e differisce così poco dalla buona pronunzia tedesca, che il farne osservare le picciole differenze è opera di pochi momenti.

È inevitabile dopo di questo il dare un'idea all'ingrosso de' nomi e de' verbi; ma essendo egualmente necessario di non aggravare il principe del noioso peso d'imparare a memoria, io terrei il cammino seguente.

In quanto a nomi, conservando nell'italiano sempre la medesima terminazione in tutti i casi, non v'è bisogno che di fargli osservare l'articolo che gli distingue e il cambiamento che fanno nel numero dei più. E, senza fermarsi affatto in questa considerazione, la sola lettura di due giorni lo renderà peritissimo di ciò che bisogna su tal proposito.

A riguardo de' verbi che abbondano di tante e così diverse inflessioni, io loderei che il maestro incominciasse costantemente ogni giorno la sua lezione dal far leggere ad alta voce due o tre volte uno de' medesimi, in tutti i suoi modi e tempi diversi, e spererei che quel meccanico non interrotto esercizio dell'occhio e dell'orecchio, assistito da' continui esempi che s'incontrano nel leggere e nel parlare, dovesse provvedere il principe di tutta la franchezza necessaria nei vari usi de' verbi suddetti, senza essersi sottoposto al noioso lavoro d'impararli a memoria.

Per dare un ordine a questo esercizio incomincerei dai due verbi ausiliari essere ed avere; passerei quindi alle quattro coniugazioni regolari, e terminerei co' verbi irregolari e difettivi.

Dovendo essere il primo oggetto del principe il parlare e l'intendere coloro che avran la sorte di parlar seco, io non approverei che le sue prime letture fossero di libri gravi ed eleganti, come di teorie di scienze o d'altra somigliante materia. Tutti gli autori, aspirando alla lode di eccellenti scrittori, si vagliono ne' libri loro di frasi e di parole che riescono nel parlar comune troppo ricercate, poco intese e qualche volta ridicole, e sfuggono all'incontro l'espressioni che sono comunemente in commercio. Di modo che caricano la memoria dello scolare di cose per allora inutili o dannose, e non lo provvedono di quelle delle quali ha prontamente bisogno. Loderei però moltissimo che la prima lettura del principe fosse di dialoghetti familiari, de' quali si trova copia sufficiente. E questa, per non breve tratto di tempo continuata e replicata, lo fornirà delle parole, delle frasi e de' modi di dire che sono familiarmente in commercio fra le persone più colte; non lo aggraveranno intempestivamente di quella merce che serve al fasto degli scrittori, e lo metteranno sollecitamente in istato di spiegar le sue idee con nobiltà, che non si risenta della ricerca e dell'affettazione. Questa lettura somministrerà frequenti occasioni al maestro di far osservare al principe la differenza delle espressioni che convengono all'elevato suo grado da quelle che sono permesse al comune degli uomini, e delle varie maniere delle quali è decente ch'egli si vaglia, a proporzione delle varie condizioni delle persone o più distinte o più basse con le quali ei ragioni.

Quando abbia il principe acquistata per questo cammino una conveniente facilità di spiegarsi, stimerei molto utile l'introdurlo alla lettura di qualche libro di materia lieta e curiosa, ma eviterei da bel principio tutti gli originali italiani. Il genio latino, che questa lingua ha fedelmente conservato, non soffre la concisa e chiara per altro semplicità francese, che spiega per lo più separatamente le concepite idee ad una per una; ma vuole che di molte insieme artifiziosamente raccolte se ne componga spesso una sola, operazione che non può eseguirsi senza lunghi periodi e prolisse sospensioni, e che quanto giova all'armonia, alla grandezza e alla nobiltà dello stile altrettanto nuoce all'intelligenza di qualunque principiante straniero. Farei precedere per questa ragione alla lettura degli originali italiani quella di alcun libro tradotto dall'idioma francese, avvertendo per altro che la traduzione proposta non sia di quelle che conservano con troppa fedeltà il gallicismo. Familiarizzato per questo mezzo il principe con lo stile di qualche autore che non lo disanimi, passerà senza dubbio con molta maggiore facilità alla lettura degli storici, degli oratori e finalmente de' poeti italiani. Benché non debba il principe proporsi per oggetto di divenire scrittore italiano, non crederei fuor di proposito ch'egli acquistasse almeno tanto di facilità nello scrivere, che potesse in caso di necessità comunicar con decenza un avviso, un sentimento, un comando. Per renderlo senza molta pena abile a questo, approverei che, quando avesse già fatto acquisto d'un sufficiente capitale di parole e di frasi, incominciasse in presenza del maestro a comporre alcuna o lettera o descrizione o racconto. E per togliere tutta la noia al lavoro, vorrei che la voce viva del maestro medesimo gli servisse in questo caso di dizionario e di grammatica, e suggerendogli le parole e le frasi ch'ei non rinvenisse prontamente nella sua memoria, e dirigendolo nella scelta di quello, e regolandolo nell'ordine e nella progressione de' pensieri, e facendogli note le pochissime leggi alle quali è soggetta la facilissima ortografia italiana.

Questo metodo, secondato dal continuo esercizio nel quale potranno tenere il principe molti di quelli che sono eletti all'invidiabile onore d'essergli appresso, e più d'ogni altro i felici talenti de' quali la Provvidenza a nostro vantaggio gli ha fatto dono, crederei che in breve tempo e con leggiera fatica dovessero indubitatamente produrre l'effetto che si desidera. E s'io m'inganno nel mio ragionamento, gran parte della mia colpa ricadrà sull'Eccellenza Vostra che ha voluto obbligar un poeta a dover far da maestro. Io rifletterò per consolarmi che, quanto è minor il merito di questi miei pareri, tanto più grande è quello dell'ubbidienza mia, efficace a tal segno che ha potuto superare in me la natural gelosia del proprio credito. Io sono col dovuto rispetto.

 

LIX - A Ranieri Calzabuigi, Parigi

Vienna 20 dicembre I752.

Rispondo più tardi di quello che avrei voluto alla cortese lettera del mio signor Calzabigi del 15 dello scorso novembre, perché l'affare ch'egli in essa mi propone esige riflessione, e non ammette alcuna fretta. Or, dopo i brevi ma sinceri rendimenti di grazie ch'io sono in debito di fargli per le obbliganti ufficiose espressioni con le quali egli così parzialmente mi onora, eccomi a fare e a dir per lui tutto quello che concede la difficoltà della materia ch'ei mi propone.

Fra le molte edizioni delle opere mie, delle quali forse in castigo de' miei peccati è stato inondato il pubblico, non ve n'ha né pure una fatta sotto gli occhi dell'autore, e che però non abbondi di gravi e vergognosi errori. A quelli del primo ha sempre aggiunti i suoi il secondo stampatore; a quei del secondo il terzo, e con questo progresso di peggioramento la cosa è ridotta a segno così deplorabile, che per cura di salute io mi guardo, come da gravissimo disordine, dall'aprire qualunque nuova impressione delle opere mie, che mi venga sventuratamente presentata. Da tutto ciò è assai chiaro ch'io stesso non saprei quale delle antiche proporre per esempio alla nuova edizione, perché in questa si trovassero unicamente gli errori miei senza l'aggiunta degli altrui. Converrebbe, per far cosa lodevole, ch'io prendessi per mano una delle note ristampe, che pagina per pagina, anzi verso per verso, andassi attentamente correggendo lo stampatore e me stesso; ch'io di ciò formassi un nuovo originale e che di questo finalmente io mandassi al signor Gerbault: una fedelissima copia. Or questa operazione suppone tempo e pazienza, a cui può malagevolmente accomodarsi l'interesse di cotesto editore e le mie occupazioni. Pure per corrispondere in quanto io possa alle cortesi cure e del mio signor Calzabigi e di cotesto signor Gerbault, eccovi in primo luogo due stampe d'un mio ritratto, che finora è il men satirico che mi sia stato applicato: eccovi inoltre un fedel catalogo di quanto è stato finora pubblicato di mio. Dico di mio perché lo stampatore veneto nella sua ottava e nona ristampa del 1752 mi ha generosamente attribuito alcune cantate e canzonette d'autori incogniti, a' quali io non vorrei per cosa del mondo usurparne la gloria.

Quanto all'ordine de' componimenti, io non terrei che il seguente. Destinerei a ciascun volume quattro o cinque opere al più, e le accompagnerei con alcuni di que' componimenti drammatici che si trovano nel catalogo sotto i nomi di Feste o d'Oratorii. Tutto ciò ch'è drammatico va bene insieme: i lettori, ed io più di loro curo pochissimo la pedanteria cronologica, e serbando il tenore ch'io suggerisco, riusciranno i volumi tutti di mole eguale, potendo lo stampatore destinare a ciascuno de' medesimi, a seconda della mole che si propone, maggiore o minor numero de' drammatici componimenti suddetti, e più lunghi e più brevi, che ve n'ha d'ogni fatta. Dopo tutte le poesie drammatiche sarei di parere, che seguissero le liriche, cioè a dire le Cantate, i Sonetti, le Canzonette e gli Epitalamii. E finalmente relegherei al fondo dell'ultimo volume quelle poesie ch'io scrissi nella mia infanzia delle lettere, e che nella prima edizione in quarto di Venezia si trovano nel terzo tomo raccolte sotto nome d'Aggiunta, con un avvertimento al lettore, che lo informava e del tempo in cui furono scritte, e del mio sensibile rincrescimento nel vedermele pubblicate a mio dispetto. V'è fra queste una tragedia, intitolata il Giustino, non solo scritta da me e pubblicata in età di poco più di quattordici anni, ma composta per precetto del mio maestro su lo stile del Trissino, servile imitatore d'Omero: ond'ei si risente dell'immaturità dell'autore e della languidezza del suo prototipo. Se il signor Gerbault volesse nella sua ristampa trascurare i componimenti che formano cotesta maladetta Aggiunta, mi farebbe cosa carissima, ma perché giustamente temo ch'egli non vorrà con questa mancanza render la sua inferiore alle altre edizioni, lo prego almeno di raccoglierle tutte insieme, cacciarle al fondo dell'ultimo volume, e informare i lettori delle circostanze che servon loro di scusa.

Ho ridotto la Didone e la Semiramide in forma di cui sono molto più contento che di quella con la quale hanno corso i teatri d'Europa finora. Ho parimente aggiunto un quarto personaggio ad una festa intitolata Componimento drammatico che introduce ad un ballo cinese, e con questo riesce a mio credere più compiuto. Son pronto a comunicar tutto ciò al signor Gerbault, purch'egli destini in Vienna chi abbia cura di farne far le copie e quella di trasmetterle.

Sarà ben comica la sedizion musicale che hanno prodotta in Parigi cotesti nostri attori italiani. Io mi figuro una gran parte degli amabill eccessi della vivacità francese; ma non vorrei che insieme co' nostri pregi adottassero i nostri difetti. A parlar sinceramente, gl'Italiani, in gran parte per far soverchiamente pompa dell'abilità del canto della quale a distinzione delle altre nazioni gli ha forniti la natura, si sono solo dimenticati d'imitarla, ma trascorrono assai spesso sino ad opprimerla.

Per non essere ingrato alla gentilezza vostra è tempo di liberar la vostra pazienza, esercitata abbastanza in una sì poco discreta lettera; comandatemi dunque, e credetemi con la dovuta stima.

 

LX - A Mattia Damiani, Volterra

Vienna 24 maggio I755.

Dall'umanissimo foglio di V. S. illustrissima del 22 dello scorso aprile ho ragioni di aggiungere nuovi titoli di obbligata riconoscenza a quelli de' quali mi ha ella in altri tempi gentilmente ricolmato. La sua costante ed affettuosa memoria merita tutta la corrispondenza della mia, ed io non saprei defraudarnela senza arrossire della mia ingratitudine. Se brama ella aver contezza di mia salute, sappia che da otto anni in circa ho contratta una scandalosa consuetudine con una impertinente legione di affetti ipocondriaci, che si sono alloggiati in questa mia tormentata macchinetta in compagnia de' flati, degli acidi, delle nausee, degli stiramenti de' nervi, e di mille altri loro omonimi, diabolici satelliti. Al primo assalto fra la novità del fastidio e l'autorevole ignoranza de' medici, ho creduto di perdervi il senno e la vita: ma oggi noi siamo divenuti familiari. Non so se per diminuzione di vigore in essi, o per aumento di tolleranza in me: io per altro avido di gloria sono nella seconda sentenza. Ho ragione d'esser superbo del mio trionfo, poiché quantunque al presente io soffro le indiscretezze medesime, si mangia tuttavia, si bee, si dorme, s'ingrassa e s'inganna il mondo con un aspetto ben più degno d'invidia che di compatimento.

Con le Muse poi, dopo tanti anni di matrimonio, io vivo ora in una certa familiarità, che potrebbe parere amicizia, ma a dirla così fra noi non è altro che dissimulazione. Esse conoscono i miei ed io i loro difetti. Non crediamo prudente il pubblicarli; ma ci evitiamo quanto è possibile. Felice il mio signor Damiani, che si trova tuttavia con esse fra le soavi premure de' primi amori. Duolmi che la lontananza mi defraudi di essere a parte de' frutti di così invidiabile commercio, e mi auguro che me ne ristori alcun suo comando, ond'io possa dimostrarle che sono.

 

LXI - Ad Antonio Tolomeo Trivulzio, Milano

Vienna I6 giugno I753.

Felice voi, veneratissimo Fracastoro, che andate gustando in codesto ridente soggiorno tutti i più squisiti piaceri della vita. Io non ne invidio la dovizia, ma bensì il desiderio che ne avete. S'io sapessi procurarmi questo, sarei già di là della metà del cammino; ma per mia disavventura il mio palato è così oggimai incallito, che mi paiono insipide la maggior parte di quelle vivande che solleticano così soavemente il maggior numero de' viventi. La esperienza e il raziocinio ci sgombrano veramente l'animo d'una quantità di errori che s'incominciano a bere col primo latte; ma ci defraudano all'incontro una quantità di piaceri, e non somministrano materiali onde riempire il vòto che cagionano. Forse questo è un meritato castigo, col quale la Provvidenza punisce chi pretende fabbricarsi in terra una solida e reale felicità non conceduta ai mortali. So che, s'io potessi rifarmi da capo, non sarei più così dolce d'andar cercando il pel nell'uovo. Mi compiacerei della scorza de' piaceri senza andarli snocciolando, e con la varietà compenserei l'instabilità de' medesimi. Non v'è bisogno di tanta realità per dilettarsi. Qual cosa più vana d'un sogno? eppure vi fa passar qualche ora contento. Qual cosa più fallace d'una scena? eppure vi trattiene, vi rallegra, vi rapisce colle sue superficiali apparenze. Chi non vuol che il midollo de' piaceri, perde il buono cercando l'ottimo, e mentre compiagne l'altrui, fabbrica la propria infelicità. Io mi rido di quei vostri cicaloni de' Greci, che asseriscono magistralmente che la felicità dell'uomo consiste nel carere dolore: se l'assioma stesse a martello sarebbe più invidiabile ogni pilastro, ogni palo, che Aristotile, Platone e tutta la socratica famiglia. Non vuo' per altro che mi crediate così svogliato in tutto. Io sono sensibilissimo alla tenerezza de' miei e particolanmente a quella de' vostri pari; onde non siate avaro di nutrimento all'unico appetito che mi è rimasto, sicuro di essere contraccambiato da quella rispettosa e tenera costanza, con cui non lascierò mai d'essere.

 

LXII - A Carlo Broschi, detto Farinello, Madrid

Vienna I5 dicembre I753.

Rispondo alla carissima vostra del dì 11 dello scorso novembre con la quale ho ricevuto un esemplare della Semiramide col suo abito spagnuolo. Vi rendo grazie dell'obbligante attenzione, e passo a rispondere alle vostre richieste.

Quando io ho composto l'Adriano, ho procurato di far parti eguali quanto è possibile, fra Adriano e Fannaspe, Emirena e Sabina. Nella sostanza Adriano e Sabina sono le prime parti: l'una e l'altra formano il principal soggetto dell'opera; e l'una e l'altra cresce nell'andare innanzi: con tutto ciò, in grazia della vivacità delle prime scene di Fannaspe, tutti i musici si sono ingannati, ed io sono stato richiesto della decisione di cui ora mi richiedete, diverse altre volte. Da tutto questo ch'io vi dico comprenderete che dipende dall'arbitrio di far passar per prime parti Adriano e Sabina oppure Fannaspe ed Emirena, ma che in sostanza Adriano è il titolo dell'opera, e che fra lui e Sabina succede l'azione principale, non essendo Emirena che un inciampo alla virtù d'Adriano, qual finalmente vince se stesso, e questo trionfo della sua virtù è l'azione che si rappresenta. La distribuzione poi delle parti essendo impresa più politica che scientifica, non posso farla io che, non essendo sulla faccia del luogo, ignoro una quantità di circostanze necessarie a sapersi per ben decidere. Quello che posso dirvi con sincerità si è che, se io fossi musico, vorrei rappresentare il personaggio d'Adriano, e se fossi sirena incantatrice, mi piacerebbe più d'essere imperatrice romana, piena di generosità e di virtù, che una schiava innamorata come una gatta.

Ho già circonciso il primo atto dell'Alessandro: oh che macello! Ne ho tagliati 266 versi e tre arie. Caro gemello, questo mestiere ingratissimo non si fa che per voi. Il farsi eunuco di propria mano è sacrifizio che ha pochi esempi: pur si fa, e si procurerà che non se ne risenta lo spettacolo se non con vantaggio. Voi non potete aver mai tanta voglia d'una mia opera nuova quanta ne ho io di farvela, e questo pensiero mi sta sempre presente; ma per non replicarvi tutta la filastrocca con la quale vi ho seccato altre volte, vi prego di riflettere che per il giorno della mia augustissima padrona si è qui rappresentata un'opera in Corte, ed è stata La clemenza di Tito. Voi non avete bisogno di commentario a questo testo...

 

LXIII - A Ranieri Calzabuigi, Parigi

Vienna I6 febbraio I754.

Rispondo alla gentilissima vostra del 29 gennaio, la quale accusa altre da me non ricevute. Spero che il cambiamento che vi proponete nella scelta del cammino mi difenderà in avvenire da simili inconvenienti. Intanto, seguitando l'ordine delle materie che avete tenuto nella vostra lettera, eccovi le risposte categoriche.

Vi rendo in primo luogo distintissime grazie dell'amichevole impegno che avete preso di difendermi, in una lettera a' lettori, dalle accuse di coloro che mi vogliono copista de' Francesi. Io ho creduto, scrivendo pel teatro, di dover leggere quanto in questo genere hanno scritto non solo i Greci, i Latini e gl'Italiani, ma gli Spagnuoli ancora e i Francesi; e ho supplito alla mia ignoranza della lingua inglese con le traduzioni che vi sono, per informarmi, quanto è possibile senza saper la lingua, dei progressi del teatro fra quella nazione. Ora a seconda della più recente lettura può ben darsi che talvolta si riconosca in alcuna delle mie opere il cibo di cui attualmente mi nutriva; ma è grande ingiustizia il non riconoscervi se non se il cibo francese, e chiamar furto quella riproduzione che si forma nel mio terreno, de' semi co' quali ho creduto lodevole e necessaria cura il fecondarlo. Hanno bisogno di questa coltura non meno il grasso che l'arido terreno: in questo secondo si conserva lungo tempo senza cambiar forma il seme che vi si nasconde ma non produce; nel primo all'incontro si corrompe, cambia figura e fermenta, ma rende alla sua stagione ventiquattro per uno. In queste differenze è facile il riconoscere quella che si trova fra il copista e l'autore...

 

LXIV - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 4 marzo I754.

Non mi ha sorpreso, e mi ha con tutto ciò colpito nel più vivo dell'anima la perdita del nostro povero padre. Dal mio dolore misuro qual sarà stato ed è il vostro. Io sento che ho bisogno di qualche tempo per essere ragionevole. Vi ringrazio delle fraterne insinuazioni in mezzo al vostro abbattimento. Caro fratello, eccovi padre affatto. Adempite costì degnamente le sue veci: se v'è cosa che da me dipenda qual possa consolarvi, esigetela senza riserva: la vostra servirà di strada alla mia consolazione. Già sapete ch'io non metto limiti alla vostra prudenza, e particolarmente dove trattasi d'onorar e d'assistere co' suffragi quella cara e rispettabile persona, a cui son debitore dell'esistenza. Povere sorelle! come si troveranno perdute! Assistetele, caro Leopoldo; pensate quanti soccorsi meno di noi si trovano esse nell'animo contro l'assalto delle passioni, e particolarmente di quelle che derivano dalle più sacre leggi della natura! Addio. S'io v'ho sempre amato, considerate quanto vi amo ora che manca chi esiga tanta parte dell'amor mio. Corrispondetemi voi l'accrescimento del vostro, e credetemi più che mai.

 

LXV - A Ranieri Calzabuigi, Parigi

Vienna 9 marzo I754.

Non han poco solleticata la mia vanità, gentilissimo signor Calzabigi, le notizie, così dell'elegante ristampa di tutti i poetici scritti miei che si è costì recentemente intrapresa, come quella della faticosa cura che vi è piaciuto addossarvene. Argomentando io (come tutti pur troppo facciamo) a favor di me stesso, mi lusingo che l'intrapresa ristampa delle opere mie ne supponga costì le richieste; che quelle ne promettano fautori, e che possan questi procurar forse loro il voto di cotesta colta, ingegnosa e illuminata nazione, voto a cui non ha finora ardito di sollevarsi la mia speranza, se non quanto ha bastato per non perderne il desiderio. Il trovarsi poi la direzione e la cura di questa impresa fra così esperte e amiche mani come le vostre, mi assicura ch'io dovrò arrossirmi in avvenire unicamente de' propri errori, e non più di quelli che mercé la vergognosa trascuratezza degl'impressori innondano le numerose edizioni con le quali mi ha finora la nostra Italia non so se perseguitato o distinto.

Benché la mia paterna tenerezza possa tranquillamente riposarsi su l'affettuosa tutela che voi assumete de' figli miei, sarebbe pur mio non men debito che desiderio il sollevarvi in parte dal grave e noioso peso di cui l'amicizia vi ha caricato, e non ricuso di farlo, quando le altre mie inevitabili occupazioni, le ineguaglianze di mia salute, e la nostra distanza consentono.

S'egli è vero che un salubre consiglio sia considerabile aiuto, io comincio utilmente ad assistervi avvertendovi di non abbandonarvi alla fede delle venete impressioni, senza eccettuarne la prima in quarto pubblicata l'anno 1733, alla quale la superiorità ch'essa ha pur troppo conservata su le molte sue sconce seguaci non basta per autorizzarla all'impiego di mediocre esemplare. Sono andate queste d'anno in anno miseramente peggiorando, sino all'eccesso di presentare al pubblico sotto il mio nome, ma senza l'assenso mio, cantate e canzonette ch'io o non ho mai sognato di scrivere o che ho durata gran pena di riconoscere, tanto mi son esse tornate innanzi storpie, malconce e sfigurate. Le edizioni poi di Roma, di Napoli, di Milano, di Piacenza e tutte quelle in somma che fin qui sono uscite da' torchi d'Italia derivano dalle prime di Venezia e aggiungono al proprio tutto il limo della fangosa sorgente. Per assicurarvi dovrei intraprendere una generale correzione di tutti gli scritti miei e trasmettervene poi esattissima copia, impresa per la quale manca il tempo a me di compirla come quello a voi di aspettarla. Convien dunque ch'io mi riduca ad avvertirvi unicamente di quei pochi errori che per l'enormità loro hanno conservato sito nella mia memoria e che confidi poi e raccomandi alla dottrina, alla diligenza e all'amicizia vostra la ricerca e la riforma degli altri. Chi sa ch'io non ritragga profitto da questa angustia medesima? La vostra parzialità per l'autore può farvi attribuir talvolta agl'impressori le sue mancanze e procurare a lui, rettificandole, quel vantaggio di cui, se ne aveste saputo la vera origine, qualche vostro gentil riguardo lo avrebbe per avventura fraudato.

Ma perché tutto il mio aiuto non si riduca a consigli, eccovi in primo luogo un correttissimo originale di mie cantate, o non pubblicate finora con le stampe, o vendicate affatto dalle ingiurie che da tante imperite mani hanno ormai troppo lungamente sofferto Eccovi inoltre le Cinesi, altre volte impresse sotto il titolo di Componimento drammatico che introduce ad un ballo, ma ora accresciute d'un personaggio, e perciò di maggior vivacità ed interesse nella condotta, a segno di poter senza taccia di soverchia baldanza pretender qualche parte ne' privilegi della novità.

Aggiungo a queste la mia Isola disabitata, dramma in cui mi sono particolarmente studiato che l'angustia di una breve ora prescritta alla sua rappresentazione non me ne scemasse l'integrità. Questa, benché ultimamente pubblicata in Madrid, non si trova per anche inclusa nelle precedenti raccolte de' miei componimenti

Unisco all'antecedente quattro antichi miei drammi da me nuovamente riformati e per mio avviso migliorati in gran parte. Son questi la Didone, l'Adriano, la Semiramide e l'Alessandro, ne' quali ho creduto ora di riconoscere o qualche lentezza nell'azione, o qualche ozio ambizioso negli ornamenti, o qualche incertezza ne' caratteri, o qualche freddezza nella catastrofe, difetti che facilmente sfuggono all'inconsiderata gioventù, ma non ingannano così di leggieri quella maturità di giudizio che deriva dall'esperienza e dagli anni, vantaggio che troppo ci costa per farne buon uso.

Vi trasmetto finalmente un catalogo fedelissimo di tutte le mie poesie di qualunque specie, che han fin qui veduto la luce, e col consiglio di questo potrete voi sicuramente escludere, come spurie dalla vostra, tutte quelle che in molte venete edizioni mi sono state con troppa generosità attribuite.

Avrei desiderato che non si trovassero nella ristampa parigina alcuni miei poetici componimenti, che troppo si risentono della prima mia adolescenza, ma particolarmente la tragedia del Giustino, da me scritta in età di quattordici anni, quando l'autorità del mio illustre maestro non permetteva ancora all'ingegno mio il dilungarsi un passo dalla religiosa imitazione de' Greci, e quando l'inesperto mio discernimento era ancor troppo inabile a distinguer l'oro dal piombo in quelle miniere medesime, delle quali incominciava egli allora ad aprirmi appena i tesori. Ma preveggo che non vorrà codesto editore render la sua meno abbondante delle altre stampe, ammaestrato dall'esperienza, che la mole e non il peso decide assai comunemente del merito d'una edizione. Vi prego dunque, se non potete risparmiarmi, di differirmi almeno quanto è possibile questo rossore relegando agli estremi confini dell'ultimo volume tutti quei componimenti che sotto il nome di Aggiunta furono dal Bettinelli nella sua prima edizione pubblicati, e non trascurando di far che loro preceda la mia cronologica difesa.

Non aspettate qui nuove proteste dell'infinita mia riconoscenza, né replicate preghiere che raccomandino alla vostra cura il credito degli scritti miei: so che non bastan le prime, e che non bisognano le seconde; onde mi ristringo a confermarmi.

 

LXVI - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 6 maggio I754.

La gratissima vostra del 13 del caduto non avrebbe bisogno di lunga risposta, ma questo non giova alla mia pigrizia; convien ch'io vi parli del signor marchese Patrizi per cui vi mando l'annessa risposta che, letta, suggellata e per mio consiglio a vostro uso trascritta, consegnerete poi al cavaliere insieme con un mondo di riverenze a mio nome. Egli mi scrive una lunghissima lettera ortatoria al viaggio di Roma, mi assicura benevola e benefica la Santità Sua e, combinando le sue espressioni co' discorsi tenuti con esso voi, pare che intenda di parlare di transmigrazione totale, più tosto che di visita passeggiera. La lettera ha fisonomia d'essere stata dettata o almen commessa; e quando anche non fosse né l'uno né l'altro, la prudenza esige di ricordarsi, rispondendo, che potrebbe esserlo Con queste premesse e col di più che vi dirò intenderete meglio la mia risposta. Io, per dirvi il vero, son molto grato al desiderio che costì si mostra di me; ma non intendo come si pensi sulla facilità di trasportarmi. La prima difficoltà è ch'io non sono capace di piantar così senza motivo una padrona che mi ha sempre beneficato e distinto: e quando su questo punto il presente pontefice si accordasse con l'imperatrice, di cui si trova amico e corrispondente, mi darebbe egli l'equivalente di cinquemila annui fiorini in circa, che godo dalla beneficenza augustissima? Il Papa omnia potest, ma bisogna vedere si omnia vult: ed io so come si pensa sul Quirinale. È possibile che mi credano costì così poco onesto e così gocciolone da lasciare senza ragione una tal padrona ed un tal soldo sulle speranze delle beneficenze d'un pontefice octogenario? S'egli avesse veramente questa voglia, Papa omnia potest, e senza taccia dell'onor mio e senza mio danno di veruna fatta mi avrebbe, io credo, a' suoi piedi. Ma la volontà non è efficace quando si vuole appagare a spese altrui o non impiegare che la discreditata moneta delle belle speranze: onde, caro fratello, non correte al rumore. Io ho veramente voglia di riveder la patria e quel santo e buon vecchio, almeno per alcuni mesi: ma, avendo fatti i miei conti, trovo che il decoro ed i comodi che esigerebbe un tal mio viaggio, ne farebbe montar la spesa intorno ai seimila fiorini, somma alla quale costì non sarebbero indifferenti i più pingui purpurei padri: onde non è gran fatto ch'io ci pensi. E pure io v'assicuro che per me, anche nella mia limitatissima fortuna, non sarà questa la difficoltà che prevalerà fra quelle che differiranno il mio viaggio.

Come non vi siete irritato all'ingiuriosa miseria de' bassi canonicati che vi han proposti? Si può pensar più deplorabilmente?

Informato di questi sentimenti regolatevi a che confidenze, ma guardatevi di comunicar questa lettera. Bisogna essere un buon figlio come son io per non risentirsi contro una madre che mi offende più quando si ricorda di me che quando se ne dimentica. Addio. Io sono il vostro. Vi mando una lettera ostensibile che mostrarete invece di questa.

 

LXVII - A Ranieri Calzabuigi, Parigi

Frain I5 ottobre I754.

La gratissima vostra del 16 dello scorso settembre mi ha raggiunto fra queste campagne di Moravia, dove soglio impiegar l'autunno nelle provvisioni di salute che bisognano ad un italiano, per resister poi al prolisso inverno teutonico. Vi rimarrò ancora qualche giorno; e andrò poi a trincerarmi in Vienna contro il freddo, che ha incominciato pur troppo sollecitamente quest'anno a mandar precursori. Non trovo fondamento dell'eccessiva vostra riconoscenza; pur se questa traveggola giova a rendervi più mio, non intendo d'illuminarvi. La vostra prefazione non ha qui solamente il mio voto; io ne ho trovato altri, e d'un peso che bilancia quello della mia amicizia per voi, e quello del mio naturale amore per me medesimo. Voi non mi parlate di raddolcire alcun poco le espressioni, di cui vi valete contro i semidotti e francesi e italiani. Foste mai risoluto di lasciare ad esse tutta l'acrimonia della vostra per altro giustissima indignazione? No, amico, credetemi: chi irrita non persuade, anzi accresce avversari in vece di far proseliti; e il costringere a diventar seguaci i nemici è il più bello di tutti i trionfi.

I miei pareri che oggi non ho tempo di comunicarvi sull'unità del loco e sul coro avranno molto maggior forza come vostri che come miei, essendo io parte principale; onde, con pace della vostra delicatezza di coscienza, guardatevi di citarmi. La materia merita che non si passi leggermente, e particolarmente in Francia, dove al povero teatro (oltre il rischio che ha corso d'esser infamato ed oppresso dalla divota atra bile di Port-Royal) si è voluto addossare un rigorismo che non ha fondamento in alcun canone poetico d'antico maestro, a cui s'oppongono numerosi esempi di tragici e comici così greci come latini, e da cui è più visibilmente violata la legge del verisimile che dalla morale rilasciata. Non si trova né in Orazio né in Aristotile una parola sola intorno all'unità del luogo, e quando abbia a giudicarsi per induzione, non vedo perché dobbiamo creder giansenista intorno all'unità del luogo quell'Aristotile medesimo che intorno all'unità del tempo è arcipelagiano. Se dobbiamo regolarci con gli esempi, è facile di dimostrare che quasi tutte le tragedie o commedie greche e latine han bisogno di mutazione di scena, perché sia ragionevole il discorso degli attori. Cornelio ha osservata questa incontrastabile necessità nell'Aiace di Sofocle: io mi ricordo d'averla ritrovata nelle Nuvole d'Aristofane, nell'Ippolito e nell'Oreste d'Euripide ecc. E se io non fossi affatto privo di libri in questa campagna potrei accennarvi i luoghi e di queste e d'altre tragedie e commedie nelle quali è indispensabile o mutare scena o supporla mutata, o creder pazzo l'autore. Ma non più pedantismo per oggi. Il ritratto dicono che fa gran torto alle mie bellezze. Io sono incallito a queste detrazioni: anzi non mi dispiacciono le grida contro i difetti delle copie, come argomenti del contrario nell'originale. Il tutto insieme del rame incontra approvazione: e basta per il nostro bisogno.

Pensate a farmi capitare un esemplare della nuova edizione, subito che sia compiuta, ed a provvederne alcuno di questi nostri librari viennesi. Io sono intanto.

 

LXVIII - A Francesca Maria Torres Orzoni, Gorizia

Vienna 25 gennaio I755.

Divertimenti carnevaleschi, premure coniugali nelle affezioni d'un consorte, lettura di libri filosofici, direzione d'un dramma da rappresentarsi, cure inevitabili dell'ordinare una nuova abitazione, freddo da gelare i pensieri non che le dita, ed a dispetto di tanti ostacoli ricordarsi di me! Scrivermi una spiritosa obbligante lettera! e spiegare in essa tutte le grazie del vostro felice ingegno, son circostanze, riverita signora contessina, da far perder le staffe alla moderazione di Senocrate, di Zenone e d'Aristippo, non che a quella d'un poeta che sussiste d'imaginazione. Se l'avete fatto per divertirvi, Dio ve 'l perdoni: ma non saprei sospettarvi capace d'un disegno così peccaminoso: benché, a dir vero, la Teologia delle Belle abbia certe recondite sottigliezze che sfuggono la vista di noi altri profani. Comunque la cosa vada, io non voglio essere ingegnoso a mie spese. Le grazie che mi fate sono eccessive, io accetto di buona fede le buone feste e rendo per esse un pienissimo contraccambio di rispetto e di gratitudine, non sapendo con qual altra moneta corrispondere, dopo aver letto per latum et longam, ed esaminato tutto l'inventario delle corte mie minutissime facoltà.

Se la bella gioventù di Gorizia sta in moto, quella di Vienna non tiene le mani alla cintola. Si ride in due teatri alla francese ed alla tedesca: si salta comicamente nel ridotto; si balla all'eroica in Corte: si ammirano gl'incantesimi dell'armonia in casa del principe d'Hilburgshausen, che dà a questa nobiltà magnifici concerti e se ne preparano altri spirituali nel pubblico teatro per fomento della nostra divozione nell'imminente quaresima: onde se non ci mancasse la signora contessina, il Danubio avrebbe ben poco da invidiare al Lisonzo.

Io che sono un poco fabbricato di materiali sensibili come il mio caro signor tenente maresciallo, non posso in buona coscienza condannare in lui quello di che non so corregger me stesso. La perdita d'un amico non si ristora, particolarmente in certe stagioni: e quando non si possa evitare un eccesso, io preferisco la debolezza alla stupidità. Vi supplico d'abbracciarlo a mio nome, e dirgli ch'io lo compatisco e l'amo più che mai.

Tirerei innanzi, ma temo di farvi pentire d'essermi troppo cortese. Conservatevi, fate carezze al mio Re pastore: non filosofate più del bisogno: divertitevi, comandatemi e credetemi con costanza eguale al rispetto.

P.S. La signora contessa d'Althann mi commette di dirvi quantità di tenerezze a suo nome. Imaginatele.

 

LXIX - Ad Antonio Tolomeo Trivulzio, Milano

Vienna I7 febbraio I755.

Tutti i miei pensieri peccaminosi, veneratissimo Fracastoro, nel corso del passato carnevale si sono ridotti alla replicata lettura dell'ultima vostra affettuosissima lettera: questa mi ha fatto ritrovare nella costanza del tenero amor vostro una eccessiva compiacenza di me medesimo, che ne sono l'oggetto, e non mi sento ancora disposizioni interne alla risipiscenza. Spero che in virtù del vostro esemplar ritiro, che m'accennate, vi conoscerete in obbligo di moderare l'espressioni seduttrici della mia modestia: onde io non trovi ostacoli così insuperabili a santificarmi in questi giorni di penitenza.

Qui noi per fomento della nostra divozione abbiamo tre volte per settimana concerti spirituali nel pubblico teatro vicino alla Corte. Vi si ascoltano con prudente alternativa arie e cantate sacre o morali: Oratorii, Salmi volgarizzati, Cori, Madrigali, Sinfonie, Capricci, e quanto di elegante han saputo imaginare i santi padri dell'armonia. Si fan venire dai quattro cardini della terra i cantori e le sirene le più atte ad insinuar nell'anime per mezzo delle incantatrici loro voci le massime della più soda e rigorosa pietà. Gratz ci ha già mandata la signora Rosa Costa soprana d'una maturità superiore ad ogni pericolo: Monaco un giovane tenore chiamato Bartolotti: Praga un di quei martiri, qui se castraverunt ma non propter regnum coelorum, il quale ha nome Tenducci, e si fa chiamar Senesino: Venezia ci fa sospirare la signora Cochetta, astro novello del ciel musicale, spuntato per la prima volta sull'emisfero adriatico e concesso per breve tempo ai voti della supplice Germania, bisognosa d'illuminarsi. Il campo poi di battaglia ostenta tutto il fasto della magnificenza e tutta la delicatezza del buon gusto; la numerosa orchestra ed i molti cantori che servono ne' cori sono elevati sul palco in ben disposte scalinate, e circondati da una scena d'ottima architettura: le logge all'intorno sono tutte esteriormente illuminate: pendono dal soffitto sui popoli spettatori quantità di lampadari di cristallo tutti ricchissimi di candele: e la platea divisa in tre piani a guisa d'una artificiosa cascata d'acqua si abbassa per intervalli fino alle radici del nostro Parnaso. Nel piano più depresso si raccolgono i malenconici ed i dilettanti: in quello di mezzo le dame ed i cavalieri, che per fuggir l'ozio e le lubriche occasioni si sacrificano pazientemente a qualche innocente cometa, o a qualche divoto picchetto, e nel più lontano e sollevato i curiosi di prospettiva. La modestia incanta, il concorso edifica ed il frutto che se ne spera ci rende superbi dell'invenzione.

Ma la materia mi ha sedotto: ho riempito il foglio senza dirvi la metà di quello che m'era proposto. Vi risparmio per oggi, e mi restringo ad incaricarvi delle mie riverenze per l'impareggiabile figlia; de' miei abbracci per il generale, e delle mie tenere proteste di rispetto per voi.

 

LXX - A Giovanni Adolfo Hasse, Dresda

Vienna 22 febbraio I759.

Corrisponde perfettamente, caro e degnissimo amico, all'idea che ho da tanto tempo formata dell'amabile vostro, non meno che stimabile carattere, l'affettuosa attenzione con cui secondate la mia impazienza d'essere a parte d'ogni nuovo frutto che sia prodotto nel vostro felice terreno. Il prezioso dono delle arie dell'Ezio mi è caro per il suo valore intrinseco, e carissimo per l'amicizia che ha suggerita questa cura: cura che ha resistito agli accessi tormentosi fra i quali con esplicabile mia pena sento che vi ritrovate. Che farò io per voi, amico impareggiabile? Se voi che avete scoperta tanta terra incognita nel vastissimo Oceano armonico, sapeste accennarmene alcuna nell'angusto recinto della mia limitata facoltà, non la nascondete alla impaziente mia riconoscenza, stanca di non potersi palesar mai che in confessioni e proteste. Ho avidamente scorse tre o quattro volte le arie mandatemi, ed a dispetto della crassa ignoranza del musico mi hanno incantato. La brevità, l'espressione il giudizio ed il sapere dello scrittore mi pare che in queste sia anche più in mostra del solito. Faranno queste lungo tempo la mia delizia: perché ogni volta che ritorno a considerare un'opera vostra, m'incontro in qualche nuova bellezza che mi era da prima sfuggita, e mi paga generosamente la replicata applicazione. La serenissima arciduchessa Marianna mi assedia per aver queste benedette arie e sono obbligato a mandarle ad una ad una secondo che le termina il copista, disperando della sua pazienza per attenderle tutte insieme.

Addio, caro amico: datemi presto migliori nuove del vostro stato: se le mie orazioni fossero esaudite la vostra podagra annoderebbe gli articoli di duecento persecutori delle nostre povere orecchie, e lascerebbe in pace chi le consola. Mille innocenti abbracci alla gentil consorte ed altrettanti al nostro Migliavacca senza condizioni moderatorie. Voi conservatevi gelosamente e costantemente credetemi.

 

LXXI - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 3I luglio I755.

Sicché dunque, come vi accennai nella mia antecedente, ho più voglia che bisogno di darvi una commissione, ma figuratevi il bisogno ancora, perché non manchi anche questo stimolo alla vostra diligenza. Io vorrei che mi provedeste d'un paio di casse, ciò è di un paio di barili, di perfetto e delizioso Genzano. Per Genzano non intendo quello che nelle osterie di Roma usurpa tal nome, ma quello più esquisito che nasce sulle dilette a Bacco collinette del felice paese che Genzano si chiama. Lo dimando delizioso, ciò è d'un sapor dolce amabile, ma non melato; che sia piccante, che zampilli, che vi si senta la violetta e non gli manchi la qualità di spiritoso. Il vino aspro o quello che costì si chiama asciutto è per mio avviso della categoria delle bevande infernali destinate alle Eumenidi, secondo la decisione del Redi. Voi sapete costì meglio di me le miniere dove rinvenir vino della perfezione ch'io bramerei: e se lo ignorate non vi sarà difficile di provedervi di esperto e fedel piloto. Il prezzo non vi trattenga; sarà sempre esorbitante se la merce è cattiva. E se sarà buona mi parrà sempre leggiero. Trovato il vino, convien farlo mettere in fiaschi, e questi sigillar passando il filo o cordoncino che annoda strettamente il collo, sotto la cera di Spagna; bisogna persona pratichissima per collocar destramente i fiaschi nelle due casse, affinché non possano scomporsi nel lungo tragitto, e replicar sulle casse già chiuse il sigillo interiore, per render quanto si possa difficile l'uso del santo Battesimo. La direzione deve esser fatta a caratteri indelebili sulla tavola così:

A Monsieur Mons.r l'Abbé Metastasio

Bisogna che il signor Argenvillières o altri vi proveda d'un onorato corrispondente in Ancona al quale invierete le casse con la condotta per terra, commettendo a lui d'incamminarle per mare a Trieste con la più pronta e più sicura occasione e raccomandarle colà alli signori Rocci e Balletti, che avran cura di farmele condurre in Vienna. Sino a Trieste debbono venire franche di porto: e di tutto il denaro che vi bisogna, fate che vi fornisca a conto mio il nostro signor d'Argenvillières che divotamente riverisco ed abbraccio. Adagio. Or mi sovviene che le casse dovranno essere imballate, ciò è ravvolte in paglia e canavaccio. Onde la direzione dovrà esser dipinta non sulle tavole delle casse ma sopra l'imballatura. Item avvertite di non spedire il vino da Roma in tempo troppo caldo, perché io ho bisogno di vino non d'aceto: credo che nel settembre si possano sperare giornate temperate. Ma di questo non decido: regolatevi come prudente padre di famiglia. Item benché le bottiglie di vino francese o di qualunque lontana regione vengano senza olio, credo che bisognerà metterne nei nostri fiaschi perché essendo di vetro più sottile e più fragile non soffrono lo sforzo col quale si turano le bottiglie; onde l'aria vi trova passaggio. Item... Domine finiscila. Addio.

 

LXXII - Ad Antonio Bernacchi, Bologna

Vienna I5 settembre I755.

Quando non avesse altro merito il signor Carlani che quello d'avermi procurata una testimonianza della memoria e della parzialità del mio caro signor Bernacchi, sarebbe già in diritto di pretendere tutte le mie premure per lui. Ora immaginate, caro amico, quali saranno per una persona che voi avete formata, che amate, che approvate e che raccomandate? Io spero che il suo merito non vi farà conoscere la mia insufficienza; per altro permettetemi che così in passando io vi avverta che la mia facoltà resta molto al di sotto del buon volere. Intanto per vostra consolazione vaglia quella che ho provata io nel veder già due volte e la stima e l'applauso comune col quale è stato accolto e ascoltato in queste nostre accademie il vostro raccomandato, a cui la qualità di vostro scolare (che io ho avuto gran cura di pubblicare) non ha servito di picciolo sostegno.

Voi deplorate saviamente lo stato lagrimevole della nostra musica, o per dir meglio de' nostri musici, per non addossare alle arti i peccati degli artisti; ma io, in virtù di quella tintura di profezia che non si nega ai poeti, vi predico che la risipiscenza è vicina, appunto perché l'errore non può andar più innanzi, perché tutte le cose umane sono soggette a cambiamento, e perché ogni cambiamento sarà guadagno. Già la giustizia del pubblico punisce sensibilmente i nostri cantori, avendoli ridotti al vergognoso impiego di servir d'intermezzo a' ballerini, e con somma ragione; poiché avendo rinunziato i musici all'espressione degli affetti, non grattano più che l'orecchio; e i ballerini per l'opposto avendo incominciato a rappresentarli, procurano d'insinuarsi nel cuore.

Intanto che si faccia questa crisi conservatevi voi, caro amico, per guida e modello de' penitenti, e rendete amore alla perfetta affettuosa stima del vostro.

 

LXXII - A Francesco Algarotti, Venezia

Vienna 9 febbraio I756.

Una vostra lettera, un vostro libro e le felici notizie del vostro presente stato, delle quali io era avidissimo, son benefizi de' quali rimarrò sempre debitore al nostro signor Paona, a cui per isfogo di gratitudine ho offerto quanto io vaglio, augurandogli la difficile scoperta di trovarmi pur utile a qualche cosa.

Ho letto il vostro Saggio; vi ci ho trovato dentro, l'ho tornato a leggere, per essere di nuovo con esso voi; da cui non vorrei mai separarmi. Io che mi risento più d'ogni altro degli abusi del nostro teatro di musica, più d'ogni altro vi son tenuto del coraggio col quale ne intraprendete la cura. Ma, amico soavissimo, la provincia è assai dura. Queste parti dell'opera, che non abbisognano che d'occhi e d'orecchi negli spettatori per farne proseliti, raccorran sempre maggior numero di voti che le altre, delle quali non può misurare il merito che l'intelligenza e il raziocinio. Tutti vedono, tutti odono, ma non tutti intendono, e non tutti ragionano. È vero che quando le prime e le seconde parti coniurant amice, anche lo spettatore grossolano sente senza intendere un maggiore piacere: ma è vero altresì che la difficoltà e la rarità di tale accordo obbliga, per così dire, i teatri da guadagno a fidarsi più di quelle arti delle quali son giudici tutti, e queste poi sciolte da ceppi d'ogni relazione e convenienza, ostentano in piena libertà senza cura di luogo o di tempo tutte le loro meraviglie, e seducono il popolo col piacere che prestano dal desiderio del maggiore, di cui lo defraudano. Ma questa lettera diverrebbe facilmente una cicalata, per poco ch'io secondassi la mia propensione.

Il conte di Canale vi abbraccia e vi ringrazia. La degnissima contessa d'Althann fu già l'anno che ci abbandonò per sempre: e la mia ferita non è ancora in istato d'esser trattata senza esacerbazione. Conservatevi all'onore delle lettere ed al vostro.

 

 LXXIV - A Giovanni Ambrogio Migliavacca, Dresda

Vienna I maggio I756.

Finalmente con la venuta del signor Belli ho pur ricevute nuove di voi. Io n'era tanto sollecito quanto digiuno da un secolo in qua, e mi rendea men tollerabile il vostro silenzio il non potervi scusare con la distrazione di qualche lungo viaggio in Parnaso: non essendo pervenuta alla notizia mia che ne abbiate intrapreso alcuno frattanto. Ringrazio Iddio che vi abbia ispirato di preferir cotesta dimora quando foste per eleggere fra Dresda e Lisbona. Se per avventura vi foste dichiarato per l'ultima, si sarebbe troppo risentito il mio erario nel dispendio de' suffragi che avrei procurati all'anima vostra. Chi non v'avrebbe creduto là stritolato da qualche rovina, o assorbito da qualche voragine? Ma dacché siete pur vivo, e vi ricordate di me, io dono alla consolazione che ne provo tutto il risentimento che meriterebbe la vostra sonnolenza.

Caro Migliavacca, detto così fra noi, io ho pochissimo concetto di cotesti vostri stampatori. L'edizioni di cui fin'ora si vantano non escono punto dall'ordinario: e non sono atte a solleticar la mia vanità. La povera carta impalpabile, i minuti caratteri, le forme economiche, ed il mendicato fasto de' miseri ornamenti non lasciano sperar prudentemente eleganza e magnificenza da loro. Non riconoscete voi stesso le influenze della lesina nel loro progetto medesimo? Lasciate il decente margine ad una pagina dell'ottavo e ditemi di qual rame può esser capace se non se d'un paesino di tabacchiera? Ma concludiamo.

Una edizione che poco o nulla si distingua dalle innumerabili che pur troppo vi sono delle opere mie, non esigerà certamente la cura mia. Quando se ne intraprenda una che possa tentarmi, io manderò un esemplare di Parigi da me attentamente corretto. Darò la mia Poetica d'Orazio, e conserverò per questa edizione ciò che andrò frattanto per avventura scrivendo: consiglierò su quanto sarà richiesto, e presterò finalmente all'impresa tutta quella mano che per me si possa, senza esigere da chi l'intraprende il minimo contraccambio. Conosco anch'io che una ristampa di tal sorte richiede dispendio considerabile: ed io non spero né consiglio che alcuno abbia questo coraggio. Parmi però senza allucinamento d'amor proprio, che mercé l'universalità della nostra musica, abbia questo libro il vantaggio d'esser di qualche uso a tutte le nazioni, e però meno incerto d'ogn'altro di raccoglier associati in ogni angolo della terra dove sia conosciuto il nostro teatro. Ma questi conti s'han da far dal libraio e non da noi.

Addio, conservatevi, riamatemi e credetemi.

 

LXXV - Al Cardinale Camillo Paolucci, Roma

Vienna 8 novembre I756.

Al veneratissimo foglio dello scorso mese, che si degnò l'Eminenza Vostra inviarmi dalla sua villeggiatura d'Albano, desidererei poter corrispondere con contraccambio di notizie, siccome lo faccio di ringraziamenti per quelle che da esso, mercé la sua generosa compiacenza, ho raccolte. Ma l'inaspettata e frettolosa ritirata delle due armate prussiane da tutto il regno di Boemia, e la malvagia stagione, che incominciando ad imperversare rende difficili e dannose le operazioni militari, non solo ci defrauda per ora i desiderati progressi, ma ci fa prevedere che la prudente cura di conservare intanto le nostre forze illese alla sollecita apertura della futura campagna ci obbligherà di ridurre le nostre armate in una specie di accantonamento che vaglia loro di quartiere d'inverno. Ed in fatti (benché non se ne sappia positivamente il motivo) attribuisce il pubblico a questo oggetto la venuta del conte Lucchesi, che dal campo di Bodin si è trasportato già son tre giorni in Vienna. La tanto lodevole quanto (ma non per sua colpa) inutile spedizione del maresciallo Browne per liberare i Sassoni, la svantaggiosa capitolazione di questa partenza del re di Polonia per Varsavia, i piccioli vantaggi conseguiti da' nostri nella ritirata de' nemici, la partenza delle truppe austriache da' Paesi Bassi, e tutti i manifesti pubblicati dalle due parti, sono nuove troppo viete per annoiarne fuor di tempo l'Eminenza Vostra. Il sicuro intanto è che l'augustissima padrona avrà fra poche settimane in Boemia centoquaranta e più mila combattenti, tutti suoi. La casa d'Austria non è mai stata così formidabile. Le pubbliche speranze de' buoni son ben fondate. Le bacio la sacra porpora e sono.

 

LXXVI - A Carlo Broschi, detto Farinello, Madrid

Vienna 8 dicembre I756.

Rispondo a due vostre lettere, le quali, benché scritte l'una dopo l'altra con la distanza d'un mese, essendo l'una del 18 ottobre e l'altra del 17 novembre, pure son giunte a me quasi nel tempo medesimo, non so se per soverchia pigrizia della prima, o per straordinaria diligenza della seconda. Comunque la cosa vada eccomi a darvi conto delle vostre commissioni.

In proposito del duetto vi dico che voi siete troppo compiacente a voler secondare tutti i capricci de' nostri cantori: io che non son di molte miglia così buono come voi siete, da che ho cominciato a scrivere poesia per musica ho chiusa e inchiodata, anzi murata la porta de' cambiamenti di parole. Si starebbe freschi se ogni grillo di una ninfa teatrale, d'un Adone boschereccio, o d'uno stitico maestro di cappella dovesse decidere del merito della poesia, e fare comporre le parti d'un edificio, come se fossero fatte a vite! Voi che vi trovate in questi malanni, ditemi se non vi par necessario di metter qualche freno all'enorme libertà di questa gente. Non crediate gemello amatissimo, che tutta questa predica sia poca voglia di lavorare o di compiacervi: per liberarvi da simile tentazione vi accludo il duetto cambiato non solo in una, ma in due maniere: non v'è cosa che non mi piaccia, quando piace al mio caro gemello: ma è bene di scuotere un poco la vostra soverchia bontà, affinché non sia sempre la vittima dell'incontentabilità degli stravaganti. Se vi avessero detto qual era la ragione che faccia desiderar mutazione nel duetto avrei procurato di adattarmi al desiderio altrui; ma così alla cieca conviene indovinare, ed io son ben mediocre poeta, ma niente affatto profeta. Nella seconda vostra lettera mi dite che ora non vogliono più duetto: fiat lux?, faccia lui, dice Arlecchino. Intanto il cielo vi dia pazienza. Benché a quel che vedo ne siete provveduto al par di Giobbe e di santo Ilarione.

Finalmente il nostro tanto amabile quanto degno monsignor Migazzi giunse già sono alcuni giorni in Vienna ed al primo incontro abbiam creduto di soffocarci a vicenda fra i nostri e gli abbracci di vostra commissione. Io ho fatto gran prova della sua pazienza esercitandola con le sollecite, numerose e minute richieste e della vostra salute, e del vostro tenor di vita, e della vostra amicizia per me, e della pubblica approvazione che avete saputo meritarvi: egli è giunto a dirmi che, consapevole della vostra eroica condotta in circostanze così seduttrici, non avrebbe difficoltà di canonizzarvi senza processo. Figuratevi se si può trovar musica più soave d'un tal discorso per le orecchie del vostro fedelissimo e tenero gemello. Il Ciel vi conservi e vi benedica, amen.

In questo momento vengono a dirmi che l'augustissima padrona si è sgravata felicemente d'un picciolo arciduca. Te Deum laudamus. Spero che la Provvidenza che ne ha visibilmente cura la farà sgravar con la stessa felicità dell'altra sua gravidanza. Il battesimo sarà alle ore 7 di questo dopo pranzo, e il nuovo pellegrino di questo mondo si nominerà Massimiliano. Questo si chiama esser consorte obbligante presentare al suo sposo un figlio maschio nel di lui giorno di nascita. Ma che cosa non fa ammirabilmente Maria Teresa la grande? Io scrivo all'armonia delle grida di gioia del popolo che già corre in folla verso la Corte. L'opera che si rappresenterà questa sera nel pubblico teatro avrà certamente applauso: che cosa potrebbe dispiacere in questo giorno? Il libro è il mio Re pastore, la musica è del Gluck maestro di cappella boemo, a cui la vivacità, lo strepito e la stravaganza ha servito di merito in più d'un teatro d'Europa appresso quelli ch'io compatisco, e che non fanno il minor numero de' viventi: e lode al Cielo qui non ne abbiamo penuria. La prima donna è la signora Caterina Gabrielli romana: giovane che non ha certamente l'eguale per l'eccellenza della voce, del gusto e dell'azione. (Avvertite per parentesi ch'io non ne son punto invaghito). I1 nostro monsieur Laugier, quando la prima volta l'intese, proruppe in espressioni inudite di compiacenza e di meraviglia, e non le fece grazia, ma pura giustizia. Il primo soprano è il signor Mazzanti, gran suonatore di violino in falsetto; non mancherà d'ammiratori, perché abbiamo palati per tutte le salse. Io quando sento cantare non son contento di stupir solamente, ma voglio che il cuore entri a parte de' profitti dell'orecchie. Ma questa è una scienza conceduta a pochi: e la natura non fa frequentemente lo sforzo di produr Farinelli. Gli altri cantanti della nostra opera figurateveli come vi piace per abbreviar la relazione.

Mi piace che stimiate il nostro degnissimo signor conte di Rosenberg: in questo articolo non ho fondamenti per osar d'emularlo: ma in quanto all'amore io pretendo di sostenere i miei diritti d'anzianità, e non intendo burle. Per poco che mi facciate infedeltà avrete addosso una satira in lode, nella quale avrà la sua parte il mio rivale. Nell'atto di riverirlo e abbracciarlo a mio nome, intonategli questa antifona.

Informerò Sua Eccellenza la signora marescialla Vasquez della vostra gentil prontezza in secondar le sue premure. Ella è la più discreta dama ch'io conosca, e non misura certamente dall'esito ciò che si fa per lei. Onde siate sicuro della sua gratitudine in qualunque evento.

Barbaro gemello! Voi mi vorreste gravido un'altra volta! Dopo tanti parti credete che non si perda la voglia di partorire? Contate per niente i dolori, le nausee della gravidanza, il timore di far qualche maledetto aborto? L'apprensione del grado e della penetrazione de' semidei per i quali si dee partorire? Io son così beneficato che non ho coraggio di ricusare: ma apprendo tanto l'impresa che non ardisco abbracciarla.

Non ti minaccio sdegno,

non ti prometto amor:

non prendo ancor l'impegno,

non lo ricuso ancor.

Addio, gemello adorabile. Io sono il vostro.

 

LXXVII - A Giovanni Adolfo Hasse, Venezia

Vienna 26 marzo I757.

Mi avrebbe il vostro silenzio, amico impareggiabile, ripieno il capo di mille dubbi malenconici, se l'esempio d'altre persone che partendo da Dresda a questa volta sono state obbligate a tener altro cammino di quello di Praga non mi avesse fatto indovinare il vostro caso, e le incomode conseguenze che doveano a buona equità rendervi esente per qualche tempo dalle formalità dell'amicizia, e particolarmente meco, che non aspetto dalle vostre lettere la sicurezza d'aver sempre cara ed onorata parte nel vostro cuore, non che nella vostra memoria. Mi ha per altro trafitto questo raffinamento di disgrazia, che mi ha defraudato del piacere d'abbracciarvi, ch'era l'unica per me aggradevole conseguenza della presente vostra situazione.

Mancava l'indisposizione della povera signora Faustina, per aggravar l'esercizio della vostra e della sua pazienza? Pur troppo è vero "che non comincia fortuna mai per poco". E pure a dispetto di lei, io trovo di che congratularmi con esso voi a vista della rassegnazione e della costanza con la quale mostrate la fronte a questa tempesta. Ed io non posso dubitare che non ne abbiate a ritrarre e grande e sollecita ricompensa.

Che volete, caro amico, ch'io vi scriva di Dresda? Appunto con esso voi, più che con alcun altro vivente, è difficile il commercio agli abitanti di quella desolata città. Un corriere di Napoli che passa di ritorno da Sassonia, dopo aver fatto un giro lunghissimo, racconta qui miserie e violenze incredibili. La Fagianeria è distrutta, ed insieme con le cacce vicine è divenuta linea di circonvallazione. Un vasto real magazzino di vini è stato sigillato dagli esecutori prussiani. Si è rifatta la moneta con peggioramento di trenta tre per cento Si prendon genti a forza per le case, dalle botteghe, dalle carrozze medesime a vista de' loro padroni. E la regina di Polonia non vacilla un istante dalla risoluzione presa di rimaner spettatrice di così lunga tragedia. La costanza è reale ma converrebbe esser meglio informato ch'io non sono dell'oggetto che si propone per poterne fare il panegirico giustamente.

Mi furono confidati dal Belli otto vostri divini solfeggi, ne' quali si conosce perfettamente il gran Maestro. Mi vien supposto elle debbano esser dodici, ed io sospiro i quattro che mi mancano. Se vi sono e non avete difficoltà di farmene parte vi supplico di farmeli copiare in grande ed indirizzarmeli con la condotta ordinaria, non già per la posta. Vi mando nota di quelli ch'io già tengo in mio potere per evitare la replica d'alcuno d'essi: non vi dimando scusa dell'importunità per non offendere la cortesia e l'amicizia vostra, comandatemi in contraccambio, e conservatevi a tempi migliori ch'io spero vicini.

Dite mille tenerezze per me all'amabile consorte ed alla cara famiglia, e credetemi.

 

LXXVIII - A Carlo Broschi, detto Farinello, Madrid

Vienna 5 maggio I757.

A dispetto d'una buona dose de' miei affetti isterici, d'una quantità di faccenduole noiose, e del rischio di seccarvi, io non ho potuto resistere alla compassione che ieri mi ha fatto il nostro povero Porpora, che venne a pregarmi di accompagnar con una mia la sua lettera che vi accludo. È cosa veramente da piangere, caro gemello, il vedere un uomo di quel merito nella sua professione ridotto alla positiva mancanza del pane quotidiano, dopo le note disgrazie della Sassonia donde egli ritraeva una certissima pensione, che bastava almeno a nutrirlo. Questi sono i soli casi ne' quali mi risento della mia limitata fortuna, non trovando preservativo in tutta la filosofia, che giunga a raddolcirmi il dolore di trovarmi inutile agl'infelici. Egli mi suppone che dalla munificenza e carità de' vostri pietosi sovrani sogliano darsi certe picciole pensioni a titolo di elemosine a persone bisognose, non so se applicate a benefici ecclesiastici, o a qual altro fondo, e mi prega di raccomandarlo alla vostra intercessione perché egli potesse ottenerne una che bastasse a parcamente sussistere, che non vuol dir molto. Egli si spiegherà meglio nella sua lettera, ch'io non ho letta, ed il raccomandarlo al mio gemello è far torto al suo bel cuore, di cui ha date e dà giornalmente numerose ed onorate pruove. Ogni ragione ci obbliga a soccorrere il povero Porpora. Egli è uomo distinto, egli è amico, egli è vecchio, e non bisogna molto per evitar ch'ei perisca. Fatelo se potete, carissimo gemello: il vostro beneficio cadrà in persona nota a tutta l'Europa, e accrescerà il giusto credito nel quale è salita la fama del vostro generoso, benefico, adorabile carattere: ed io vi sarò personalmente tenuto di avermi liberato d'essere spettatore del naufragio d'un uomo che abbiamo incominciato a stimare fin dalla nostra più tenera gioventù. Addio, caro gemello; conservatevi, riamatemi e fate quello che vi consiglierà il vostro core medesimo. Addio.

Se mai il demonio vi facesse sovvenire di qualche irregolarità nel costume di Porpora, pensate che le infermità dell'animo non meritano minor compassione di quelle del corpo: e che quando ancor il Porpora non meritasse d'esser beneficato, merita Farinello d'esser benefattore. Addio.

 

LXXIX - A Carlo Broschi, detto Farinello, Madrid

Vienna 22 ottobre I757.

Oh che tabacco! oh che nettare di Giove! oh che delicata, oh che lussuriosa droga! Finalmente avanti ieri (e non prima) giunse la sospirata cassetta dopo mille inciampi, ritegni ed errori più strani di quelli di Ulisse. E pure è giunta in ottimo stato, senza aver sofferta la minima alterazione in così lungo viaggio. Appena ricevuta il mio naso impaziente ne fece il saggio: trovai tre specie di tabacco tutte ottime: ma quello de' due vasi sopra i quali era scritto habana lascia indietro le altre due sorti quanto il mio gemello ha lasciato indietro qualunque eroe dell'armonica famiglia. In questi due giorni tutti i nasi intelligenti del paese l'hanno ammirato e invidiato: ed io ingrasso nella vanagloria che tutte le tabacchiere più superbe della città cedono senza contrasto alla mia. E come non v'è talpa che non sia pienamente informata della nostra gemellaggine, quando nelle compagnie la mia habana va in giro, sento un dolce mormorio, che ripetendo il caro nome del mio gemello ne esalta il fino discernimento non meno nelle grandi che nelle picciole cose. Figuratevi il mio gradimento, e s'io posso non esser vostro, avendomi voi preso così bene per il naso.

Quando voi mi ridimandaste le lettere della signora Parigi, tremai d'aver fatta la balordaggine di bruciarle: poiché per evitar la confusione io soglio condannare al fuoco tutte le lettere alle quali ho risposto, quando non racchiudano affare pendente. Ma, lode al Cielo, le avea conservate, le ho rinvenute, e ve le rimando. Pure non posso, caro gemello, trattenermi di dirvi che voi siete troppo buon cristiano: e che date troppo peso alle follie delle nostre Ninfe tragicomiche, che non meritano se non riso: o al più compassione. Desidero che la nostra signora Gabrielli sia l'eccezione della regola. Ella mi commette di riverirvi: e protesta che voi sarete la sua Cinosura: ed ambisce e sospira che voi vogliate accettarla per vostra pupilla.

Non vi ho scritto da lungo tempo, parte per non seccarvi sul niente mentre vi sapevo occupatissimo, parte perché aspettavo di momento in momento il tabacco: e parte perché la mia pertinace flussione negli occhi (che si è umanizzata, ma non è finita ancora) mi avea reso molto penoso il leggere e lo scrivere. Ed è mia qualità invidiabile che quando un malanno mi si mette indosso non trova la strada d'abbandonarmi: vedete quanto è amabile la mia compagnia.

Le mie Muse più pettegole che mai appena vengono a vedermi, tirate per i capelli quando ho bisogno di loro per le mie serenissime padroncine, che tutte si son date alla musica. Per altro, s'io avess'incontrato un soggetto che mi solleticasse le farei venir malgrado loro per secondare lo golìo del mio gemello. Ma dopo aver tanto scritto, non è facile il trovare soggetto che non mi esponga ad incontrarmi con me medesimo. Nulla di meno voi mi state nel core: penso a voi; e quando vi dirò ti prometto amor sarà legge inviolabile. Intanto scusatemi delle picciole cose; esse costano quanto le grandi, perché il duro sta nell'invenzione e non nel numero de' versi: e poi non fanno lo stesso onore. Se volete metter le mie Muse di buon umore datemi nuove più allegre della vostra salute: considerate il mio naso come vostro schiavo per tutta l'eternità: e riamate il fedelissimo vostro gemello.

 

LXXX - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna I3 febbraio I758.

Dal freddo latino che voi esagerate nella vostra del 28 gennaio argomentate qual sia stato il teutonico che quest'anno ci ha corteggiati con ostinazione straordinaria. È ben vero che sotto la protezione di queste benefiche stufe e d'un mantello badiale di mia invenzione, e non abbandonando mai la mia se non per ricoverarmi in altra non meno tiepida abitazione, posso assicurar senza iperbole ch'io non son informato de' rigori dell'inverno se non se per la relazione, avendolo molto veduto e poco o nulla sentito. Da due giorni in qua i ghiacci e le nevi han cominciato improvvisamente a dileguarsi e tutto il paese è divenuto un pantano. Questo cangiamento, che annuncia la buona stagione, affretta i preparamenti bellicosi, fra' quali bollono queste agitate regioni. Non si veggono per le strade che soldati di nuova leva, bagagli, artiglierie, munizioni, ed altre gentilezze destinate alla distruzione del genere umano. Domine finiscila, diceva l'abate Manerici cadendo per le scale. Conserviamoci e speriam bene, avendone fondamenti assai solidi. Voi intanto riamatemi, abbiate cura di Barbara che cordialmente abbraccio, e credetemi...

 

LXXXI - A Carlo Goldoni, Venezia

Vienna II marzo I758.

Oh! che Dio vel perdoni, signor Carlo riveritissimo, l'avete pur fatta malgrado tutte le mie rimostranze! Quale spirito seduttore vi ha mai persuaso a dedicarmi il vostro grazioso ed erudito Terenzio? Voi con questo incenso a me così poco dovuto avete in primo luogo costretto un amico, che vi ama sommamente e vi stima, a riflettere sulle rincrescevoli cagioni per le quali ei sa di non meritarlo. In secondo luogo, con le tante e tanto belle cose che vi è piaciuto dir di me nell'eloquentissima epistola dedicatoria, avete fornita la malignità d'un apparente pretesto, onde chiamare contraccambio o restituzione la giustizia ch'io rendo a' felicissimi scritti vostri e a' vostri invidiabili talenti: e avete finalmente umiliata la mia eloquenza, che in risposta della gentile offerta che vi piacque farmi di questa dedica credeva avervi pienamente convinto che non mi conveniva, e persuaso di rimanervene. Tutti questi inconvenienti non crediate per altro, signor Goldoni stimatissimo, che possano rendermi ingrato: anzi nella sproporzione istessa del dono io trovo la più sicura prova dell'amicizia che ha potuto allucinarvi. Quanto più la traveggola è sensibile, tanto più dee la cagione esserne stata efficace: ed io compro volentieri una sì cara sicurezza con un poco di rossore di qualche onore usurpato.

Vi rendo vive e sincere grazie de' tre primi volumi del vostro nuovo Teatro, all'impressione del quale sarei già stato associato, se non l'avessi ignorato. Gli ho trascorsi tutti nel poco tempo che ne sono possessore, con quell'impaziente avidità che tutte inspirano le opere vostre. Ho ammirata la stupenda fecondità del vostro ingegno e l'invidiabile fluidità che mai non vi abbandona non meno nel verso che nella prosa, e gli rileggo ora a bell'agio per osservarne l'artifizio e le bellezze, delle quali mi avrà defraudato la involontaria fretta.

Conservatevi, gentilissimo signor Goldoni, al piacere ed all'approvazione del pubblico, e cercate in me (se vi dà l'animo) qualche a me stesso incognita facoltà onde realmente convincervi della riconoscenza, della stima e dell'affetto con cui sono.

 

LXXXII - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna I7 luglio I758.

Quod felix faustum fortunatumque sit. Eccovi provveduti di Pastore, e di Pastore tanto degno quanto inaspettato. Questa elezione qui è sommamente applaudita, per le qualità personali dell'eletto; e la circostanza d'esser egli Veneziano, e non avergli fatto ostacolo in tempo di dissensioni così vive e così ostinate fra la Santa Sede e quella Repubblica, fa grandissimo onore agli elettori ed a lui: a questo per il credito ch'essa suppone della sua integrità ed a quelli come prova incontrastabile della giustizia e moderazione delle loro intenzioni. Congratuliamocene insieme, e speriamo, anzi promettiamoci, un governo corrispondente alla pubblica espettazione.

Il re di Prussia continua la sollecita sua fuga, ed il marescial Daun la sua costante persecuzione. Secondo le ultime notizie il primo era entrato in Königsgratz, preceduto da Laudon in Opotschna, e seguìto da Daun a Pardowitz. Egli marcia strettamente unito per non perder gente fra le nostre truppe leggiere che lo circondano: onde non ha potuto incomodare il paese dilatandosi né a destra né a sinistra: ma quella striscia di terra, che serve quasi di letto a questo torrente, si risente lagrimevolmente della barbarie e del dispetto del nemico, che incendia, distrugge senza il minimo suo vantaggio, e fracassa tutto ciò che non è protetto della necessaria sua fretta. A dispetto del suo eccessivo riguardo, pur non si lascia di tratto in tratto di coglierlo. I giorni indietro il generale Lasci, e dopo di lui Laudon, gli han disfatti due reggimenti di cavalleria, presi carri stendardi, prigionieri, e cagionata una considerabile diserzione.

Sono entrati in Silesia fra Glogau e Volau 4.000 fra dragoni e cosacchi dell'armata russa comandata da Braune; se questa è la testa, il corpo non dee esser lontano. Il paese è tutto in costernazione e S. M. Borussa converrà che pensi anche a questo picciolo inconveniente. Addio; vale et me ama.

 

LXXXIII - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna I6 ottobre I758.

Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Daun.

Ieri sera 15 del corrente, giorno del glorioso nome della nostra adorabile immortale sovrana, alle ore 8 e mezza giunse a Schönbrunn nell'atto che si scioglieva l'appartamento, preceduto da quattro postiglioni, un ufficiale spedito a mezzodì del giorno antecedente 14 dall'impareggiabile maresciallo Daun con la notizia d'aver pienamente battuto il re di Prussia, presogli tutto il campo a Weissemberg e tutta l'artiglieria, che 8.000 Prussiani erano rimasti morti nel luogo della battaglia, il maresciallo Keith trovato fra questi, il principe Ferdinando di Prussia in dubbio che sia del medesimo numero: prigionieri, feriti o disertori a proporzione e fra' primi di questi personaggi molto distinti; che il re si era ritirato a Klein-Bautzen, che il general Tillier verrà qui con la strepitosa notizia e sue circostanze. Si cantò intanto ieri sera a Schönbrunn un Te Deum provisionale in rendimento di grazie alla Providenza protettrice; ma allo arrivo del generale Tillier si ripeterà in città solennemente. De' nostri non sappiamo ancora altri morti conosciuti che il colonnello del vecchio Lövenstein e gravemente feriti il giovane Braun ed il generale Ceskovitz. Il consenso di tutti gli intelligenti asserisce che l'augustissima Casa d'Austria non ha mai riportata vittoria più compiuta. Ditemi se vi pare che il nostro maresciallo Daun sappia far gala a Teresa la Grande, come ella merita.

Notate che Daun è stato l'assalitore, e che ha sorpreso Annibale. Addio. Non ho tempo per dilungarmi.



LXXXIV - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 28 maggio I759.

La stagione gravida di eventi strepitosi non vuole ancor partorire, onde questa mia risposta alla vostra del 12 del cadente non appagherà molto l'impaziente vostra curiosità. Mi assicurano che Contades è in marcia verso l'Hassia, che Broglio sia in campagna, che l'armata dell'Impero torni ad avanzar verso Bamberga e che il principe Enrico si ritiri. Per la parte della Silesia, persona di conto m'ha ieri asserito che oggi 28 di maggio 40.000 Russi debbono essere sull'Odera, con ordine di trincierarvisi sino a' denti ed aspettare il general Fermor che deve raggiungerli con altri 20.000 uomini e l'artiglieria grossa, cagione della lentezza delle sue marce. Ho veduto lettere del 23 corrente di generali dell'armata di Daun, che scrivono alle loro mogli che non sanno se in avvenire potranno essere così regolari nella corrispondenza: argomento di mossa imminente. Tutto questo non dice ancor nulla, ma io non ho altra merce onde contentarvi. Da una parolina che vi è sfuggita dalla penna sulle vicende lusitane, mi avveggo che voi siete ancora preoccupato de' pregiudizi del partito de' nostri maestri. Caro fratello, non giurate in verba magistri: argomentate su i fatti indubitati e rendete giustizia. La facoltà di ragionare è il più bel dono che ci ha fatto la Provvidenza e noi lo perdiamo, perché argomentiamo su principii che sempre abbiam creduti sicuri, senza averli mai esaminati. Oh di quante fandonie ho dovuto disingannarmi, che per lungo tempo ho venerate ciecamente in virtù dell'autorità magistrale! Addio. State sano. Io sono.

 

LXXXV - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 2 luglio I759.

Finalmente il dì 28 del caduto il nostro Daun ha mosso il suo campo e secondo le pubbliche voci si è incamminato alla sua sinistra verso la Lusazia. Siamo qui così allo scuro delle circostanze di questa mossa, che è impossibile di ragionarvi sopra. Io non vorrei sapere altro per mia quiete che se egli sia autore o esecutore del piano che intraprende. Ma fin ora né pur questo mi è noto. Per altro or che la macchina cammina, ci somministrerà materia di giorno in giorno onde far almanacchi più ragionati.

Dalla vostra carissima del 16 del passato, a cui rispondo, io veggo, caro fratello, che voi credete molto ghiotta la posterità di pascersi delle circostanze della vita d'un poeta. Perdono alla tenerezza fraterna un pregiudizio così grossolano: ma credetemi che il mondo appena è desideroso d'informarsi delle vicende di quegli uomini che per un concorso inesplicabile d'accidenti han fatto cambiar faccia a qualche considerabile porzione della terra. Mi solletica l'amor vostro, mi compiaccio della vostra gratitudine, ma sinceramente vorrei che la vostra eloquenza avesse provincia più felice: tanto più che la malignità degli uomini troverà plausibili ragioni di dubitar della verità delle vostre assertive nell'interesse fraterno. Farò per compiacervi un poco d'esame di coscienza, ed un giorno che i miei fiati mi lascino qualche porzione di pazienza disoccupata l'impiegherò nel foglietto che mi dimandate.

Intanto pensate a conservarvi, mentre io abbracciandovi con la sirocchia sono.

 

LXXXVI - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 22 ottobre I759.

Non so se la presente vi troverà più a Monte Porzio dove v'incamminavate il dì 3 corrente nell'atto di scrivermi l'ultima che da voi mi viene. Il bellissimo autunno che qui godiamo mi consola infinitamente con la speranza che costì sia ancor più bello e che voi possiate cavarne quel profitto ch'io vi desidero. Io sono stato ne' miei primi anni alcune volte a Monte Porzio, e, benché sempre per momenti e per sola occasione di passeggio, pur ne ritrovo le tracce nella mia memoria, onde ho presentemente il piacere d'accompagnarvi con l'imaginazione su per quella solenne salita, per le strade assai regolari ed alla non vasta ma ridente piazza di cotesto salubre ed ameno soggiorno. Mi figuro di esaltar con voi le belle vedute e la dominante situazione. Ed essendovi io sempre stato di questi giorni consacrati al buon padre Lieo, mi par di veder tutto il luogo ingombro di botti, di ceste e di bigonce, e mi vien quasi al naso l'odore delle vinacce e del mosto. Datemi presto conto del totale vostro ristabilimento, abbracciate per me la compagna che saviamente avete condotta con voi e credetemi con la solita tenerezza.

P.S. Mi recano in questo momento la carissima vostra del 6 del corrente data da Monte Porzio. Mi rallegro de' primi profitti e me ne prometto maggiori. Ostinatevi a starvi finché potete e ritornate a Roma pieno di salute e di buon umore.

 

LXXXVII - A Francesca Maria Torres Orzoni, Gorizia

Vienna I0 novembre I759.

La vostra lunghissimamente differita risposta all'ultima mia lettera mi ha fatto credere, riveritissima signora contessina, che voi, ritirata nella solitudine dell'amena vostra campagna ed occupata fra cure dimestiche e le profonde filosofiche meditazioni, vi foste proposta, se non una solenne separazione, almeno una parentesi dal commercio degli uomini: ed aspettavo con ansietà che stanca dell'ozio vostro ritornaste a noi poveri mortali. Impaziente per altro di trovar ragionevoli motivi per disturbar con qualche mia lettera la tranquilla vostra taciturnità, aspettavo, e mi promettevo con tutto il resto del mondo qualche glorioso militar successo che autorizzasse la mia indiscretezza a defraudar di qualche momento le vostre morali occupazioni con una mia gazzetta. E chi non l'avrebbe sperato? Armate floride provvedute e numerose: capitano per replicate esperienze maggiore d'ogni eccezione: nemico due volte solennemente sconfitto con sì poca effusione del nostro sangue: e pure eccoci all'inverno, e non si vede raccolto il minimo solido frutto di così vantaggiose circostanze.

Povera imperatrice! Povero Daun! Io mi perdo in questo inesplicabile enigma: e non solo non ne intendo le cagioni, ma procuro di scacciar da me come tentazioni diaboliche tutte le voglie che pur troppo mi sorprendono d'investigarle. Io vorrei essere in qualche nascondiglio della Nuova Zembla o del polo antartico, per non sentir nuove di guerra e per non tener sempre alla tortura il mio lume naturale offeso e strapazzato giornalmente dagli sciocchi ed impertinenti ragionamenti della maggior parte degli uomini, e specialmente di quelli che per l'età e per la professione guarniscono d'aria autorevole gli spropositi che suggeriscon loro mille private passioni. Adesso è tempo, riverita signora contessina, di applicarsi agli studi più seduttori e separarsi da tutti quelli che disturbano la buona formazione del chilo. Io son pieno d'ottima intenzione, ma inutilmente; certe occupazioni che potrebbero violentemente distrarmi non son più per me di stagione: ed un poco di commercio necessario alla natura umana qui non si trova se non che avvelenato dalla curiosità, dalle passioni e da' pregiudizi. Guardatevi, riverita signora contessina, da queste pesti, e continuate a riguardarmi colla solita bontà, credendomi sempre con l'antico inviolabile rispetto di Vostra Eccellenza, cui prego delle mie riverenze alla cara metà ed a cotesto eccellentissimo rappresentante.

Ieri una violenta febbre dell'arciduca Carlo si dichiarò vaiuolo: e si spera di buona qualità per la sollecitudine nel manifestarsi.

 

LXXXVIII - Ad Antonio Tolomeo Trivulzio, Milano

Vienna 30 dicembre I759.

Fra le pubbliche obbligazioni che abbiam tutti in comune al nostro invitto Daun io gli professo quella in particolare d'avermi procurata una gentilissima lettera del mio venerato Fracastoro: il di cui lungo ed ostinato silenzio mi faceva ondeggiar fra i dubbi, se fosse questo un sintoma podagrico, o se qualche mio fra tanti finalmente da lui scoperto demerito mi avesse intiepidita l'antica sua tenera propensione. Mi ha liberato il suo foglio da questo ultimo fastidiosissimo tarlo; ma mi ha all'incontro assicurato del primo con la rincrescevole descrizione degli insulti che soffrono tutte le sue membra fra le indiscretezze d'una pertinace flussione. Per sollevarmi da questa idea che mi opprime, rileggo la vivace sua lettera, e trovo in essa incontrastabili argomenti d'un animo vigoroso che non si risente ancora dell'incomodo alloggio in cui si trova; onde me ne congratulo seco e con me medesimo.

Come mai potete imaginarvi, veneratissimo Fracastoro, tanta temerità fra la gente di Vienna, che si proponga l'invasione di Berlino? Credete che qui non vi siano persone prudenti come a Milano? Le sole magistrali ritirate (delle quali ha voluto unicamente far pompa in queste due ultime campagne il nostro nemico) bastano per non lasciarci esposti a tali tentazioni. È vero che Daun ha avuta l'audacia di batterlo, di scacciarlo, di sorprenderlo, di far deporre le armi ad un suo esercito intiero: senza esserne stato mai né pure leggermente punito; ma qui entra l'assistenza del Cielo, ed il capriccio della fortuna. Per altro uomini gravi, perspicaci ed intesi di tutto (senza bisogno d'impararlo) hanno ben veduti, anche da lontano, gl'infiniti vantaggi che sono sfuggiti all'irresolutezza del nostro comandante presente ed informato, e che avrebbero potuto facilmente riportarsi contro quell'istesso nemico poco fa da loro sinceramente creduto ed autorevolmente predicato per invincibile —Invader Berlino! E dove siete voi, Fracastoro veneratissimo, così segregato dagli altri viventi, che non vedete qual nuova terribile scena apre presentemente il nostro nemico sul teatro di Sassonia? Una formidabile armata d'Hannoveriani avanza volando per Erfurt: una seconda dall'Alta Silesia con Foquet: una terza dalla bassa con Schmettau: una quarta dalla Pomerania con Manteiffel: oltre la grande che sostiene immobilmente il suo posto fra Meissen e Dresda.

Or che potrà fare il nostro povero Daun circondato da tutti i lati, angustiato dall'orrida stagione e dalla difficoltà delle sussistenze: coi Francesi titubanti al Meno ed i Moscoviti spettatori alla Vistola? Vogliono ch'io rifletta per consolarmi che un mese fa il maresciallo Daun aveva a fronte tanti nemici quanti ne avrà dopo tutti questi sforzi: che il nostro Laudon partito da qualche giorno per la Boemia fra 10 mila reclute già disciplinate che si trovano in Praga, qualche reggimento che potrà chiamar dai corpi di Moravia di Harrsch e da altri sparsi in vari luoghi procurerà d'accozzare insieme un'armatina al più capace di andar trattenendo il torrente: ma queste son cose da farsi: il nemico è pronto e risoluto, noi siamo tardi e dubbiosi, onde compatisco ma non imito chi trema.

Le gazzette ci facevano sperare che i re di Prussia e d'Inghilterra mossi a compassione delle pubbliche miserie fossero propensi a conceder la pace all'Europa. Ma i preliminari pubblicati dagli avvisi tedeschi stampati in Colonia ci spaventano. La Francia dee farle cessione di Capo Brettone e del Canadà: demolir Dunkerke, render Clèves e le appartenenze alla Prussia, senza far parola di compensi di spese, o di qualsivoglia pretensione: or pensate con questi preludi qual pace potrebbe aspettarsi. E voi volete l'invasione di Berlino. Imploriamo più tosto alcuno di quegli eventi che voi chiamate miracoli e non disperiamo tanto di conseguirlo.

Oh! quanto v'invidio la vicinanza del degnissimo signor conte Firmian: non bisogna meno che la considerazione dell'utilità pubblica per acquietarsi al nostro danno privato. Vi supplico di far presente alla sua memoria la mia vera divozione ed ossequio. Conservatevi voi gelosamente, e credetemi con l'antico tenero ed invariabile rispetto.

 

LXXXIX - A Daniele Florio, Udine

Vienna I3 febbraio I760.

Non ho trascurato per negligenza di rispondere all'ultimo gentilissimo foglio di V. S. illustrissima; ma le rare occasioni di ritrovarmi io con gli abitanti del vortice luminoso mi hanno obbligato a differir questo mio dovere sino ad aver sodisfatto all'altro di ubbidirla appresso il nostro degnissimo signor conte di Kevenüller. Ho trovato che avea già egli risposto a V. S. illustrissima, onde sapendo ella i di lui sentimenti originalmente, non mi resta su tal proposito se non se assicurarla che questo amabilissimo cavaliere parla di lei con espressioni di stima e di parzialità che provano ad evidenza il distinto pregio in cui egli tiene i colti di lei talenti e le tante altre invidiabili qualità che l'adornano. Contegno, per mio avviso, che onora moltissimo non meno il bel cuore che l'esquisito di lui giudizio.

Pare dalla sua lettera ch'ella non approvi il sistema di vita ch'io amo ed ho creduto necessario d'eleggere. Prima di deciderne perentoriamente, incominci V. S. illustrissima a considerare ch'ella è costì nella platea del teatro in cui io mi trovo: e che la sua situazione la defrauda della vista di tuttociò che succede sul palco e dietro le scene: onde che non può molto fidarsi della solidità di quei raziocini che han per fondamento un'illusione. Dopo di ciò metta in conto che il mio genio naturale, quanto mi ha dall'infanzia portato alla scelta e ristretta società, tanto mi ha reso all'incontro rincrescevole ed intolerabile lo strepito, il disordine ed il tumulto, nemico capitale delle Muse, fra le quali ho dovuto passare i miei giorni. Aggiunga a tutto questo che da' primi anni ch'io mi traspiantai in questo terreno fui convinto che la nostra poesia non vi alligna se non se quanto la musica la condisce o la rappresentazione l'interpreta: onde tutte le imagini pellegrine, le scelte espressioni, l'eleganza della locuzione, l'incanto dell'interna armonia de' nostri versi e qualunque lirica bellezza è qui comunemente sconosciuta, e per conseguenza non apprezzata se non che su la fede de' giudici stranieri. Quindi potrà V. S. illustrissima avere osservato che in trent'anni ormai di soggiorno non interrotto in questo paese io ho lasciato passare tutte le molte occorse strepitose occasioni senza scrivere mai né pure un verso lirico sopra di esse, toltone un unico sonetto sulla prima vittoria del maresciallo Daun, che non potei ricusare senza villania ad un espresso e capriccioso comando di chi credea obbligarmi con tal commissione. Il motivo di poter esser utile a' miei simili sarebbe il più violento per farmi cambiar sistema; ma non creda V. S. illustrissima che il diventar stromento efficace sia così agevole operazione. Io ignoro la maggior parte degl'ingredienti di questa ricetta: onde se non mi è riuscito di giovare altrui con le mie ciance canore, io temo che uscirò dal mondo senza aver adempito questo primo debito di chi nasce. Me ne consoli ella intanto con la continuazione della sua benevola padronanza, e mi creda sempre con rispetto eguale alla stima.

 

XC - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna I0 marzo I760.

Dalla gratissima vostra del 23 dello scorso febbraio comprendo che il vostro amor fraterno vi tiene tuttavia immerso nel lavoro istorico della mia vita: cura che mi consola eccessivamente nella considerazione della sua sorgente, ma che non lascia di tenermi sollecito e sospeso nel timore che a voi ne derivi la taccia d'una cieca parzialità ed a me quella d'una filauzia condannabile. Aggiungete a tutto ciò che il mondo non è persuaso che sia cosa lodevole l'aggravar la memoria degli uomini delle fanfaluche d'un povero privato, al quale la Provvidenza non ha commesso il ministero d'alcuna delle insigni sue beneficenze. Io, per non esser di mero peso alla società, ho procurato, è vero, a proporzione delle mie forze e del mio limitato sapere, di far servire tutte le veneri poetiche a render famigliare e caro al popolo il giusto e l'onesto; ma tutta questa mia dovuta cura di buon cittadino (oltre il dubbio del suo frutto) non è di quell'ordine che meriti luogo distinto fra le vicende comuni. Pensatevi seriamente, e siate persuaso che la sospensione del vostro lavoro non iscemerà punto in me quella grata tenerezza che il solo averlo intrapreso mi ha giustamente cagionato.

De' tre anni di cui mi richiedete non posso dirvi altro se non che cessarono affatto in essi gli studi miei poetici, che la giurisprudenza e i classici greci erano allora le mie prescritte occupazioni, oltre la pratica del vostro Foro ch'esercitai nello studio e sotto la direzione del defunto pontefice Lambertini allora avvocato concistoriale, siccome in una udienza (se mal non mi ricordo) egli stesso affettuosamente vi disse. Non vi son nuove guerriere, ma non ne saremo lungo tempo digiuni, se l'ispido inverno non si ostina ad usurpare i dritti della primavera. Addio. Abbracciate per me la sorella, conservatevi e credetemi.

 

XCI - A P. L. d'Ormont Buyrette de Belloy, Pietroburgo

Vienna 30 aprile I76I.

Non attribuite, gentilissimo signor de Belloy, a difetto d'attenzione e di stima la tardanza della mia risposta alla obbligante vostra lettera, e de' miei rendimenti di grazie per il cortese dono del vostro Tito. Le frequenti commissioni poetiche della nostra Corte, ricca d'adorabili principesse, tutte amatrici di musica, il dovere di leggere e rileggere più volte, prima di rispondere, il trasmesso dramma, e le impertinenti e non rare irregolarità di mia salute non mi lasciano l'agio ch'io vorrei per potermi abbandonare al genio e agli amici. Rapisco ora qualche momento alle mie poco utili, ma inevitabili distrazioni; stimolato più dal debito e dal rimorso che secondato dal comodo.

La necessità di servire al genio degli spettatori della vostra nazione avendovi obbligato a trattare il soggetto del Tito così diversamente da me, è pura gentilezza vostra il volermi attribuire qualche parte nel merito d'una tragedia divenuta originale. Sarebbero quasi tutti copisti i pittori, se convenisse questo nome a chiunque non è stato il primo ad esprimere co' suoi colori o la morte d'Abele o il sacrificio d'Abramo o altro qualunque avvenimento. I casi, gl'incontri e le passioni umane sono limitate, e rassomiglian fra loro come le nostre menti, le quali tanto più facilmente s'incontrano quanto più regolarmente pensano. E se il tempo o il genio pedantesco mi secondasse, vi addurrei una infinita serie di esempi de' più grandi antichi e moderni poeti, che la somiglianza delle occasioni ha obbligati a rassomigliarsi fra loro e ne' pensieri e nelle espressioni. Da questa verità procede parimente che io non merito l'altra lode che cortesemente mi date d'aver saputo con destro e mirabile artifizio rapire al vostro e adattare al teatro italiano le tragedie francesi: almeno io posso asserirvi candidamente che non me lo sono mai proposto. Provveduto con la lettura di tutta la merce teatrale di tutte le culte nazioni, ho sempre stabilito di scrivere originalmente cosa propria: e se la circoscritta condizione umana o la fedeltà della memoria, più tenace custode di quelle cose che ha ricevute con ammirazione e piacere, mi ha suggerito nelle occasioni analoghe il bello da me già letto, il più delle volte credendomene inventore, me ne sono di buona fede applaudito; e quando mi sono avveduto del contrario ho creduto che mi onorasse abbastanza il giudizio della scelta e dell'impiego de' preziosi materiali de' quali mi avean fornito le più illustri miniere; e mi sarei vergognato della mia debolezza se mi fossi indotto ad abbandonar l'ottimo per la puerile vanità di creare il diverso. Ma la digressione è già lunga per una lettera frettolosa: onde basta per oggi avere esercitata sin qui la vostra pazienza su tal proposito.

Vi dirò dunque che ho più volte attentamente letta e riletta la vostra tragedia, e sempre con eguale piacere. Effetto d'uno stile armonioso, nobile, chiaro, pieno di pensieri non comuni, e tale insomma che convincentemente dimostra quanto la natura vi ha favorito, e quanto la vostra applicazione l'ha felicemente secondata. Con un così ricco capitale io credo che non dobbiate cedere agli insulti capricciosi delle vicende teatrali. Voi non ignorate che le medesime tempeste hanno agitato in ogni secolo i primi lumi della poesia drammatica; ma il turbine passa, il merito dura, e il tempo rischiara e decide. Non è perciò ch'io non entri a parte del vostro giusto rammarico: m'impegna per voi la parzialità che professate per me, il pregio stimabile de' vostri talenti e la somiglianza del rischio in cui mi trovo, navigando lo stesso mare; ma vorrei che gli ostacoli (come avviene negli animi ben fatti) vi servissero di stimolo e non d'inciampo. In quanto alla condotta e all'economia della vostra tragedia, non mi resta che dire. Se io avessi creduto che altra fosse più atta a soddisfare il genio della mia nazione, l'avrei certamente anteposta a quella di cui ho fatto scelta; ond'è prova troppo chiara ch'io non ho veduto più oltre. Voi avete indubitatamente avuto lo stesso fine dilungandovi da me, cioè di lusingare il gusto francese. Io so che il vostro ingegno e la vostra esperienza teatrale vi debbono aver reso abile a questo giudizio; ma sarei troppo temerario se, ignaro de' costumi, degli abusi e della maniera di pensare de' vostri popoli, io ardissi di proporre il mio.

È falsissimo che un giovane ufficiale tedesco mi abbia fatto vedere o mandato come suo lavoro l'abbozzo del vostro Tito. Io non conosco alcun militare di questa nazione che scriva versi francesi; onde vi hanno ingannato o per errore o per malizia quelli che vi hanno turbato con simil favola. Non vi lasciate dunque adombrare da fantasmi insussistenti, ma continuate coraggiosamente a far uso de' vostri talenti e del solido e nobile stile che vi siete formato: aggiungete ornamenti al Parnaso francese, e raccogliete que' lauri ch'io vi presagisco e vi desidero nell'atto di protestarmi.

 

XCII - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 3 luglio I76I.

Il caso del povero cardinal Passionei, di cui mi date notizia nella vostra del 20 del cadente, mi fa compassione ma non maraviglia. Tutto il tenore della sua vita e il procelloso suo carattere non presagiva più tranquilla catastrofe. Desidero che le sue premure per Palafox siano state zelo di giustizia, e non tocca a me l'andarne investigando le sorgenti; ma in quanto alla proibizione del nuovo catechismo, il numero di cinque soli cardinali contraddicenti non può farmi dubitare un momento che non sia prudentissima. Né so immaginare che esistendo il catechismo romano, ricevuto da tutti i cattolici, si possa utilmente andar pubblicando altri catechismi, ne' quali, anche innocentemente, è facilissimo che scorrano espressioni che siano o possano torcersi a favore di quelle opinioni che sovvertono l'unità della chiesa cattolica. In somma io veggo regnar presentemente in tutta l'Europa, con sommo mio dolore, uno spirito impetuoso di cabala e di partito, fomentato dall'abbondanza di quei felici ingegni che vorrebbero liberar l'umanità dal giogo della religione e dall'ubbidienza al proprio principe e da tutti quegli onesti doveri che sono i legami più solidi e più necessari della società, la quale è il primo, il più grande e il più essenziale nostro bisogno. Se per nostro castigo permettesse la Providenza che si giungesse a quell'anarchia che sospirano i moderni illuminati precettori, vorrei veder come essi medesimi vi si troverebbero a loro agio. Queste rare scoperte sono per altro rancidissime; ma altre volte non erano pericolose che a qualche letterato di mal costume. Ora, mercé i libretti galanti che allettano con la dissolutezza, sono divenute la coltura e la morale di tutti i bei giovani e di tutte le donne di spirito. Oh povera umanità!

Gli affari bellicosi minacciano uno scoppio strepitoso e vicino. Soubise avanza: Broglio ha pettinato un poco una retroguardia d'Annoveriani, avendone fatti molti prigionieri, molti uccisi e presi tredici pezzi di cannoni, carri di bagaglio ed altre bagatelle. Il principe Enrico ha mandato tutto il cannon grosso a Magdeburgo, forse per esser leggero nella marcia che medita per la Silesia, già circondata da' Russi. Daun l'osserva e manda rinforzi a Laudon, che a quest'ora comanda una ben numerosa armata. Insomma il nuvolo è pregno ed è nero: e pare ormai impossibile che possa dileguarsi senza ruine.

Il general Tottleben, gentiluomo sassone al servizio di Russia, si è scoperto corrispondente del re di Prussia ed è in ferri. Voglia Dio che sia solo. Addio. V'abbraccio con la germana e sono.

 

XCIII - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 28 settembre I76I.

La vostra a cui rispondo è del 12 del corrente, ed ho pochissimi materiali onde ingrassar la presente. I Russi credo che vadano di nuovo in Siberia, stanchi de' gloriosi loro militari sudori: lasciando impazzare il mondo ad investigare a quale oggetto eran venuti sino a congiungersi con Laudon. L'imperturbabilità di Sua Maestà prussiana in attenderli ci convince del dono di profezia ch'egli possiede.

La fermentazione che agita tutta l'Europa pare che abbia oggetto più vasto che i Gesuiti che le servono di pretesto. L'anarchia temporale e spirituale è un pezzo che si prepara nelle spiritose massime della nostra eletta letteratura. Vivano i begli ingegni! Il Ciel gli esaudisca, ma soli: la compagnia non sarà molto sicura. Addio.

 

XCIV - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna I4 dicembre I76I.

Oh che demonio di freddo! Quest'anno vogliono farsi veramente onore i sette gelidi Trioni. Sono già settimane che i vetri delle mie fenestre son canditi di Genova, che i carri più pesanti passano sicuri sul solido Danubio, e che noi sotto la protezione delle nostre stufe roventi andiamo a gran pena mantenendo la circolazione del sangue. Non mi meraviglio che non sian giunte le lettere di Roma: sa Dio dove saranno rimaste agghiacciate. Figuratevi qual prorito possa aver io di far ora gli occhi dolci alle Muse che oggimai non mi solleticano nel sollione. Spero che costì voi siate esenti da questo taccolo. Se così è, godetevi anche per me il tepore della bella Italia e pensate a curare cuticulam, che, tutto ben calcolato, è la più giudiziosa di tutte le filosofiche speculazioni. Se vedete il degnissimo signor marchese Teodoli assicuratelo non solo della mia memoria, ma di tutta quella tenerezza che si può accordar col rispetto dovuto ad un cavaliere che fa uno dei più distinti ornamenti della cara mia patria. Ditegli che serberò fra le cose più riguardevoli il libro di cui mi parlate e che ho tal voglia di rivederlo e venerarlo di presenza, che se fossi più giovane mi darei, per venirne a capo, allo studio dell'arte magica. Addio. L'ire guerriere son coperte dalle nevi e dai ghiacci; or tocca a lavorare ai belli ingegni de' Gabinetti, a' quali io non picchio.

Sulla sopra coperta: In questo momento sento che sono arrivate le lettere di Roma. Ma io non posso trattener questa, se voglio esser sicuro che parta: onde risponderò l'ordinario venturo.

 

XCV - Ad Angelo Fabroni, Pisa

Vienna 29 ottobre I763.

Una gentilissima di V. S. illustrissima e reverendissima in data del l6 dello scorso luglio mi fece sperare che poco tempo dopo di essa mi sarebbe giunta alle mani la prima decade delle Vite degl'illustri Italiani da lei scritte, da me impazientemente attese. Occupato allora nell'esercizio del mio impiego, mi credei permesso il differir la risposta alla obbligantissima lettera sino all'arrivo del dono: ma non essendo questo ancor pervenuto alle mie mani (per uno senza fallo di quegli innumerabili accidenti che sogliono turbare il corso di somiglianti spedizioni), non voglio che un mio più lungo silenzio ora che i miei inevitabili doveri non mi contendono l'ozio d'interromperlo, aggiunga, allo svantaggio che mi cagiona la fortuna, anche l'altro di comparir appresso di lei o sconoscente o trascurato. Sappia dunque, reverendissimo mio signor priore, che in leggendo le sue lettere io sento nell'animo tutti quei moti di gratitudine, di confusione, e d'affetto che ben è in dritto di esigere la dichiarata sua amichevole e gratuita parzialità da chi non ha né occasione né facoltà di meritarla; ma comunque mi venga così inestimabile acquisto, io ne sono e ne sarò sempre superbo e geloso: e quando in altra guisa io non possa, gliene renderò sempre col cuore il più candido, il più giusto ed il più tenero contraccambio. Ma perché mai, così disposta come ella si sente a favor mio, vuole amareggiarmene il contento rendendo pubbliche coteste mie fanfaluche scritte senza la minima riflessione e sotto la sicura fiducia che non vedrebbero mai la luce del giorno? Oh Dio! Ella misura quella del pubblico dalla sua propria indulgenza, e s'inganna: esso è giudice più che severo: e se facea tremare il padre dell'eloquenza romana (che non arrossisce di confessarlo) ancor quando gli compariva innanzi con merci sudate e pellegrine, con qual conscienza può chiamar ella eccesso di modestia la repugnanza ch'io provo di presentarmigli con quattro letterine familiari, scritte per lo più in fretta ad amici e confidenti senza neppure rileggerle? No, reverendissimo signor priore, io non ho questo coraggio, o per dir meglio questa arroganza: ed o sia ragione, come io credo, o difetto di temperamento, non ho più speranza d'acquistarla: sicché o approvi V. S. illustrissima e reverendissima le mie ragioni, o come parziale compatisca la mia debolezza: il condonarsi scambievolmente i piccioli difetti è uno de' più sacri doveri dell'amicizia. In virtù parimente di questi, de' quali io la credo rigido osservatore, si compiaccia, la supplico, degnissimo mio signor priore, di togliere la restrizione del per ora alla grazia che con tanta gentilezza mi ha fatto rinunciando all'obligante disegno di scrivere la mia vita. Il mondo letterario abbonda di soggetti ben più degni della sua penna: ed io nelle mie antecedenti le ho candidamente confessato come io senta raccapricciarmi alla sola idea di divenire usurpatore d'un incenso a me così poco dovuto. L'amore che bontà sua ella mi dimostra mi è sicuro mallevadore della sua amichevole condescendenza, ed io gliene conserverò fin che viva la più affettuosa e la più sicura riconoscenza.

Qualche persona del seguito della regina di Napoli le recherà i miei due ultimi componimenti. Non gli ho mandati per la posta, perché non ne meritavano l'enorme spesa. Si compiaccia di far presente il mio costante rispetto al nostro degnissimo signor conte di Rosenberg, e mi creda con ossequio, gratitudine e vera amicizia.

 

XCVI - A Carlo Broschi, detto Farinello, Bologna

Vienna I2 dicembre I763.

L'impertinenza de' vostri cancherini, che (secondo il tenore dell'ultima del 29 novembre) vi hanno obbligato a trincierarvi in letto mi ha messo in collera. Vi sono tanti animali malefici sopra i quali potrebbero divertirsi con profitto dell'umanità: perché tormentare i galantuomini nati per diletto e per soccorso de' loro simili? Ma non entriamo ne' misteri della Providenza. Il buon umore che regna nella vostra lettera mi fa sperare che avrete debellati questi nemici domestici: e ne sospiro confermazione.

Quando la mia macchina dovesse trasportarsi per alcun tempo verso il levante, amico gemello, io non sceglierei mai il tempo nel quale sono in moto gli astri maggiori settentrionali. Come uscir sano da questo tumulto? Concorso di viandanti, scarsezza d'alloggi, impotenza di cavalli, soverchierie de' superiori, impertinenze de' subalterni. Maestri di poste scorticatori, postiglioni inesperti e temerari, osterie saccheggiate, strade scomposte, disordine, confusione, fretta, scarsezza e mille altri inaspettati malanni per tutto. Oh povero me! Il solo pensiero mi fa raccapricciare. In trentatré anni sonati ch'io sono in questo antico vortice ho procurato, e mi è riuscito di evitar sempre somiglianti imprese: or pensate se a questa stagione sarei abile d'intraprendere un cimento così temerario: io che da molti anni vivo in questa imperial residenza come un eremita ne' deserti della Tebaide: e che non metto un piede in Corte se non quando un comando de' miei clementissimi sovrani viene ad illuminare il mio tugurio, e mi conduce alla Reggia. Amico gemello, se non incominciamo ad aprir gli occhi all'età nostra, quando gli apriremo mai più.

Addio: raccomandatemi alle vostre cicale, ch'io non lascio di parlar di voi con le mie oche. Ma soprattutto pensate a conservarvi e a conservare un così caro individuo. Il vostro.

 

XCVII - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 5 marzo I764.

Oggi, penultimo giorno dello spirante carnevale, voi costì, ancor non volendo, vi trovarete nel turbine dell'allegrezza popolare, la quale a guisa di contagio si attacca anche alle persone che l'evitano. Perché noi siamo specie di scimie, che facciamo meccanicamente quello che vediam fare: ut ridentibus arrident ita flentibus adflent humani vultus. Ma qui dove il popolo è privo e d'occasione e di vivacità, senza l'assistenza del calendario non si sa mai qual festa corre. Io non ho inteso sonare un violino, non ho veduto ballo, né son passato innanzi la porta d'alcun teatro: ed essendo ormai ristretto il mio piacere al carere dolore, mi sono trincierato nel mio ozio letterario, che mi occupa aggradevolmente molte ore del giorno e non mi lascia rimorsi, quando non procuri vantaggi. Ma non crediate che questo amabile ozio ammetta l'incomodo uso delle lunghe lettere a dispetto della mia a voi nota pigrizia: onde alla vostra del 18 febbraio basti per risposta questa breve cicalata, pregna per altro di tenerezza fraterna e de' soliti abbracci comunicabili alla sirocchia. Addio. Io sono de more.

 

XCVIII - A Carlo Broschi, detto Farinello, Bologna

Vienna 26 aprile I764.

Avanti ieri fu rappresentata l'annessa Festa teatrale, che come solito amichevole tributo invio al mio caro gemello. Senza impulso di partito, e con quella sincerità che professo specialmente con voi, posso assicurarvi che non ho mai sentita musica più armoniosa, magistrale e popolare insieme di quella che ha scritta il Sassone in questa occasione: onde è stata conosciuta, applaudita ed ammirata non solo dagli intendenti, ma anche da quelli che sono al mondo unicamente per vegetare. I cantori hanno fatto pompa a gara della loro abilità veramente non ordinaria: gli abiti, non meno de' personaggi che dei numerosi cori, sono stati splendidi, caratterizzati eccellentemente, e di una ricchezza degna della Corte imperiale: e perché quando le cose son destinate ad andar bene tutto vi concorre, la decorazione e le macchine sono riuscite eleganti, ridenti e felici più di quello che si poteva ragionevolmente aspettare e desiderare. In somma una serenata a sedere, che di sua natura è stata sempre una seccaggine, è divenuta il più ridente e più gradito spettacolo che da lungo tempo in qua si sia veduto in questa Corte. Rallegratevene con la mia poesia, che portata in spalla da tante favorevoli circostanze ha pure usurpata qualche parte dell'approvazione di quelle. Addio, mio caro gemello, son debitore di risposta a tante lettere che non posso trattenermi più lungamente con voi. Continuate ad amarmi come fate, e credetemi sempre.

 

XCIX - A Niccolò Jommelli, Ludwigsburg

Vienna 6 aprile I765.

Dunque il mio adorabile Jomella pur si ricorda di me? Questa verità, della quale, a dispetto del vostro eterno silenzio, io non ho mai dubitato, confermata dal carissimo vostro foglio del 3 dello scorso marzo, mi ha cagionato un piacere poco meno che peccaminoso: tanto più che io me l'ho inutilmente alcune volte procurato mandandovi già qualche tempo fa il mio Alcide al bivio per mezzo del signor Filippo le Roy, e più recentemente scrivendovi una lunga cicalata che doveva esservi consegnata dalla signora Scotti, la quale presentemente canta da prima donna in Londra, e partendo da questa Corte asserì di voler passare per cotesta. Ma o sia colpa de' miei corrieri, o della vostra per lo più inefficace benché sempre ottima volontà, io sono così sicuro di occupare un invidiabile luogo nel vostro cuore, che qualunque contrario palpabilissimo argomento non potrà giunger mai a farmene temere incerto il possesso.

Mi è stato carissimo il prezioso dono delle due arie magistrali che vi è piaciuto inviarmi; e, per quanto si stende la mia limitata perizia musicale, ne ho ammirato il nuovo ed armonico intreccio della voce con gl'istrumenti. L'eleganza di questi, non meno che delle circolazioni, e quella non comune integrità del tutto insieme le rende degne di voi. Confesso, mio caro Jomella, che questo stile m'imprime rispetto per lo scrittore; ma voi, quando vi piace, ne avete un altro che s'impadronisce subito del mio cuore senza bisogno delle riflessioni della mente. Quando io risento dopo due mila volte la vostra aria Non so trovar l'errore, o quella Quando sarà quel dì ed infinite altre che non ho presenti e sono anche più seduttrici di queste, io non son più mio, e convien che a mio dispetto m'intenerisca con voi.

Ah non abbandonate, mio caro Jomella, una facoltà nella quale non avete e non avrete rivali! Nelle arie magistrali potrà qualcuno venirvi appresso con l'indefessa e faticosa applicazione; ma per trovar le vie del cuore altrui bisogna averlo formato di fibra così delicata e sensitiva come voi l'avete, a distinzione di quanti hanno scritto note finora. È vero che, anche scrivendo in questo nuovo stile, voi non potete difendervi di tratto in tratto dall'espressione della passione che il vostro felice temperamento vi suggerisce; ma obbligandovi l'immaginato concerto ad interrompere troppo frequentemente la voce si perdono le tracce de' moti che avevate già destati nell'anima dell'ascoltante, e per quella di gran maestro trascurate la lode di amabile e potentissimo mago.

Addio, mio caro e degnissimo amico: se voi sapeste da quali occupazioni io sono oppresso, conoscereste quanta sia la tenera amicizia, che non mi lascia ancora terminar questa lettera. Conservatevi gelosamente per onore dell'armonica famiglia; continuate a riamarmi e credetemi invariabilmente.

 

C - A Francesco Giovanni di Chastellux, Landau

Vienna I5 luglio I765.

Non si è punto ingannata V. S. illustrissima prevedendo che dovesse sorprendermi la lettura del suo erudito filosofico trattatino intorno all'unione della musica e della poesia. Basta questo saggio per misurare l'estensione dell'acuto suo, esatto e sicuro giudizio, e della solida e non pedantesca coltura de' suoi felici talenti. Non v'è Italiano, o non è almeno a me noto, che abbia spinto finora le sue meditazioni così presso alle prime sorgenti del vivo e delicato piacere che produce e che potrebbe anche più efficacemente produrre il sistema del nostro dramma musicale. La vera, ingegnosa e minuta analisi ch'ella ha fatta del ritmo, o sia canto periodico delle nostre arie; il magistrale artifizio con cui ella rende sensibile l'obbligo di non sommergere negli accessorii ornamenti il principal motivo di quelle, valendosi perciò del nuovo paragone del nudo, che dee sempre ritrovarsi sotto qualunque pomposo panneggiamento; le dimostrate progressioni per le quali, passando dal semplice al recitativo composto, debbono essere imitate le naturali alterazioni che nascono dalla vicenda delle violente passioni, ed altri passi della dotta sua Dissertazione, i quali io trascuro per non trascriverla intiera, sono lampi non pregevoli solo per il proprio loro splendore, ma più ancora per l'immenso terreno che scuoprono a chi sappia approfittarsene per più lontani viaggi. Io me ne congratulo sinceramente seco; ed Italiano ed autore gliene protesto a doppio titolo la dovuta mia riconoscenza anzi, sommamente geloso della parzialità d'un giudice così illuminato, bramerei pure, come poeta, che non dovesse la nostra poesia invidiarne una troppo vantaggiosa porzione alla nostra musica, come potrebbe farmi temere il sentire questa considerata da lei per oggetto principale d'un dramma, ed attribuito il suo avanzamento dall'essersi sciolta da' legami dell'altra.

Quando la musica, riveritissimo signor cavaliere, aspira nel dramma alle prime parti in concorso della poesia, distrugge questa e se stessa. È un assurdo troppo solenne, che pretendano le vesti la principal considerazione a gara della persona per cui sono fatte. I miei drammi in tutta l'Italia, per quotidiana esperienza, sono di gran lunga più sicuri del pubblico favore recitati da' comici che cantati da' musici, prova alla quale non so se potesse esporsi la più eletta musica d'un dramma, abbandonata dalle parole. Le arie chiamate di bravura, delle quali condanna ella da suo pari l'uso troppo frequente, sono appunto lo sforzo della nostra musica che tenta sottrarsi all'impero della poesia. Non ha cura in tali arie né di caratteri, né di situazioni, né di affetti, né di senso né di ragione; ed ostentando solo le sue proprie ricchezze col ministero di qualche gorga imitatrice de' violini e degli usignoli, ha cagionato quel diletto che nasce dalla sola maraviglia, ed ha riscossi gli applausi che non possono a buona equità esser negati a qualunque ballerino di corda, quando giunga con la destrezza a superar la comune espettazione. Superba la moderna musica di tal fortuna, si è arditamente ribellata dalla poesia, ha neglette tutte le vere espressioni, ha trattate le parole come un fondo servile obbligato a prestarsi a dispetto del senso comune, a qualunque suo stravagante capriccio, non ha fatto più risuonare il teatro che di coteste sue arie di bravura e con la fastidiosa inondazione di esse ne ha affrettato la decadenza, dopo aver però cagionata quella del dramma miseramente lacero, sfigurato e distrutto da così sconsigliata ribellione. I piaceri che non giungono a far impressione su la mente e sul cuore sono di corta durata, e gli uomini, come corporei, si lasciano, è vero, facilmente sorprendere dalle improvvise dilettevoli meccaniche sensazioni, ma non rinunzian per sempre alla qualità di ragionevoli. In fine è ormai pervenuto questo inconveniente a così intollerabile eccesso, che o converrà che ben presto cotesta serva fuggitiva si sottoponga di bel nuovo a quella regolatrice che sa renderla così bella, o che, separandosi affatto la musica dalla drammatica poesia, si contenti quest'ultima della propria interna melodia, di cui non lasceran mai di fornirla gli eccellenti poeti, e che vada l'altra a metter d'accordo le varie voci d'un coro, a regolare l'armonia d'un concerto, o a secondare i passi d'un ballo, ma senza impacciarsi più de' coturni.

Non mi stancherei così presto di ragionar seco; ma le mie occupazioni necessarie mi defraudano tutto il tempo per le piacevoli, onde augurandomi la sorte di poter meritare in qualche parte con la mia ubbidienza il finora gratuito dono della favorevole sua propensione, pieno di riconoscenza e di rispetto mi confermo.

 

CI - A Carlo Broschi, detto Farinello, Bologna

Vienna I8 luglio I765.

Sono sommamente tenuto al nostro caro signor Becchetti per l'esatta puntualità con la quale vi ha consegnati gli abbracci, i baci e le tenerezze delle quali io lo caricai per voi nella sua partenza da questa Corte. Ditegli, vi prego, a qual segno gliene sono grato: e offeritegli a nome mio il dovuto contraccambio della cortese sua compiacenza.

Voi sapete, caro gemello, ch'io son della specie delle anitre, che stanno sempre nell'acqua e non sono mai bagnate. Con quasi trentasei anni di soggiorno in una Corte, non ho potuto contrarre né l'aria misteriosa, né l'eroico ventoso esteriore che ordinariamente vi regna, né quella dotta dissimulazione che almeno confina con la falsità; onde soffrite che da sincero e franco amico io vi apra istoricamente tutto il mio cuore.

Fin dal tempo in cui era immerso nelle feste nuziali del nostro re de' Romani, cominciò qui a spargersi voce che voi in occasione del matrimonio del principe delle Asturie dovevate portarvi a Madrid. Crebbe a poco a poco la voce in modo tale che il popolo, la nobiltà e la Corte medesima l'ha creduta veridica. Io solo, ricevendo vostre lettere senza il minimo tocco di tal viaggio, non volli prestarle credenza, ed ai moltissimi che, come vostro conosciuto gemello, me ne interrogavano, costantemente io rispondeva il vero, cioè che voi non me ne avevate dato alcun cenno; e che perciò io non prestava fede e codesto vano romore. Terminate finalmente le nostre tempeste festive, quando io, stanco, sfiatato e rifinito, rendeva grazie al padre Apollo che fosse pur giunto per me una volta il tempo di respirare, ecco l'ambasciator di Spagna che m'intima all'orecchio il desiderio della sua Corte di avere una mia serenata per le nozze del principe delle Asturie. Figuratevi la mia situazione. Dissi che, benché io fossi già pronto per l'opera d'Inspruck, non era sicuro di qualche nuovo comando dell'augustissima padrona. Rispose l'ambasciatore ch'egli ne avrebbe parlato alla mia sovrana; ond'io, sicuro che un preciso comando mi avrebbe defraudato anche il merito della volontaria condescendenza, piegai la testa ai decreti del fato, con pochissima fiducia di poter nella mia stanchezza corrispondere degnamente all'onore che mi veniva inaspettatamente offerto. E qui vi confesso che, ripensando alle voci sparse del vostro viaggio, non credei fermamente ma violentemente sospettai che foste voi l'innocente cagione del mio crudele imbarazzo. Intanto, affinché tutto andasse a seconda, la mia scusa prodotta inutilmente all'ambasciatore cattolico diventò profezia. La mia augustissima padrona mi commise inaspettatamente un altro picciolo dramma da rappresentarsi dalle serenissime arciduchesse al ritorno della Corte da Inspruck. Che fare in tali angustie? Dopo avere esaminata la materia, trovai che non mi rimaneva alcun onesto partito da prendere se non se quello di raccomandarmi alle Muse, chiuder gli occhi, e mandar giù l'una e l'altra pozione. Adempii, come era mio debito, in primo luogo il comando, e poi soddisfeci al contratto impegno, consegnando all'ambasciator di Spagna la Festa meridionale quattro settimane prima della mia promessa.

Mentre io stava arzigogolando fra me s'io dovessi o no cantarvi le calende sul giuoco ch'io sospettava che voi mi aveste fatto, ecco una lettera di Madrid del nostro Hübner, che mi assicura che voi siete colà aspettato e ch'egli è impaziente di rivedere il suo riverito benefattore. Allora i miei sospetti diventarono verità evidenti, ed il mio gemello fu l'oggetto di alquanti cancherini che io gli scaricai addosso in vendetta dell'ingiurioso creduto mistero e delle angustie nelle quali io supposi indubitatamente d'essere stato ridotto dalla sua parzialità. Non finisce qui la dolorosa istoria. L'ambasciatore di Spagna, pochi giorni fa, nella vigilia della sua partenza per Inspruck venne a favorirmi in persona ed a leggermi un lungo e cortese rendimento di grazie del signor marchese Squillace, del quale sino a quel momento non mi avea mai parlato; ed avanti ieri ricevo la vostra del 5 del corrente, nella quale mi ragionate di questo affare come un uomo sbarcato appena in Europa di ritorno dal Mogol o dal Giappone. In un così strano contrasto di misteri, di notizie e di conghietture io non so determinare la mia credenza, e non sono né pure impaziente di farlo, bastando alla mia candida amicizia la soddisfazione di non avervi lasciato ignorare il minimo dei pensieri, delle parole e delle opere mie intorno a questa per altro poco rilevante faccenda.

Con l'infinita stima ch'io da lungo tempo internamente serbo e pubblicamente professo per cotesto, così caro alle Muse, signor conte Savioli, pretendo di onorar molto più me stesso che lui. Attestategli, vi prego, la mia viva riconoscenza per il gratuito contraccambio di parzialità che a lui piace di rendermene, e guardatevi bene di non confidargli tutta la mia insufficienza, per non iscemar troppo di pregio l'offerta, che per mezzo vostro gli faccio, e della sincera amicizia e della divota servitù mia.

S'io potessi allungare a mia voglia questa ormai non più lettera ma cicalata, giungerei forse a disseccar perfettamente tutt'i vostri umori peccanti; ma incominciano i miei viaggi a Schönbrunn dove dovrò correre ogni giorno, anche a dispetto della canicola, sino al ritorno della Corte per assister ivi alle pruove delle nostre auguste rappresentanti, che per mia buona sorte credono aver bisogno della mia direzione. Onde vedete ch'io non corro rischio d'esser contaminato dal padre di tutt'i vizi. Addio: non vi stancate di riamarmi, e credetemi sempre con la più invincibile ostinazione.

 

CII - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 26 agosto I765.

La vostra del 10 del cadente mi ha trovato nella desolazione che ha cagionato in me ed in tutti l'inaspettata irreparabil perdita del nostro buon imperatore e padre Francesco I, rapito improvvisamente a noi la sera del I8 in Innsbruck dalla rottura di qualche vaso interno che l'ha lasciato immediatamente senza parola e senza vita fra le braccia dell'imperator Giuseppe II suo figliuolo, che l'accompagnava di ritorno dal teatro. Io non so esprimervi quanto questo principe era universalmente amato, e quanto n'era degno; qual sia la perdita dell'augusta numerosa sua famiglia e quale la nostra. Figuratevi il pubblico lutto, e compatitemi. Riscuote universale ammirazione la costanza, la prudenza, la tenerezza e l'indefessa applicazione con le quali l'imperator Giuseppe adempie colà in così tragica e non preveduta circostanza tutti i più difficili doveri di figlio, di fratello e di principe. L'unica ma grande consolazione dell'afflittissima imperatrice vedova, nella crudele separazione dopo trent'anni di compagnia, da un consorte amato da lei almen al par di se stessa, è l'averlo veduto appressarsi alla Mensa sacramentale la mattina del giorno istesso dell'inaspettata sua morte. Il colpo ci ha sopresi e storditi di maniera che non siamo ancora in istato di ragionar prudentemente su le conseguenze del caso; onde abbandono questa funesta materia, della quale le pubbliche gazzette v'informeranno abbastanza.

Il mio commissario, che ha fatte le mie veci in Innsbruck per la direzione dell'opera, essendo già di ritorno di colà mi assicura di aver consegnato di sua mano a quell'ufficio della posta un esemplare del Romolo a voi diretto, a tenore della mia commissione, il dì primo del corrente agosto, onde non so come il giorno 10, data dell'ultima vostra, non vi fosse pervenuto. Non dubito che l'avrete poco dopo ricevuto, e che le nuove pubbliche vi avranno liberato dal ritegno imposto. Addio, vi abbraccio con la sorella e sono.

 

CIII - A S. M. L'Imperatrice Regina Maria Teresa

Vienna I2 ottobre I765.

Sacra Maestà. Non troverò mai tanta difficoltà nell'esecuzione di qualunque comando della Sacra Cesarea Reale Augusta Maestà Vostra quanta ora ne provo nel voler esprimere la rivoluzione che ha cagionata nell'animo mio l'eccesso delle sue clementissime grazie. In questo improvviso tumulto di gratitudine, di contentezza, di rispetto e di ammirazione, io non sono ancora in istato di riconoscere me stesso. Veggo diventar mio merito il puro adempimento del dover mio: sento una così gran principessa interessarsi per la salute mia e per la mia tranquillità: mi trovo onorato d'un suo magnifico dono, ed assicurato nel tempo medesimo da' sovrani suoi venerati caratteri del pieno suo gradimento; e non solo per l'ultima mia fatica, ma per tutto il corso della lunga servitù mia. E chi mai saprebbe degnamente spiegarsi? Ah, già che la Provvidenza ha voluto riprodurre nella Maestà Vostra tutte le adorabili qualità d'Augusto, perché non ha conceduto anche a me qualche parte di quelle che resero a lui così caro Virgilio! Benché, nel caso in cui sono, non so se Virgilio istesso sarebbe meno imbarazzato di me. Finché io possa farlo in persona, soffra la Maestà Vostra che venga intanto ad umiliarsi a' suoi piedi il mio cuore tutto pieno di lei, de' propri doveri e de' voti veramente sinceri per le sue meritate felicità.

Della Vostra Sacra Cesarea Reale Augusta Maestà.

 

CIV - A Filippo Hallam, Genova

Vienna I6 dicembre I765.

Se io credessi, come tutti i pedanti credono, di non dover lasciar senza difesa qualunque loro reprensibile errore o negligenza, alla savia osservazione di V. S. illustrissima, dello stile umile e famigliare da me impiegato nella citata scena del Siroe, risponderei che quell'Orazio medesimo che dice:

Versibus exponi tragicis res comica non vult:

indignatur item privatis ac prope socco

dignis carminibus narrari coena Thyestae:

soggiunge immediatamente che vi sono occasioni nelle quali e il comico si solleva, ed il tragico si abbassa:

Interdum tamen et vocem comoedia tollit,

iratusque Chremes tumido delitigat ore;

et tragicus plerumque dolet sermone pedestri.

Ma benché questo sia il sentimento d'Orazio, non è però il mio. Io credo che chi monta sul coturno non debba mai scordarsene la dignità, e che debba anzi evitar sempre lo stile pedestre, anche nella talvolta inevitabile espressione di circostanze basse e comuni, necessaria alla spiegazione ed alla condotta della sua favola. Ma perché, dirà ella, non è osservata cotesta massima nel luogo citato? Eccogliene la ragione. Quando io da bel principio intrapresi a trattarlo, il nostro dramma musicale non era ancora tragedia; appena s'incominciava a soffrire che fossero escluse dall'intreccio di quello le parti ridicole; ond'era un genere misto più vicino a quello del Ciclope d'Euripide e dell'Anfitrione di Plauto, che a quello dell'Edipo, dell'Elettra e del Filottete. Il nostro popolo, avvezzo a rallegrarsi in teatro, esigeva qualche riguardo da' poeti che volevano accostumarlo al severo della tragedia. Quindi conveniva somministrargli ne' drammi qualche situazione, se non comica affatto e scurrile, almeno festiva e ridente, ed in tali situazioni è impossibile che lo stile che le seconda non iscemi alquanto dalla tragica austerità. Uscito appena dalla mia prima adolescenza, io non mi credea permesso l'ardire di urtar di fronte il gusto popolare; onde procurava di compiacere i miei giudici anche a dispetto della natural repugnanza. L'esperienza poi mi ha convinto che il popolo è molto più docile di quello che comunemente si crede; ond'ella troverà ben pochi esempi di cotesta mia compiacenza, e questi unicamente in alcuno de' primi miei drammi.

Se queste, non già difese ma piuttosto scuse e ragioni, non bastano a giustificarmi appresso di lei, io ricorro alla protezione di quel medesimo Orazio col quale ella mi riconviene:

Sunt delicta tamen, quibus ignovisse velimus:

nam neque chorda sonum reddit, quem vult manus et mens:

poscentique gravem persaepe remittit acutum:

nec semper feriet quodcumque minabitur arcus.

Verum ubi plura nitent in carmine, non ego paucis

offendar maculis: quas aut incuria fudit,

aut humana parum cavit natura.

Intanto io mi congratulo seco della delicata esattezza del suo giudizio, e le sono gratissimo dell'ingenua franchezza con la quale ella mi ha provato ch'io sono escluso nella sua mente dall'infinito numero di quegli scrittori che pretendono all'infallibilità. Dacché ella mi toglie la speranza di conoscerla di persona, secondi almeno quella dell'acquisto che ambisco della sua amicizia e padronanza, alle quali non farà ostacolo la distanza che si frappone fra il Tamigi ed il Danubio, e mi creda.

 

CV - A Francesco Giovanni di Chastellux, Parigi

Vienna 29 gennaio I766.

S'io avessi vissuto alquante olimpiadi di meno, il vigore, l'erudizione, l'eloquenza e la gentilezza con la quale ha fatto V. S. illustrissima nella sua ultima lettera l'elogio della musica, mi avrebbe indotto ad abbandonare ogni altro per lo studio di questa; ma non sarebbe a' dì nostri lodevole, come lo era in Grecia altre volte anche a' severi filosofi ed a' sommi imperadori, non che a' miei pari, il dimesticarsi in qualunque età con la lira. Abbastanza per altro mi consola di questa insufficienza mia il piacere di vedermi tanto d'accordo con essolei, il voto di cui io ambisco come il più solido sostegno delle mie opinioni.

Conveniamo dunque perfettamente fra noi che sia la musica un'arte ingegnosa, mirabile, dilettevole, incantatrice, capace di produrre da sé sola portenti, ed abile, quando voglia accompagnarsi con la poesia e far buon uso delle sue immense ricchezze, non solo di secondare ed esprimere con le sue imitazioni, ma d'illuminare ed accrescere tutte le alterazioni del cuore umano. Ma non possiamo non confessar concordemente nel tempo stesso l'enorme abuso che fanno per lo più a' giorni nostri di così bell'arte gli artisti, impiegando a caso le seduttrici facoltà di questa, fuor di luogo e di tempo, a dispetto del senso comune, ed imitando bene spesso il frastuono delle tempeste, quando converrebbe esprimere la tranquillità della calma, o la sfrenata allegrezza delle Bassaridi in vece del profondo dolore delle Schiave troiane o delle Supplici argive; onde il confuso spettatore spinto nel tempo stesso a passioni affatto contrarie dalla poesia e dalla musica, che in vece di secondarsi si distruggono a vicenda, non può determinarsi ad alcuna, ed è ridotto al solo meccanico piacere che nasce dall'armonica proporzione de' suoni o dalla mirabile estensione ed agilità d'una voce. Io perdonerei a' compositori di musica un così intollerabile abuso se fossero scarse le facoltà dell'arte che trattano; né mi parrebbe sì strano che l'impazienza di ostentare le poche loro limitate ricchezze gli rendesse meno scrupolosi nell'adattarle al bisogno; ma non essendovi passione umana che non possa essere vivamente espressa e mirabilmente adornata da sì bell'arte in cento e cento diverse maniere, perché mai dovrassi soffrire l'insulto che quasi a bello studio essi fanno senza necessità alla ragione? Or ella vede che io sono parziale al par di lei della musica, e che quando detesto la presente musica drammatica, non intendo di parlar che di quei nostri moderni artisti che la sfigurano.

Ma l'altro per me ben più efficace motivo di consolazione è la famigliarità che dall'ultima sua lettera si conosce aver ella col greco teatro, famigliarità che assicura la concordia delle nostre opinioni.

Ha già ella dottamente osservato che i primi padri della tragedia, per fornire alla musica le occasioni di ostentar le sue bellezze, cambiano talvolta in bocca de' personaggi introdotti, a seconda del cambiamento degli affetti, i soliti giambi in anapesti e trochei; né le sarà sfuggito che i personaggi medesimi cantano e soli e fra loro, ed a vicenda col coro strofe, antistrofe ed epodi, metri che esigono per natura quella specie di musica usata da noi nelle arie, e ch'ella chiama magistralmente periodica; onde concluderà, per necessaria conseguenza, che nell'uso di lusingar con le ariette le molli orecchie degli spettatori abbiamo illustri, antichi ed autorevoli antesignani, ai quali dobbiamo noi senza dubbio e l'aria ed il recitativo, non meno che i Latini i cantici ed i diverbi. Né picciola pruova dell'antica discendenza delle arie è il greco nome di strofa, col quale tuttavia da' letterati e dal popolo si chiamano comunemente fra noi i vari metri delle arie nostre e delle nostre canzoni.

Non creda V. S. illustrissima che io mi dimentichi le sue esortazioni. Vorrebbe ella che, siccome si dice la repubblica delle lettere, si dicesse ancora la repubblica delle arti; e che per conseguenza la poesia, la musica e le altre loro sorelle vivessero amichevolmente in perfetta indipendenza. Io, per confessare il vero, non sono repubblichista, non intendo perché questa, a preferenza delle altre forme di governo, abbia a vantar sola la virtù per suo principio; mi pare che tutte siano soggette ad infermità distruttive; mi seduce il venerabile esempio della paterna suprema autorità; né trovo risposta all'assioma che le macchine più semplici e meno composte sono le più durevoli e meno imperfette. Nulla di meno non v'è cosa ch'io non facessi per esser seco d'accordo. Eccomi dunque, già che ella così vuole, eccomi repubblichista; ma ella sa che i repubblichisti medesimi i più gelosi, quali erano i Romani, persuasi del vantaggio dell'autorità riunita in un solo, nelle difficili circostanze eleggevano un dittatore, e che quando sono incorsi nell'errore di dividere cotesta assoluta autorità tra Fabio e Minucio han corso il rischio di perdersi. L'esecuzione d'un dramma è difficilissima impresa, nella quale concorrono tutte le belle arti, e queste, per assicurarne, quanto è possibile, il successo, convien che eleggano un dittatore. Aspira per avventura la musica a cotesta suprema magistratura? Abbiala in buon'ora, ma s'incarichi ella in tal caso della scelta del soggetto, dell'economia della favola; determini i personaggi da introdursi, i caratteri e le situazioni loro; immagini le decorazioni; inventi poi le sue cantilene, e commetta finalmente alla poesia di scrivere i suoi versi a seconda di quelle. E se ricusa di farlo perché di tante facoltà necessarie all'esecuzione d'un dramma non possiede che la sola scienza de' suoni, lasci la dittatura a chi le ha tutte, e sulle tracce del ravveduto Minucio confessi di non saper comandare, ed ubbidisca. In altro modo, se in grazia del venerato suo protettore non avrà il nome di serva fuggitiva, non potrà evitar l'altro di repubblichista ribelle.

So che in Francia v'è un teatro che si chiama "lirico", dove, perché si rappresenta in musica, suppone V. S. illustrissima che questa, come in casa propria, vi possa far da padrona; ma questa circostanza non ha mai fatto fra gli antichi un teatro distinto. Fra le sei necessarie parti di qualità della tragedia, cioè fra le parti che regnano, non già di tratto in tratto, ma continuamente in tutto il corso di essa, che sono la favola, i caratteri, l'elocuzione, la sentenza e la decorazione conta Aristotile, benché in ultimo luogo, la musica. Ed in fatti non si può parlare ad un pubblico e farsi chiaramente intendere senza elevare, distendere e sostenere la voce notabilmente più di quello che suol farsi nel parlare ordinario. Coteste nuove notabili alterazioni di voce esigono un'arte che ne regoli le nuove proporzioni, altrimenti produrrebbero suoni mal modulati, disaggradevoli e spesse volte ridicoli. Quest'arte appunto altro non è che la musica, così a chi ragiona in pubblico necessaria, che quando manca agli attori quella degli artisti destinati a comporla, sono obbligati dalla natura a comporne una da se medesimi sotto il nome di declamazione. Ma quando ancora producesse una reale distinzione di teatro l'esservene uno costì, al quale, benché drammatico, si è voluto comunicare l'attributo distintivo di Pindaro, d'Orazio e de' seguaci loro, i diritti della musica non sarebbero ivi di maggior peso. Se in cotesto teatro lirico si rappresenta un'azione, se vi si annoda, se vi si scioglie una favola, se vi sono personaggi e caratteri, la musica è in casa altrui, e non vi può far da padrona.

Ma è forza, degnissimo mio signor cavaliere, che io finisca: non avrei la virtù di farlo sì presto (tanto è il vantaggio ed il piacere ch'io risento nell'aprir liberamente l'animo mio a persona così dotta, così ragionevole e così parziale com'ella meco si mostra); ma i miei indispensabili doveri mi chiamano ad altro lavoro. Se mai mi lascieranno essi tanto di ozio ch'io possa mettere in ordine un mio Estratto della Poetica d'Aristotile, che vado da ben lungo tempo meditando, le comunicherò in esso le varie osservazioni da me fatte per mia privata istruzione, sopra tutti i greci drammatici e quelle che la pratica di ormai mezzo secolo, senz'alcun merito della mia perspicacia, ha dovuto naturalmente suggerirmi; ma a patto che non avvenga a questo ciò che alla prima lettera, che a lei scrissi, è avvenuto, cioè d'esser resa pubblica con le stampe senza l'assenso mio. Le opinioni che si oppongono alle regnanti, quantunque lucide ed incontrastabili, non prosperano mai senza contese, ed il contendere, signor cavaliere gentilissimo, è mestiere al quale io non mi trovo inclinato per temperamento, non agguerrito per uso, non atto per l'età, e non sufficiente per iscarsezza dell'ozio del quale abbisogna; è mestiere in cui avrà ella osservato che le grida più sonore e i paralogismi più eruditi sogliono valer per ragioni; ed è mestiere finalmente che, degenerando d'ordinario in insulti, esige o troppa virtù per soffrirli o troppa scostumatezza per contraccambiarli. Ma io non so staccarmi da lei, e l'adorabile mia augusta sovrana, non ancora stanca (per eccesso di clemenza) delle mie ciance canore, mi spinge frettolosamente in Parnaso, e convien lasciar tutto per ubbidirla, anche a dispetto d'Orazio che mi va gridando all'orecchio

solve senescentem mature sanus equum, ne

peccet ad extremum ridendus, et ilia ducat.

Io sono col dovuto rispetto.

 

CVI - A Saverio Mattei, Napoli

Vienna I aprile I766.

Dirigo la mia lettera in Napoli, ove spero che siate finalmente ritornato dopo quattro mesi di lontananza, tempo egualmente consumato per il viaggio de' vostri libri che, speditimi prima della vostra partenza, mi son giunti nella scorsa settimana. Secondando la mia impazienza ne ho cominciato la lettura dall'ultima da voi indicatami dissertazione teatrale, che esigeva da me a mille titoli una tal preferenza. Essa è opera sublime e degna di voi: né mirabile solo per la profonda dottrina dello scrittore, ma molto più per la maravigliosa sua cognizione de' più reconditi misteri del teatro, ignorati dalla maggior parte di quelli che ne professano l'arte. Ciò che più in essa mi solletica è la fra noi non concertata concordia delle nostre massime intorno all'antico e moderno teatro. Lo spontaneo parere d'un vostro pari mi assicura e mi rende superbo del mio: e considero ora come interamente sconfitti quegli eruditi sì, ma inespertissimi critici, che con noi in ciò non convengono. S'io intraprendessi di esaltare nella vostra dissertazione tutti i passi che ne son degni, questa lettera non uguaglierebbe, anzi ne vincerebbe la mole. La solida dimostrazione con la quale rilevate le insuperabili difficoltà di bene intendere le Poetiche d'Aristotile e d'Orazio per potersene valer nella pratica: l'arte con cui mettete in vista il ridicolo di voler ridurre l'unità di luogo alle angustie di una camera o d'un gabinetto: il torrente de' passi de' drammatici greci co' quali giustificate le nostre ariette, duetti, terzetti, e paragoni: la felice tanto difficile versione della bella scena d'Euripide nell'Ecuba: la generosa modestia del giudizio delle vostre cantate considerate al paragon delle mie: l'analisi magistrale della prima scena dell'Artaserse e di quelle di Sesto e di Tito: ed ogni altra delle savie vostre filosofiche considerazioni esigerebbe un prolisso e distinto capitolo. Ma non posso però, con vostra pace, approvare l'eccessivamente visibile vostra parzialità a mio favore che vi regna in ogni periodo. Voi esponete così voi stesso alle contraddizioni di quelli che hanno le loro ragioni per non essere del vostro parere, ed esponete nel tempo medesimo la dovuta moderazione d'un amico alle violentissime tentazioni di vanità, della quale è troppo difficile il difendersi quando ci assale armata di una così dotta e seduttrice eloquenza.

Vi direi molto di più, s'io non temessi che i miei sincerissimi elogi potessero correre il rischio d'esser presi per una mercantile restituzione di quelli de' quali voi gratuitamente mi onorate. Onde abbracciandovi con l'usata tenerezza, commetto alla vostra perspicacia la cura d'investigarli e figurarvi quali debbano essere e quali veramente sono a questo riguardo i grati ed affettuosi miei sentimenti.

Dopo scritta la presente mi giunge il vostro foglio colla data di Napoli. Oltre la solita facoltà, della quale sono in possesso tutte le vostre lettere a riguardo mio di consolarmi, di rallegrarmi e di esigere tutta la mia dovuta gratitudine, quest'ultima, che m'informa del felice vostro ritorno in Napoli in florido stato di salute dopo una non breve ed in gran parte incomoda peregrinazione, ha più efficaci motivi d'essermi cara, e perché mi assicura che nessuna rincrescevole cagione mi ha defraudato così lungo tempo delle vostre desiderate novelle, e perché entro a parte delle liete e vantaggiose vicende della vostra amabile famiglia, della quale vi compiacete di darmi contezza, e perché dall'impeto di alcune eccessive espressioni di questa lettera misuro quello della tenera amicizia che le cagiona. Io vi sono, quanto è mio debito, gratissimo non solo delle medesime, ma di quelle altresì nelle quali avete data occasione di prorompere a mia confusione all'adorabile nostra signora principessa di Belmonte, la quale ha saputo trovarne di tali che mi han fatto divenir muto. Quanto di più eccessivo io possa immaginare per contraccambiarle a proporzione, tutto è sempre d'infinito spazio inferiore all'obbligo di cui mi trovo aggravato: onde il meno ingrato partito, ch'ella mi ha lasciato da poter prendere in tanta mortificazione, è quello solo di continuare (siccome faccio) a venerarla, e tacere.

Oh! di quante care e ridenti idee, amatissimo mio signor don Saverio, mi avete svegliata la viva reminiscenza, facendomi riandar col pensiero il felice tempo che fra la puerizia e l'adolescenza ho nella Magna Grecia non meno utilmente che lietamente passato. Ho riveduti come presenti tutti quegli oggetti che tanto colà allora mi dilettarono. Ho abitata di bel nuovo la cameretta dove il prossimo fiotto marino lusingò per molti mesi soavemente i miei sonni: ho scorse in barca con la fantasia le spiagge vicine alla Scalea: mi son tornati in mente i nomi e gli aspetti di Cirella, di Belvedere, del Cetraro e di Paola: ho sentita di nuovo la venerata voce dell'insigne filosofo Gregorio Caloprese, che adattandosi per istruirmi alla mia debole età, mi conducea quasi per mano fra i vortici dell'allora regnante ingegnoso Renato, di cui era egli acerrimo assertore, ed allettava la fanciullesca mia curiosità or dimostrandomi con la cera quasi per giuoco come si formino fra i globetti le particelle striate, or trattenendomi in ammirazione con le incantatrici esperienze della diottrica. Parmi ancora di rivederlo affannato a persuadermi che un suo cagnolino non fosse che un orologio, e che la trina dimensione sia definizione sufficiente de' corpi solidi: e lo veggo ancor ridere quando, dopo avermi per lungo tempo tenuto immerso in una tetra meditazione facendomi dubitar d'ogni cosa, s'accorse ch'io respirai a quel suo Ego cogito, ergo sum: argomento invincibile d'una certezza ch'io disperava di mai più ritrovare.

Ma voi avete stuzzicato il vespaio, onde io mi trovo intorno non minor folla di rimembranze, che vorrebbero essere a voi comunicate di quella delle cure letterarie e forensi, che vi avranno costì assaltato dopo il vostro ritorno: onde io per non usurpare il luogo a queste molto più utili e necessarie, mi congratulo di nuovo con esso voi, teneramente vi abbraccio, e vi lascio in pace.

 

CVII - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 28 aprile I766.

La vostra a cui rispondo è del 12 del cadente: data comune a quella del nostro cattivo tempo, non già perché il freddo sia ritornato, ma perché il cielo sempre torbido e piovoso turba una deliziosa passeggiata che era già incominciata con un concorso d'ogni genere di persone non facilmente credibile da chi non l'ha veduto. Pochi passi lontano da una delle porte della città si trova un vasto ed antico bosco, irrigato da entrambi i lati da due rami del Danubio, adornato nella sua irregolarità dilettevole da lunghissimi e spaziosi viali, popolati straordinariamente di cinghiali e di cervi e chiuso per uso delle cacce imperiali. Questo soleva aprirsi ogn'anno all'entrar del maggio solo per qualche settimana, ed era permesso alla sola nobiltà ed a quelli che si fanno strascinare in carrozza l'andarvi a passeggiare, a condizione di non uscir dai viali; e per la povera fanteria era paese proibito. Ora il nostro giovane ed adorabile imperatore per il quale il più gran condimento dei piaceri che gode è quello di poterli comunicare a tutti, ha ordinato che il suddetto bosco sia aperto tutto l'anno, che ne siano irrigati i viali ogni giorno sino alle porte della città, che qualunque specie di persone possa andarvi a piedi, in carrozza, a cavallo come voglia: che nessuna parte del bosco sia eccettuata, che possa giuocarvisi a tutti i giuochi propri del luogo, come al pallone e simili; che possano piantarvisi tende e vendervi qualunque cosa mangiabile o bevibile, e che chiunque ne abbia desiderio e facoltà sia padrone di far risonar quella selva di concerti musicali, o sommessi o strepitosi come a lui piaccia. Tutto ciò si era cominciato ad eseguire, con concorso (particolarmente ne' giorni festivi) innumerabile e con piacere ed applauso universale, quando Giove Pluvio ne ha interrotto il divertimento con grandissimo scandalo della bella gioventù. In vece di parlarvi delle rivoluzioni di Madrid e del Messico, o dell'altra più rispettosa ma più efficace de' Parlamenti di Francia, contentatevi che io vi abbia condotto a spasso per questi nostri contorni, e che essendo al fine della carta vi abbracci al solito con la sirocchia e che al solito mi dica il vostro.

 

CVIII - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 7 luglio I766.

Non siete soli voi altri abitatori dell'alma città ad impazzar ne' pronostici delle imminenti sovrane risoluzioni. Se voi ha deluso l'aspettazione del parto apostolico, non ha meno sorpreso noi lo svanito abboccamento del nostro Cesare col re borusso. L'imperatore ha passato Bautzen, ed i due sovrani non si sono veduti. Ed ecco rovinati tutti i raziocini politici di tanti e tanti begl'ingegni, che spiegavano le cagioni e gli effetti di cotesto al lor credere misterioso e gravido evento. Il bello affare è che cotesta falsa credenza non era adottata dal solo popolo, ma dai luminari più eminenti. Ed ora non so se fra questi medesimi vi sia chi sappia dirne i fondamenti, e se sia stata puramente imaginaria o da qualche accidente mentita. Chi sa! forse avverrà ancora: intanto attendiamo in una rispettosa tranquillità, voi l'aspettato concistoro e noi il ritorno del nostro augusto pellegrino, e non ci ostiniamo a voler prevenire le vicende umane.

La vostra del 31 giugno, a cui rispondo, vorrebbe solleticarmi a parlar del nostro secolo illuminato; ma la materia è troppo stomachevole, ed è più facile trascurarla affatto che parlarne moderatamente. Vi dirò solo ch'io mi sbattezzerei, cercando qual possa mai esser l'oggetto che si propongono cotesti così teneri amici dell'umanità recidendone tutti i legami i quali la congiungono, e che sono gli unici mezzi onde alleggerire il peso della nostra miseria. Quando riuscisse loro di rovesciare i troni e gli altari, si crederebbero forse felici? Oh che povero raziocinio! Addio. Dividete con la sorella i miei abbracci, e credetemi al solito.

 

CIX - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna I4 luglio I766.

Nel fine della scorsa settimana il signor conte Piccolomini m'inviò il vostro aspettato piego, a lui pervenuto da Firenze con l'occasione d'un corriere di là a questa Corte spedito. L'aver dovuto aspettare tale opportunità è stata l'inevitabile cagione della lunga tardanza.

Ho letto subito avidamente, e poi attentamente riletto il vostro filosofico trattatino. Mi sono compiaciuto della solida maniera di pensare che in esso costantemente regna; ho applaudito alla scelta e florida latina elocuzione, ed ho con giusta lode fra me stesso approvato che così savie, cristiane e lucide verità siano il più grato impiego dell'ozio vostro. Onde me ne congratulo non solo con voi ma con me medesimo, cui l'amor vostro ha comunicato qualche parte del merito di così giovevoli meditazioni, dirigendomene l'esposizione. Guardatevi per altro, fratello carissimo, di render pubblico con le stampe cotesto quanto si voglia meritevolissimo lavoro. L'ingiusto premio che ritrarrebbero da tal pubblicazione i vostri dotti sudori sarebbero le beffe di tutti i moderni filosofi illuminati e de' loro innumerevoli seguaci, che inondano oggidì i penetrali del santuario non che i portici ed i licei. La vostra filosofia, appunto perché verace e cristiana, non è la filosofia della moda, e sarebbe follia lo sperare che la verità esigesse rispetto da costoro, predicata da voi, quando appresso de' medesimi sono soggetti di riso l'istesse venerabili sorgenti donde le vostre esortazioni derivano. Non ignorano già questi ciò che voi dite, ma negano senza riserva i principii che sono per noi indubitati e non bisognosi di prova, e sopra de' quali i nostri argomenti si fondano; onde immaginate donde converrebbe incominciar per combatterli. Quando ancora aveste spalle proporzionate a tal peso lo portereste per ora inutilmente, poiché gli urli e le derisioni de' difensori della comoda libertà di pensare e della suprema autorità della natura, ma separata dal secondo loro ingiurioso aggiunto di ragionevole, soffocherebbero la vostra voce e non sareste ascoltato. Onde vi esorto a non desistere da così commendabili applicazioni: ma proponendovi unicamente per sufficiente premio delle medesime il gradito impiego dell'ozio vostro, l'interna vostra tranquillità e la testimonianza che lascierete a' posteri ne' vostri scritti d'esservi saputo conservare illeso nell'universale epidemia del nostro secolo.

Addio. Questa risponde alla vostra del 28 giugno. Comunicate i miei abbracci con la sorella, e credetemi.

 

CX - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 20 ottobre I766.

Una lettera di Roma diretta a questo signor conte Piccolomini, scritta in data del 4 del corrente (come l'ultima vostra che ricevo) dall'eminentissimo di lui fratello, mi scopre che voi avete ancora commercio con le Muse. Ha questa, fra altri stampati, portato un sonetto manoscritto segnato del vostro nome, il quale, per quanto posso ricordarmi, incomincia: "Signor, perché non sol purpureo manto", o cosa simile; perché non mi fido dell'esattezza della mia memoria.

Mi meraviglio che non me ne abbiate fatto parola, poiché il silenzio, a dispetto della vostra modestia, non poteva naturalmente impedire che il sonetto per altra via non mi pervenisse. Or sia il sonetto legittimo o supposto, abbiate voluto o no farmene mistero, sarebbe più che passabile se la tirannia della rima non vi avesse intruso un certo maladetto "intanto", a dispetto della ragione. Ma in cotesto scellerato letto di Procuste sempre vi si giace a disagio. Il nostro Torquato, che ha tanto onorato l'umanità con la sua Gerusalemme, fra la numerosa serie di novecento e più sonetti non ne ha lasciato uno degno del suo nome. L'Omero ferrarese ne ha due o tre che passano di poco il mediocre. Nel Petrarca, che ne ha fatto particolar professione, non ardirei di vantarne cinque o sei irreprensibili. È un componimento in cui l'angustia del meccanismo usurpa tutti i diritti del raziocinio, nel quale le menti vaste e feconde si trovano molto peggio alloggiate che le sterili e limitate, e che potendo godere per la sua brevità de' favori del caso, espone il più canoro cigno di Parnaso a rimaner perditore in concorso d'una cicala. In somma è un componimento al quale già da molti anni ho creduto prudenza di rinunziare affatto, e tremo per quelli che vi s'inviluppano. Pure, se non lodo la scelta dell'impresa, mi piace in voi la cagione che vi ha spinto, e spero che questa avrà senza fallo accresciuto il merito dell'opera appresso il veneratissimo signor cardinale Piccolomini, che, maestro egli stesso dell'arte, ne conosce più d'ogni altro i pericoli, e sa compatir meglio d'ogni altro chi non ha potuto tutti evitarli. Parlatemi di lui nelle vostre lettere, ed assicuratelo del mio rispetto sempre che vi riesce d'esser seco.

Addio, ricevete i soliti abbracci e credetemi.

 

CXI - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 9 febbraio I767.

Nelle vostre due lettere che unitamente ricevo, date il 17 e il 24 dello scorso gennaio, la parte che più mi ha occupato è stata l'eloquente esposizione che fate, nella seconda, del notabile peggioramento della nostra povera Roma nel breve giro di soli trentasei anni. Questo mi ha indotto ad esaminar quello che nel medesimo tratto di tempo si è fatto in Vienna, né l'ho trovato meno considerabile. E passando, come d'ordinario avviene, di meditazione in meditazione, ho pensato che, se veramente esistesse questa successiva degradazione del mondo e tanto continuamente e da tanti decantata, a calcolo sicuro sarebbe esso già da molti secoli distrutto. Così dubitando dell'assioma, nel riandar sommariamente le antiche memorie l'ho ritrovato falsissimo. Ditemi: preferireste voi, al secolo in cui viviamo quelli per avventura che chiamansi favolosi ed eroici?

Credereste felicità il trovarvi esposto agli Antifati, ai Procusti, ai Gerioni, ai Cachi, ai Tiesti e agli Atrei? Sono forse (come meno incerte) le memorie istoriche gli oggetti della vostra invidia? Ricordatevi i Mostri e le Furie ch'hanno funestati nel corso de' loro regni i viventi in Asia, in Grecia, in Egitto. Desiderate per avventura i secoli ne' quali i nostri Romani hanno tanto onorata l'umanità? Andate, vi prego, enumerando le loro vicende, e vedete se vi piacerebbe di far numero nella bella collezione di Romolo, di vivere sotto Tarquinio, di comprar la libertà con l'evidente pericolo d'esser distrutti, di soffrir la tirannia de' decemviri, di trovarvi involto nelle turbolenze dei Gracchi o notato nelle proscrizioni de' triumviri, di tremar sempre alle brutalità de' Tiberii, de' Neroni, de' Caligoli, de' Caracalli e della maggior parte degli altri Cesari? D'esser sepolto sotto le rovine dello scosso e dissipato impero romano? O sommerso dai barbari torrenti che versò il Settentrione sulle infelici nostre contrade? O smarrito e confuso fra i rischi, gli errori, l'ignoranza e le tenebre de' secoli che quindi seguirono? Ma senza andar tanto indietro, ditemi solo se contate come più di voi fortunati quelli da cui nacquero i nostri padri in tempi ne' quali la gelosia, la vendetta, la violenza, il tradimento, armati di veleni, di sicari e di trabocchetti, erano le più luminose virtù degli uomini d'alto affare? Ah, caro fratello, siam noi, non è il mondo che invecchia: e noi rovesciamo sul mondo il nostro proprio difetto. Sempre si è fatto così:

Aetas maiorum peior avis tulit

nos nequiores; mox daturos

progeniem vitiosiorem,

diceva a' suoi tempi Orazio. "Declina il mondo e peggiorando invecchia", esclama nel Demetrio il mio Fenicio. E due mila e novecento anni almeno prima di noi sotto le mura di Troia il Nestore omerico teneva lo stesso linguaggio. Ma ohimè! senza avvedermene la mia lettera ha degenerato in una cicalata da Dottore di comedia. Non vi spaventate però: voi sapete che in ciò non sono solitus delinquere, onde non v'è da temere ch'io ricada facilmente in somiglianti irregolarità. Addio. Vi abbraccio con l'appendice.

 

CXII - A Daniele Schiebeler, Lipsia

Vienna 7 maggio I776.

Gratissimo dell'affettuosa cura di V. S. illustrissima di provvedermi dell'edizione delle vezzose sue italiane poesie, che ho lette alcune ed altre rilette, tutte con nuovo piacere: me ne congratulo sinceramente seco, e l'esorto che, fatto seguace di Temide (come ella mi afferma), non contragga perciò un'ingrata inimicizia con Erato ed Euterpe, sue dichiarate fautrici. Temide le farà raccogliere più solidi frutti de' suoi letterati sudori, e raddolciranno le altre di tratto in tratto il severo e faticoso tenore di vita che prescrive la prima ai suoi favoriti seguaci. Con questa prudente alternativa godrà ella le beneficenze dell'una e l'amabile consuetudine delle altre: purché sappia resistere alle dolci lusinghe di queste care seduttrici, che dividono difficilmente le loro conquiste con qualunque altra rivale.

Ella vorrebbe da me alcuni drammi senza arie, ed io per toglierle questo desiderio dovrei spiegarle il sistema teatrale che dalla lettura degli antichi e dalla lunga esperienza ho creduto dovermi formare in mente, ma questo è lavoro al presente troppo lungo per me. Le dirò solo succintamente ch'io non conosco poesia senza musica; che le nostre arie non sono inventate da noi; che i Greci cambiavano anch'essi di tratto in tratto la misura de' versi e mescolavano le strofe, le antistrofe e gli epodi; che a seconda delle passioni davano occasione a quella musica periodica che distingue le arie dal resto: onde si sono sempre distinti i cantici da' diverbi, come si distinguono ora le arie da' recitativi. È vero che i nostri compositori di musica si scordano oggidì molto spesso che gli attori sono uomini e non violini, onde fanno nascere una troppo disforme distanza fra il tenore de' recitativi e delle arie. Ma non credo che debbasi riformare la maniera di scrivere in grazia d'un abuso che a lungo andare dovrà senza fallo essere riformato dalla natura: la quale expellas furca tamen usque recurrit. Farò consegnare alla persona che mi ha recata la sua lettera (ma che non ho ancora veduta) un mio componimento intitolato I voti pubblici, con la sua traduzione tedesca molto lodata dagli intelligenti, perché la faccia pervenire alle di lei mani. Mi conservi intanto il suo affetto, sicuro d'un giusto contraccambio, e mi creda.

 

CXIII - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 23 novembre I767.

Ho finito di leggere con piacere eguale all'attenzione i tre ultimi libri del vostro Secessus tusculanus, e gli ho trovati così nitidi di stile come gli antecedenti, ricolmi d'infinita erudizione antica, moderna, sacra e profana; e quello di cui più mi son compiaciuto è il sano, prudente e moderato giudizio che regna in tutto cotesto vostro lodevolissimo lavoro; onde me ne congratulo con esso voi e meco in solidum iure fraterno. Questo erudito monumento potrà quandocumque far testimonianza a' posteri che l'enorme frenesia irreligiosa, che tutto contamina interamente il nostro secolo, non è mai giunta a corrompere la vostra ragione, e voi potete intanto compiacervi del tempo e dei sudori da voi degnamente impiegati e dell'approvazione de' pochissimi, se alcuno potrete costì rinvenire, che non deridano, come aniles fabulas, le più autorevoli e venerabili verità; che quasi emissari di quella divinità che combattono, intendono e spiegano a lor talento quanto si è per tanti secoli giustamente creduto superiore all'umano intendimento; e che intolleranti di qualunque ecclesiastica o secolare podestà, professandosi teneri amici degli uomini, ne sovvertono intanto la necessaria società, spezzando i più sacri, i più antichi e i più solidi legami della medesima, e che dilatando il nome di libertà oltre i giusti confini della prudente definizione di Erennio Modestino, chiamano violenze tiranniche quelle regole che sono figlie della libertà medesima, che la dirigono, non la distruggono, e che ne limitano una parte per non perderla tutta. Cotesta enorme licenza di pensare e di parlare raduna facilmente proseliti, perché trova partigiani ed avvocati efficacissimi nelle nostre passioni, alle quali paiono subito lucidi ed incontrastabili tutti i raziocini che loro tolgono quel freno che convien pur che si soffra se si vuol vivere insieme. Non veggo perciò apparenza che il mondo risani da cotesto epidemico delirio a forza di ragioni: convien che funeste conseguenze, a poco a poco intollerabili a tutti, disingannino col fatto. Questa terribile crisi dee per necessità seguire, e forse è incominciata; ma prima che il tutto prenda di nuovo il suo equilibrio, sa Dio che sarà di noi. Vi rendo grazie della cura che avete presa d'informarmi delle stravaganze del Vesuvio; e tanto più ne compatisco i vicini, quanto a proporzione de' loro vivaci temperamenti li conosco sensibili oltre il segno comune. — Addio. Conservatevi e credetemi.

 

CXIV - Ad Angelo Fabroni, Firenze

Vienna 7 dicembre I767.

Desidera V. S. illustrissima e reverendissima da me un giudizio delle opere drarnmatiche del mio antecessore signor Apostolo Zeno, quasi che non bastasse il suo proprio, assai più sicuro di quello di chi obbligato a calcar l'istessa carriera è soggetto, anche senza avvedersene, a lasciarsi sedurre dalla pur troppo comune viziosa emulazione, per la quale figulus figulo ben rade volte è favorevole.

Io, poco sicuro di me stesso nel saper conservare il dovuto mezzo fra l'invidia e l'affettazione, evito il minuto esame delle opere suddette; ma non posso però tacere che, quando mancasse ancora al signor Apostolo Zeno ogni altro pregio poetico, quello di aver dimostrato con felice successo che il nostro melodramma e la ragione non sono enti incompatibili, come con toleranza anzi con applausi del pubblico parea che credessero quei poeti ch'egli trovò in possesso del teatro quando incominciò a scrivere, quello, dico, di non essersi reputato esente dalle leggi del verisimile, quello di essersi difeso dalla contagione del pazzo e turgido stile allor dominante, e quello finalmente di aver liberato il coturno dalla comica scurrilità del socco, con la quale era in quel tempo miseramente confuso, sono meriti ben sufficienti per esigere la nostra gratitudine e la stima della posterità...

 

CXV - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 20 giugno I768.

Nella vostra lettera del 4 del corrente non trovo altra materia della quale le mie antecedenti non abbiano già sufficientemente parlato che la patetica enumerazione delle incomode pensioni imposte dalla natura alla lunga vita. Il soggetto non è ridente ed è secondo me della specie di quelle mediche disgustose pozioni che van trangugiate in un tratto senza andarle assaporando a bell'agio. Io pago i miei debiti al par di voi e d'ogni altro nostro collega, ma procuro di non aggravargli arzigogolandovi sopra: e quando essi mi divengono più dell'usato sensibili, io ricorro allo specifico di porre in opposizione i vantaggi che si acquistano con quelli che si perdono nel trascorrer degli anni, e trovo che le passioni sedate, i desideri circoscritti, gli errori scoperti, le cognizioni acquistate e la ragione ridotta alla sua attività vagliono assai bene il pericoloso vigore e la passaggiera venustà giovanile. Sicché, caro fratello, invece di deplorare il nostro presente stato parmi che assai più ci convenga l'accordarci a venerare quella sapienza infinita che ha posti in tale equilibrio i beni e i mali di tutte le umane condizioni, che né i primi possono ridurci, senza colpa nostra, a disperare, né i secondi ad insolentire.

Attendiamo a momento l'arrivo della reale comitiva che ritorna d'Italia, ed io sono impaziente di sentire dalla contessa Canale gli elogi della nostra patria, avendo veduto nelle sue lettere quanto ella ne sia ripiena. Addio. Comunicate i soliti abbracci con la compagna e credetemi.

 

CXVI - A Sigismondo Chigi, Roma

Vienna 27 giugno I768.

M'era io già da lungo tempo così ben rassegnato alla perdita di cotesto mio scordato ritratto, che il sentirlo ora fra le mani di Vostra Eccellenza parmi l'inaspettata notizia dello scoprimento di qualche nuovo continente verso il polo antartico. In somma non convien mai disperare. Mi consolo che abbia ella finalmente una reale benché picciola prova dell'ubbidienza mia, e ne sarò soprabbondantemente ricompensato se conferirà cotesta tela a rendermi di tratto in tratto presente alla sua ed alla memoria de' miei valorosissimi compastori, a' quali raccomando l'originale.

Lo strano universale fermento nel quale al presente si trovano e le sacre e le profane cose in tutta la terra conosciuta, non mi fa sperar vicino il termine della crisi. Il fuoco arde nascosto da lunghissimo tempo. Son troppo eterogenei gli umori che converrebbe ridurre in equilibrio; e l'oggetto di quelli che potrebbero conferire al riposo è la novità, non la calma. Onde per mettere in assetto l'enorme confusione d'un caos così tenebroso parmi che non bisogni meno che quella Onnipotenza alla quale basta il dire fiat lux perché comparisca la luce. Desidero che questi poco sereni pensieri sien difetti dell'età mia, propensa a deplorare il presente e ad esaltare il passato; ma è ben certo per altro che tutti i grandi cambiamenti degl'invecchiati sistemi (quando ancor sia sicuro che i posteri abbiano a ritrarne profitto) sono sempre fatali a quegli sventurati che la sorte ha condannato ad esserne spettatori.

Attenda intanto Vostra Eccellenza, come ha già valorosamente incominciato, ad arricchir de' suoi simili la nostra patria ed a gettar così nuovi fondamenti alle speranze de' buoni. Ma non trascuri, la supplico, di raccomandare il più presto che sarà possibile la divota servitù mia ai floridi suoi crescenti germogli, e di far loro intendere quali siano i dritti che mi ha acquistato sulla parzialità di quanto da lei deriva quell'antico invariabile rispetto con cui sono sempre stato e sarò sempre.

 

CXVII - A Domenico Diodati, Napoli

Vienna I0 ottobre I768.

Se avess'io potuto secondare il mio desiderio, avrebbe V. S. illustrissima aspettata molto meno questa risposta: ma ben rade volte, riverito amico, mi riesce di poter far uso della mia libertà. Una serie perenne di sempre rinascenti ufficiosi doveri, la maggior parte inutili ma tutti indispensabili, mi defrauda miserabilmente di quell'ozio che l'incostanza di mia salute e gli obblighi del mio impiego permetterebbero di tratto in tratto ch'io consagrassi a qualche studio geniale ed all'utile commercio con alcuno di que' pochissimi quos aequus amavit Iupiter. Il vantaggio ed il piacere ch'io ritraggo dalle sue lettere esigerebbe ch'io ne procurassi la frequenza con l'esattezza delle mie, e se talvolta son costretto, mio mal grado, a trascurarlo, la perdita ch'io ne risento ha più bisogno di compatimento che di perdono. Dovrei qui, prima d'ogni altra cosa, protestar contro l'eccesso della sua parzialità a mio riguardo; ma il riandare ciò ch'ella dice di me, anche con animo di oppormi, è sommamente pericoloso. La vanità dei poeti non ha bisogno di eccitamenti, ed ella è troppo abile a persuadere. Perché conservi il suo equilibrio la mia dovuta moderazione non si vuole esporre a tentazioni così efficaci; onde subito alle dimande.

Confesso che l'orazione sciolta non avrebbe avuto per me minore allettamento che la legata; ma, destinato dalla Providenza a far numero fra gl'insetti del Parnaso, non mi è rimasto l'arbitrio di dividere fra l'una e l'altra gli studi miei. Ho bene intrapreso diverse volte fra gl'intervalli delle mie poetiche necessarie occupazioni qualche prosaico lavoro, sempre per altro analogo al mio mestiere; ma obbligato da frequenti sovrani comandi a riprender la tibia e la lira, ho dovuto far sì lunghe parentesi, che tornando poi all'opera interrotta ho trovato raffreddato quel metallo che già fuso e preparato al getto m'era convenuto di abbandonare; e sentendomi minor pazienza per correr dietro alle idee dissipate, che coraggio per nuove imprese, mi sono avventurato a tentarle; ed esposte ancor queste alle medesime vicende, hanno sempre cagionato il fastidio, il disgusto e l'abbandono medesimo. Cotesti tentativi o piuttosto informi ed imperfettissimi aborti forse esistono ancora dispersi e confusi fra le altre inutili mie carte, come le foglie della Sibilla cumana dissipate dal vento; ma per economia del mio credito avrò ben io gran cura ch'essi non vivano più di me; se pure non mi riuscisse, che non ispero, il fare un giorno di essi qualche uso decente. L'unico lavoro che a dispetto del coturno ho potuto ridurre al suo termine, sono alcune mie brevi osservazioni sopra tutte le tragedie e commedie greche: ma queste osservazioni ancora (oltre l'aver bisogno di essere impinguate, ed il risentirsi troppo della fretta dello scrittore) non sono che necessari utensili della mia officina, e non men per mio che per difetto della materia, mal provvedute di quell'allettatrice eloquenza che può sedurre i lettori; onde, utili unicamente al privato mio comodo, non aspirano alla pubblica approvazione. Il credito poi delle mie lettere famigliari non è giunto mai appresso di me a meritar la cura di tenerne registro. Pur da qualche anno in qua uno studioso giovane amante del nostro idioma ne va trascrivendo per suo esercizio tutte quelle che a lui ne' giorni di posta dall'angustia del tempo è permesso, e ne ha già raccolto maggior numero ch'io non vorrei; ma sono ben certo ch'ei non abuserà della mia condescendenza, violando ingratamente il positivo divieto di pubblicarle. Ed eccole reso il minutissimo conto ch'ella ha richiesto di tutte le mie prosaiche applicazioni.

La seconda richiesta di pronunciar sul merito dell'Ariosto e del Tasso è una troppo malagevole provincia, che V. S. illustrissima mi assegna senz'aver misurate le mie facoltà. Ella sa da quai fieri tumulti fu sconvolto il Parnaso italiano quando comparve il Goffredo a contrastare il primato al Furioso, che n'era con tanta ragione in possesso. Ella sa quanto inutilmente stancarono i torchi il Pellegrini, il Rossi, il Salviati e cento altri campioni dell'uno e dell'altro poeta. Ella sa che il pacifico Orazio Ariosto, discendente di Lodovico, si affaticò invano a metter d'accordo i combattenti, dicendo che i poemi di questi due divini ingegni erano di genere così diverso che non ammettevano paragone; che Torquato si era proposto di mai non deporre la tromba e l'avea portentosamente eseguito; che Lodovico avea voluto dilettare i lettori con la varietà dello stile, mischiando leggiadramente all'eroico il giocoso ed il festivo, e l'avea mirabilmente ottenuto; che il primo avea mostrato quanto vaglia il magistero dell'arte, il secondo quanto possa la libera felicità della natura; che l'uno non men che l'altro aveano a giusto titolo conseguiti gli applausi e l'ammirazione universale, e che erano pervenuti entrambi al sommo della gloria poetica, ma per differente cammino e senza aver gara fra loro. Né può esserle finalmente ignota la tanto celebre, ma più brillante che solida distinzione, cioè che sia miglior poema il Goffredo, ma più gran poeta l'Ariosto. Or tutto ciò sapendo, a qual titolo pretende ella mai ch'io m'arroghi l'autorità di risolvere una quistione che dopo tanti ostinatissimi letterari conflitti rimane ancora indecisa? Pure, se non è a me lecito in tanta lite il sedere pro tribunali, mi sarà almen permesso il narrarle istoricamente gli effetti ch'io stesso ho in me risentiti alla lettura di cotesti insigni poemi.

Quando io nacqui alle lettere, trovai tutto il mondo diviso in parti. Quell'illustre Liceo, nel quale io fui per mia buona sorte raccolto, seguitava quelle dell'Omero ferrarese, e con l'eccesso di fervore che suole accompagnar le contese. Per secondar la mia poetica inclinazione mi fu da' miei maestri proposta la lettura e l'imitazione dell'Ariosto, giudicando molto più atta a fecondar gl'ingegni la felice libertà di questo, che la servile, dicevan essi, regolarità del suo rivale. L'autorità mi persuase, e l'infinito merito dello scrittore mi occupò quindi a tal segno, che, non mai sazio di rileggerlo, mi ridussi a poterne ripetere una gran parte a memoria: e guai allora a quel temerario che avesse osato sostenermi che potesse aver l'Ariosto un rivale, e ch'ei non fosse impeccabile. V'era ben frattanto chi per sedurmi andava recitandomi di tratto in tratto alcuno dei più bei passi della Gerusalemme liberata, ed io me ne sentiva dilettevolmente commosso; ma, fedelissimo alla mia setta, detestava cotesta mia compiacenza come una di quelle peccaminose inclinazioni della corrotta umana natura ch'è nostro dover di correggere; ed in questi sentimenti io trascorsi quegli anni, nei quali il nostro giudizio è pura imitazione dell'altrui. Giunto poi a poter combinare le idee da me stesso ed a pesarle nella propria bilancia, più per isvogliatezza e desiderio di varietà che per piacere o profitto ch'io me ne promettessi, lessi finalmente il Goffredo. Or qui non è possibile che io le spieghi lo strano sconvolgimento che mi sollevò nell'animo cotesta lettura. Lo spettacolo ch'io vidi, come in un quadro, presentarmisi innanzi d'una grande e sola azione, lucidamente proposta, magistralmente condotta e perfettamente compiuta; la varietà de' tanti avvenimenti che la producono e l'arricchiscono senza moltiplicarla; la magia d'uno stile sempre limpido, sempre sublime, sempre sonoro e possente a rivestir della propria sua nobiltà i più comuni ed umili oggetti; il vigoroso colorito col quale ei paragona e descrive; la seduttrice evidenza con la quale ei narra e persuade; i caratteri veri e costanti, la connessione delle idee, la dottrina, il giudizio, e sopra ogni altra cosa la portentosa forza d'ingegno che, in vece d'infiacchirsi come comunemente avviene in ogni lungo lavoro, fino all'ultimo verso in lui mirabilmente s'accresce, mi ricolmarono d'un nuovo sino a quel tempo da me non conosciuto diletto, d'una rispettosa ammirazione, d'un vivo rimorso della mia lunga ingiustizia e d'uno sdegno implacabile contro coloro che credono oltraggioso all'Ariosto il solo paragon di Torquato. Non è già che ancor io non ravvisi in questo qualche segno della nostra imperfetta umanità; ma chi può vantarsene esente? Forse il grande suo antecessore? Se dispiace talvolta nel Tasso la lima troppo visibilmente adoperata, non soddisfa nell'Ariosto così frequentemente negletta; se si vorrebbe togliere ad uno alcuni concettini inferiori all'elevazione della sua mente, non si lasciano volentieri all'altro alcune scurrilità poco decenti ad un costumato poeta; e se si bramerebbero men rettoriche nel Goffredo le tenerezze amorose, contenterebbero assai più nel Furioso se fossero meno naturali. Verum opere in longo fas est obrepere somnum; e sarebbe maligna vanità pedantesca l'andar rilevando con disprezzo in due così splendidi luminari le rare e picciole macchie, quas aut incuria fudit, aut humana parum cavit natura.

Tutto ciò, dirà ella, non risponde alla mia domanda. Si vuol sapere nettamente a quale dei due proposti poemi si debba la preminenza. Io ho già, riveritissimo signor Diodati, antecedentemente protestata la mia giusta repugnanza a così ardita decisione, e per ubbidirla in quel modo che a me non disconviene, le ho esposti in iscambio i moti che mi destarono nell'animo i due divini poeti. Se tutto ciò non basta, eccole ancora le disposizioni nelle quali, dopo aver in grazia sua esaminato nuovamente me stesso, presentemente io mi trovo. Se per ostentazione della sua potenza venisse al nostro buon padre Apollo il capriccio di far di me un gran poeta, e m'imponesse a tal fine di palesargli liberamente a quale de' due lodati poemi io bramerei somigliante quello ch'ei promettesse dettarmi, molto certamente esiterei nella scelta, ma la mia forse soverchia natural propensione all'ordine, all'esattezza, al sistema, sento che pure al fine m'inclinerebbe al Goffredo.

Oh che prolissa cicalata! è vero: ma non mi carichi della sua colpa; ella se l'ha tirata addosso non meno col suo comando che con l'amore, la stima e l'avidità di ragionar seco, di cui ha saputo così largamente fornirmi. Questo saggio per altro non ha di che giustamente spaventarla: le mie fin da bel principio esposte circostanze mi obbligheranno pur troppo ad essere mio mal grado discreto. Non desista intanto dal riamarmi e dal credermi veracemente.

 

CXVIII - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 3I ottobre I768.

La vostra del 15 del cadente non esige altra risposta che l'avviso d'averla ricevuta, poiché quelle de' convivii exarcali e dell'affare del signor Biondi sono materie già abbastanza crivellate, e le altre che abbondantemente somministra il tempo son troppo dure da rodere per i miei denti, troppo ingrate al mio palato e mal confacenti al mio stomaco; onde per economia di salute me ne astengo come da' cibi di cattivo nutrimento e di difficile digestione. Io non sono più in età da poter accostumar la mia mente a ragionar su nuovi principii o a distrugger gli antichi senza dar loro successori. Quel bellum omnium contra omnes del famoso Hobbes, mi ha fatto sempre orrore: ho creduto e credo che il vivere in società sia il maggiore de' nostri bisogni, e che non possa esservi società senza il quod tibi non vis, alteri ne feceris. Questo domma è puerile per i filosofi moderni che vorrebbero tutti i comodi della società senza sentirne alcun peso. È facile ad essi il far proseliti: ognun corre volentieri a chi lo scioglie da qualche noioso legame, e pochi sono i calcolatori capaci di scoprire i grandi danni futuri, che debbono necessariamente nascere da' piccioli vantaggi presenti. Gl'inconvenienti, il disordine, lo stato inquieto e mal sicuro, nel quale a poco a poco convien pur che si cada, illumina finalmente anche i meno avveduti; ma la cura è lunga, dolorosa, e di quelle per resistere alle quali bisogna una più che atletica complessione. Noi siamo attualmente fra le mani de' medici: Dio conduca loro, ed assista noi.

Con mio infinito rammarico osservo che la mia lettera, di cui in quest'ultima vostra voi rammentate qualche passo, ha corsa senza il mio passaporto una gran parte d'Italia: l'eco n'è ritornato a me e da Napoli e da Siena e d'altronde. Il pericolo che possa divenir così pubblico ciò ch'io scrivo confidentemente agli amici mi inceppa e mi dispera. Qual è quell'uomo che in tutti i momenti della sua vita possa mostrarsi con decenza indifferentemente a ciascuno? Mi costa assai d'angoscia il farlo quando mi costringono i doveri del mio stato. Sia debolezza o ragione, non moltiplicate, vi prego, ancor voi con dar copia delle mie lettere, le occasioni di tormentarmi. A chi scriverò con franchezza, se ho da scrivere a voi con timore?

Addio. Comunicate al solito i miei abbracci alla compagna, e credetemi sempre il vostro.

 

CXIX - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 7 novembre I768.

Dalla mia risposta a quella vostra che mi annunziava misteriosamente "che costì v'era chi pensava a promovere distinte maniere d'onorarmi", dovevate aver compreso ch'io andava molto lungi dal segno nel figurarmi tutto quello che voi mi tacevate, ed in quella risposta generica avreste voi dovuto chiaramente intendere e quanto mi obbligava l'amorosa parzialità suggeritrice di tali idee, e quanto poco io mi sentiva disposto a secondarle. Or che voi mi parlate più chiaro, abbandonerò le cifre ancor io. Voi mi conoscete abbastanza per sapere ch'io non sono insensibile ai pubblici segni di approvazione, ma che le mire troppo ambiziose non sono mai state il mio vizio dominante. Se i poetici allori capitolini avessero oggidì quel valore che avevano all'età del panegirista di madonna Laura supererebbero i voti della mia vanità: ma ridotti al prezzo corrente non hanno allettamento che giunga a sedurre la dovuta mia moderazione. I segni d'onore invecchiano come i titoli. Quel messere o magnifico, che onorava alcuni secoli fa gli illustri capi delle repubbliche, offenderebbe oggidì un aiutante di camera. Della vecchiaia di cotesta nostra corona romana abbiam noi a' giorni nostri una prova incontrastabile. Il cavaliere Perfetti senese, poeta poco più che mediocre all'improvviso e di gran lunga meno al tavolino, la ricevé solennemente in Campidoglio l'anno XXV o XXVI del corrente secolo. Ma v'è ancor di peggio. Di qua dai monti cotesti lauri poetici sono oggetto di scherno. In un autor francese compilatore della vita del Tasso è trattata come funzione ridicola quella che si preparava negli ultimi dì della sua vita per coronarlo. Non sono ancor due anni che ha cessato di vivere in Vienna un libraio che serviva di precone agl'incanti dei libri, e che col merito di alcuni versacci latini, che andava di quando in quando schiccherando, avea ottenuto la laurea poetica, né trascurava mai di munire tutto ciò che stampava col titolo di poeta laureato. Tutto ciò non iscema d'un punto la mia vera gratitudine verso chi vorrebbe pure sollevarmi. Ed è vostro debito così lo spiegar questa mia eterna riconoscenza come le solide ragioni che obbligano a deporre affatto l'affettuoso, ma ineseguibile pensiero.

Vedrò volentieri gli Oratorii latini Lorenziniani; ma quando senza gran fastidio vi si presenti l'occasione di mandarli. Questa risponde alla vostra del 22 d'ottobre, ed io sono de more.

 

CXX - Al Capitano Cosimelli, Bistritz

Vienna I9 maggio I769.

La vostra lettera del 25 dello scorso aprile, amatissimo mio signor Cosimelli, è così piena di buon senso che mi convince ad evidenza che voi non avete punto bisogno de' consigli che dimandate. Chi vi stimola a scrivere ha ben ragion di farlo, e voi non ne avete meno, se, consapevole delle vostre forze, vi sentite inspirato a non lasciarle inutili ed a non trascurar quella gloria che potrebbero procurarvi. Vi spaventano con egual ragione la vostra affaccendatissima situazione e la total mancanza d'ogni istrumento e commercio letterario ma, oltreché il celebrato poemetto è una dimostrazione che il vostro vigore è maggiore d'ogni difficoltà, si potria scemare in parte la seconda col fornirvi d'alcun poeta latino che giovi ad eccitar le vostre reminiscenze. S'io non conoscessi a qual segno voi siete delicato sull'adempimento de' vostri doveri, l'unico scrupolo che mi tormenterebbe nel confortarvi all'impresa sarebbe il pericolo che le lusinghe delle Muse non vi seducessero a defraudar di qualche parte della vostra attenzione quell'onorato mestiere che per concorde universale approvazione così lodevolmente esercitate, e che dovrà pure una volta produrvi i meritati vantaggi. Ma il vostro carattere mi difende da questo timore: onde parliam del soggetto.

Questo, come voi ottimamente pensate, dee assolutamente risentirsi della vostra professione; ma il Ciel vi guardi di far un poema didascalico; con una tale pedantesca materia diverrebbe noioso Virgilio: convien bene che vi siano dei tratti che palesino la perizia dello scrittore, ma questo non convien mai che assuma l'importuna qualità di maestro. Qualche particolare evoluzione, maneggio d'armi, scelta di sito, fortificazione, assalto, ritirata o stratagemma lucidamente descritto per occasione e necessità del principal racconto, potrà far bastantemente conoscere la scienza militare del poeta narratore. Una delle illustri vittorie del principe Eugenio (purché non sia quella di Belgrado, che farebbe pensare i lettori alle nostre più recenti vergogne) mi piacerebbe assaissimo, come, per cagion d'esempio, quella di Zenta. Ma questa approverei che fosse favoleggiata, per evitar la supina semplicità d'un secco racconto e non restringere ad un solo limitato oggetto la fantasia dell'autore; intendendo per altro che il favoleggiamento non alterasse punto l'istorica verità. E come fareste voi, mi direte, ad accozzar la favola e la verità? Mi varrei dell'invenzione nella cornice e della verità nel quadro. Ma in qual guisa? Oh, caro signor Cosimelli, per inventare convien pensare, e nel tempo che si scrive una lettera non vi è spazio per le meditazioni. Pure, per farvi vedere che non è l'impresa malagevole quanto la quadratura del circolo, eccovi dove così alla disperata mi appiglierei, se fossi costretto senza altro indugio ad incominciare in questo istante il mio poema. Io mi fingerei, per cagion d'esempio, o alla caccia, o in viaggio, ne' contorni del sito in cui è succeduta l'azione che mi fossi proposto di raccontare. Assalito e sorpreso o da una truppa di malandrini, o da un temporalaccio diabolico, o dall'uno e l'altro insieme, nel cercar ricovero o nel perseguitar gli assalitori mi inoltrerei inavvedutamente in un foltissimo bosco, dove, perduti i compagni, sarei colto da una oscurissima notte senza saper dov'io mi fossi. Mentre io dispero un asilo, un languido lontano lumicino o il latrato di qualche cane m'avvertirebbe di alcun vicino abitante: condotto dai suddetti segni giungerei ad un selvaggio tugurio, nel quale sarei cortesemente accolto da un vecchio ufficioso villano. La strana mistura che osserverei nel rustico ma ordinato soggiorno di marziali e pastorali strumenti mi spingerebbe a chiederne la cagione, e mi sarebbe risposto che degli ultimi faceva uso presentemente e de' primi l'aveva fatto nella sua gioventù, essendo egli un gentiluomo, tanto una volta vago del mestiere dell'armi quanto ora di questa innocente e tranquilla vita che già da molti anni menava. Dimandato in qual contorno io fossi, mi sarebbe detto da lui non esser lontano il sito dove riportò il principe Eugenio la tale o tal altra celebre vittoria, nella quale era stato ancor egli impiegato militando allora sotto il comando di così gran capitano. Or vedete come io sarei già provveduto d'un personaggio che potrebbe condurmi per tutto e di tutto minutamente istruirmi; anzi (se il poema crescesse di mole e dovesse dividersi in piccioli canti) potrebbe fornirmi occasioni per poetici episodi, con le descrizioni delle rustiche sue cordiali mense, di alcuna sua villereccia occupazione, coi prudenti di lui morali ragionamenti sulla filosofica tranquillità della vita da lui eletta, e con mille altri ridenti oggetti favoriti della poesia.

Il mio demonio drammatico, nel ruminar questo improvviso disegno, già mi suggerirebbe le fila per formarne la tela d'una favola teatrale. Mi dice che nel mio cimento fra masnadieri potrei figurare d'essere stato soccorso da persona incognita e valorosa, accorsa improvvisamente fra le tenebre della notte in mia difesa, e che questa dopo avermi veduto in sicuro si fosse da me dileguata senza scoprirsi; che il mio vecchio ospite avesse presso di sé una figlia giovanetta, bella quanto le Grazie, e che, mercé la paterna educazione, trasparisse in lei, fra l'umiltà delle vesti e degli esercizi suoi, tutta la gentilezza della sua nobile origine; che il modesto, grazioso e cortese contegno di questa, aggiunto al pregio d'avere un padre così degno, m'inspirasse tanto amore insieme e tanto rispetto ch'io mi risolvessi a procurarne un legittimo acquisto; che prima di farne la dovuta dimanda io volessi scoprir l'animo della donzella palesandole il mio: ch'ella alle mie dichiarazioni rimanesse muta per lungo tempo, e che finalmente con gli occhi pregni di lagrime mi rispondesse ch'ella conosceva i meriti miei, e che l'onore che a lei faceva la mia scelta esigeva almeno in corrispondenza una sincera confessione; e che soggiungesse poi (sempre piangendo) essere il suo cuore preoccupato dalle amabili qualità d'un giovane soldato, d'anima, di sembiante e di costumi adorabile, e che il suo genitore pensando forse ad altro stabilimento per lei, ed incerto della condizione del suddetto, l'avea negata a lui, ed imposto ad essa di mai più accoglierlo o parlargli. Io, trafitto dall'esclusiva ed obbligato insieme dall'innocente e candida confidenza, desidererei di conoscere almeno il mio rivale. Per mezzo di qualche opportuno e verisimile accidente teatrale giungerei ad appagarmi, e troverei esser egli un mio acerbissimo ereditario nemico per antiche dissensioni di famiglie, ed esser quel medesimo che, conoscendomi, era accorso alla mia difesa nel bosco. Sorpreso dalla virtuosa azione del mio nemico, quanto intenerito per la giusta ma sventurata passione dell'innamorata donzella, mi proporrei di ottenere ed otterrei il consenso del padre alle loro nozze, informandolo del nobile ed opulento stato non men che dell'eroica generosità del mio rivale. Onde rimarrebbe lieto il vecchio del doppio acquisto d'un genero e d'un amico, gli amanti della felice catastrofe de' loro amori, ed io della compiacenza di me medesimo, ritrovandomi capace di saper sacrificare una mia violenta passione ai doveri dell'umanità e della gratitudine. Senza che io ve ne avverta, già vedete che, trattandosi d'un dramma, quell'io dovrebbe essere un Alfonso, un Fernando, un Enrico o qualunque altro nome si volesse. Ma tutto questo sogno ch'io vado facendo ad occhi aperti scrivendovi, non varrebbe un fico per voi, che non pensate a teatro; anzi con questo il vostro quadro sarebbe miseramente soffocato da' fogliami della cornice, inconveniente contro il quale dovete voi esser sempre attentamente in guardia, ancorché sceglieste d'imitar con la vostra invenzione quella che ho incominciata da bel principio ad esporvi, prima che mi tentasse il demonio. Vagliano almeno queste ciance ad eccitar la fermentazione della vostra immaginativa.

Quando si scrive in fretta si accettano le prime idee che si presentano, che non son sempre le più commendabili. Io vi ho avvertito qui sopra di guardarvi dallo scegliere per vostro soggetto la vittoria di Belgrado; ed ora, ripensandovi sopra, mi si presenta come il più grande di tutti. La situazione d'un esercito assediante, una piazza difesa da ventimila giannizzeri, e che si trova tra due fiumi esso stesso assediato da quasi duecentomila musulmani che sopraggiungono; che non essendo composto che di quarantamila combattenti al più, va considerabilmente ogni giorno scemando per le infermità, i disagi e il doppio fuoco de' nemici; il giusto abbattimento di quasi tutti gli ufficiali, non che de' soldati; la costernazione della reggia; i palpiti di tutta la cristianità; l'imperturbabile, fra tanti oggetti di spavento, eroica costanza del capitano, e la sua finalmente solenne compiuta strepitosissima vittoria, che cambia in un istante la pubblica desolazione in giubilo trionfale, parmi un soggetto fornito di tutto il grande, di tutto l'interessante e di tutto l'inaspettato che possa mai desiderarsi. Se mai vi sentiste allettato a sceglierlo quanto io lo sarei, potrete difendervi dalla difficoltà che mi si presentò dal bel principio coll'esempio del gran Torquato, la di cui Gerusalemme, ch'egli cantò liberata, in breve giro d'anni ricadde, come il nostro Belgrado, nelle mani degl'infedeli. Mi pare di sentirvi esclamare: — Oh che gran chiacchierone! — Voi non avete torto, benché la maggior parte della colpa sia vostra, che mi andate stuzzicando. Dovreste pur sapere che cotesto difetto è un malanno dell'età mia, e che non a caso si finse che il vecchio Titone fosse al fin trasformato in cicala.

Addio, caro signor Cosimelli. Riamatemi, e credetemi veracemente.

 

CXXI - Francesco Sinibaldi, Roma

Vienna I5 giugno I769.

Nel drammatico componimento della Reggia di Nettuno e nelle due lettere di cui è piaciuto a V. S. illustrissima di onorarmi ho io pienamente scoperte, gentilissimo signor abate, tutte le stimabili insieme ed amabili qualità del suo cuore e della sua mente. Ho conosciuto nella chiara e nobile egualmente fluidità del suo stile la parzialità con la quale è stato dalla vostra natura favorito il suo ingegno e dall'affettuosa e viva espressione de' suoi per me favorevoli sentimenti son così rimasto persuaso del sincero amor suo, che rendendogliene il dovuto inevitabile contraccambio, io amo i suoi talenti, il suo carattere, la sua cetra, ed ogni persona a cui

Reca diletto, e vie maggior lo prova

quanto l'ascolta più.

Volesse il Cielo, mio caro signor abate, che la mia sufficienza stesse in equilibrio col desiderio ch'io sento di convincerla di questa verità; ma per mia disavventura l'esecuzione del primo suo discretissimo comando incontra un ostacolo ben malagevole a superarsi. Le strepitose continue vicende di questa Corte han fornite da qualche anno in qua tante occasioni a' poeti di cantare or nozze, or coronazioni, or funerali, ed ultimamente il viaggio del nostro Cesare, che da Napoli, da Roma, da tutta la Toscana, da Bologna, da Mantova e da ogni cantone d'Italia si è trovata inondata questa reggia da torrenti di componimenti poetici, e (seguendo la condizione delle cose umane) molto più cattivi che buoni. Onde la povera sovrana, altronde già eccessivamente occupata, vedendosi senza intermissione ogni giorno più assediata ed oppressa da' tributi poetici, ha finalmente esclamato: "Io sono gratissima a tanta parzialità, ma per amor del Cielo non mi presentate più poesie". Dopo un divieto così positivo s'immagini se vi possa esser fra noi chi ardisca avventurarsi a violarlo. Ciò non ostante l'ingegnosa amicizia mi ha suggerito un innocente stratagemma che, secondato dalla fortuna, potrebbe senza lesione dell'ubbidienza procurarne in qualche maniera l'intento. De' quattro esemplari della Reggia di Nettuno, de' quali è piaciuto a V. S. illustrissima di farmi dono, ho per me ritenuto un solo, e distribuiti gli altri nell'augusta famiglia, cioè alla serenissima maggiore arciduchessa Marianna ed agli arciduchi Ferdinando e Massimiliano. Nelle frequenti visite che l'imperatrice regina suol fare a' suoi figliuoli non è impossibile ch'ella vegga e dimandi conto del nuovo libretto, e che, rallentando con la sua interrogazione il freno al rispetto, li autorizzi a parlargliene. Se l'artificio non sarà fortunato, varrà almeno appresso di lei per argomento della mia premura.

Da ciò che V. S. illustrissima asserisce e dal carattere del suo stile io son purtroppo convinto d'aver gran parte di colpa nell'eccessiva passione che la trasporta violentemente in Parnaso e le rende intollerabile qualunque altro cammino. Ah, mio caro signor abate, non mi lasci il rimorso d'aver cooperato involontariamente alla sua infelicità. Non si danno, è vero, più deliziose, più ridenti, più amene contrade di quella del Parnaso per chi favorito (come ella è) dalle Muse può a suo talento passeggiarvi a diporto, ma il Ciel la guardi, dilettissimo mio signor abate, di stabilirvi il suo perpetuo domicilio. Ne troverà sterile ed ingrato il terreno, infeconde tutte le piante, pericolosi i concittadini; e dopo aver corsi mille rischi e sparsi inutilmente i suoi sudori, non si vedrà finalmente al fianco che la miseria ed il pentimento. Le parla in questa guisa un uomo che ha corsa e terminata ormai questa carriera, e con fortuna molto superiore al suo merito; ma non però tale che lo sciolga dall'obbligo d'avvertire i suoi simili di non ingolfarsi in un mare infame per tanti naufragi. Non pretendo io già ch'ella faccia inimicizia con le Muse: io troppo ci perderei, essendomi esse mallevadrici dell'amor suo, ma vorrei ch'ella si fissasse in mente questa conosciuta incontrastabile verità che son le Muse tanto pestifere mogli, quanto adorabili amiche. Dalla mia premura per la sua prosperità spero ch'ella comprenderà e la giusta stima ed il sincero contraccambio d'affetto col quale io sono.

P. S. Oh quanto, mio caro signor abate, son lontane dal vero le ridenti e lusinghiere idee che l'amor de la poesia le va dipingendo nella mente! Ella si figura che questo genial mestiere produca a chi lo professa fama, onori, comodi e tranquillità. Cotesta fama o non si ottiene, o è tardissima e sempre contrastata, e vi si naviga eternamente fra l'invidia e il disprezzo. Il cammino della poesia non ha mai condotto ad alcun grado d'onore, anzi è un ostacolo insuperabile a sperarne. Quell'infelice condannato dalla maligna sua sorte all'infame mestiere di birro, spera divenir un giorno caporale, capitano o bargello: il poeta (sia pure Omero), privo dell'unico sollievo de' poveri viventi, che è la speranza, sa che dopo aver sudato tutta la vita, ei non morrà che poeta. Quanto ai comodi, trascorra ella tutte le antiche memorie, e troverà che i poeti hanno sempre avuta la povertà per indivisibile compagna, e quei pochissimi che si eccettuano come portenti sono reputati fortunatissimi, perché son giunti per miracolo ad evitar la miseria. — Ma (dirà ella) il vostro stato contrasta con le vostre massime. — No, caro signor Sinibaldi; è vero che la mia fortuna mi ha consegnato a così grandi e così benefici sovrani, ch'io sarei il più ingrato di tutti gli uomini se non confessassi che la lor munificenza ha superato e tuttavia supera di gran lunga il merito mio, e che sotto i fausti auspicii de' medesimi io non risento e non ho mai risentito il minimo effetto de' maligni influssi del mio mestiere; ma è vero altresì che sarebbe somma imprudenza il regolar sul fondamento d'un rarissimo esempio una scelta da cui dipende il destino di tutta la vita: ed un esempio nel quale ancora (se si vuol esaminar minutamente) si trovan le prove dello svantaggio che ha quello della poesia a fronte di qualunque altro mestiere: essendo certissimo che se io calzolaio o fornaio avessi goduto quel costante ed eccessivo favore della Fortuna, che ne ho goduto poeta, nuoterei ora fra quelle ricchezze che non desidero, ma non possiedo. Rispetto finalmente alla tranquillità, come può sperar mai di trovarne un infelice poeta drammatico obbligato a servir sempre agl'irragionevoli ed impertinenti capricci dell'eteroclita specie canora, per lo più ignorante, scostumata e superba e (per cagioni quanto meno oneste, tanto più efficaci) violentemente sostenuta? Ma, per venir più particolarmente al caso nostro, mi dica in cortesia, mio caro signor abate, dove mai la sua speranza potrebbe accennarle un asilo? Ne' falliti forse teatri d'Italia, a' quali sono soverchia spesa le vergognose ricompense che si danno a qualunque ciabattino poetico, atto a sfigurar un vecchio dramma a talento d'una eroina o d'un eroe teatrale che l'onora in contraccambio della sua protezione? Crede ella per avventura che la decadenza, anzi la ruina del nostro teatro, sia minore in Germania? S'inganna: corre ancora in queste contrade la medesima sorte. La Corte cesarea, e quella di Dresda ad imitazione di questa, hanno offerta, è vero, per lungo tempo una comoda e decente situazione ad un uomo di lettere esperto nella drammatica poesia, ma né l'una né l'altra è più a tal riguardo la stessa. La Sassonia, dopo l'ultima ruinosa guerra, ha totalmente rinunciato alla musica. La nostra adorabile padrona crede così poco convenevole al suo stato vedovile questo fasto voluttuoso che ha fatto demolire e rivolgere ad altro uso il teatro della Corte, e non ha altri musici se non se que' vecchi inabili che come antichi servitori generosamente conserva a riguardo del loro, non del bisogno di lei. Ed il nostro giovane prudentissimo Cesare non prenderà altro sistema, persuaso che la sua situazione esiga eserciti e non divertimenti.

Io credea che un quarto di foglio fosse troppo per una poscritta, ma la premura di remediare alle seduzioni che possono averle fatte i miei versi rende angusto anche il secondo. Imploro l'assistenza della benevola ascoltatrice della sua cetra affinché in difetto della mia inefficace eloquenza impieghi il suo ascendente a ritrarla da così pericoloso disegno. Oltre la stima già da me concepita, io conserverò eternamente per lei la riconoscenza dovuta a chi mi avrà liberato da' miei importuni rimorsi.

 

CXXII - Giuseppe Aurelio Morano, Napoli

Vienna II gennaio I770.

Le pur troppo solide ragioni della fisica mia e morale insufficienza a corrispondere, come dovrei, alle frequenti lettere dalle quali mi veggo ben oltre il merito mio da varie parti onorato (insufficienza che in me come in tutti i poveri mortali si va di giorno in giorno naturalmente accrescendo) avranno ottenuto dalla discretezza di V. S. illustrissima compatimento non che perdono alla mia tardanza in risponderle, e l'otterranno al necessario laconismo al quale la natura mi costringe a ricorrere per soddisfare in fin ch'io possa in qualche maniera a' miei debiti. Le dirò dunque brevemente che la traduzione delle opere mie in idioma francese non è impressa in Vienna ma in Parigi, e che, essendomene state date poco vantaggiose relazioni da quelli che qui l'hanno veduta, io ho evitato a bello studio di leggerla per non correre il rischio di diventar ingrato a chi mi dà una pubblica prova della sua parzialità traducendomi.

Non m'appartiene in conto alcuno l'autorità ch'ella vorrebbe ch'io m'arrogassi di aggiudicare a Corneille o a Racine il primato sul teatro francese. I loro nazionali trovano tutta la grandezza di Sofocle nel primo e tutta la verità di Euripide nel secondo. Quello in fatti riempie d'idee più luminose la mente dello spettatore, e questo sa agitarne il cuore con affetti più veri; onde son essi due artefici egualmente eccellenti, ma per diverso cammino. Pure non si può negare a Corneille, a fronte del suo rivale, il gran merito di avergli mostrato il sentiero.

Se vuol ella leggere senza veruno scrupolo i Saggi su l'uomo del Pope, ne legga la bellissima versione in terza rima che ne ha ultimamente pubblicata con le stampe in Torino il conte Giuseppe Maria Ferrero di Lauriano. Nelle savie, cristiane e dottissime note, delle quali ha egli fornita l'opera, vedrà evidentemente provata l'innocenza del suo originale: conoscerà in Pope un insigne poeta ed un gravissimo filosofo accademico, ma non vi troverà, com'ella crede, assiomi che concorrano a formarne un suo proprio e particolare sistema. Risposto alle sue questioni, rendo il dovuto contraccambio agli auguri suoi. Auguro a me stesso la continuazione della sua affettuosa amicizia e riverentemente mi confermo.

 

CXXIII - A Saverio Mattei, Napoli

Vienna 5 aprile I776.

Bastano poche faccende, riveritissimo mio signor don Saverio, per occupar tutta l'attività d'uno stanco, logoro ed annoso individuo come son io. Ne ho avuta una dose ben superiore alle mie forze nelle scorse settimane: onde prego V. S. illustrissima non già a perdonare, ma bensì a compatire la non volontaria tardanza della mia risposta all'ultimo non men dotto che obbligante suo foglio. Io non le ho sin da bel principio dissimulata la mia fisica inabilità ad un laborioso commercio; onde a dispetto del mio difetto ella è ora in obbligo di tenermi per suo.

Prudens emisti vitiosum, dicta tibi est lex.

La nostra giovane indefessa compositrice è ben sorpresa dell'eccessiva fortuna della sua musica appresso V. S. illustrissima. Era molto meno elevato il segno da lei prescritto alla propria ambizione, ed è persuasa d'esser debitrice a così cortese fautore della maggior parte di quelle vigorose espressioni dalle quali si trova esaltata. Per sentire l'effetto del suo lavoro ella ha fatta una privatissima prova del noto Salmo nelle sue camere. Non vi erano che gl'istrumenti puramente necessari, le quattro voci inevitabili, e queste un poco men che mediocri, né si erano raddoppiate le parti de' cantanti per i ripieni, onde mancava a questa specie di pittura tutto l'incanto del chiaroscuro; nulladimeno son costretto a confessare che la varia, dilettevole e non comune armonia del componimento superò di molto e la mia e l'espettazione de' pochi iniziati che furono ammessi al mistero. Ebbi cura di far provveder ciascuno de' presenti d'una copia della poesia, ed esultai ne' comuni applausi che ne riscosse l'cccellente traduttore. Spero che V. S. illustrissima non avrà costì trascurata questa necessaria diligenza.

Entro a parte del meritato onore che ridonda all'erudito suo libro dalla necessità di replicarne così sollecitamente una nuova edizione in ottavo; ma non vorrei che la prima in quarto rimanesse però scema del suo compimento. I tre volumi de' quali la sua gentilezza mi fu cortese, appuntati sol quanto basta per servire intanto al comodo de' lettori, attendono con impazienza i loro compagni per essere tutti insieme uniformemente adornati della veste signorile che ad essi è dovuta. Mi hanno così dolcemente fin'ora e così utilmente occupato, ch'io non saprei defraudarli di questo picciolo segno della mia gratitudine.

Ch'io le dica il mio sentimento sul merito dell'antica e della moderna musica? Ah barbaro signor don Saverio! Questo è cacciarmi crudelmente in un laberinto da cui ella sa benissimo ch'io non potrei distrigarmi ancorché fossi fornito di tutti gl'istrumenti che bisognano a tanta operazione, o che mi trovassi ancora nel più florido vigore degli anni per provvedermene. Quale ragionevol comparazione potrà mai farsi fra oggetti che non si conoscono? Io sono convinto della reale, fastosa magnificenza della musica ebrea; io non mi credo permesso di dubitare dell'efficacia della greca; ma non saprei formarmi perciò una giusta idea de' loro diversi sistemi. So benissimo anch'io che la musica in tutta la natura è una sola cioè "un'armonia dilettevole prodotta dalle proporzioni de' suoni più gravi o più acuti, e de' tempi più veloci o più lenti"; ma chi mi darà il filo d'Arianna per non perdermi fra coteste proporzioni? Esse dipendono principalmente dalla giusta divisione della serie successiva de' tuoni, e cotesta divisione appunto è stata sempre, cred'io, ed è manifestamente imperfetta. Come supporre diversamente, quando io sento disputare i gran maestri se l'intervallo da un tuono all'altro debba constare di cinque, di sette o di nove crome? Quando osservo che l'uno chiama dissonanza la quarta e l'altro consonanza perfetta? Se veggo che, accordandosi un gravicembalo esattamente a tenore delle divisioni del nostro sistema, riesce sensibilmente scordato? e se per rimediare a questo inconveniente debbono gli accordatori incominciar dal formare ad orecchio, nel mezzo della tastatura, una quinta eccedente, ch'essi chiamano allegra, cioè scordata, affinché, regolando poi da quella tutta l'accordatura, si spartisca il difetto e divenga insensibile? Chi mi dirà se gli antichi sieno stati più felici di noi nell'esattezza di questa divisione non men soggetta ad errori che quella del calendario? O chi mi dirà di qual mezzo si siano essi valuti per dissimularne, come noi facciamo gl'inconvenienti? Dopo avere letto in Plutarco tutta la noiosa enumerazione degl'inventori d'ogni novità musicale; dopo aver imparato da lui e da' greci maestri, illustrati dall'erudito Meibomio, "l'ipate, il nete, il diapason, la diatesseron, la diapente, i tetracordi, i generi diatonico, cromatico ed enarmonico, i modi dorico, frigio e lidio", e tutto l'antico vocabolario musicale, sarò io più illuminato? saprò io formare allora una chiara definizione di tutte codeste voci da spaventare i fanciulli, ed in tali tenebre, come intanto far paragoni? Può ben essere, anzi è facilissimo, che ciò che pare a me notte profonda, sia giorno chiaro per altri più perspicaci, e meno di me stranieri in questa vastissima e disastrosa provincia; ma non creda che avran essi perciò le cognizioni necessarie a voler fare un fondato paragone fra le antiche e la moderna musica. La musica è oggetto d'un senso, ed i sensi o per le proprie fisiche alterazioni, o per quelle che in esse gli abiti diversi cagionano, van cambiando di gusto di stagione in stagione, non che di secolo in secolo. Un banchetto apprestato a tenore delle ricette d'Apicio farebbe oggi stomaco ai men delicati. Il tanto decantato Bacchi cura Falernus ager, al giudizio de' moderni palati produce ora un vino da galeotti: l'amaro e reo caffè, peggiore, secondo il Redi, dello stesso veleno, è divenuto la più deliziosa bevanda di quasi tutti i viventi; e chi sa se alla fin fine non la divenne anche a lui? Le ariette che incantavano un dì gli avi nostri, sono oggi stucchevoli e insopportabili nenie per noi. Or qual sarà dunque la perfezion della musica, essendo essa soggetta alle decisioni del gusto, così da se medesimo ogni momento diverso? E donde mai prenderò io una norma sicura per avvedermi quando rettamente giudica o quando il gusto delira? "Ma" dirà ella "codesto vostro scetticismo non risponde punto alla mia dimanda. So dubitare ancor io, né sono molto curioso di sapere come voi dubitiate. Il mio desiderio è d'intendere qual sia l'idea che avete voi concepita dell'antica e moderna musica; parendomi assolutamente impossibile che, a dispetto di tante dubbiezze, non ne abbiate pur formata qualcuna". È verissimo, mio caro signor don Saverio: alla nostra sempre operante, temeraria fantasia bastano frivolissimi fondamenti per fabbricarvi immediatamente sopra immagini a suo capriccio. Sol ch'io senta nominare il Cairo o Pechino, essa mi presenta subito innanzi quelle vaste città ch'io non ho mai vedute. Or se V. S. illustrissima è contenta ch'io le comunichi idee di simil fatta, eccomi pronto ad appagarla.

A me pare, riveritissimo amico, che la musica degli antichi fosse molto più semplice, ma molto più efficace della moderna; e che la moderna all'incontro sia di quella più artificiosa e più mirabile. Quando io sento che Platone vuol che nella sua repubblica sia la musica il primo universale studio d'ognuno, come necessario fondamento d'ogni scienza e d'ogni virtù; quando leggo che in Grecia non solo tutti i poeti, ma i filosofi tutti, i condottieri degli eserciti ed i regolatori stessi delle repubbliche eran musici eccellenti, concludo che la musica allora dovesse esigere molto minore studio della nostra, nella quale per divenir mediocre artista convien che altri impieghi la metà della vita, e che fosse per conseguenza più semplice. A provare che la nostra sia più artificiosa di quella parmi che (oltre le infinite altre ragioni) basti il solo contrappunto moderno, in virtù del quale sino a ben ventiquattro cantilene, tutte fra loro diverse, posson cantarsi contemporaneamente insieme, e producono una concorde, incognita agli antichi, soavissima armonia. Che agli antichi fosse incognito, le sarà ad evidenza dimostrata dal dottissimo (specialmente nella scienza armonica) padre maestro Martini. Ei le dirà le scientifiche ed istoriche ragioni per le quali non l'aveano essi e non potevano averla; e le spiegherà che quella concordia di voci diverse, rammentata in pochi passi d'autori antichi che servono di debole appoggio ai sostenitori della contraria opinione, dovea ridursi al cantare nel tempo stesso altri alla quarta, altri alla quinta altri all'ottava, ma l'istessa istessissima cantilena. Ed in fatti se una tal portentosa invenzione fosse stata cognita ai Greci, chi potrà persuadersi ch'essi ne avessero fatto così poco romore? Aggiunga che tutte le imperfette maniere antiche di scrivere la musica (delle quali è giunta a noi la notizia) rendevano impossibile la compostissima operazione del nostro contrappunto. Quel poter esprimere, come noi facciamo, in una sola linea composta di cinque righe tutte le alterazioni de' suoni e de' tempi; quel poter sottoporre l'una all'altra diverse cantilene, e scoprirne così in un'occhiata tutte le vicendevoli relazioni, era, a parer mio, indispensabilmente necessario perché potesse nascere il contrappunto. Or questa maniera di scriver la musica ella sa che non vanta antichità maggiore dell'undecimo secolo.

L'essere stata poi più efficace l'antica della moderna musica, pare a me che debba esser nato dalla direttamente opposta istituzione de' moderni e degli antichi cantori. Il teatro è il trono della musica. Ivi spiega essa tutta la pompa delle incantatrici sue facoltà, ed indi il gusto regnante si propaga nel popolo. I teatri degli antichi eran vastissime piazze: i nostri, limitatissime sale; onde per farsi udire in quelli dagl'innumerabili spettatori che li occupavano, bisognava quella vox tragoedorum che Tullio desiderava nel suo oratore e per conseguirla conveniva che le persone, destinate a far uso della lor voce in così ampii teatri, incominciassero dalla più tenera età a renderla grande, ferma, chiara e vigorosa, con esercizio ben dal presente diverso. I nostri cantori all'incontro, ai quali l'essere uditi costa ora sforzo tanto minore, hanno abbandonata quella laboriosa specie di scuola, ed in vece di affaticarsi a render ferme, robuste e sonore le voci loro, studiano a farle divenir leggiere e pieghevoli. Con questo nuovo metodo sono pervenuti a quella portentosa velocità di gorga che sorprende ed esige gli strepitosi applausi degli spettatori; ma una voce sminuzzata, e per conseguenza indebolita negli arpeggi, ne' trilli e nelle volate, può ben cagionare il piacere che nasce dalla maraviglia, e dee essere preceduto da un sillogismo, ma non mai quello che viene immediatamente prodotto dalla fisica vigorosa impressione d'una chiara, ferma e robusta voce, che scuote, con forza eguale al diletto, gli organi del nostro udito, e ne spinge gli effetti sino ai penetrali dell'anima. Ho ben io potuto, e potrà ognun che voglia argomentare da un picciolo saggio, quanto enorme sia codesta differenza. I cantori della cappella pontificia, benché da fanciulli instituiti anch'essi nella scuola moderna, quando sono ammessi in quel coro, conviene sotto rigorosissime pene che abbandonino affatto tutti gli applauditi ornamenti del canto comune, e che si accostumino (per quanto così tardi è possibile) a fermare ed a sostenere unicamente la voce. Ora lo stesso famoso Miserere del celebre Palestrina che mi ha rapito in estasi di piacere e mi ha internamente commosso cantato da questi in Roma, è giunto ad annoiarmi cantato da' musici secondo il corrente stile eccellentissimo eseguito in Vienna.

Ho sperato altre volte che il nostro canto ecclesiastico potesse darci qualche idea dell'antico, considerando che, quando nel fine del sesto o nel principio del settimo secolo regolò san Gregorio la musica della nostra liturgia, erano aperti ancora i pubblici teatri, e parendomi naturale che qualunque musica in quel tempo composta dovesse risentirsi dello stile che in essi allora regnava; ma oltreché lo stile di quei teatri dovea già, come tutto il rimanente, esser in que' tempi imbarbarito, quali esecutori potrebbero rendercelo ora presente, se tanto è impossibile a' dì nostri il sostenere una massima, quanto era in quelli l'affollar trentadue biscrome in una battuta? Oh Dio buono! che lunga e noiosa filastrocca mi ha ella indotto a scrivere? Posso ben dirle con la colomba del suo Anacreonte:

Lalistéran m'éthekas,

Anthrope, kai korònes.

In premio della mia cieca ubbidienza esigo dalla sua amicizia che la presente lettera non passi dalle sue in altre mani. Sarei inconsolabile se alcuno la rendesse pubblica per soverchio desiderio di onorarmi. Ella sa i miei difetti: li compatisca; mi riami a loro dispetto, e costantemente mi creda.

 

CXXIV - A Saverio Mattei, Napoli

Vienna 7 maggio I770.

Valendosi V. S. illustrissima nello scrivermi del carattere altrui ha provveduto al mio bisogno e mi ha risparmiato il rossore d'una necessaria preghiera, ch'io era già in procinto di fargliene. La sua mano vuol gareggiar di velocità con la mente: e (come d'ordinario avviene) corrompe le proprie facoltà per emular quelle dell'altra. Io le sono gratissimo di quest'atto di gentil compiacenza, e la prego a continuarla.

L'indefessa compositrice è piena di confusione, di contento e di gratitudine per la fortuna della sua sacra fatica e per le parziali testimonianze che è piaciuto a V. S. illustrissima di dargliene ed in stampa ed in iscritto: e riguarda il comando d'un secondo salmo come un sicuro mallevadore dell'approvazione del primo. Avrebbe già posto mano alla nuova opera, ma, impegnata in altro non breve già promesso ed incominciato lavoro, convien ch'ella sospenda il desiderio d'ubbidirla sino alla soddisfazione del debito anteriormente contratto. Intanto, per mettere questo intervallo di tempo a profitto, mi commette di comunicarle una sua riflessione, alla quale attende risposta. Ella crede che un primo e secondo violino sarebbero utilissimi al richiesto componimento, sì per dar quando si voglia quel corpo all'armonia che non può formarsi dal solo salterio, come per quella varietà che in tredici strofette uniformi di metro è tanto necessario di procurare quanto difficile di conseguire. Aggiunga che cotesti violini, come puri accompagnamenti, non si opporrebbero punto al fine che si è proposto il signor don Saverio: poiché volendo egli eseguire il salmo nella sua camera, o a solo, o con la limitata presenza d'alcun amico, potranno essere i violini impunemente trascurati e la sola parte del salterio obbligato, già per se stessa più delle altre adornata, farà con le voci e col basso un grato e sufficiente concento. Ma quando vorrà esporlo a più numerosa udienza ed in vaso più capace, potrà dargli co' violini il decente e necessario corteggio. Ha bisogno oltracciò la compositrice di sapere se il salterio, di cui il signor don Saverio si vale, abbia tutte le intiere e le mezze voci del gravicembalo, e s'egli vi adoperi le bacchette o i ditali. Nello Stabat Mater del Pergolesi io sento e riconosco con ammirazione e diletto il sublime ingegno, il bel cuore ed il dotto e prudente artificio dello scrittore. La signora Martines l'ha sempre sul suo gravicembalo, né ci stanchiamo mai, né mai ci stancheremo ella di ricantarlo, io d'ascoltarlo di nuovo. Ma, riguardo a' Salmi Marcelliani, confesso, mio caro signor don Saverio, ch'io non so di musica abbastanza per esser atto a compiacermene. Mi sovviene d'averne udito parlare assai svantaggiosamente da accreditatissimi artefici. Il celebre Caldara, insigne contrappuntista e favorito maestro di cappella dell'imperator Carlo Sesto, infastidito un giorno del prolisso ed eccessivo elogio che gli andava facendo il cardinale Passionei, allor nunzio in Vienna, de' Salmi del Marcello, gli disse in mia presenza: "Io non saprei trovare in quei salmi altro di raro che la stravaganza". Io stesso in Venezia sono stato testimonio di un tratto ben ardito del nostro Nicolò Porpora. L'avea invitato il Marcello alla prova d'un di cotesti suoi salmi, e gliel'avea presentato in istampa: il Porpora nel corso della musica ne andò di tratto in tratto ripiegando le carte: e quando infine il Marcello veniva a lui, persuaso di riscuoterne una almen civile approvazione, egli con gentilezza veramente scitica gli rese il salmo dicendo: "Mi condolgo con V. E. che sia stata così mal servita nella stampa; il salmo è pieno d'errori: io ne ho contrasegnati alcuni". Intese il Marcello: con un riso amaro gli volse le spalle senza rispondergli; e la loro implacabile inimicizia incominciò da quel punto. All'incontro fra Marcelliani mi nomina V. S. illustrissima persone degnissime, delle quali io tengo in sommo pregio e venerazione il giudizio: onde, confuso fra così rispettabili dispareri, risolvo di relegarne la decisione fra le altre innumerabili cose che ignoro.

Ella per quel ch'io veggo s'è messa in capo di trasformarmi in cicala: onde, perché non le riesca, finisco, pregandola ad attestare a cotesto obbligantissimo signor consigliere Borragine la giusta mia infinita riconoscenza per la gratuita sua generosa parzialità, ed a procurar che gradisca la sincera offerta dell'ossequiosa servitù mia. Addio. Io sono e sarò sempre.

P. S. Alla valorosa signora N. N. i miei cordiali saluti e quelli della signora Martines.

 

CXXV - A Saverio Mattei, Napoli

Vienna 9 luglio I770.

Mi giunse nella scorsa settimana il piego di V. S. illustrissima, spedito, non so quando, da Napoli, non essendovi lettera che me ne informi; ma veggo che mi reca quei fogli che avrebbero dovuto accompagnare l'ultima sua precedente.

Ho letto per le nozze della signora marchesina Tanucci il suo, non so s'io mi dica ingegnoso dramma o cantata, essendo questo leggiadro componimento, oltre la colta vivacità dello stile, tutto pieno d'azione che trattiene e seduce il lettore; servendo nel tempo istesso di grand'elogio al suo eroe. Ogni giorno ho nuove convincentissime prove della mirabile estensione de' suoi talenti, e son superbo della giusta idea che da bel principio io n'avea già concepita.

Sommamente mi sono poi dilettato attentamente considerando il musico filosofico carteggio che si è compiaciuta comunicarmi. Ho ammirate ed invidiate le forze e la destrezza di due valorosissimi atleti, che non meno nell'assalire che nello schermirsi mostrano il lor magistero nell'arte. Mi hanno obbligato ad ondeggiar lungo tempo fra le opposte loro sentenze: ciascuna di esse mi avrebbe rapito sola; ma avendomi assalito unite, l'una mi ha difeso dalla violenza dell'altra, onde senza aver cambiato di sito, mi trovo tuttavia fra le istesse antiche dubbiezze. Ciò che ho potuto stabilir di sicuro è solo il fermo proposito di non espormi mai a cimento con campioni così esperti e vigorosi, per non fornire a V. S. illustrissima troppo efficaci motivi di scemare, a riguardo mio, quegli eccessi di parzialità con cui veggo che pensa, parla e scrive di me; parzialità, ch'essendo tutta un gratuito suo dono, non è sufficientemente contraccambiata dalla piena ma dovuta giustizia ch'io pubblicamente le rendo.

Le mie fantastiche congetture su l'antica musica, a lei unicamente per ubbidirla comunicate, non meritano d'esser difese. Ne sono io stesso così poco sicuro, che non prenderei certamente l'armi per sostenerle. Pure parendomi che V. S. illustrissima creda ch'io sia caduto in contraddizione nell'esporle, vorrei poterle dimostrar almeno, che se ho mancato per avventura di ragione o di chiarezza, non ho perciò violati i canoni della dialettica. Dopo aver asserita l'enorme instabilità de' gusti, ho supposto, è verissimo, una costante semplicità nella musica antica, paragonata alla nostra; e non ho distinto i diversi tempi che possono essere compresi nel nome d'antichità. In primo luogo confesso non essermi caduto in mente che la varietà de' gusti contraddicesse punto alla costanza della semplicità, potendo ottimamente andar variando quelli senza cambiamento di questa. Le espressioni, per cagion d'esempio, semplice e molle, semplice ed aspro, semplice ed amoroso, semplice e severo, e così in infinito, non involvono, a parer mio, contraddizione alcuna; poiché di mille infinitamente diverse modificazioni che possono esser oggetto de' gusti, è ottimamente capace una sola medesima costantissima semplicità, nella quale possono quelle trovarsi incluse, come la specie nel genere. Se poi io non ho distinti i diversi tempi dell'antichità è perché gli ho creduti tutti egualmente bisognosi della asserita semplicità; e non essendovi bisogno della categoria de' gusti, non mi è paruto necessario d'attribuire a quelli l'incostanza di questi. Eccole di bel nuovo il mio raziocinio, che mi studierò di render più chiaro. Io ne stabilii per fondamento, come supposto incontrastabile, che il teatro sia l'arbitro della sorte della musica. Nel teatro il popolo l'ascolta, e, imitator per natura, ne ritiene e ne va ripetendo ciò che più l'ha commosso nelle adunanze, ne' conviti, per le pubbliche vie, e tutto se ne riempie in guisa che ne sono finalmente occupati anche i tempii. Questa è verità da noi giornalmente sperimentata: e non l'hanno ignorata né taciuta gli antichi. Ovidio nel terzo libro de' Fasti, descrivendo le diverse allegre occupazioni, con le quali si tratteneva il numeroso popolo romano ne' prati di là del Tevere, nelle feste di Anna Perenna, dice:

Illic et cantant quidquid didicere theatris,

et iactant faciles ad sua verba manus.

Ora il teatro per tutta l'antichità drammatica ch'io conosco, incominciando dai primi palchi di Eschilo, o s'ella vuole dai plaustri di Tespi coetaneo di Solone fra' Greci, e da Livio Andronico fra' Romani, il teatro, dico, è stato sempre un luogo all'aria aperta, capace d'un popolo spettatore sino alla moderna invenzione delle nostre anguste, coperte e limitatissime sale, che or noi onoriamo del nome di teatri. Queste, a creder mio, han promosso, favorito, e reso possibile il compostissimo sistema della nuova musica tanto dall'antica differente. Poiché l'arte de' suoni, che debbono formarsi nell'aria da noi regolarmente commossa, convien per necessità che si tratti con ragione infinitamente diversa quando la mole che vogliam mettere in moto è più vasta e più circoscritta e leggiera. Chi canta a cielo aperto ad un popolo intero ha bisogno, per farsi sentire, di spinger la sua voce col maggiore sforzo possibile, e cotesto sforzo non è affatto compatibile col nostro portentoso sminuzzamento de' tempi, eseguibile unicamente a mezza voce ed in luogo ristretto. Or, quando il canto è composto di tanto minor numero di parti, è sommamente minore anche il numero delle combinazioni che ne risultano, e per necessaria conseguenza è notabilmente più semplice.

L'argomento poi, o sia indizio di cotesta antica semplicità, da me tratto dall'universalità della scienza musicale a' tempi di Platone, non è sciolto, mio caro signor don Saverio, col contrapposto di quelli che per diletto a' nostri dì la posseggono. Non creda che questi sieno molti, perché molti ne parlano. Basta una picciola dose di teorica per ragionar decentemente d'un'arte; ma il divenire artista è dono privativo della lunga indefessa pratica, maestra di tutto, senza escluderne la virtù medesima, ch'ha dovuto perciò esser definita da' saggi habitus animi rationi consentaneus. Che la pratica della moderna musica sia infinita è pur troppo palese. Per assuefare il petto, le labbra, l'occhio, l'orecchio e le dita a cospirare unitamente con uffizi tanto diversi alla frequente divisione de' quasi impercettibili istanti, bisognano milioni d'atti replicati e l'abbondantissima dose d'un'eroica pazienza. Questo penoso, eterno esercizio occupa comunemente tanto spazio della nostra breve vita, che non ne lascia abbastanza per gli altri che sono necessari a rendersi atto agl'impieghi o militari o civili. E se ve n'ha pure alcuno che sia giunto a vincer così enorme difficoltà, dee contarsi fra quei rari portenti che sono oggetti d'ammirazione, ma non fondamenti di regole.

Or vegga V. S. illustrissima a qual segno m'ha reso loquace la pueril ripugnanza di comparir cattivo logico appresso di lei. Non era questo, a dir vero, un sufficiente motivo onde tanto affannarmi. Se s'incontrano antinomie fra i legislatori, non sarebbe poi finalmente reo d'un misfatto da nascondersi per vergogna, se mai fosse colto in contraddizione un poeta.

L'attenta nostra compositrice mi commette con molta premura di riverirla. Si spedì ella in fretta dal lavoro che avea fra le mani, si applicò senza intervallo alla composizione del nuovo salmo: già non è lontana dalla metà del cammino: e se la felicità con la quale è sin qui proceduta non l'abbandona nel resto, spero che non soffrirà discapito il credito della sua diligenza. La replicata lettura del salmo 41, da V. S. illustrissima primieramente assegnatole, l'affezionò di tal sorte, che non ha poi voluto assolutamente valersi della libertà di cambiarlo. Rispetto alle voci, ella ha creduto necessario di tenere il sistema medesimo che scelse per il Miserere, come più atto ad impiegar l'abilità del compositore ed a diversificare l'uniformità del componimento. Scriverà un paio di strofe col salterio obbligato, ma di modo che, in mancanza di questo stromento, potranno con un violino ottimamente eseguirsi. Addio, mio caro signor don Saverio. Quando non debba esser mistero, non mi lasci ignorare il nome del dotto e savio prelato con cui carteggia.

Io sono intanto, e sarò eternamente.

 

CXXVI - A Eleonora de Fonseca Pimentel, Napoli

Vienna 9 agosto I770.

I saggi poetici, e specialmente l'Epitalamio, di cui ha V. S. illustrissima avuta l'obbligante cura di provvedermi, così per la nobile ed armoniosa franchezza con cui son verseggiati, come per la vivace immaginazione che gli anima e gli colora, e non meno per l'abbondanza delle notizie istoriche e mitologiche onde sono arricchiti, sarebbero già degnissimi di somma lode considerati unicamente in se stessi; ma dove si rifletta esser questi le prime produzioni de' felici talenti d'una gentil donzella che ha incominciata appena la carriera del quarto lustro, crescono a dismisura di merito ed assumono ragion di portenti. Ha ben ella veduto che cotesta specie d'usurpazione dei dritti del sesso e dell'età mia avrebbe potuto essere in me per avventura cagione di qualche geloso rincrescimento: e, cortese quanto ingegnosa, me ne ha somministrato l'antidoto asserendosi debitrice della luminosa fermentazione del nativo suo iuoco poetico all'assidua lettura degli scritti miei. Io presto ben volentieri, senza verun esame, tutta la mia fede a cotesta forse puramente ufficiosa asserzione, contentissimo di poter congiungere, al dovere della giustizia che le rendo, anche l'interesse dell'amor proprio. Continui, con progressi corrispondenti a così mirabili principii, a far onore ed invidia alle sue pari, e quindi innanzi costantemente mi creda.

 

CXXVII - A Giuseppe Bottoni, Pisa

Vienna 23 maggio I77I.

Con infinito piacere, che mai non avrei saputo sperare di ritrarre dall'eccesso della mia mestizia, ho letto avidamente le sei Notti dell'insigne poeta Young nell'elegante versione di V. S. illustrissima, e le sono gratissimo di avermi così abilitato alla conoscenza delle Muse anglicane, a dispetto della mia involontaria imperizia del colto loro illustre idioma. Io le ho intese mercé di lei, ed ammirate a tal segno che non mi son punto avveduto della lor veste cambiata. Non ho osservato nella sua traduzione né pur un solo di quei tratti di pennello mal sicuri e servili che sogliono distinguer le copie dagli originali; e son persuaso che, se il primo sublime autore avesse cantato su le rive dell'Arno, avrebbe procurato di esprimere i suoi pensieri con quella fluida e chiara nobiltà e con quella costante e varia armonia di cui gli ha V. S. illustrissima, trasportandoli, mirabilmente arricchiti. Comprendo qual faticosa cura debba averle necessariamente costato un così difficil lavoro; ma parmi ben degnamente impiegata. Quanto sia grande il merito di questo eccellente scrittore si prova coi suoi difetti medesimi, poiché, malgrado l'ordine negletto, le frequenti ripetizioni, l'ostinato costume di mostrarci sempre gli oggetti dal lato lor più funesto e di non volerci condurre mai alla virtù per altra via che per quella della disperazione, malgrado, dico, tutte coteste così rincrescevoli circostanze, ei sa rendersi assolutamente padrone del suo lettore e trasportarlo seco dove gli aggrada. Pensa egli sempre, e sempre con profondità e con grandezza: immagina sempre, e sempre con novità ed evidenza, e tutto vivacemente, vigorosamente e splendidamente colorisce; onde nella copia delle luminose bellezze che abbondano, non resta luogo al desiderio delle perfezioni che mancano; come appunto nella magia del colorito del Rubens si disperde talvolta l'irregolarità del disegno. Auguro a V. S. illustrissima la continuazione del dichiarato favor di Apollo nel progresso di così ben incamminata lodevolissima impresa: auguro a me stesso facoltà onde non usurparmi intieramente la sua troppo generosa parzialità, e sono intanto con la più grata, sincera e divota stima.

 

CXXVIII - A Saverio Mattei, Napoli

Vienna 30 maggio I77I.

... In tutto ciò ch'ella dice del mio Ruggiero si riconosce l'amico; ed il piacere che mi produce questa riconoscenza non mi fa sentir qualche interno rimorso che dovrebbe cagionarmi l'eccesso della parziale sua approvazione. Ma qualunque sia cotesto mio povero dramma, non crescerà certamente di merito fra le mani de' presenti cantori, ridotti per colpa loro a servir d'intermezzi ai ballerini, che avendo usurpata l'arte di rappresentare gli affetti e le azioni umane, meritamente hanno acquistata l'attenzione del popolo, che hanno gli altri meritamente perduta: perché, contenti d'aver grattate le orecchie degli ascoltanti con una sonatina di gola nelle loro arie, il più delle volte noiose, lasciano il peso a chi balla d'impegnar la mente ed il cuore degli spettatori, ed han ridotto il nostro teatro drammatico ad un vergognoso ed intollerabile miscuglio d'inverisimili...

 

CXXIX - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna I luglio I77I.

Giacché non si può parlar delle nuove dei Turchi e de' Russi, de' Portroyalisti e de' Gesuiti, de' Parlamentarii e de' Realisti senza pericolo di dir qualche fandonia prodotta come istoria evangelica dal fanatismo dei partiti, eccovi una nuova che potrete almeno creder per sicurissima ed assicurarla a chi vi piace sulla mia fede. È giunto in questa Corte nella passata settimana, già da qualche tempo aspettato, un personaggio molto considerabile e di ben alto lignaggio. L'imperatore istesso mi dicono che sia andato ad incontrarlo in persona: l'ha accolto benignamente e l'ha alloggiato in Corte con tutto il seguito che conduce, seguito distintissimo e degno d'un suo pari. Tutta la nobiltà si affolla a fargli onore non solo per la presente sua dignità, ma per la grande elevazione alla quale, vivendo, è dalla natura destinato. Voi siete impaziente di saper questo personaggio chi sia: e non essendovi mistero, eccomi pronto ad appagarvi. Questi è un giovane elefantino di ben tenera età, cioè fra l'infanzia e l'adolescenza. Lo Statt-older lo manda in dono al nostro Cesare con un superbo leone, alcuni belli e stravagantissimi uccelli ed altri exotici semoventi. Addio. Questa risponde alla vostra del 18 giugno ed io per non voltar foglio vi abbraccio con la compagna e sono.

 

CXXX - Ad Agostino Gervasi, Napoli

Vienna I0 ottobre I77I.

Dicite, io Paean! Ecco finalmente una lettera del mio amatissimo e stimatissimo monsignor Gervasio. E come affettuosamente diffusa! e come analoga al candore del suo bell'animo! e quanto efficace ad appagare tutte le più minute sollecitudini d'un vero amico! Io vi son debitore d'una gran parte del vostro contento che avete saputo comunicarmi col ridente colorito di tutte le vostre espressioni. Io partecipo e godo in voi di cotesta comoda, lieta, opulenta e tranquilla segregazione dal nostro turbolento commercio, dove gl'ingegni più fervidi ed applauditi, professandosi protettori dell'oppressa (dicon essi) umana società, s'affaticano con ogni sforzo a distruggerne tutti i sacri e profani vincoli che la conservano. Non potete immaginarvi quanto dopo la vostra partenza siasi accresciuta la loro baldanza ed il numero insieme dei giovani proseliti dell'uno e dell'altro sesso. Sono così rapidi i progressi dell'empietà e della licenza, che a dispetto dell'età mia io temo di giungere ancora in tempo di essere spettatore del bellum omnium contra omnes dell'ardito filosofo inglese. Ma non è sano consiglio immergersi in queste nere meditazioni che sono forse in me sintomi servili.

Dopo molte Olimpiadi che ho già trascorse, non sarebbe strano che fossi anch'io divenuto, senza addarmene, difficilis, quaerulus, laudator temporis acti, me puero, censor, casticatorque, minor. Non fomentiamo adunque il difetto dei miei pari, e figuriamoci piuttosto un futuro meno funesto. Possano finalmente le nostre speranze aver fondamenti non irragionevoli; epidemie somiglianti a quella che deploriamo hanno altra volta regnato e sono altre volte svanite

Dovrei contraccambiare ora con l'esatta esposizione del mio presente stato quella che mi avete cortesemente fatta del vostro; ma conoscendo voi tutte le non cambiate circostanze della mia situazione e l'uniforme tenore della mia vita, che per costanza o per pigrizia io non ho punto alterato, poco mi resta che dirvi di me medesimo. La mia salute, se non è affatto quale io la vorrei, è per altro assai migliore di quello che avrei dritto oramai di pretenderla. Vivo al solito nel commercio civile quanto basta a non divenir misantropo e mi difendo dall'inclinazione che me ne sento ricorrendo ad litterulas in compagnia di un paio di savi amici a voi ben noti, che sono il conte di Canale ed il barone di Hagen, coi quali, meco perfettamente concordi di genio, di costumi e di opinioni, passo tranquillamente, rivolgendo le antiche carte, alcune ore d'ogni giorno, spesso con profitto e sempre senza rimorso.

A dispetto della giusta mia determinazione di lasciar finalmente in pace le Muse, l'adorabile mia sovrana mi ha nuovamente mandato in Parnaso a mettere insieme un nuovo dramma per festeggiare le nozze dell'augusto suo figlio, l'arciduca Ferdinando, e non è stata mai tanto meritoria la mia ubbidienza. Me ne ha largamente invero ricompensato l'onore che ella mi fa, e dandomi sempre pubbliche pruove del suo clementissimo gradimento colle imperiali sue munificenze. Ma non vorrei vedermi finalmente una volta costretto ad informar tutto il mondo con qualche mia debole produzione, ché il zelo di ubbidirla, che nel mio cuor sempre cresce, non basta a sostener le veci del vigor della mente, che sempre scema. Il titolo del nuovo dramma è il Ruggiero o vero L'eroica gratitudine, soggetto tratto dai tre ultimi libri del Furioso di Lodovico Ariosto, e non alieno delle nozze che si celebrano, poiché gli eroi del dramma sono dal mio autore annoverati fra gli avi illustri della sposa reale. S'io saprò insegnargliene la strada, verrà il mio Ruggiero (con grande invidia mia) a ritrovarvi, incaricato di alimentare nell'animo vostro (s'ei n'è capace) quell'affettuosa parzialità della quale gratuitamente mi onorate, e come sincero pegno della stima, della gratitudine, della tenerezza e del rispetto con cui sono e mai non lascierò d'essere.

 

CXXXI - A Carlo Goldoni, Parigi

Vienna 30 dicembre I77I.

La vostra lettera sola, come argomento della memoria che di me tuttavia conservate, mi avrebbe sommamente consolato: or pensate, mio caro signor Goldoni, a qual segno l'abbian fatto il prezioso dono della vostra nuova ammirabile commedia e le relazioni della sua ben meritata fortuna, che prolissamente me ne ha date il benevolo portatore. Il soggetto della medesima è ingegnosamente immaginato, ed eseguito poi con tal connessione e vivacità di scene, che non ammette mai il minimo ozio e semper ad eventum festinat. Le fisonomie de' personaggi son tutte vere, grate e costanti; gli affetti naturali e sensibilissimi perché espressi con piccioli e franchi tratti di pennello magistrale; il dialoghismo è seducente e felice a segno che non trova l'invidia ove l'emende; e tutto ciò in un idioma straniero! Questa, a mio credere, amico dilettissimo, è la prova più incontrastabile che finora avete data della parzialità della natura nel produrre il raro vostro talento. Io me ne congratulo con voi e con me che son vostro: mi preparo a replicar ben presto quest'ufficio con esso voi; ed intanto teneramente abbracciandovi e rendendovi sincerissime grazie della memoria e del dono, mi confermo sempre.

 

CXXXII - A Gioacchino Pizzi, Roma

Vienna 27 febbraio I772.

... Il romore costì insorto intorno al signor abate Petrosellini può facilmente esser nato dall'avere egli scritto e mandato qui per commissione dall'impresario di questi pubblici teatri (non della Corte) un suo dramma giocoso che non credo ancora rappresentato, perché, quantunque da più di venti anni io non sia entrato in alcun teatro venale, mi sarebbe certamente capitato il libretto. Ma non v'è sicuramente la minima apparenza che i nostri sovrani abbiano, o per meglio dire vogliano più avere alcun bisogno né di musici, né di compositori, né d'architetti teatrali, né di poeti. Il gran teatro in cui nel palazzo imperiale si rappresentavano le opere per le persone auguste al tempo di Carlo VI è già da molti anni abbattuto e cambiato in una sala. Non v'è più alcuna cantatrice né musico alcuno in attual servizio, toltone qualche vecchio decrepito che gode in riposo le munificenze imperiali in premio de' suoi lunghi servigi. L'augustissima padrona dopo il suo stato vedovile si è sempre astenuta rigorosamente e si astiene da qualunque spettacolo, ed il prudentissimo nostro Cesare, persuaso con gran ragione che il primo suo obbligo è la conservazione del lutto, crederebbe gran fallo il distrarre in dispendi voluttuosi gli erari suoi, che lo stato militare assorbisce se pur si vuol conservar tale che in mezzo di tanti principi armati sia degno d'esiger rispetto. Vi dirò di più: so esservi qui state persone che hanno ardentemente aspirato a qualche aulica graduazione poetica: ma in virtù credo io dello stabilito economico sistema, non ostante le onnipotenti impegnatissime protezioni hanno finalmente dovuto deporne ogni speranza. Da tutte queste verità concepirete, caro amico, quanto sia difficile il formarsi una giusta idea degli oggetti lontani. Vi sono per altro obbligato del giusto giudizio che fate delle disposizioni dell'animo mio a vostro riguardo: disposizioni che mi faranno sempre essere in qualunque circostanza.

 

CXXXIII - A Leopoldo Trapassi, Roma

Vienna 30 aprile I772.

Dalla dolorosa ferita che ho sentito e tuttavia sento nel più vivo del cuore per la funesta perdita della cara nostra sorella, argomento quale debba essere il vostro stato, avendo voi così gravi ragioni di risentirne la mancanza e per l'assuefazione di tutta la vostra vita passata alla sua compagnia e per il futuro difetto che ogni giorno proverete d'una così amorosa assistenza, ed in età nella quale tutti più ne abbiamo bisogno. Io sarei inconsolabile su questo punto della vostra desolazione, se non vedessi manifesta la paterna cura del nostro misericordioso Creatore nel far che si trovi appresso di voi un così onesto, affezionato servitore come è il vostro Buzzano, la fedeltà e la prudenza del quale esperimentata da voi per il corso di ventun anni mi rende tranquillo e sicuro e mi libera dal timore che non vi manchi chi conosca e proveda con affetto e giudizio a tutti i vostri bisogni e che sappia perfettamente come amate voi d'essere servito. Sicché d'ora in avanti egli sarà il nostro maestro di casa, farà il suo ufficio e quello della povera defonta sorella e vi alleggerirà dal peso, che non è più per voi, delle cure economiche, delle quali ei renderà conto al signor marchese Belloni: ed a voi non rimarranno altri pensieri che quelli dell'eterna salute e di quelle che a voi son gradite letterarie occupazioni, delle quali per invecchiato lodevole costume non potrete privarvi. Su questo tenore ho scritto al signor marchese Belloni, e su questo pensiero che voi sarete amorosamente e fedelmente servito ed assistito procuro di andarmi consolando dei dolorosi colpi ai quali piace all'Altissimo che la mia rassegnazione mi procuri qualche merito appresso di lui. Addio, caro Leopoldo, vi raccomando la vostra e la mia quiete, e con tenerezza anche maggiore dell'usata abbracciandovi mi confermo il vostro.

P. S. Non potete credere quanto mi ha consolato la vostra savia risoluzione di fuggir dalla vostra casa a quella di Buzzano. L'imaginarmi solo la vostra solitudine fra quelle mura, dove tutto vi rendeva presente la nostra perdita, mi faceva tremare. Prego Dio che vi tranquillizzi del tutto e di nuovo vi abbraccio.

 

CXXXIV - A Carlo Buzzano, Roma

Vienna 2I agosto I772.

Voi avete prove sicure della cieca fiducia che io ho sulla vostra coscienza, onoratezza e fedeltà; voi sapete che una sola vostra parola ha valuto appresso di me come un solenne testamento, rogato per mano di pubblico notaro: io credo che abbiate meritato da me questo credito, e non dubito che continuerete a meritarlo. L'annessa cambiale di scudi venticinque, che vi accludo affinché possiate rivestirvi e fare le altre picciole provisioni necessarie per la casa, è un'altra prova del credito che voi avete appresso di me, poiché io vi mando questo soccorso straordinario benché mio fratello non molto tempo fa mi scrivesse d'essersi trovato alle strette per aver dovuto rivestirvi: e benché sia per me difficile a comprendere che venticinque scudi al mese non bastino in Roma al sostentamento d'una sola persona. Mettetevi, caro Buzzano, in luogo mio, e ditemi se la mia pazienza e la mia carità fraterna meritano che se ne faccia un così visibile abuso. Comprendo bene quanto duro impiego sia il vostro, dovendo in figura di servitore essere il tutore d'una persona che ha quasi perduto affatto l'uso della ragione; ma conoscendolo io, potete assicurarvi che non mi scorderò mai della riconoscenza che ve ne deggio. Fate dunque intanto quello che farei io medesimo, cioè provvedete ai bisogni legittimi e necessari di mio fratello, e non secondate le sue puerili stravaganze, alle quali le mie facoltà non basterebbero s'io avessi la debolezza di volerlo contentare in tutto. E quando avete fatto questo lasciatelo dire tutti gli spropositi ch'ei vuole e che proferisce senza saper quel che dice. Addio, caro Buzzano. Compatite me quanto io compatisco voi e credetemi il vostro.

 

CXXXV - A Tommaso Filipponi, Torino

Vienna 5 ottobre I772.

Mi solletica dolcemente la vostra affettuosa impazienza di più lungo silenzio, dilettissimo signor Filipponi: e vi so buon grado che abbiate scossa la scambievole pigrizia turbandole un possesso che incominciava a diventar prescrizione. È necessario il far motto di tratto in tratto agli amici, anche senza motivo che l'esiga: e non manca mai che dirsi fra loro alle persone che si amano. Vi ha detto il vero il gentilissimo monsieur Chantel intorno all'ingannatrice mia esterna apparenza. Rade volte il mio viso palesa quello ch'io soffro, e senza punto giovarmi mi defrauda del compatimento degli amici. Ma pure, tutto ben contato, s'io non istò così bene come vorrei, sto di gran lunga meglio di quello che dall'età mia sono autorizzato a pretendere, ed avrei scarsa ragion di lagnarmi. Rendiamo dunque grazie alla Provvidenza, e tiriamo innanzi come e sin ch'ella vuole.

Mi ha fatto rider di cuore la vostra esclamazione ammirativa: Ma, caro abate, è possibile che dopo il Ruggiero non abbiate dati alla luce altri parti del vostro ingegno? Ma quanto vorreste mai che durasse, caro amico, la mia fecondità? Non vi basta che abbia emulata quella di Sara? Se fra' miei parti voi conterete gli aborti, troverete un numero di gravidanze che giustifica la mia avversione d'ingravidar di bel nuovo. E perché vorreste voi ch'io ingravidassi? per far cosa grata a cotesto stampatore. Oh! che Dio vel perdoni. Parvi per avventura che l'eleganza della torinese impressione del decimo tomo degli scritti miei sia atta a grattar l'ambizioso prurito d'un povero autore? Aggiungete a questo ch'io sono infastidito dalle Muse a segno, che per far loro dispetto ho scritto ultimamente un libro in prosa, ed un libro che le tormenta. Questo è l'Estratto della Poetica d'Aristotile, da molti anni da me meditato, ma non mai per le assidue mie inevitabili occupazioni eseguito. Ho detto in esso, a seconda delle occasioni, i miei pareri sopra vari punti drammatici, combinando gli esempi de' tragici greci con le regole d'Aristotile, con quelle de' dotti ma inesperti moderni critici, e con quei lumi che la pratica di più di mezzo secolo ha pur dovuto somministrarmi a dispetto de' miei corti talenti. Lavoro che ha servito ad occuparmi lungamente senza far versi, ed a mettere in uso una quantità di memorie e di osservazioni in piccioli fogli da me in tanti anni notate, che imbarazzavano il mio scrigno senza rendermi il minimo utile servigio. Quest'opera farà ottima compagnia alla versione della Poetica d'Orazio da me scritta in versi gran tempo fa; e l'uno e l'altra contenti d'aver servito intanto a giustificare me con me stesso, non saranno certamente impazienti di sottoporsi al giudizio del pubblico.

Addio. Il signor conte di Canale ha sommamente gradita la vostra memoria e cordialmente vi saluta. Io mi congratulo con esso voi dell'invidiabile vicinanza della signora Guadagni Alessandri, e vi prego di contraccambiar seco i gentili di lei complimenti coi miei. Riverisco la venerabile sacerdotessa e tutte le vostre sacre e profane appendici, e sono con l'antica tenerezza.

 

CXXXVI - A Giuseppe Rovatti, Modena

Vienna 8 ottobre I772.

La carissima vostra del 22 dello scorso settembre mi ha come tutte le precedenti sommamente consolato, recandomi novelle d'un amico ch'io stimo ed amo quanto egli merita per il suo candido costume, per i suoi colti talenti e per le amabili qualità del suo cuore; ma mi ha nel tempo istesso più delle precedenti turbato scorgendosi chiaramente in essa quali progressi vada in voi facendo, mio caro signor Rovatti, quella peste ipocondriaca che si va ormai rendendo tiranna e dispotica dell'animo vostro. Ah, per carità di voi medesimo, amico dilettissimo, non l'andate accarezzando. Io m'avveggo che siete giunto al funesto sintomo di compiacervi della sua compagnia e di allettarla con le ingegnose immagini delle quali la vostra mente è feconda. Ed essa in contraccambio vi somministra paradossi che v'inducono a dedurne conseguenze disperate, indegne della vostra ragione ed ingrate alla benefica Onnipotenza che vi ha distinto con tanti doni e d'ingegno e di fortuna. Voltate gli occhi indietro, mio caro amico e considerate quanti milioni di persone sono in istato d'invidiare il vostro, e poi ditemi se non è degno di rimproveri il desiderio di cambiarlo. Consento che non vi mancheranno nello stato in cui siete circostanze rincrescevoli ed amare, ma in quale stato non ve ne sono? Credete come un evangelo quell'antico popolare assioma che se vi fosse un mercato di guai, ogn'uno che v'andasse per far cambio con altri di quelli che soffre, se ne ritornerebbe volentieri a casa co' suoi. Voi conoscete benissimo queste verità, ma gli accessi dell'infermità superano le forze del raziocinio. Io son medico ché sono stato infermo, né posso vantarmi d'esser perfettamente risanato. Di tratto in tratto mi conviene ancora combattere con gl'improvvisi assalti di questa maledetta ipocondria: onde credete ai miei consigli. Difendetevi, non fidandovi di voi medesimo: e già che avete ancora la facoltà di dissimulare il vostro dolore, mettetevi in necessità di farlo cercando la compagnia di persone che v'impongano rispetto e vi obblighino così a pensare a ciò che ascoltate ed a quello che dovete rispondere. Dopo qualche tempo di questa per voi violenta operazione, esperimenterete che si rompe il filo nelle nere idee che v'ingombravano e che avrete riacquistata la facoltà di pensare a seconda della vostra ragione non offuscata dai vapori dell'atrabile. Pensateci, caro signor Rovatti, pensateci seriamente. Si tratta di molto più che non credete, e voi avete armi ancora per difendervi. Compagnia, distrazioni, varietà d'oggetti e fuga dal maggiore de' vostri pericoli di trovarvi da solo a solo con voi medesimo, particolarmente quando vi sentite più violentemente assalito e quando più vi piace la solitudine che alimenta le vostre afflizioni. Addio. La materia è contagiosa. Io sento che parlando della vostra si risveglia la mia ipocondria: onde, perché non diventi nociva ad entrambi, finisco questa lettera teneramente abbracciandovi e confermandovi ch'io sarò sempre.

 

CXXXVII - A Michele Sarcone, Napoli

Vienna I2 novembre I772.

La violenta fermentazione di bile che accende nel parziale animo di V. S. illustrissima il barbaro governo che han fatto degli scritti miei tanti stampatori fin ora, mi convince bensì dolcemente dell'invidiabile possesso ch'io godo dell'amor suo, ma non è punto per me contaggiosa: la continua rinnovazione di tali insulti mi ha reso ad essi insensibile, come Mitridate ai veleni: e starebbe poi troppo male per altro ad una cicala di Parnaso, come son io, il mostrarsi intollerante d'una sventura da cui gli Omeri, i Virgili, gli Ariosti ed i Torquati non han potuto difendersi. Ho ben pur troppo ancor io una dose d'amor proprio che basta per desiderare una edizione che mi consoli degli strapazzi sofferti: ma non ne ho però tanta che vaglia a somministrarmi il coraggio di affrontare le difficoltà da superarsi per ottenerla. Trascuro di rappresentarle minutamente quelle con le quali si troverà V. S. illustrissima alle mani costì (se pur vorrà intraprendere contro il mio avviso una così dura provincia). Proverà ben ella stessa di quanto lunga pazienza avrà bisogno nella ristampa di ben dieci volumi: improbo lavoro, che sarà certamente mal secondato or dalla inabilità or dalla negligenza ed or dalla mala fede degli esecutori delle sue savie disposizioni: e s'avvedrà pur troppo al fine di quanto fra loro ordinariamente sbilancino i calcoli degl'ideati incerti guadagni, e quelli de' sicuri e non mai interamente preveduti dispendi di somiglianti operazioni. Ma dirà ella, e dirà vero, che il peso di regolar costì la nave fra queste Sirti suo sarebbe e non mio: ed è verissimo altresì che io deggio supporre che non sieno sfuggiti alla sua prudenza né i rischi dell'impresa né i mezzi per evitarli. Dunque io non sono in dritto d'opporre al disegno se non se la mia fisica impossibilità di conferire all'eccellenza della novella edizione quelle parti che esigono il mio lavoro: e lavoro che, in mezzo al più florido vigore degli anni miei sempre da me costantemente abborrito, or l'età e la stanchezza mi han reso intollerabile affatto. Converrebbe, per secondare l'affettuoso suo desiderio, ch'io prendessi in primo luogo per mano i miei dieci volumi, e che parola per parola ne correggessi l'ortografia, l'interpunzione e gli errori. Vorrebbe quindi ella ch'io le formassi un pieno, esatto e minuto catalogo d'ogni mio lungo o breve componimento, guarnito della notizia cronologica del loro nascimento, della prima pubblicazione, del teatro, del maestro di musica, dell'occasione per cui fu scritto e d'ogni più minuta circostanza che possa servir di lume alla storia de' miei peccati e de' miei pentimenti: ed esigerebbe finalmente che in ogni mio dramma si trovassero assegnati i luoghi che debbono occupar sul palco gli attori nel tempo della rappresentazione: e dove, e quando, e come debbano essi cambiarli, se il verisimile ed il comodo dell'azione il richiede: scienza tanto necessaria quanto ignorata da tutta la schiera canora, e che oscura e deturpa negletta (come egregiamente ella osserva) qualunque più ordinato e più splendido dramma. Or come può mai suppormi V. S. illustrissima tanto a quest'ora robusto, tanto affatto disoccupato, e tanto eroicamente paziente ch'io possa sottopormi a così lunghe, così ingrate, così spinose fatiche? Se sedotto dalla paterna debolezza io trascorressi inconsideratamente a prometterlo, non si fidi di me, riverito signor don Michele, perché la mia insufficienza mi costringerebbe senza fallo a tradir la sua espettazione. Sicché sia ben certissimo della mia infinita riconoscenza per le amorose sue parziali intenzioni, ma se non sono abile ad approfittarmene mi compatisca e non m'accusi: e faccia uso (se ancora è in tempo) di quei suggerimenti che la mia gratitudine non ha permesso ch'io taccia, per prevenire i danni a' quali ella per troppo amarmi pensa generosamente d'esporsi.

Quando mi giungano i libri e le poesie ch'ella mi annuncia, e delle quali incomincio già ad esserle grato, gliene darò immediatamente il debito conto: e son intanto con perfetta stima e con indelebile riconoscenza.

 

CXXXVIII - A Giuseppe Azzoni, Siena

Vienna I9 agosto I773.

L'affettuosissima vostra data il dì 30 di giugno è giunta molto tardi alle mie mani; ed io ho dovuto di più differire otto o dieci giorni a rispondere, indispensabilmente in altro occupato. Il Serenissimo Infante di Spagna Don Gabriele di Borbone, giovane principe di meravigliosi talenti e d'esemplare applicazione, ha trasportate elegantemente nell'idioma spagnuolo le Storie di Salustio, Catilinaria e Giugurtina: si è degnato mandarmene in dono un esemplare magnificamente stampato in Madrid ed accompagnato dal comando di darne in iscritto il mio giudizio. Non dubito che in questa esposizione troverà la vostra discretezza scuse più che legittime della mia tardanza.

È verissimo che per far uso non riprensibile dell'ozio mio, dopo aver fornita delle note necessarie la mia versione della Poetica d'Orazio a voi nota, intrapresi e ridussi al termine un Estratto non breve di quella d'Aristotile: ed in esso, sulle tracce originali del testo, confesso ingenuamente ciò che me ne rimane oscuro e dubbioso, non ostante la per lo più tenebrosa esposizione dei dottissimi suoi commentatori: parlo non di passaggio della natura della poesia e dell'imitazione, e non taccio alcune incontrastabili verità che l'esperienza di più di cinquant'anni di non interrotto esercizio rende alfine necessariamente palesi ad ingegni anche più tardi del mio, ed alle quali direttamente si oppongono alcune erronee opinioni, nate nel corso del secolo passato nella mente di dottissimi critici, ma del tutto inesperti del mestiere del quale si erigono in maestri, e che col credito loro hanno accreditato l'errore: benché quando da maestri han voluto divenire artefici abbian sempre le opere loro costantemente fatto un miserabile naufragio a dispetto dell'osservanza de' nuovi dogmi che ci propongono. Ci pensate, mio caro padre maestro, se la pubblicazione di cotesti miei due libretti sarebbe molto favorevole al mio genio pacifico, e s'io sono in età d'incominciare un tirocinio polemico. Queste occupazioni mi hanno ricompensato de' miei sudori col liberarmi dalla noia dell'ozio, e non ne pretendo altro frutto.

Mi dispiace di non essere in istato d'approfittarmi degli avvertimenti del severo Aristarco romano. Un amico, per mostrare stima del mio stile tragico, si vale dell'antica metafora de' coturni, che sono in somma gli stivaletti da teatro, e mi prega di fargliene un dono, quando non voglia più valermi de' miei. Io, per rispondere che il mio stile non merita d'esser desiderato, continuo la sua metafora e dico che il padre Apollo lo provederà di migliore calzolaio, perché i miei son difettosi ed io sento dove mi premono. Avrà il critico le sue ragioni per disapprovar la metafora ma io, che non spero a quest'ora di migliorare, non vuo' beccarmi il cervello ad investigarle.

Il mio amor proprio vorrebbe ch'io credessi che quel Wasner o Watner, o che so io? di cui vi parlò con clemenza tanto parziale l'arciduca granduca, volesse dir Metastasio; ma se mai fosse così, non crediate ch'io attribuisca al merito mio gli eccessi della sua benignità, che mi riguarda come un antico mobile dell'augusta sua Casa, e siate certo ch'io conto fra le circostanze più care di questa mia fortuna la tenera compiacenza da voi provata ascoltandolo.

Ho letto con infinito piacere il gentile, poetico e divoto sonetto della nostra impareggiabile signora Livia, e vi prego congratulandovene seco a mio nome di assicurarla della costanza della giusta mia riverentissima stima; e voi, mio caro padre maestro, conservatemi il prezioso luogo che mi avete per bontà vostra assegnato nel vostro grande, candido e sensibilissimo cuore. Sicuro ch'io procurerò con tutto il mio spirito di meritarlo, e sarò invariabilmente pieno di stima, di rispetto e d'amore.

 

CXXXIX - A giuseppe Rovatti, Modena

Vienna I8 gennaio I775.

Mi ha recato inesplicabile contento, mio caro signor Rovatti, la obbligantissima vostra lettera del 25 dello scorso dicembre. In primo luogo perché è vostra; in secondo perché non mi parla di salute, argomento sicuro che voi la godete, qual io ve la desidero, perfetta; poi perché ridonda di espressioni che mi convincono della continuazione dell'amor vostro, e finalmente perché m'informa delle lodevoli vostre letterarie, indefesse occupazioni, che riempiono con invidiabili acquisti e di cognizioni e di merito tutti i ben impiegati spazi dell'ozio vostro. Ho ammirato il vostro invidiabile coraggio nella scorsa che avete fatta nella disastrosa provincia teologica; ma vi consiglio da buono e vero amico di non farvi lunga dimora. La temerità di que' dotti che hanno preteso di sottoporre alla limitata umana ragione le verità incomprensibili ed infinite, ha ripiene le scuole d'innumerabili paralogismi, fra' quali innoltrandosi i più ingegnosi arrischiano di deviar dal buon sentiero con poca speranza di mai più rinvenirlo, e di questa schiera sono stati tutti assolutamente i più celebri antesignani dei desertori della vera credenza. Il sapere, al quale è a noi permesso di aspirare, ha terreni immensi e sicuri, donde può con lode e con profitto raccogliersi; onde, perché mai pretendere di sollevarsi da terra senza le ali a ciò necessarie e a noi dalla natura o, per meglio dire, dalla Provvidenza negate? Chi non è obbligato a farlo dai doveri del suo stato io credo che operi con somma prudenza evitando un così pericoloso cimento e contentandosi di quella sola scienza teologica della quale sufficientemente, per la nostra salute, ci provvede il catechismo romano.

I bellissimi versi che m'inviate per saggio del componimento da voi scritto su l'eternità sono pieni di dottrina, di energia e di quel vigore di fantasia della quale voi credete a torto che vi abbiano impoverito gl'insetti. Son sicuro che certamente anche in questo misterioso genere di poesia avreste fatti, come nel resto, considerabili progressi, se vi foste tutto ad esso dedicato; ma non vi pentite di non averlo fatto. Per questo mezzo si acquista, quando riesce, il voto de' dotti soli, ma non si guadagna mai quello del popolo, senza il quale non v'è poeta che vada all'eternità di quella fama che ambisce. La facoltà essenziale e costitutiva della poesia è il diletto. Essa non è che una lingua imitatrice del parlar naturale, ma composta, per dilettare, di metro, di numero e di armonia, ad oggetto di sedurre fisicamente l'orecchio e con ciò l'animo di chi l'ascolta; e l'insigne poeta, che insieme è buon cittadino si vale di questo efficace allettamento per insegnar dilettando. Di questi necessari allettamenti appunto manca in gran parte quello stile poetico che per troppo parer robusto, pregno, conciso e figurato, perde la felicità, l'armonia, la chiarezza e divien facilmente enigmatico e tenebroso affatto inutile al popolo ed abbandonato al fine alla dimenticanza anche da que' dotti per i quali unicamente è scritto. Il dottissimo poema in verso sciolto del nostro gran Torquato è già sepolto fra le tenebre dell'obblivione solo perché mancante de' fisici allettamenti essenziali alla poesia; ed il suo divino Goffredo all'incontro, perché ornato di quella perpetua armonia seduttrice che seconda sempre l'elegante ritmo delle magistrali sue stanze, vive e vivrà finché avrà vita l'idioma italiano e nelle bocche e nella memoria de' letterati tutti e di tutti gl'idioti. Sicché riconciliatevi, caro amico, co' vostri insetti; continuate ad accarezzarli, e non vi lasciate sedurre da quell'anglomania che regna da qualche anno in qua in alcuna parte d'Italia. Non tutti i frutti prosperano in tutti i terreni: il nostro ha indole diversa da quella di cui si pretende d'imitare le produzioni, e secondando la nostra possiamo aspirare alla gloria d'essere, come siamo stati, i maestri degli altri, e saremo all'incontro infelici copisti se vogliamo cambiar natura.

Addio, mio caro amico. Conservatevi; continuate ad onorar l'Italia e voi stesso, e credetemi sempre il vostro costantissimo.

 

CXL - A Eleonora de Fonseca Pimentel, Napoli

Vienna 8 marzo I776.

Alla prima vista dell'ultimo obbligantissimo foglio di V. S. illustrissima mi sono augurato, a dispetto del pacifico mio temperamento, una buona dose dell'atrabile d'Archiloco, per iscaricare un torrente de' velenosi suoi giambi su quel genio malefico, ch'esercitando il suo mal talento sulla mano innocente della gentilissima signora donna Eleonora, mi ha per qualche tempo malignamente defraudato di così invidiabile corrispondenza; ma, rileggendo e meglio considerando questa vivacissima lettera, la trovo così ridondante di pellegrine idee e di seduttrici espressioni che, non potendo in buona coscienza attribuirmele, son costretto a credermene debitore a quell'incomodo appunto e doloroso accidente che, come gli argini ai fiumi, ha raddoppiato l'impeto alla sua trattenuta eloquenza. Questa giustissima induzione restringe, è vero, i limiti della mia vanagloria, ma non quelli però della mia gratitudine: poiché da me n'esige moltissima la sola parzialità d'una cortese abitatrice di Parnaso, che sceglie me per oggetto delle sue fermentazioni poetiche. Ma pensi per altro, amabilissima signora donna Eleonora, che non è sempre sano consiglio il fidarsi così di leggieri alle suggestioni dell'estro quando esso è ne' suoi parossismi. Osservi a qual ingiusto ed ingrato trascorso l'ha spinta contro la povera benemerita gonna femminile, che tanti somministra al bel sesso comodi, preminenze, ornamenti e decoro. E per qual mai colpa o difetto? Perché la gonna è un impaccio a' suoi immaginati viaggi: ed a che mai diretti? o a correre a dispetto de' vampiri del tepido Sebeto all'agghiacciato Danubio, solo per esaminar da vicino una misera anticaglia romana che casualmente vi si ritrova, e che da lei, benché lontana, è già conosciuta abbastanza; o d'andar visitando per l'Asia e per l'Africa fin le tane de' Trogloditi per combinar filosoficamente le varie inclinazioni e costumi de' viventi; e facendo così una minuta analisi dell'umanità, rendersi atta (come vanamente ella spera) a formarsene alla cartesiana un'idea chiara e distinta. Imprese entrambe inutilissime almeno: poiché l'anticaglia, di cui tanto ella è curiosa, non val certamente il disagio di così lungo tragitto: anzi diverrebbe appresso lei di pregio anche minore veduta con gli occhi propri di quello che presentemente le sembra postale innanzi dalla felice sua immaginazione, che abbellisce tutto quel che figura. L'impresa poi di rendersi abile a definir giustamente questo strano composto di contraddizioni che si chiama uomo è da contarsi fra le impossibili, poiché non credo che ve ne abbia neppur uno che d'istante in istante non si mostri dissimile da se medesimo. E quelle proprietà nelle quali tutti universalmente convengono possono esser conosciute da noi senza dilungarci punto dalle nostre contrade: perché, se le cornici sono innumerabilmente diverse, il quadro è sempre lo stesso. In ogni angolo del mondo gli uomini sono egualmente il trastullo delle proprie passioni: per tutto si gusta il comodo, anzi si conosce l'indispensabile bisogno della società, e per tutto si congiura contro quei legami senza i quali la società non sussiste. Ognuno conta la ragione come necessario attributo dell'umana natura, ed ognun prende quest'ultima nelle sue operazioni per guida, ma separata da quella. Sicché, riveritissima mia signora donna Eleonora, torni pure in pace con la sua gonna; deponga affatto il pensiero di così inutili e disastrosi viaggi, e pensi solo a compir da sua pari quello che ha di nuovo coraggiosamente intrapreso sul mare drammatico, che sulla fede de' rari suoi e già sperimentati talenti le presagiscono fortunato gli auguri, le speranze ed i voti miei. Cadendole in acconcio, non trascuri, la prego, di rinnovare al degnissimo signor de Sál la memoria del mio giusto rispetto; mi conservi la sua parzial propensione anche quando non mi protegge appresso a lei quel calore di cui spesso Apollo l'accende; e mi creda, con la più grata ed ossequiosa stima, sempre invariabilmente l'istesso.

 

CXLI - Ad Aurelio Giorgi Bertolà, Siena

Vienna I8 marzo I776.

Il vivo ritratto che, con visibile sua compiacenza, mi ha più volte fatto il degnissimo nostro comune amico signor conte Bolognini dell'amabile costume di Vostra Paternità illustrissima, quello che mi hanno presentato de' suoi rari talenti i vari saggi poetici o da lei trasmessimi o altronde a me pervenuti, e la gratuita sua ostentata parzialità per gli scritti miei, mi han reso da gran tempo e debitamente già suo, ma la mia gratitudine non ha influenza alcuna nella giustizia ch'io rendo al suo floridissimo ingegno, poiché non saprei trattenermi di dirne lo stesso quando ella, per mia sventura (quod Deus omen avertat), mi divenisse nemica. Onde, senza chiamar a consiglio nel mio giudizio e l'obbligo e l'affetto che a lei mi lega, asserisco candidamente ch'io trovo in lei tutto ciò che bisogna per aspirare a qualunque le piaccia più luminoso luogo in Parnaso, purché la sua docilità non l'induca a declinar dall'ottimo limpidissimo suo stile naturale per adottar quello di taluni che, pensando per altro egregiamente, voglion render misteriosi i loro pensieri ravvolgendoli in una nebbia così densa che fa divenir oscuro ciò che per se stesso è chiarissimo. So bene assai che questa specie d'avvertimento è affatto superfluo con esso lei, poiché ci ha dimostrato col fatto che quando ella si è proposto in esempio alcuno di cotesti dottissimi ma nuvolosi scrittori l'ha ben la rara sua abilità secondata nell'emularne la robustezza, ma non le ha permesso il suo buon senso d'imitarne le tenebre. Perdoni all'età mia l'universale senil prurito di predicar sempre, anche fuor di proposito; tanto più che l'oracolo del suo e mio Orazio, decipit exemplar vitiis imitabile, giustifica la mia osservazione, e può, se non è necessario al presente, essere in altro tempo opportuno.

Le sono gratissimo dell'esemplare sua compiacenza che ha dimostrata nel sagrificare agli scrupoli miei le due note bellissime strofe, e se per ora il timore di non passar per uomo che vada mendicando incensi mi fa desiderar che non si pubblichi sola tutta la nobilissima ode, di cui quelle eran parte, non mi lasci il rimorso d'averne co' dubbi miei defraudate le stampe, ma la confonda con altri suoi componimenti quando vorrà darne alla luce qualche nuova Raccolta della quale, non essendo io solo l'oggetto, sarà men verisimile l'attribuire alla mia vanità la debolezza d'esserne stata la promotrice.

Ho letta la gentile felicissima versione dell'anacreontica alemanna; me ne congratulo col traduttore ma non con l'originale, al qual mancano tutte le veneri delle quali in un più armonioso idioma ha saputo arricchirne i pensieri la cura di chi l'ha travestita; non si stanchi di riamarmi, e mi creda invariabilmente.

 

CXLII - Ad Antonio Eximeno, Roma

Vienna 8 settembre I776.

Se io non fossi ormai stanco e per l'esercizio del mio impiego, e per la vacillante situazione della grave età mia che rapidamente declina, non vorrei trascurare l'invidiabile corrispondenza d'un suo pari, sicurissimo di trarne ogni possibile vantaggio; perché ben vedo dalle obbliganti lettere di V. S. illustrissima di quante nobili merci e pellegrine è arricchita la sua officina. Me ne congratulo seco lei, ed ammiro com'ella sa unire insieme colle noiose occupazioni del Foro i bei diporti di Elicona e le amene delizie che, a dispetto di Temi, non tralascia di godere in compagnia delle Muse. Ho letto poi con piacere la sua dissertazione sulla musica moderna e l'assicuro che ha superato di molto la mia espettazione. Soprattutto mi ha sorpreso l'ordine delle cose, l'aggiustatezza e coltura dello stile, l'ingegnoso intreccio degli argomenti, l'arte in somma e il magistero onde mette a luce la più remota e tenebrosa antichità: a' quali incomparabili pregi di erudite cognizioni convien aggiungere anche quello di esser ella non leggermente iniziata ne' misteri armonici, per cui tal facoltà, trattata da così perite mani come son le sue, acquista un certo lustro che la rende più lusinghevole. Riguardo poi al principale argomento della moderna musica, io son del suo parere e convengo che a confronto dell'antica la nostra è sterile di quegli effetti prodigiosi che quella produceva secondo la testimonianza di Platone. Di fatti la nostra musica stempera gli animi, essendosi così eccessivamente alterata che non si riconoscono più in lei le tracce della verisimilitudine e della naturale espressione. Eppure in oggi presso quasi tutte le nazioni è l'idolo dominante per la forza dell'uso ch'è insuperabile, e perché si giudica più cogli orecchi che colla ragione. Le modulazioni di voce cotanto sminuzzate e il concerto de' vari strumenti solleticano il senso a tal segno che resta ammollito e quasi ammaliato da quei lunghi e rapidissimi trilli, i quali non son differenti da' gorgheggi di Filomela, ma dilettano meno perché son men naturali. Il piacere di ragionar seco mi trascina senza avvedermene; e compiacendomi di questo trasporto mi auguro quello del tenero amor suo, nel mentre immutabilmente mi riaffermo.

 

CXLIII - A Clemente Sibiliato, Padova

Vienna I9 dicembre I776.

Dall'obbligantissimo padre maestro Salieri mi fu nella settimana scorsa recata la gentilissima lettera di V. S. illustrissima, che avrebbe bastato per farmi formare una degna idea del valoroso scrittore se già non l'avessi antecedentemente formata nelle replicate letture del suo eccellente poetico componimento, comunicatomi tempo fa da questo signor conte di Rosenberg, a cui non lasciai ignorare il distinto pregio in cui credo che debba esser tenuta una così dotta ingegnosa ed elegante fatica, nella quale risplendono le molte ricchezze delle quali ha ella fatto tesoro con lunghi studi e severi, senza che ne risentano il minimo svantaggio l'armonia, la chiarezza, la nobile fluidità, e tutte le altre grazie alletatrici con le quali si rendono signori degli animi altrui gli eletti abitatori del Parnaso. Io le sono sommamente grato dell'occasione che mi somministra di congratularmene sinceramente seco, quanto l'ho fatto con me medesimo nella scoperta d'un mio così valido e benefico fautore. So che qui dovrei protestare contro gli eccessi della sua visibile parzialità nel giudicar del molto circoscritto mio merito; ma trascuro per ora di farlo, per non amareggiar così subito il piacere degli acquisti miei coi rimorsi di non meritarli.

Non ardirei d'asserire così di leggieri che degli apparenti o veri disordini che s'incontrano nella Lettera d'Orazio a' Pisoni debba tutta attribuirsi la colpa alla malignità degli anni ed all'incuria degli scrittori; poiché questo divin poeta, rispetto all'ordine, si mostra poco scrupoloso anche nelle satire, ne' sermoni e nelle altre sue lettere, non che nei componimenti lirici che assai meno l'esigono, ed avrei troppo ribrezzo nell'arrogarmi l'autorità di correggerlo. Bisogna per tale impresa tutta la dottrina e l'eccessivo coraggio degli Scaligeri e degli Heins, de' quali l'ultimo, nel proemio della sua versione della Poetica d'Aristotele, francamente si vanta di averla in meno di tre giorni tradotta, emendata, risarcita ed ordinata.

Quanto io disapprovo le affettate pedantesche idolatrie per gli antichi, tanto ne abborrisco il disprezzo, e parmi che, disordinati ancora come appariscono, i magistrali precetti del gran Venosino saran sempre oracoli utili e venerabili a tutta la posterità; ed è a parer mio molto lodevole il ripiego di Boileau, che, volendo arricchir la sua lingua d'una Poetica, ha inclusi ordinatamente in essa tutti gl'insegnamenti d'Orazio senza impacciarsi a correggerlo.

Sarebbe per me sommo vantaggio e piacere il poter comunicare con V. S. illustrissima e la mia versione della Lettera a' Pisoni ed un Estratto da me attentamente fatto della Poetica d'Aristotele, ed illuminarmi ragionandovi sopra con un suo pari; ma come lusingarmene in tanta separazione? Il trasporto de' manoscritti, oltre l'esser soggetto a mille rincrescevoli vicende, non gioverebbe al mio intento; poiché l'utile esame ch'io ne ambirei dovrebbe farsi con un ordinato commercio di lunghe lettere, al quale, già per addietro poco inclinato, son reso al presente fisicamente mal atto. Le esortazioni degli amici non han potuto fin ora vincere la mia ripugnanza d'abusarmi dell'indulgenza del pubblico consegnando arditamente queste mie fanfaluche alle stampe. I doveri del mio stato m'hanno pur troppo lungamente costretto a farlo più di quello che avrei voluto; ma quando ancora questo mio ritegno (sia ragione o difetto) rimanesse invincibile, non ne risentirà certamente gran danno la letteraria repubblica.

Mi somministri Ella intanto qualche occasione d'ubbidirla e di meritare in parte quella affettuosa propensione di cui mi onora, e che io contraccambierò costantemente con la grata, sincera ed ossequiosa stima con la quale incomincio a protestarmi.

 

CXLIV - A Mattia Verazi, Mannheim

Vienna 29 marzo I777.

Sul proposito del dramma musicale tedesco parla così saviamente V. S. illustrissima nella cortese sua lettera del 15 del corrente, che non mi lascia riflessione da suggerirle. Non v'è desiderio più ragionevole che quello d'una nazione che si procura uno spettacolo nel suo proprio idioma, affinché possano approfittarsene tutti gl'individui che la compongono. Lo spettacolo è in musica, e tutte le nazioni del mondo cantano; e la musica italiana in mano d'un destro ed abile maestro saprà far uso di certe sue minute inflessioni di voci e di certi delicati portamenti ne' luoghi dove non le faranno impedimento que' concorsi di troppe consonanti o quelle asprezze delle aspirazioni, alle quali non ha potuto assuefarsi nella lingua in cui essa è nata. Ed in fatti in molti teatri di Germania odo che si rappresentano drammi tedeschi in musica con pubblica approvazione. Ma che questa musica poi, che chiamasi comunemente musica italiana, la quale, fornita della docilità del nostro idioma, ha potuto spiegare tante sue incognite ad altri incantatrici bellezze ed allettare a parlar cantando la lingua di lei quasi tutto l'antico ed il nuovo mondo: che questa musica, dico, possa conservar tutti intieramente i suoi pregi quando è costretta a conformarsi alle modificazioni d'un linguaggio straniero, è proposizione che ha bisogno di molte prove prima d'essere annoverata nell'ordine de' possibili. Ma non si vada beccando il cervello, mio caro signor Verazi, per sostenere le ragioni del povero nostro eroico teatro armonico: esso è già guasto, malconcio e sfigurato a tal segno che non merita più le nostre sollecitudini. Attenda a conservarsi, non si stanchi d'amarmi, e non dubiti mai un istante della gratitudine, della stima e dell'affetto con cui sono e sarò sempre.

 

CXLV - Ad Aurelio Giorgi Bertòla, Napoli

Vienna 25 dicembre I777.

Non prima della scorsa settimana mi è stato mandato dal degnissimo conte di Wilzeck il piego di Vostra Paternità illustrissima co' suoi poetici componimenti, che, già prima da me ammirati, ho di nuovo con sommo piacere riletti, né ho saputo ritrovare in essi un ragionevole motivo della sua svogliatezza che con tanta energia mi protesta nella obbligante sua lettera del 12 di settembre. Non si lasci sedurre da cotesti eccessi di diffidenza, alli quali io credo che siamo tutti soggetti. Io lo sono certamente a tal segno che poche volte, nel lungo corso della mia vita, ho intrapresa opera alcuna con la fiducia d'esser atto a compirla, e senza l'invincibile necessità in cui mi sono trovato di scrivere nella mia situazione, o nulla o pochissimo di mio sarebbe comparso alla luce. Questo eccesso vizioso di dubbiezza è stato fin'ora il mio insopportabile tormento: ma con tutto ciò non so se siano da invidiarsi coloro che hanno la felicità di non dubitar mai di se stessi. Ella è provveduta parzialmente dalla natura di talenti invidiabili e dalla sua applicazione d'infinite cognizioni, delle quali il numero eccede la comune facoltà dell'età sua. Si fidi più di se medesimo, e non si metta in rischio di trascurare il buono che le somministrerà sempre il suo ingegno per andar cercando l'ottimo altrove. La cicalata sarebbe lunga se a me costasse ora meno lo scrivere: ma a dispetto della mia fisica insufficienza le rammento ch'io l'amo con vera stima e tenerezza, e che sarò sempre col più grato rispetto.

 

CXLVI - A Vincenzo Monti, Roma

Vienna I4 ottobre 1779.

Se potesse a buona equità chiamarsi, come ella chiama, indiscretezza importuna l'onore che mi fanno tutti quelli che credono i miei giudizi degni della cura di procurarli, sarebbe V. S. illustrissima più d'ogn'altro colpevole, perché men d'ogn'altro bisognosa di mendicati suffragi. Basta anche una ben mediocre sensibilità per esser subito rapito dalla sempre armoniosa e vivace energia del suo stile e dalla feconda novità de' pensieri e delle pellegrine imagini delle quali ridondano i suoi saggi poetici. Io gli ho tutti attentamente letti ed esaminati, ed ho ammirato il magistero col quale sa ella adattarsi con eguale eccellenza a' tanto fra loro diversi generi di poesia che prende a trattare, sino a saper (quando le piace) costringer le nostre a rivestirsi del genio delle Muse straniere. Se pare a V. S. illustrissima di non aver fornita la sua cantata drammatica di tutto quell'adattamento che avrebbe dovuto, non è certamente sua colpa, ma del genere di componimento medesimo, che, scarso per sua natura d'azioni e d'affetti, rende difficile l'esecuzione dell'insegnamento d'Orazio "Non satis est pulcra esse poemata: dulcia sunto, — et quocumque volent animam auditoris agunto". Gli obblighi indispensabili del mio impiego mi han più volte ridotto in tali angustie: e potrà ben ella osservare che in cotesta specie di componimenti, non potendo agitarne il cuore, mi sono studiato il possibile di occupar la mente degli ascoltatori. Termini dunque arditamente il secondo lavoro di questa specie che ha per le mani, e ne faccia parte a suo tempo, sicura che si conoscerà sempre nel metallo l'eletta miniera che l'ha prodotto. Così l'autorità imperiosa della grave età mia mi permettesse di unirmi a lei nel rendere i degni omaggi al sublime merito del suo eroe, di cui tanto anche di qua dall'Alpi con ammirazione si ragiona! Tutta la potente protezione del mio amor proprio non basta, mio caro signor abate, a farmi accettar come a me dovuta la profusione delle eccessive lodi delle quali mi ricolma l'elegante sua lettera: mi consolo per altro del rincrescimento di non meritarle con l'evidenza che son esse traveggole d'un violento genio e d'una decisa parzialità. Come tali le accetto, me ne compiaccio e cordialmente le contraccambio, augurandomi intanto attività ed occasioni di dimostrarle con l'ubbidienza mia la stima, la gratitudine, l'affetto e l'ossequio con cui sempre sarò quindi innanzi.

 

CXLVII - A Carlo Broschi, detto Farinello, Bologna

Vienna 24 febbraio I780.

L'ultima vostra festiva ed affettuosa lettera, col sereno umore che la ravviva dal principio sino alla fine, ha dissipate in gran parte le fosche nebbie del mio, e mi ha fatto arrossire di non sapervi imitare, malgrado tutte le smargiasserie filosofiche che ostentano gli scritti miei. Voi, in mezzo alle ostinate persecuzioni de' frequenti terremoti e delle indiscrete irregolarità di vostra salute, sapete conservar tanto e difendere la tranquillità dell'animo vostro, che siete capace di concepire, di ordinare e di scrivere componimenti armonici, che suppongono tutta la scienza e la più esercitata pratica d'un eccellente scrittore.

Il duetto che avete avuto l'amorosa cura di mandarmi è maraviglioso non solo per la difficoltà del lavoro così magistralmente dissimulata e per la viva espressione degli affetti, ma per le occasioni che somministrate ad una bella ed esperta voce di spiegare le sue ricchezze nelle messe di voce, ne' trilli, nelle appoggiature, nelle volate ed in que' vostri inaspettati e brillanti gruppetti che sono a voi debitori della loro esistenza. Io l'ho sentito già più volte eseguire da persona abilissima ed intelligente a grado non comune dell'arte dell'armonia, e ch'essendone incantata, vi s'impiega con infinito piacere a seconda della mia avidità di risentirlo.

Noi non siamo qui perseguitati dalle spaventose minacce de' vostri terremoti, ma da più di due mesi in qua siamo alle mani col più orrido ed ostinato inverno che possa immaginarsi, e senza alcun respiro. Figuratevi tutto quello che può avere di più crudele questa incomoda stagione; tutto ci sta addosso, c'insulta e ci circonda: venti impetuosi e gelati, ghiacci marmorei, nevi dense, incessanti e permanenti, che han coperti e resi di un sol colore tutti gli oggetti, di modo che, per conservare un poco di commercio fra' cittadini, sono impiegati a sgombrar le strade reggimenti di scopatori con carri, pale e badili; e questi non bastano ad eguagliare con le loro fatiche la quantità della neve che trasportano a quella che va intanto senza intermissione cadendo. Il Danubio, con una vicenda nuova ed incredibile, ora sciolto, ora duro, ha finalmente rotti i grandi ponti per i quali si viene dall'Ungheria e dalla Moravia, che sono le più abbondanti dispensiere de' viveri che nutriscono questa popolosa città; onde tutto è rincarato a segno che la gente minuta non sa come sostenersi. Ma questa nenia è troppo lunga e noiosa. Addio, caro gemello: conserviamoci a tempi più felici, e non cessate intanto di riamarmi e di credermi il vostro fedelissimo.

P. S. Non vi dimenticate, vi prego, di ricordare il mio vero rispetto a tutte le distinte persone che costì di me si ricordano, e a voi medesimo la mia tenera gratitudine per il prezioso dono mandatomi.

 

CXLVIII - A Carlo Broschi, detto Farinello, Bologna

Vienna 20 aprile I780.

Lunedì 17 del corrente fui avvisato da questa dogana esser giunta la elegante cassettina petroniana, gravida di dolcezze da sedurre e le orecchie e i palati. La prima mia cura fu quella di farla prontamente ricuperare, la seconda quella di procurarmi il diletto d'essere in vostra compagnia almeno con l'immaginazione, continuando a bere l'ardente ma delizioso liquore della fiaschetta da voi costì incominciata ed a consumar l'intero resto della persicata ferrarese mancante della picciola porzione della quale era scemata da voi: onde abbiam mangiato e bevuto insieme in grazia della amorosa vostra invenzione, a dispetto dell'enorme spazio di terra che ci divide. Delle impareggiabili persicate farò grato e frequente uso io medesimo, ma molto più raro e scarso (mio mal grado) della pozione spiritosa che con la sua per me troppo efficace attività mette in tumulto tutti gl'indocili nervi della mia testa, gli obbliga a ballar come baccanti ed a continuar lungo tempo a privarmi del natural riposo. Non dubitate per altro che rimangano inutili le vostre grazie: troverò ben io coadiutori che renderan volentieri giustizia alla preziosa merce, e me ne saran molto grati. Sodisfatto il palato, non trascurai l'impazienza delle orecchie, e l'aria di Tirsi eccellentemente eseguita mi fece gustare un nuovo e più sensibile piacere congiurando col suo infinito merito anche il mio amor proprio, poiché in quest'aria non trionfa solo la umanità, la dolcezza e la scienza del mio gemello, ma ha egli saputo così mirabilmente adattarsi all'indole delle parole, ch'io le ritrovo nella vostra musica infinitamente più belle di quello ch'io seppi formarle con la mia penna. La medesima esattissima esecutrice finalmente, senza interrompere il suo gradito impiego, mi fece ascoltare le due leggiadre sonatine, figlie visibilmente legittime della mente del mio caro gemello: e me ne compiacqui a segno che ho risoluto di risentirle assai spesso, ma dalla medesima mano, perché stimerei sacrilegio il deturparle con l'imperizia delle mie, che, prive del necessario esercizio, secondano imperfettamente la poca teorica della quale ho potuto provedermi. Il merito d'entrambe è eguale, ma quello della prima in gsolreut naturale, appresso di me ha qualche vantaggio su quello della sorella minore.

Se la mia testa lo permettesse, farei qui un prolisso rendimento di grazie, ma, già ch'io non posso, leggetelo voi nel mio cuore, dove da tanto tempo abitate: pagate i miei debiti con le care e venerate persone che costì di me si ricordano: non mettete così spesso a cimento coi vostri doni seduttori la mia troppo a me necessaria moderazione, e continuate a credermi con l'invariabile mia grata tenerezza.

 

CXLIX - A Francesco Grisi, Ala

Vienna I8 luglio I780.

Ricevei ieri l'affettuosissima vostra lettera data fin dal 6 del corrente ed osservo che molto è lenta la nostra posta ne' suoi viaggi: ma i nostri affari compatiscono dilazione, onde non convien farne conto. Ci andiamo come voi dite sempre avvicinando all'Eternità, ma dovremmo essere assuefatti a questo mestiere che esercitiamo dal primo momento che entriamo nel cammin della vita.

Ogni momento

che altri ne gode è un passo

che al termine avvicina: e dalle fasce

s'incomincia a morir quando si nasce.

Veggo, mio caro signor Grisi, che su questo proposito pensate da filosofo cristiano: me ne congratulo con esso voi, e dal lodevole tenor della vostra vita non poteva io tenervi diverso. Veggo che vi affliggono, più per il vostro prossimo che per voi, gl'inconvenienti del nuovo sistema, e ne avrete solide ragioni: ma io non posso perfettamente scoprirle. In primo luogo perché tutti i poeti sono cattivi calcolatori: in secondo perché son prevenuto che questo sistema medesimo già da qualche anno stabilito in Moravia ed in Boemia è stato ricevuto, tuttavia sussiste e si mantiene con sommo contento ed applauso di quei popoli. È per altro verissimo che in così vasti dominii che contengono circostanze di climi, di situazioni, di prodotti, di commerci e d'inclinazioni tanto diverse è difficilissimo l'immaginare una regola universale che sia comoda egualmente e giovevole a tutti. Un rimedio è velenoso per un temperamento, e per un altro è salubre: l'esperienza scopre l'inganno: tocca ai savi medici il cercarne i compensi, ed è ragionevole il credere che i nostri non li trascureranno se il bisogno l'esige.

Addio, mio caro signor Grisi. Armatevi quanto potete contro l'ipocondria senile, continuate a volermi bene, raccomandatemi alla picciola vostra ed eletta società, e non cessate mai di credermi.

 

CL - A Carlo Broschi, detto Farinello, Bologna

Vienna 23 dicembre I780.

La vostra affettuosissima lettera del 4 del corrente mi ha trovato fra le più funeste e dolorose circostanze ch'io poteva temere nella mia vita. Ho perduta per sempre la mia augusta adorabile padrona, benefattrice e madre, perdita della quale non ho speranza di mai più consolarmi. Voi non avete bisogno ch'io vi descriva il mio stato: la Providenza ha messo a queste prove la vostra costanza, e sapete di qual compassione sien degni i nostri pari. Or sì che avrei bisogno d'esser vostro gemello nella virtù, della quale avete voi mostrato d'esser capace, e di cui confesso di non sentirmi io proveduto. Inabile per ora a parlarvi d'altro, vi prego di pagar voi a mio nome i miei debiti con quelli che mi onorano della loro memoria e del loro compatimento costì, e di continuare a credermi.

 

CLI - A Carlo Gastone della Torre di Rezzonico, Parma

Vienna I8 febbraio I782.

L’obbligante al solito umanissimo foglio di V. S. illustrissima col prezioso dono degli eruditi suoi prolegomeni, data di Parma il 18 dicembre dell'anno scorso, mi trovò inabile a leggere ed a scrivere per gli accresciuti dal freddo e dall'insidie degli anni antichi miei stiramenti de' nervi, specialmente della testa, che si vendica ogni giorno più crudelmente dell'abuso che la Provvidenza, decidendo del mio, mi ha costretto a farne contro la mia inclinazione. L'impazienza mi ha fatto trovare un benevolo anagnoste; onde ho avuto il contento d'ascoltar fin'ora tutto il tratto dell'opera sino alle note, che continuerò ad ascoltar sino alla fine, ammirando e l'elevazione della sua mente nell'esame dell'infinite cognizioni delle quali ha saputo far tesoro nella scienza poetica, e nelle convincenti gravi prove della qualità adorabile del suo bel cuore, così sensibile all'amicizia ed al merito, a favor del quale sagrifica le sue laboriose letterarie applicazioni, e la generosa parte di quei lavori della fortuna, di cui son tanto avidi e tenaci la maggior parte de' viventi. Queste amabili e stimabili circostanze che concorrono, e che io ho da lungo tempo scoperte nella sua degna persona, vorrebbero ch'io m'unissi seco in tutte le decisioni che ella pronuncia; ma ho il grave rammarico di non poterlo conseguire sul proposito dell'ostracismo che si minaccia alla rima nel Parnaso italiano, con suo (a parer mio) incredibile discapito. Io sono così persuaso della necessità della rima per render più fisicamente allettatrice la nostra poesia, che non credo praticabile il verso sciolto, se non se in qualche lettera familiare o nei componimenti didascalici. Assuefatto nella mia lunga vita a conoscermi debitore alla rima d'una gran parte della tolleranza che le mie fanfaluche canore hanno esatta dal pubblico, non potrei aver l'ingratitudine di perseguitarla. Sia questa passione o giustizia, non è più superabile all'età mia. Già molti anni sono, in uno spazio d'ozio che mi concesse il mio impiego, scrissi un Estratto della Poetica d'Aristotile, in cui mi occorse di parlar della rima. Ostentai la mia parzialità per essa; ne dissi di volo i miei motivi; e questo manoscritto è presentemente sotto il torchio a Parigi, non avendo potuto negarlo all'editore dell'ultima ristampa di tutte le edite ed inedite opere mie in dodici volumi che nel prossimo maggio dovrebbe esser terminata, avendone già qui nove tomi compiuti.

Io non son più uomo da dissertazioni, e sarebbe fisicamente impossibile ch'io potessi ora seco trattar per lettera questo problema. Son per altro contento ch'ella legga i miei sentimenti in istampa e li compatisca, se non gli approva. Rinnovo i miei rendimenti di grazie alla sua generosa ed affettuosa parzialità, che non trascura occasioni di onorarmi de' suoi elogi sempre superiori al mio merito. Mi congratulo seco dei portentosi progressi che va continuamente facendo nel cammin delle lettere, e conto per uno de' più dolorosi effetti della grave età mia quello di non potermi trattener seco lungamente quanto vorrei almen con la penna e come esigerebbe la mia affettuosa gratitudine e la più giusta ed affettuosa stima con cui sono.

 

CLII - A Carlo Broschi, detto Farinello, Bologna

Vienna 20 marzo I782.

Dunque è morta l'invidia per misericordia divina, né qui né altrove (in grazia dell'irregolarità delle stagioni) io mi trovo più amico alcuno, amico né conoscente, che non si lagni della sua salute. Tutti siamo egualmente bisognosi di rassegnazione: questa imploro per me, questa auguro a voi ed a tutto il numeroso tormentato nostro prossimo. Il mio panereccio mi ha finalmente abbandonato, ma sono stati prolissi i suoi congedi; gli altri miei familiari cancherini difendono ostinatamente il loro possesso ed io la mia pazienza, ma non voglio stancar la vostra: onde cangio proposito.

Il gran Servo de' Servi dicono che non è lontano da noi che di due o tre giornate, ed il nostro imperatore, che per un ostinato mal d'occhi è obbligato a guardar la camera, vuole assolutamente andarlo ad incontrare. Dio benedica a pro di tutto il mondo cristiano questo inaspettatissimo avvenimento.

La flotta petroniana, che si risentirà al solito della generosità del mio caro gemello, mi renderà più sensibile l'importuna moderazione ch'io sono obbligato a tenere nell'approfittarmene; ma la signora Martines, che divotamente vi riverisce, supplirà di buon cuore alla mia inabilità, e comincia di già a ringraziarmi della invidiabile commissione. Ella ha messo felicemente in musica il mio oratorio intitolato Isacco figura del Redentore. Ieri fu cantato in teatro per la seconda volta, e malgrado il rigore della stagione ed i catarri de' cantanti, la compositrice non è stata defraudata della meritata approbazione. Questa pia sacra funzione si fa qui a profitto delle povere vedove de' musici, formandosi dal denaro che se ne ritrae un fondo da darne pensioni alle medesime quando perdono i loro mariti.

Oh quanto mi resterebbe da dire! Ma come si fa quando non si può? Si prega il caro gemello di far le mie parti (con le dovute proporzioni) con le molte persone che costì mi onorano della loro memoria. Si abbraccia con tutto il cuore l'adorabile Carlucciello, e si conferma la fraterna tenerezza del suo immutabile gemello.