EMILIO SALGARI

 

Le Figlie dei Faraoni

 

 

 

CAPITOLO PRIMO

 

Sulle rive del Nilo

 

Tutto era calmo sulle rive del maestoso Nilo.

Il sole stava per scomparire dietro le altissime cime delle immense palme piumate, fra un mare di fuoco che arrossava le acque del fiume, facendole sembrare bronzo appena fuso, mentre a levante un vapore violaceo, che diventava di momento in momento più fosco, annunciava le prime tenebre.

Un uomo stava ritto sulla riva, appoggiato al fusto d'una giovane palma, in una specie di molle abbandono e come immerso in profondi pensieri. Il suo sguardo vago errava sulle acque che si frangevano con un dolce gorgoglìo fra le radici dei papiri affondate nella melma.

Era un bel giovane egiziano, forse appena diciottenne, con spalle piuttosto larghe e piene, le braccia nervose, terminanti in mani lunghe e sottili, i lineamenti bellissimi, regolari, ed i capelli e gli occhi nerissimi.

Indossava un semplice camice, che gli scendeva fino ai piedi a larghe pieghe, stretto alle anche da una fascia di lino a righe bianche ed azzurre.

Sul capo, per ripararsi dagli ardenti raggi del sole, portava quella specie di bonetto, usato dagli Egiziani cinquemila anni or sono, formato da un fazzoletto triangolare, a liste colorate, stretto alla fronte da una sottile lista di pelle, colle punte cadenti dietro le spalle.

Quel giovane conservava una immobilità assoluta e sembrava che non si accorgesse nemmeno che le prime ombre della notte cominciavano ad avvolgere le palme ed il fiume, e che non pensasse nemmeno che il soffermarsi troppo su quelle rive, dopo il tramonto, poteva essere pericoloso.

Il suo sguardo nerissimo, dal lampo fosco, si fissava sempre nel vuoto come se seguisse qualche cosa che gli fuggiva dinanzi e che scompariva fra le ombre della notte.

Ad un tratto un lungo sospiro gli uscì dalle labbra, poi si scosse facendo colle mani come un moto di scoraggiamento.

«Il Nilo non me la ricondurrà forse più mai,» mormorò «gli dei non proteggono che i Faraoni.»

Alzò gli occhi. Le stelle cominciavano a brillare in cielo e il lieve rossore porpureo che si discerneva ancora vagamente verso ponente, là dove il sole era scomparso, si dileguava con fantastica rapidità.

«Torniamo,» mormorò il giovane. «Ounis sarà molto inquieto e forse sta cercandomi nel bosco.»

Aveva fatto tre o quattro passi, quando si arrestò, fissando gli sguardi sulle erbe secche che crescevano sotto le palme. Qualche cosa scintillava fra le foglie cadute dagli alberi. Si chinò rapidamente e lo raccolse, mandando nel medesimo tempo un grido a malapena soffocato.

Era un gioiello in forma di vipera ripiegata, colla testa d'avvoltoio, tutto d'oro, con smalto policromo lungo i lati.

«Il simbolo del diritto di vita e di morte!» esclamò.

Stette parecchi minuti come perplesso, tenendo gli occhi sempre fissi su quello strano gioiello, mentre la pelle del suo viso, che era solamente un po' abbronzata e non oscura come quella dei moderni fellah, ossia lavoratori delle campagne, e dei beduini del deserto, a poco a poco si scoloriva.

«Sì,» ripetè, con un accento che tradiva una profonda angoscia, «questo è il simbolo del diritto di vita e di morte, che solo i Faraoni possono portare. Ounis me lo ha fatto vedere parecchie volte, scolpito sulle statue delle piramidi e sulla fronte di Khâfri Grande Osiride! Chi sarà la fanciulla che ho strappato alle fauci del coccodrillo?»

Si passò più volte una mano sulla fronte che era bagnata di sudore, poi riprese:

«Me lo ricordo, questo gioiello brillava in mezzo ai suoi capelli, nel momento in cui la trassi dall'acqua.»

Un'angoscia inesprimibile traspariva sul bel viso del giovane.

«Sono pazzo,» disse. «Un umile uomo come sono io, alzare gli occhi su quella fanciulla che mi apparve come una dea del Nilo! Che cosa sono io per ardire tanto e vivere con una simile speranza nel cuore? Un miserabile che erra sulle rive del Nilo assieme ad un povero sacerdote. Folle! Eppure quegli occhi mi han tolto per sempre la tranquillità e mi hanno spezzata l'esistenza. Io non sono più il giovane spensierato d'un giorno. La mia vita è finita ed il Nilo è qui, dinanzi a me, pronto a trascinare la mia spoglia verso il lontano mare.»

Aveva ripreso il cammino, colla testa bassa, le braccia penzolanti. Le tenebre avevano tutto avvolto e l'oscurità era profonda sotto le immense foglie delle palme.

Cantavano i grilli, sussurravano dolcemente le fronde, scosse da un legger venticello e gorgogliavano le acque del maestoso Nilo fra le foglie di loto e le radici dei papiri, ma il giovane pareva che nulla udisse. Camminava come un sonnambulo, come se sognasse, senza parlare.

Aveva già raggiunto il margine della foresta, che si stendeva d'ambe le parti, su una larga zona, lungo le rive del fiume, quando una voce lo strappò improvvisamente dai suoi pensieri.

«Mirinri!»

Il giovane s'arrestò e aprì gli occhi che teneva socchiusi e fece un gesto vago. Pareva che si svegliasse in quel momento da un lungo sogno.

«Non vedi che il sole è tramontato da un po' e non odi le risa sgangherate delle jene? Dimentichi forse che noi siamo come in mezzo ad un deserto?»

«Hai ragione Ounis,» rispose il giovane. «Vi erano dei coccodrilli che giuocavano nel fiume e mi sono fermato un po' troppo a guardarli.»

«Sono imprudenze che possono costare ben sovente la vita.»

Un uomo era sbucato fra un folto gruppo di suffarah (acacie fistulose) avanzandosi verso il giovane, che era sempre fermo. Era un bellissimo vecchio, d'aspetto maestoso, con una lunga barba bianca che gli scendeva fino a metà del petto, tutto racchiuso in un ampio camice di lino bianchissimo, col capo avvolto in un fazzoletto rigato, simile a quello che portava Mirinri. I suoi occhi erano nerissimi, dal lampo vivissimo e la sua pelle appena abbronzata, quantunque un po' incartapecorita dall'età.

«È un'ora che ti cerco, Mirinri,» disse «e sono molte sere che tu torni tardi. Bada, figlio mio: le rive del Nilo sono pericolose. Anche stamane ho veduto un coccodrillo addentare pel naso un toro, che stava dissetandosi e trascinarlo sotto le acque.»

Un sorriso quasi sprezzante apparve sulle labbra del giovane.

«Vieni, Mirinri, è già molto tardi e devo parlarti a lungo questa sera, perché hai già compiuti diciotto anni e la profezia si è avverata.»

«Quale?»

Il vecchio alzò una mano verso il cielo, dicendo poi:

«Guarda: non la vedi brillare verso oriente? I tuoi occhi sono migliori dei miei e tu la distinguerai più facilmente.»

Il giovane guardò nella direzione che il vecchio gl'indicava ed ebbe un trasalimento.

«Una stella colla coda!» esclamò.

«È quella che attendevo,» rispose il vecchio. «Quella stella è legata al tuo destino.»

«Me lo hai detto sovente.»

«Segna l'ora delle rivelazioni.» Si curvò rapidamente dinanzi al giovane e gli baciò l'orlo della veste.

«Che cosa fai, Ounis?» chiese Mirinri con stupore, e arretrando di qualche passo.

«Saluto il futuro signore dell'Egitto,» rispose il vecchio.

Il giovane era rimasto muto, guardando Ounis con uno stupore impossibile a descriversi.

Un lampo ardente animava solo i suoi occhi, che si erano fissati intensamente sulla cometa scintillante in cielo, fra miriadi di stelle.

«Il mio destino!» esclamò finalmente. Poi un altro grido gli irruppe dalle labbra:

«Mia! Potrà essere mia! Il simbolo di vita e di morte non mi fa più paura! Ma no, è impossibile, tu sei pazzo, Ounis; quantunque tu sia sacerdote, non ti credo. Il mio corpo, travolto dalle acque del sacro fiume andrà a finire nel mare lontano e s'immergerà là dove i suoi occhi mi hanno fissato per la prima volta e mi hanno bruciata l'anima.»

«Di chi parli, Mirinri?» chiese Ounis, sorpreso.

«Lascia che il segreto muoia con me,» rispose il giovane.

Un'ansietà estrema si era dipinta sul viso del vecchio sacerdote.

«Parlerai,» disse con tono autorevole. «Vieni!»

Prese per una mano il giovane e si rimisero in cammino, attraverso una landa quasi sabbiosa, interrotta qua e là da qualche magro arbusto e da qualche palma semidisseccata.

Né l'uno, né l'altro parlavano. Entrambi parevano molto preoccupati e fissavano, quasi nel medesimo istante, la stella caudata, che saliva lentamente in cielo scintillando vivamente.

Dopo un quarto d'ora giungevano alla base d'una collina, priva di qualsiasi traccia di vegetazione, che s'alzava in forma di piramide e sulla cui cima si scorgevano delle statue di proporzioni colossali, giganteggianti nell'oscurità.

«Vieni,» ripetè il vecchio sacerdote. «Questa è l'ora.»

Mirinri si lasciò condurre, senza opporre resistenza. Dopo essersi inerpicati su un sentiero aperto nella viva roccia, si cacciarono entro una caverna poco spaziosa, illuminata da una piccola lampada di terra cotta foggiata come un ibis, l'uccello sacro degli antichi egiziani.

Nessun lusso entro quello speco. Solo delle pelli di bufalo e di iena, che dovevan servire da letti, alcuni vasi in forma d'anfora, qualche spada corta e larga appesa alle pareti e qualche scudo di pelle di bue.

In un angolo, su un fornello, improvvisato con quattro o cinque pietre, borbottava una pentola di forma strana, esalando un profumo non cattivo.

Mirinri, appena entrato, si era lasciato cadere su una pelle di iena, prendendosi le ginocchia fra le mani ed immergendosi subito nei suoi pensieri. Il sacerdote invece si era fermato in mezzo alla caverna, guardando il giovane intensamente, con un'affettuosità inesprimibile.

«Ti ho salutato mio signore,» disse con un accento strano, che suonava come un dolce rimprovero. «Lo hai dimenticato, Mirinri?»

«No,» rispose il giovane, quasi distrattamente.

«Eppure lo si direbbe. Quale pensiero profondo turba il cervello di colui che ho chiamato mio figlio ed a cui ho dedicato tutta la mia vita? Non senti dunque fremerti nelle vene il sangue divino dei Faraoni, i dominatori dell'Egitto?»

Udendo quelle parole il giovane era scattato in piedi, tutto trasfigurato, fissando sul vecchio uno sguardo ardente.

«Il sangue dei Faraoni, hai detto tu!» esclamò. «Impazzisci, Ounis.»

«No,» rispose asciuttamente il vecchio. «È l'ora delle rivelazioni, ti ho detto. La stella caudata sale in cielo e la profezia si è avverata. Tu sei un Faraone!»

«Io... un Faraone!» esclamò Mirinri impallidendo. «Sentivo io scorrermi nelle vene un sangue ardente, il sangue dei guerrieri! I miei sogni di glorie e di grandezze, che ogni notte, per anni e anni, hanno turbato i miei sonni, erano dunque veri! Grandezza! Potenza! Eserciti da comandare, regioni da conquistare... e lei... lei... quella divina fanciulla che mi ha stregato... È impossibile... tu mi hai ingannato, Ounis, tu ti sei riso di me!...»

Il giovane si era coperto gli occhi con ambe le mani, come per sfuggire alla grande visione.

Ounis gli si accostò e, scuotendolo dolcemente, gli disse:

«Un sacerdote non può permettersi di scherzare con un uomo che ha nelle sue vene il sangue sacro di Osiride e che diverrà un giorno il suo signore. Siedi e ascoltami.»

Mirinri obbedì, lasciandosi cadere su una pelle di gazzella che copriva il piccolo sedile d'argilla seccata al sole.

«Parla,» disse. «Spiegami come io possa essere un Faraone e perché sono cresciuto qui, sui margini del deserto, lontano dagli splendori di Menfi, come fossi il figlio d'un miserabile pastore.»

«Perché se tu fossi stato lasciato laggiù, probabilmente a quest'ora non saresti più vivo.»

«Perché?» chiese Mirinri scattando.

«Perché a Menfi non regna più, già da undici anni, Teti, il fondatore della sesta dinastia. Un miserabile ha usurpato il trono a tuo padre.»

«Io, figlio di Teti!» esclamò il giovane impallidendo. «Sogni tu, Ounis o continui lo scherzo?»

«Non ti ho forse baciato il lembo della tua veste? Tu vorrai delle prove? Ebbene io te le darò. Domani, prima dell'alba, noi ci recheremo a interrogare le statue di Memnone e tu udrai la pietra a suonare dinanzi a te. Ne vuoi un'altra? Andremo alla piramide che tuo padre ha fatto erigere ed io farò rivivere in tua presenza il fiore meraviglioso d'Osiride, quel fiore che solo dinanzi ai Faraoni dischiude le sue corolle, quando vi lasciano cadere una goccia d'acqua. Se la pietra vibrerà ed il fiore rivivrà, sarà segno che sei figlio di re. Lo vuoi?»

«Sì,» rispose Mirinri tergendosi il sudore che gli bagnava la fronte. «Solo dinanzi a quelle due prove io ti crederò.»

«Sta bene,» rispose il sacerdote. «Ora ascolta la storia di tuo padre e la tua.»

Stava per aprire la bocca, quando i suoi occhi scorsero il simbolo di vita e di morte che il giovane si era appeso alla correggia che gli stringeva il fazzoletto un po' sopra la fronte.

«Un ureo!» esclamò. «Dove hai raccolto quel simbolo, che brilla solo fra i capelli dei re e dei loro figli?»

«Sulla riva del Nilo,» rispose Mirinri, dopo una breve esitazione.

Ounis si era alzato in preda ad una vivissima angoscia. I suoi occhi si erano dilatati e dimostravano un terrore profondo.

«Che abbiano scoperto il nostro rifugio!» esclamò, facendo un gesto di collera. «Eppure io ho preso tutte le precauzioni perché nessuno sapesse il luogo ove io ti ho nascosto. Quell'ureo non può averlo smarrito che un Faraone.»

«O una Faraona?» disse Mirinri, guardandolo fisso e sussultando.

Ounis aveva fatto un soprassalto. S'accostò rapidamente al giovane, scuotendolo quasi brutalmente:

«Una Faraona! Tu mi hai parlato poco fa d'una fanciulla divina... Dove l'hai veduta? Parla, Mirinri! Da ciò può dipendere il tuo destino e fors'anche la tua vita.»

«L'ho veduta sulla riva del Nilo.»

«Sola?»

«No, perché poco dopo giunse una barca tutta scintillante d'oro, montata da una dozzina di negri superbamente vestiti e guidata da quattro guerrieri che reggevano delle aste d'oro con lunghe piume di struzzo disposte a ventaglio.»

«Fra i capelli di quella fanciulla hai osservato questo gioiello?»

«Sì, mi ricordo d'averglielo veduto brillare.»

«Fu lei dunque a perderlo.»

«Lo credo.»

Ounis, che pareva ancora in preda ad una viva eccitazione, si era messo a camminare per la caverna colla fronte aggrottata ed i lineamenti ancora alterati.

Ad un tratto si fermò dinanzi al giovane che lo guardava con crescente stupore, non sapendo spiegarsi l'agitazione che si era impossessata del vecchio sacerdote.

«Quale impressione ti ha prodotto quella fanciulla?»

«Non saprei spiegartela: so solo che da quel giorno la mia pace fu turbata.»

«Me n'ero accorto,» disse il sacerdote, con voce sorda. «Tu da qualche tempo hai perduto la tua gaiezza, ed il tuo sonno non è più tranquillo. Ti ho sorpreso parecchie volte immerso in profondi pensieri, cogli occhi volti verso il settentrione, là dove Menfi irradia la sua potenza e la sua luce.»

«È vero,» rispose Mirinri con un sospiro. «Si direbbe che quella fanciulla abbia portato con sé gran parte del mio cuore. Se chiudo gli occhi non vedo che lei: se dormo sogno lei; quando il vento sussurra fra le palme che costeggiano il Nilo, mi pare di udire la sua voce armoniosa. Vederla, vederla, sia pure una volta sola, dovesse costarmi la vita: ecco il mio solo, il mio unico desiderio, Ounis. Guarda: io mi copro gli occhi colle mani e me la vedo subito apparire dinanzi, e sento il sangue scorrere più veemente nelle mie vene, e battermi il cuore così forte come se volesse balzarmi fuori dal petto. Dolce visione! Quanto sei bella!»

Il sacerdote era rimasto muto dinanzi all'entusiasmo del giovane, anzi sembrava che quella confessione avesse raddoppiato il suo turbamento. I suoi sguardi erravano smarriti, ripieni di terrore, posandosi ora su Mirinri ed ora sul simbolo di vita e di morte dei Faraoni.

«La vedi ancora?» chiese ad un tratto, con accento quasi brutale.

«Sì, sta dinanzi a me,» rispose il giovane, che teneva sempre le mani sugli occhi. «Mi guarda... mi sorride... e provo ancora quel fremito intenso che mi scosse quando, strappatala dalle fauci del coccodrillo, la strinsi fra le mie braccia e la portai, col suo capo posato sul mio petto, sulla sponda e la deposi sull'erba ancora stillante la rugiada notturna.»

«Così intensamente l'ami, dunque?»

«Più della mia vita.»

«Disgraziato!»

Mirinri levò le mani e guardò il sacerdote che gli stava ritto dinanzi, collo sguardo fiammeggiante e le braccia tese, come in atto di scagliare una maledizione.

«Se è vero che io sono un Faraone, come tu mi hai detto, perché non potrei amare una fanciulla di stirpe reale?»

«Perché quella giovane deve appartenere a quella razza maledetta che devi, anche se non lo volessi, odiare non solo, bensì anche sterminare. Tu non conosci ancora l'istoria di tuo padre ed ignori i dolori sopportati da quel re sventurato.»

Mirinri era diventato pallido e si era coperti nuovamente gli occhi.

«Narramela dunque,» disse poi, con voce triste. «Nelle tue parole sta il mio destino, un terribile destino che spezzerà forse la malìa gettatami nel cuore da quella fanciulla.»

«Tu dovrai, al pari di tutti quelli della sua stirpe odiare e uccidere,» aggiunse il sacerdote, con voce cupa. «Odimi dunque.»

 

 

CAPITOLO SECONDO

 

Le tombe di Qobhou

 

«Tuo padre, il grande Teti, era il capo stipite della VI dinastia. A lui Menfi deve il suo splendore ed a lui l'Egitto deve la sua potenza e la sua grandezza e le più grandi piramidi, che sfideranno il tempo e che sussisteranno anche quando forse la nostra razza si sarà spenta.

«Egli ebbe due figli: tu ed una bambina a cui i sacerdoti imposero il nome di Sahuri.»

«Mia sorella!» esclamò Mirinri.

«Sì.»

«Vive ancora?»

«Lo saprai più tardi. Accadde che un giorno si sparse la voce che un esercito caldeo aveva attraversato l'istmo, che separa il Mediterraneo dal mar Rosso, l'Africa dall'Asia e che si avanzava minaccioso per distruggere la potenza della nostra razza.

«Degli eserciti egizî furono mandati contro gl'invasori e vennero ad uno ad uno sterminati.

«Tutte le città della costa sono prese e date alle fiamme e gli abitanti passati a fil di spada, senza riguardo né di sesso, né di età. Pareva che l'ultima ora stesse per suonare pei Faraoni e che perfino la grande Menfi dovesse crollare sotto i colpi dei Caldei.

«Fortunatamente vi era tuo padre.

«Discendente da caste guerriere, forte e valoroso, raccolse un poderoso esercito e disprezzando i consigli dei vili cortigiani e ministri, che non volevano che un re si esponesse a sì grave rischio, ne assunse il comando e mosse risolutamente contro il nemico che già s'avanzava vittorioso verso Menfi.

«Ad On, là dove comincia il Nilo a diramarsi, le sterminate falangi degli Egizi e dei Caldei s'urtarono con terribile accanimento.

«Tuo padre combattè come l'ultimo dei suoi soldati, nelle prime file, onde dare l'esempio. Sfidò impavido le freccie incendiarie e le pesanti spade di bronzo degli asiatici e sfondò le linee avversarie.

«La battaglia nondimeno non era ancora vinta. Dall'alba al tramonto la strage continuò con perdite enormi d'ambo le parti. Il Nilo diventò rosso pel gran sangue che vi scorse dentro; tutta la terra fu inzuppata di sangue e monti e monti di cadaveri s'alzarono dovunque.

«Fu solo allo sparir del sole che i Caldei, sgominati, decimati, scoraggiati, si diedero alla fuga ritornando al di là dell'istmo.

«L'Egitto era salvo pel valore di tuo padre; Menfi non correva ormai più alcun pericolo, eppure quella vittoria doveva rendere infelice e per sempre il vincitore».

«Cadde combattendo?»

«Ferito da una freccia caldea, che lo aveva colpito in mezzo al petto, quando già sfondava le linee avversarie, era rimasto sul campo, in mezzo ad un cumulo di cadaveri. Nella mischia orrenda, nessuno si era accorto che il re era scomparso, o meglio uno lo aveva veduto; ma aveva quel miserabile troppo interesse per avvertire i generali ed i soldati della disgrazia toccata a tuo padre.»

«Chi?» chiese Mirinri, scattando in piedi, cogli occhi fiammeggianti.

«Suo fratello: l'ambizioso Mirinri Pepi, che ora regna sull'Egitto in vece tua e...»

«Il fratello di mio padre mi ha usurpato il trono?»

«Sì, Mirinri, ma lasciami continuare. L'istoria non è ancora finita. Tuo padre non era stato ferito mortalmente. L'atroce dolore prodottogli dalla punta della freccia uncinata e che egli si era strappata, allargando così la piaga, lo aveva fatto cadere svenuto ed era rimasto come sepolto sotto altri corpi umani, caduti dopo di lui. Che cosa accadde poi? Non me lo seppe mai dire.

«Quando tornò in sé si trovò sotto una tenda di pastori negri, assai lontano dal campo di battaglia.

«Probabilmente quegli uomini erano accorsi durante la notte per depredare i cadaveri, ed essendosi accorti dalle ricche vesti che indossava tuo padre e dal simbolo di vita e di morte che portava fra i capelli, che doveva essere un grande personaggio, fors'anche un Faraone, l'avevano portato con loro coll'idea di chiedere più tardi un grosso riscatto.

«Tu sai che i pastori nostri, che vivono sui margini del deserto, sono tutti predoni, quando si presenta loro l'occasione.

«Tuo padre non ebbe però a lagnarsi di loro. Fu trattato con molti riguardi, curato affettuosamente. La ferita, dopo venti giorni, si chiuse e la convalescenza cominciò.

«Fu indescrivibile lo stupore dei pastori, quando appresero dalla sua bocca essere egli Teti.

«Per ordine di tuo padre, un pastore partì subito per Menfi, onde avvertire il popolo ed i ministri che il re dell'Egitto era ancora vivo e che si recassero a prenderlo colla pompa dovuta ad un Faraone. L'uomo partì, e non ritornò più. Tuo padre, temendo che fosse stato assalito lungo la via da qualche banda di predoni, ne mandò un secondo, poi un terzo e anche quelli non si fecero più vedere. Inquieto, molto preoccupato, decise di recarsi lui a Menfi. Formò una piccola scorta di pastori e un mattino si mise in viaggio.

«Quando entrò in Menfi, apprese con angoscia che suo fratello aveva assunto il potere e che il popolo ed i ministri, credendo che Teti realmente fosse morto, lo avevano acclamato re, senza preoccuparsi di te che avevi allora appena due anni.

«Quasi tutti gli amici di tuo padre ed i parenti più prossimi erano stati fatti segretamente uccidere dall'usurpatore e forse tu avresti subito l'egual sorte se la tema di scatenare fra il popolo una improvvisa ribellione non lo avesse trattenuto».

«E mio padre che cosa fece allora?» chiese Mirinri, con impeto selvaggio.

«Che cosa volevi che facesse quasi solo, senza alcuna forza tra le mani? Tentò di persuadere i ministri, ma quei vili ebbero l'audacia di dirgli che era un pazzo, un furfante e che dello spento re non aveva che qualche vaga rassomiglianza. Per persuaderlo meglio o piuttosto per rassicurare vieppiù il popolo che egli realmente era un mentecatto fu condotto nella piramide da lui stesso fatta innalzare e gli mostrarono la bara dove riposava il corpo di Teti I.»

«Chi vi avevano messo dentro?»

«Qualcuno che forse gli rassomigliava o che avevan reso irriconoscibile dopo d'averlo vestito da sovrano e di avergli puntato fra i capelli il simbolo di vita e di morte.»

«E come mi trovo qui, mentre dovrei essere nella reggia di Menfi?» chiese Mirinri.

«Tuo padre, temendo che Mirinri Pepi ti facesse un dì o l'altro assassinare, ti fece rapire da alcuni devoti amici, che l'usurpatore aveva risparmiati, e ti affidò a me onde m'incaricassi di allevarti. Fuggii da Menfi, durante una notte oscura, risalendo il Nilo ed in questi luoghi presi dimora, attendendo pazientemente che tu avessi compiuto l'età che permette, secondo le nostre leggi, di regnare.»

Successe un lungo silenzio. Mirinri era tornato a sedersi e pareva si fosse immerso in profondi pensieri. Il sacerdote, sempre in piedi, lo guardava fisso, come se cercasse d'indovinare ciò che passava attraverso il cervello del giovane.

Ad un tratto, questi si alzò bruscamente, col viso trasfigurato, gli occhi animati da una collera terribile.

«Mio padre è morto, è vero, Ounis?»

«Sì, in esilio, sui margini del deserto libico, ove si era rifugiato per non cadere sotto i colpi dei sicari di Pepi. La sua condanna di morte era stata ormai pronunciata dall'usurpatore.»

«Che cosa devo fare io, ora?»

«Vendicarlo e riconquistare il trono che per diritto ti spetta.»

«Solo, senza mezzi, senza un esercito?»

«Non solo,» rispose il sacerdote. «Amici di tuo padre ve ne sono ancora a Menfi e aspettano per salutarti re. I mezzi, mi hai detto? Ebbene, vieni.»

«Dove?»

«Nelle tombe di Qobhou, l'ultimo Faraone della prima dinastia, che tuo padre aveva scoperto nei primi anni del suo regno, senza confidare ad alcuno il segreto. Là troverai ricchezze bastanti per conquistare l'intero Egitto ed altre terre ancora, se tu lo vorrai.»

«Dove sono queste tombe?»

«Più vicine di quello che tu creda. Seguimi, Mirinri.»

Il vecchio prese una piccola lampada di terracotta, in forma d'anfora, riattizzò il lucignolo onde la fiamma si ravvivasse e s'avviò verso il fondo della caverna, dove scorgevasi una sfinge di marmo roseo di dimensioni gigantesche.

«Sta qui il segreto dell'entrata,» disse.

Fece scorrere una mano sul dorso della statua e subito la testa cadde, lasciando vedere un foro abbastanza lungo perché un uomo, anche corpulento, vi potesse entrare senza troppa fatica. Da quell'apertura sfuggì una corrente d'aria quasi calda impregnata d'un tanfo poco piacevole.

«Dobbiamo entrare lì?» chiese Mirinri.

«Sì.»

«Perché non mi hai mai detto che esisteva un passaggio in questa caverna.?»

«Io avevo giurato solennemente a tuo padre di non rivelartelo, se non quando tu avessi compiti i diciott'anni. Vieni: nessun pericolo ci minaccia e vedrai delle cose che ti faranno stupire.»

S'introdusse nel foro, avanzandosi carponi e tenendo la lampada dinanzi a sé, e dopo poco si trovò in un ampio corridoio, che era fiancheggiato ai due lati da un numero immenso di statuette di bronzo e di pietra, rappresentanti dei gatti in varie pose.

Ve n'erano però moltissimi anche imbalsamati, allineati su un cornicione che sporgeva presso la vôlta del passaggio.

Come si sa, gli antichi egizi tenevano in grande considerazione quei parenti prossimi delle tigri, anzi adoravano, fra le molte divinità, Pakhit la dea dei gatti, che aveva il corpo di una donna e la testa dei felini, anzi ne ponevano nei loro sepolcreti e perfino entro le piramidi ove riposavano le salme dei re.

Che più? Avevano perfino dei cimiteri, esclusivamente destinati ad accogliere i mici e che erano sotto la protezione della dea sopraccennata o del dio Nofirtonmon.

Ultimamente anzi ne venne scoperto uno, al sud degli ipogei di Beni-Hassan, che conteneva la bagatella di 180.000 mummie di gatti colà deposte dai re della XVIII dinastia.

Ounis continuò ad avanzarsi, proteggendo la lampada con una mano, essendovi ancora una forte corrente d'aria satura di quell'odore sgradevole che regna nelle cantine abbandonate, e sbucò finalmente in una sala così immensa da non potersene scorgere l'estremità, la cui vôlta era sorretta da un gran numero di colonne massiccie, abbellite di sculture rappresentanti divinità e ibis, l'uccello venerato dagli antichi egizi e che si vede su tutti i monumenti eretti in quelle lontane epoche.

Lungo le pareti che erano lievemente inclinate, si scorgevano delle statue colossali, simili a quelle che si vedono ancora oggidì sulla facciata del tempio di Abu Simbel, pesanti e tozze, con quella grandiosità di forme colle quali sembrano concepiti tutti i monumenti dell'antico Egitto.

Erano statue di uomini e di donne, i primi con berretti monumentali, sormontati da una specie di cocuzzolo, con delle strane barbe quadrate, più larghe verso il fondo che presso le labbra e degli stracci pendenti lungo gli orecchi e ricadenti sulle spalle, e le altre coperte dalla futta, quella specie di sottana che annodavano alle reni e che avvolgeva, come una specie di imbuto, le loro gambe.

Veduti alla vacillante luce della piccola lampada, quei colossi, che stavano seduti gli uni presso gli altri colle braccia abbandonate sul ventre, producevano un effetto strano che impressionava profondamente Mirinri, non abituato altro che a vedere le acque verdeggianti o fangose del Nilo, le sabbie del deserto e le altissime palme ravvivate dall'umidità del fiume gigante.

Ounis, che sembrava non s'interessasse né delle statue, né dei colonnati, né delle sculture, continuò ad avanzarsi verso il fondo di quell'immensa, interminabile sala, scavata nel vivo masso da chissà quante migliaia di operai, e si arrestò dinanzi a due statue di grandezza quasi naturale, che alla luce della lampada mandavano dei bagliori acciecanti. Una rappresentava un uomo, con indosso il ricco costume dei Faraoni ed il simbolo di vita e di morte collocato sulla fronte; l'altra una donna bellissima, con grandi occhi neri ed il viso dipinto in giallo; ma con un po' di rossetto sulle gote, che le dava un aspetto singolarissimo ed insieme una speciale attrattiva.

Entrambi portavano delle pitture di soggetto religioso, ripetizione ortodossa del gran rito etiopico, dove si vede l'anima del defunto fare la sua visita e le sue offerte a tutte le divinità, di cui essa deve implorare la protezione.

Invece di chiuderli entro la bara, quell'antichissimo monarca e sua moglie, dopo essere stati imbalsamati, li avevano messi in piedi, sorreggendoli con un'asta di bronzo passata attraverso le strette fascie che li coprivano dalle anche ai piedi.

Sia l'uno che l'altra, onde si conservassero meglio, erano stati coperti da un leggero strato di vetro, colato probabilmente sul luogo, un vetro traslucido, d'una purezza straordinaria, che scintillava vivamente sotto la luce proiettata dalla piccola lampada.

«Chi sono costoro?» chiese Mirinri, che li guardava con vivo interesse.

«Qobhou, l'ultimo re della prima dinastia e sua moglie,» rispose Ounis. «Guarda: su queste due tavolette di pietra nera sta scritto il loro nome.»

«Ed è per farmi vedere queste due mummie che mi hai condotto qui?»

«Aspetta, giovane impaziente. La nostra esplorazione non è ancora finita. A che cosa potrebbero servire questi morti? Non certo a darti mezzi per conquistare il trono. Seguimi ancora.»

S'inoltrò in quell'immensa sala, che pareva non avesse più fine, passando fra due file di sarcofaghi di pietra, i cui rilievi esterni riproducevano esattamente le forme delle persone che vi stavano dentro. Alcuni erano dorati, altri invece argentati e raffiguravano re e regine.

I primi avevano intorno al capo un disco rosso e portavano sotto il mento una barba intrecciata; le altre avevano un'acconciatura a bendoni, con dipinte sopra delle penne d'avvoltoio e la testa coronata da grosse treccie di capelli adorni con ametiste, crisoliti e smeraldi.

Dopo alcuni minuti, Ounis s'arrestò dinanzi ad una sfinge mostruosa, lunga una ventina di metri e alta per lo meno quattro, che aveva sui fianchi delle iscrizioni rassomiglianti a segni geometrici.

«Qui dentro è racchiuso il tesoro di Qobhou,» disse il sacerdote. «Vuoi vederlo?»

«Mostramelo,» rispose Mirinri.

Ounis si guardò intorno e vista una pesante mazza di bronzo appoggiata ad una colonna, l'alzò e percosse la sfinge sul muso.

La testa girò subito su se stessa, poi cadde innanzi rimanendo sospesa mediante due grosse cerniere.

Un'apertura circolare, formata dal collo dell'enorme statua stava dinanzi ai due egiziani.

«Guarda lì dentro,» disse Ounis, avanzando la lampada.

Il giovane s'avvicinò, poi arretrò, mandando un grido di meraviglia.

«Quanto oro!» esclamò.

«Si dice che vi siano lì dentro dodici milioni di talenti()» disse Ounis, «ma non è tutto. Le zampe sono piene di smeraldi e di altre pietre preziose, dalle quali, se tu ne avrai bisogno, potrai ricavare molti altri milioni! Credi tu con queste ricchezze di poter armare un poderoso esercito?»

«Sì,» disse Mirinri. «Ma, come mio padre ha potuto sapere che in questo sepolcreto si trovava nascosto un tesoro così favoloso?»

«Da un antichissimo papiro, da lui scoperto nella biblioteca dei primi Faraoni.»

«E non confidò a nessuno il segreto?»

«A me solo.»

«E le hai serbate per me queste ricchezze?»

«Sì, perché a te solo appartenevano. Appena noi saremo partiti vi sarà chi s'incaricherà di trasportare una parte di questo tesoro a Menfi.»

«E chi, se nessuno ne conosce l'esistenza?»

«Degli amici devoti, rimasti fedeli a tuo padre ed al suo successore. Domani saranno informati che la profezia si è avverata e che tu sei pronto a conquistare il trono e punire l'infame usurpatore.»

«Dunque qualcuno viene allora qui.»

«Sì, e mi sono ben guardato di fartelo vedere. D'altronde non veniva che di notte, quando tu dormivi e ripartiva allo spuntare del giorno. Ora giura su Toth, il dio ibis, che tu t'impegni di liberare la patria dall'usurpatore.»

«Le prove che io sia realmente un Faraone tu non me le hai ancora date,» disse Mirinri.

«È vero: torniamo nella caverna e partiamo subito. È molto tardi e la statua di Memnone non suona che allo spuntare del sole.»

Rifecero in silenzio il cammino percorso, ripassarono per la galleria dei gatti e uscirono, strisciando attraverso la sfinge che occupava l'estremità della caverna.

Ounis prese un'anfora di terracotta ed empì due vasi di vetro grossolano d'una specie di birra molto dolce, che secondo la tradizione, Osiride l'aveva donata ai mortali nel medesimo tempo del vino di palma ed invitò il giovane a bere, dicendo:

«Che l'impuro demonio della morte tocchi chi mancherà al giuramento.»

Poi prese in un canto due corte spade di bronzo, molto larghe e molto pesanti e ne diede una a Mirinri.

«Partiamo,» disse. «La notte è a metà cammino.»

 

 

CAPITOLO TERZO

 

Il sangue dei Faraoni

 

Chiusa l'entrata della caverna con una lastra di pietra affinché durante la loro assenza qualche animale feroce non ne prendesse possesso, essendo in quelle lontane epoche molto popolato l'Egitto di leoni e di jene, il sacerdote ed il giovane si erano messi in marcia, tenendosi l'uno presso l'altro e volgendo le spalle al Nilo.

Il deserto, che più tardi gli Egiziani dovevano, con pene infinite, rendere fertile, stava dinanzi a loro, stendendosi verso levante. Veramente non era proprio un deserto, simile a quello libico od al Sahara, assolutamente arido e privo di vegetazione; si poteva chiamare una immensa pianura incolta, che dalle rive del Nilo si spingeva fino alle rive del mar Rosso.

Infatti qua e là si scorgevano dei gruppi di palme dum, chiamate alberi del pan pepato e che acquistano rapidamente uno sviluppo straordinario, anche sui terreni sterili, e qualche palma deleb dal fusto rigonfio nel mezzo e che è amante piuttosto della solitudine, non formando mai delle selve.

Degli sciacalli urlavano in lontananza e fuggivano, rapidi come saette, all'accostarsi dei due uomini, mentre delle jene sghignazzavano in mezzo alle dune sabbiose, senza osare mostrarsi, non godendo nemmeno a quei tempi maggior coraggio di quello che hanno anche oggidì.

La notte era splendida e tranquilla, regnando nelle pianure egiziane una calma assoluta. La luna splendeva sempre al di sopra delle foreste costeggianti il Nilo, allungando smisuratamente le ombre dei due uomini, e la cometa scintillava vivissima fra le stelle, avanzandosi su un cielo purissimo, d'una trasparenza che solo si può ammirare in quelle regioni.

Né Ounis, né Mirinri parlavano: parevano entrambi immersi in profondi pensieri.

Solo il primo, di quando in quando, alzava gli occhi verso la cometa, fissandola intensamente. Il secondo sembrava invece che seguisse cogli sguardi qualche cosa che gli fuggiva dinanzi, forse la fanciulla che gli aveva fatto battere forte il cuore per la prima volta da che era nato.

Avevano percorso già così parecchie miglia, sempre avanzandosi nel deserto, quando Ounis appoggiò famigliarmente una mano sulla spalla del giovane, chiedendogli a bruciapelo:

«A che cosa pensi, Mirinri?»

Il figlio dei Faraoni trasalì bruscamente, come se fosse stato improvvisamente destato da qualche dolce sogno, poi rispose, esitando: «Non so: a molte cose.»

«Al potere sconfinato che tu raccoglierai in Menfi?»

«Può darsi.»

«O alla vendetta?»

«Anche questo può essere vero.»

«No: tu m'inganni. Io ti osservo da quando abbiamo lasciata la nostra dimora. Non è né il potere, né l'ambizione, né l'odio che turba il cervello ed il cuore del figlio del grande Teti, il fondatore della dinastia. «disse Ounis, con una certa amarezza.»

«Che cosa ne sai tu?»

«I tuoi occhi non hanno guardato nemmeno una volta la stella caudata che segna il tuo destino e il tuo cammino.»

«È vero,» rispose Mirinri con un lungo sospiro.

«Tu pensavi alla fanciulla che hai salvato dalla morte, sulle rive del Nilo.»

«A che negarlo? Sì, Ounis, pensavo a lei.»

«Ti ha dato dunque da bere qualche filtro misterioso, costei?»

«No.»

«Come puoi amarla così tanto da dimenticare la grandezza suprema, che tutti i mortali t'invidierebbero?»

Mirinri rimase alcuni istanti silenzioso, poi volgendosi con uno scatto improvviso verso il sacerdote, che si era fermato e che lo guardava tristamente, gli disse:

«Io non so se gli altri uomini siano eguali a me, perché in tanti anni io non ho veduto che le acque del Nilo, le grandi palme che lo circondano, le sconfinate dune di sabbia e le belve che le abitano. Io non ho udito fino ad oggi che la voce tua, quella del vento quando strappava le foglie piumate o torceva i rami, ed il mormorìo delle acque, colanti dai misteriosi laghi dell'interno. Come potevo io, giovane, rimanere insensibile ad un essere diverso da me e da te e che parlava una lingua armoniosa, più dolce del sussurrìo della brezza notturna? Tu mi dici che io l'amo. Non so veramente comprendere questa parola, io che sono vissuto sempre lontano dalle terre abitate e mai seppi che cosa possa significare. La malìa gettatami nel cuore da quella fanciulla potrà chiamarsi così. Io so che quando penso a lei mi vedo brillare sempre dinanzi, sia di giorno o di notte, quei grandi occhi neri ripieni d'una infinita tristezza e che provo entro di me una sensazione strana, che non saprei spiegarti e che prima non avevo mai sentito, né ascoltando il mormorìo delle acque, né i sibili del vento, né l'urlo delle fiere affamate vaganti pel deserto».

«Una sensazione pericolosa, Mirinri, che potrebbe esserti fatale e fermarti nel tuo glorioso cammino. Toglie le forze ai guerrieri, addormenta i forti, spegne le energie e rende talvolta l'uomo perfino vile. Guardati! La tua grande impresa non ha bisogno di quel fremito.»

«Rende perfino vili!» esclamò il giovane, colpito da quella parola.

«Sì, vili.»

«Ebbene guarda se io potrei diventarlo.»

Si era voltato guardando le dune di sabbia che si estendevano dietro di loro, interrotte qua e là da qualche cespuglio intristito.

Un'ombra gigantesca, che Ounis non aveva prima osservata, ma che non era invece sfuggita agli sguardi del giovane, era comparsa sulla cima d'uno di quei minuscoli monticelli di sabbia, guatando i due egiziani.

«Lo vedi?» chiese Mirinri, senza che nella sua voce si sentisse alcuna alterazione.

«Un leone!» aveva esclamato il sacerdote, trasalendo.

«È da qualche poco che ci spia.»

«E non mi hai avvertito?»

«Se è vero che io ho nelle vene il sangue dei guerrieri, perché dovevo preoccuparmi della sua presenza? Mio padre non sarebbe fuggito, lui che ha vinto, come mi hai narrato, le sterminate falangi dei Caldei.»

«Che cosa intendi di dire e di fare?» chiese Ounis, guardandolo con ansietà.

«Accertarmi se io sono veramente un Faraone, innanzi a tutto, e poi provarti che se anche quella fanciulla ha gettato una malìa su di me, non sarei capace di diventare un vile.»

La corta spada di bronzo brillò nella destra del giovane.

«A me, leone!» gridò. «Vedremo se sarà più forte il re del deserto od il futuro re dell'Egitto!»

Come se la formidabile fiera avesse compresa la sfida gettatagli dall'audace giovane, aprì le fauci e fece rintronare le dune d'un ruggito poderoso, che parve un colpo di tuono.

Ounis aveva afferrato con ambe le mani il braccio armato, dicendo:

«No, tu non puoi esporti contro quella belva. Io sono vecchio e non ho alcuna missione da compiere al mondo, lascia quindi che l'affronti io se verrà ad assalirci. Non ho bisogno che tu mi dia una prova del tuo coraggio. Mi basta veder brillare nei tuoi occhi il lampo fiero che animava quelli del grande Teti.»

Il giovane, con una brusca mossa, si svincolò e mosse intrepidamente verso la fiera, che ruggiva sordamente, sferzandosi i fianchi colla coda.

«Quando un Faraone getta una sfida non retrocede!» gridò Mirinri. «Vince o muore! Il leone l'ha accettata: a noi due!»

Il sacerdote non aveva più cercato di trattenerlo. D'altronde la belva, che doveva essere affamata, non avrebbe tardato ad assalirli egualmente.

«Prode come suo padre,» mormorò il sacerdote che lo seguiva, tenendo in mano la spada e che lo guardava muovere diritto verso la fiera, con un misto d'angoscia e d'orgoglio. «L'avevo giudicato male: ha nelle vene il mio...»

Si morse le labbra per non lasciarsi sfuggire il seguito di quelle parole, e allungò il passo onde porgere aiuto al giovane Faraone.

Il leone che fino allora era rimasto accovacciato, vedendo avanzarsi la preda che credeva di abbattere con un solo colpo delle sue poderose zampe, si era alzato, scuotendo la sua folta criniera.

Era un superbo animale, di taglia grossa e robusta, dal pelame fulvo e la criniera nerastra come quella dei leoni delle montagne dell'Atlante, che rappresentano oggidì la razza più bella di quei terribili carnivori.

Mirinri, punto spaventato dall'aspetto imponente del suo avversario, né dai suoi ruggiti, che diventavano di momento in momento più possenti, muoveva avanti senza nemmeno guardarsi alle spalle, per vedere se era o no seguito da Ounis.

I suoi occhi, che erano diventati ardenti, fissavano intrepidamente l'avversario, spiandone le più lievi mosse.

Se Ounis era orgoglioso di vederlo così calmo e così audace, il bel giovane si sentiva del pari orgoglioso di non provare quel sentimento di paura che coglie tutti gli uomini, anche i più intrepidi, dinanzi a quei re dei deserti e delle foreste africane. Aveva dunque nelle vene il sangue degli antichi guerrieri? Era dunque proprio un Faraone? Sì, ormai ne era convinto, quantunque non avesse ancora udito a crepitare la statua colossale di Memnone, né avesse ancora veduto il fiore d'Osiride schiudere le sue corolle e rivivere, dopo tante migliaia e migliaia d'anni.

Giunto a dieci passi dalla belva, tese l'arma e si arrestò, gridando: «Ti aspetto a piè fermo: assalimi! Vedremo se il grande Osiride proteggerà me, che discendo dagli dei o te ladrone del deserto.»

Il leone lanciò un ultimo ruggito, poi scattò, mettendosi a correre attraverso le dune con balzi giganteschi. Volteggiava intorno ai due uomini, descrivendo un largo giro, che, a poco a poco, restringeva, cercando il momento opportuno per sorprenderli alle spalle.

Mirinri, sempre freddo, sempre impassibile, ma col viso animato da una collera intensa, girava su se stesso mostrando sempre alla belva la lama della sua spada di bronzo, che i raggi della luna facevano scintillare vivamente.

Ounis invece si era inginocchiato a breve distanza dal giovane tenendo la sua arma tesa in alto. Non perdeva di vista il suo compagno, occupandosi più di lui che del leone.

Una profonda emozione alterava i suoi lineamenti. Vi era nell'espressione dei suoi occhi, che in quel momento brillavano non meno intensamente di quelli di Mirinri, lo stesso senso di prima: orgoglio, gioia e terrore.

Si comprendeva che, quantunque paventasse che il giovane potesse essere vinto da quel formidabile avversario e ridotto un cadavere informe, dall'altro lato era superbo di vederlo così coraggioso e così pronto a sfidare il pericolo, e quale pericolo!

Il leone continuava la sua corsa circolare. Scattava come se le sabbie fossero coperte da migliaia di molle invisibili e sembrava che le sue forze, invece di scemare, aumentassero sempre poiché i suoi slanci diventavano più impetuosi.

Mirinri, fermo come una statua di bronzo, col braccio armato sempre teso, attendeva l'assalto. Un sorriso di sfida coronava le sue labbra sottili.

Ad un tratto la belva, che non aveva cessato di stringere sempre più il cerchio, si precipitò sui due uomini, mandando nel medesimo tempo un ruggito spaventevole, che parve una fanfara di guerra udita in lontananza. Non scelse però il giovane come prima preda.

Con un salto immenso era piombato sul sacerdote, cercando di fracassargli la spina dorsale o di aprirgli un fianco con un colpo di zampa. Aveva però prese male le sue misure, giacché gli cadde vicino, urtandolo solo con una spalla e rovesciandolo al suolo.

Stava per rivoltarsi, onde mettere in opera le sue unghie, quando Mirinri gli fu addosso colla rapidità del lampo.

Colla sinistra l'afferrò per la folta criniera, tenendolo per un istante fermo, poi coll'altra gl'immerse fino all'impugnatura la larga lama di bronzo, squarciandogli il petto.

«Il giovane Faraone ti ha vinto!» gridò. «Sono più forte di te! L'Egitto sarà mio!»

Non era ancora una vittoria completa. La belva, quantunque orribilmente ferita e tutta sanguinante, con uno scatto improvviso gli era sfuggita e si era accovacciata a dieci passi, ruggendogli in viso, pronta a ricominciare l'assalto.

«Guardati, Mirinri!» gridò Ounis, con voce angosciata, rialzandosi prontamente.

Il giovane parve che non l'avesse nemmeno udito.

Cogli sguardi sempre sfavillanti, fissi in quelli della fiera, s'avanzava colla spada alzata, rossa di sangue fino alla guardia.

«Bisogna che ti uccida,» disse.

E si slanciò sul leone, che non osava più affrontare quel giovane avversario, che aveva dapprima disprezzato e che pareva lo magnetizzasse colla potenza dei suoi occhi.

L'urto fu breve e terribile. Ounis vide per alcuni istanti sollevarsi intorno ai due combattenti come una nube di sabbia, che glieli nascose, poi si udì un ruggito soffocato ed un grido che gli parve di trionfo:

«Muori!»

Quando la sabbia finissima cadde al suolo, vide Mirinri ritto, colla fronte alta, la spada grondante sangue in pugno ed un piede posato sul corpo della belva, che sussultava ancora fra gli ultimi spasimi della morte.

«Sì, mio...» gridò Ounis, «degno allievo! Sì, sei il figlio di Teti, il fondatore d'una dinastia che darà la gloria e la potenza alla terra dei Faraoni. Solo un uomo creato da lui avrebbe potuto compiere una simile impresa. Osiride ti protegge ormai e tutto puoi osare.»

Mirinri si volse e dopo d'averlo guardato per qualche istante in silenzio, rispose:

«Ora io non dubito più che l'anima dei Faraoni si sia trasfusa in me. Come io ho ucciso il re dei deserti, ucciderò l'usurpatore, che rapì a me ed a mio padre il trono. Vedi, Ounis, se si può essere audaci anche quando il cuore vibra per una fanciulla. La prova ultima, la prova!»

«Sei grande,» rispose il sacerdote. «Partiamo subito. Gli astri cominciano ad impallidire e anche la coda della cometa va spegnendosi. Vieni, Figlio del Sole!»

Il giovane asciugò la lama sulla criniera del leone, se la rimise lentamente nella fascia che gli stringeva le anche e raggiunse il sacerdote coll'indifferenza tranquilla d'un uomo che avesse compiuta una cosa di nessuna importanza.

«Sangue freddo, forza ed audacia,» disse Ounis, la cui ammirazione non pareva che fosse ancora cessata. «Tu sei l'uomo del destino.»

Mirinri sorrise senza rispondere.

Gettò un ultimo sguardo sulla belva, che non aveva più alcun sussulto e che sembrava addormentata, alzò per un istante gli occhi verso la cometa, che cominciava a smorzarsi e seguì il sacerdote, ricadendo nei suoi pensieri.

Non si udiva più alcun rumore fra le dune sabbiose. La voce formidabile del morente leone aveva allontanato jene e sciacalli, ed un profondo silenzio regnava sulla sterile landa,

Camminarono così, senza parlare, per qualche mezz'ora ancora: poi Ounis ruppe pel primo quell'immensa calma.

«La vedi? La piramide fatta costruire da tuo padre sorge laggiù.»

Mirinri si scosse, alzò il capo, che fino allora aveva tenuto curvo sul petto e spinse lo sguardo dinanzi a sé.

Due masse enormi si delineavano fra le dune, spiccando vivamente sull'orizzonte, che cominciava ad imbianchirsi sotto i primi riflessi dell'alba.

«Le due statue di Memnone!» esclamò, sussultando.

«Questa è l'ora.»

Mirinri girò lo sguardo verso settentrione e scorse una massa ancora più enorme, tutta nera, giganteggiante fra le semioscurità e che s'innalzava in forma di piramide.

«Il sepolcreto della mia dinastia,» disse.

«Dove troveremo il fiore sacro d'Osiride. Affrettati, o giungeremo troppo tardi. La pietra suona solo quando nasce e tramonta il sole.

 

 

CAPITOLO QUARTO

 

Il Figlio del Sole

 

Le statue di Memnone godevano presso gli antichi egizi una venerazione grandissima, che non cessò nemmeno dopo, quando i romani, quei formidabili conquistatori del mondo allora noto, ebbero invase le rive del sacro Nilo, anzi ebbero anche essi una vera venerazione pel fatto, allora straordinario ed inesplicabile, che una di esse, sia allo spuntare del sole che al tramontare dell'astro, dava un suono.

Gli antichi egizi affermavano che solo quando un Faraone s'accostava alle due statue, quella nota strana, che somigliava al crepitìo dello zolfo quando è riscaldato colla mano, ma infinitamente più forte, si faceva udire.

Che realmente suonasse la pietra, nessuno lo mette in dubbio, quantunque oggi sia muta come qualunque altra pietra.

Strabone fu il primo ad affermarlo, avendo udito quello strano crepitìo in compagnia d'Elio Gallo, che era governatore dell'Egitto, quantunque non potesse discernere se quella vibrazione partisse dal piedistallo o dalla statua. Giovenale, che meno d'un secolo dopo fu esiliato a Sienne, nell'alto corso del Nilo, pure lo udì e anche Plinio parlò di quel prodigio.

Se agli Egiziani la cosa sembrava meravigliosa, si trattava invece d'un fatto semplicissimo che fu più tardi spiegato.

La statua parlante, come la si chiamava, e che sembra rappresentasse un Faraone delle prime dinastie, in seguito ad un terremoto, era stata spezzata all'altezza del ventre, mentre la sua vicina aveva resistito alla formidabile scossa. Da quell'epoca cominciò a suonare.

La natura del sasso, formato da materiali eterogenei, tenuti insieme da una pasta silicea durissima, era tale che sotto le repentine variazioni della temperatura crepitava. Ora quella variazione non accade che al sorgere del sole, dopo le notti freschissime di quel clima, e un po' dopo il tramonto.

Ed infatti, durante il giorno e la notte, la statua non faceva udire alcun suono.

Quando Settimio Severo, forse per superstizione o per onorare Memnone, figlio dell'aurora, secondo le antiche leggende egiziane, fece restaurare il colosso con cinque enormi massi di marmo di grès, che si vedono tuttora, perché quelle due statue hanno resistito, al pari delle poche piramidi, alle ingiurie del tempo, la voce cessò d'un tratto. Quei massi furono una sordina: la vibrazione fu inceppata e Memnone, con grande dispiacere degli egizi, non parlò più: d'altronde i Faraoni erano ormai scomparsi e non erano più là per imporle di farsi udire.

Ounis e Mirinri, non scorgendo nessuno nei dintorni dei due colossi, s'avvicinarono rapidamente, cominciando il cielo a prendere, verso levante, una leggera tinta rossa che indicava l'imminente sorgere del sole.

Quelle due statue, che erano quattro o cinque volte più alte d'un elefante, rappresentavano due uomini seduti sulle ginocchia ed erano formate di massi enormi, di forma quadrata, saldamente cementati fra di loro.

Sul capo avevano una specie di fichu triangolare, che cadeva lungo i lati della faccia, allargandosi al di sopra delle spalle ed avevano sotto il mento quelle strane barbe, formate da una specie di dado, più stretto in cima e più largo sotto, che si osserva in tutti gli antichi monumenti egiziani.

Il basamento, che era di proporzioni enormi e tanto alto che Mirinri non vi poteva giungere nemmeno allungando le mani, era tutto coperto di lettere e adorno d'ibis, gli uccelli sacri degli antichi egizi ed emblema dei Faraoni delle prime dinastie.

Sulla statua di destra si scorgeva distintamente la spaccatura prodotta dalla scossa del terremoto, allargantesi a circa metà del ventre.

Mirinri si era arrestato, guardando con visibile emozione i due colossi. Se egli era veramente un Faraone, il suono doveva udirsi; se rimaneva muto quale delusione!

Guardò con un po' d'ansietà Ounis e lo vide tranquillo, come un uomo sicuro del fatto suo. Quella calma lo rassicurò.

«Vieni,» disse il sacerdote, dopo aver guardato il cielo. «Questo è il momento.»

Girarono intorno alla statua che era offesa e trovata una gradinata salirono sul piedestallo mettendosi fra le gambe che il colosso teneva aperte. Era quello il punto migliore per udite il suono.

«Parlerà il figlio dell'aurora?» chiese Mirinri che era diventato pallido e che pareva nervosissimo.

«Sì, perché tu sei il figlio di Teti,» rispose il sacerdote.

«E se ti avessero ingannato?»

Un sorriso comparve sulle labbra d'Ounis.

«Ascolta,» disse poi. «Dopo mi dirai se tu sei o no un Faraone.»

Il sole s'alzava in quel momento radioso, sfolgorando sui due colossi i suoi raggi, che appena sorti erano già diventati ardenti.

«Ascolta! Ascolta!» ripetè Ounis.

Mirinri, curvo verso la massa della statua, tendeva gli orecchi. Il cuore, che dinanzi al leone non si era alterato nemmeno un istante, ora gli batteva forte come quando aveva stretta fra le braccia la fanciulla che aveva strappato al coccodrillo, la prima donna che aveva veduto da quando il sacerdote l'aveva portato nel deserto.

Il sole s'alzava rapido, allungando i suoi raggi sulla sconfinata pianura, ma la statua rimaneva muta. Anche Ounis aveva aggrottata la fronte.

Ad un tratto si fece udire un leggero crepitìo, che andò aumentando d'intensità, poi una nota limpida, un do echeggiò.

Un grido era sfuggito dalle labbra del giovane.

Si era alzato rapidamente, cogli occhi accesi, il viso trasfigurato da una gioia inesprimibile. Guardò il sole e gridò con voce tuonante:

«Sì, io discendo da te, Osiride, sono un Faraone! L'Egitto è mio!»

Ounis sorrideva, lieto di quell'improvviso scatto d'entusiasmo. Anche egli sembrava profondamente commosso.

«Ounis, amico mio, alla piramide!» disse poscia il giovane, con esaltazione. «Dammi l'ultima prova che io sono il figlio di Teti, che il mio corpo è divino ed io andrò a uccidere, con questo istesso ferro che spense il re dei deserti, l'usurpatore.»

«Così ti volevo vedere,» rispose il sacerdote. «Il sangue della stirpe guerriera, che io temevo si fosse addormentato per sempre, si è finalmente risvegliato.»

«Alla piramide, Ounis» ripetè il giovane, il cui entusiasmo non si era ancora calmato. «Andiamo ad interrogare il fiore d'Osiride.»

«Lo vedrai dischiudere le sue corolle millenarie,» rispose il sacerdote.

La piramide, come abbiamo detto, che avrebbe dovuto servire di tomba alla dinastia iniziata da Pepi, non era lontana.

La sua mole imponente si ergeva appena ad un mezzo miglio dalle due gigantesche statue, lanciando la sua cima a centocinquanta metri.

Tutte le piramidi, fatte innalzare dalle diverse dinastie che regnarono in Egitto migliaia d'anni prima della nascita di Gesù Cristo, avevano proporzioni colossali.

Molte furono distrutte, per edificare coi loro materiali Tebe ed altre città sorte dopo la gloriosa Menfi, tuttavia ne sussistono anche oggidì parecchie e le più celebri e le più visitate sono quelle di Cheope, di Chefrèn e di Micerino, le quali sono d'altronde le più gigantesche che si conoscano, coprendo suppergiù ciascuna cinque ettari di terreno ed avendo un'altezza che varia fra i centoquaranta ed i centoquarantasei metri.

Si calcola che per costruire quelle tombe, siano occorsi per ciascuna 250.000 metri cubi di materiali!

Quali somme poi abbiano costato e quante migliaia e migliaia di operai siano stati necessari per innalzarle, sarebbe impossibile dirlo. Si sa solo, consultando gli antichi papiri, che per erigere quella di Cheope non si spesero meno di quattro milioni di talenti egiziani, pari a più di dieci milioni di lire in solo aglio, prezzemolo e cipolle, vegetali che costituivano però il principale nutrimento di quegli infaticabili lavoratori reclutati, sempre per maggior economia, fra i prigionieri di guerra.

La piramide fatta innalzare da Teti, come abbiamo detto, non poteva rivaleggiare con quelle tre sopra menzionate; tuttavia era ancora così enorme da far arrossire - se fosse possibile - i più grandi edifizi moderni, anche i palazzoni a venti piani che costruiscono oggidì i nord-americani.

Una gradinata, di nove metri per lato, misura tenuta per tutte le piramidi, conduceva sulla cima, ove doveva trovarsi, al pari che nelle altre, una piccola piattaforma.

Ounis, che doveva aver visitato ancora, in altri tempi, l'enorme sepolcreto, mosse sollecito verso due colossali sfingi, che pareva fossero state collocate a guardia d'una porta di bronzo, che andava restringendosi verso lo stipite come tutte quelle costruite dagli antichi egizi.

La esaminò per qualche istante, come se volesse accertarsi che la serratura non fosse stata guastata, poi trasse di sotto la lunga veste una chiave di forma strana, che rassomigliava ad un serpente aggrovigliato e introdusse una estremità in un buco intagliato, in modo da sembrare una foglia di loto.

«Come possiedi tu quella chiave?» chiese Mirinri, che cadeva di sorpresa in sorpresa.

«Me l'ha data tuo padre prima di morire» rispose laconicamente il sacerdote. «Se tu fossi per caso morto dove vorresti che ti avessi sepolto? Un Faraone dormire fra le sabbie?»

«Ma mio padre non riposa lì dentro.»

«Quando tu avrai conquistato il trono che ti spetta, anche lui dormirà, fra queste muraglie ciclopiche, il sonno eterno.»

Spinse la massiccia porta di bronzo, accese una piccola lampada d'argilla, che aveva portato seco, adoperando due pietre nere che percuotendole l'una con l'altra sprigionavano fasci di scintille vivissime, poi, volgendosi verso il giovane, gli disse:

«A te spetta il diritto di entrare per primo, giacché tuo padre più non esiste.»

Con un'emozione visibile Mirinri varcò la soglia e che entrò nell'immenso sepolcreto, destinato ad accogliere tutte le salme della sua dinastia.

Anche là dentro, come già nell'immensa caverna funeraria dove trovavasi il tesoro, regnava un tanfo di muffito e d'umido, tuttavia l'aria, che penetrava forse per mille fessure invisibili, era più respirabile, sicchè i due uomini poterono avanzarsi liberamente.

Nelle pareti massiccie vi erano molti vani di forma quadrata, destinati a ricevere le bare, con sotto una tavola di marmo nero per ricevere le offerte destinate al morto, onde non dovesse soffrire la fame durante la traversata dell'Amenti, per raggiungere il regno d'Osiride o la «regione nascosta», il luogo di delizie.

Non erano quei vani, che d'altronde erano tutti vuoti, che interessavano Ounis e tanto meno Mirinri. Il sacerdote cercava ansiosamente un masso enorme, che doveva trovarsi nel centro della piramide e che celava il famoso fiore d'Osiride.

Essendo la luce della lampadina troppo fioca e lo spazio immenso e tenebroso, dovette percorrere parecchie centinaia di passi prima di scoprirlo.

«Eccolo,» disse finalmente.

Un gran dado di pietra bianca sormontato da una statua rappresentante Toth, il dio ibis, era comparso nel cerchio proiettato dalla luce.

Ounis s'accostò e rimosse colla mano un cumulo di vegetali che copriva la superficie, dei fiori di loto bianco ed azzurro, dei crisantemi, dei mazzi di trifoglio, dei sedani e dei melloni d'acqua seccati, che conservavano tuttavia ancora il loro color verde e dopo d'aver frugato entro una cavità trasse una piccola pianta disseccata, mostrandola trionfalmente al giovane.

Quella pianta meravigliosa, che doveva migliaia d'anni dopo far stupire i botanici europei ed americani, che la chiamarono il fiore della risurrezione e che fu scoperta da un beduino nel seno d'una principessa faraonica e donata dal possessore al dottor Deck nel 1848, era quella che gli antichi Egizi chiamavano il fiore d'Osiride.

Era una pianticella magra, esile, con dei bottoncini ingialliti dal tempo e ormai completamente disseccati.

«È proprio quella che il grande Osiride lasciò ai suoi successori?» chiese Mirinri, guardandola cogli occhi luccicanti.

«La stessa,» rispose Ounis, dopo averla osservata attentamente. «La riconosco benissimo perché io l'ho portata qui assieme a tuo padre.»

«E tu credi che riviverà?»

«Sì, se tu sei un vero Faraone. Se la statua di Memnone ha suonato in tua presenza, non ho ora alcun dubbio che questi due bottoncini schiuderanno le loro corolle.»

«Da quanti anni è così disseccata?»

«Chi potrebbe dirlo? Da migliaia e migliaia di certo, ma molte volte è risuscitata e certo per volere del grande Osiride. A te, prendila e versa su questi bottoncini due goccie.»

Gliela porse, unitamente ad una piccola fiala di vetro che conteneva un po' d'acqua.

Mirinri la fissò per parecchi istanti. Il suo cuore tremava, come quando aspettava ansiosamente il suono della colossale statua. Se quell'ultima prova fosse fallita?

«Bagnala,» disse Ounis, vedendo che il giovane esitava. «Sono certo che fra poco io renderò a te l'omaggio che il popolo egiziano deve ai Figli del Sole.»

Mirinri versò due goccie d'acqua sui due bottoncini e subito vide, con immensa meraviglia, quella pianta, da secoli e secoli morta, dapprima fremere, poi agitarsi, raddrizzare i suoi tessuti, i bottoncini gonfiarsi ed arrotondarsi, quindi svolgere i loro leggeri petali all'ingiro, intorno ad un punto centrale di color giallo.()

La pianta meravigliosa di Osiride era risuscitata!

«Lasciala morire,» disse Ounis, vedendo Mirinri agitarla, come se fosse improvvisamente impazzito. «Taci e guarda!»

I due fiori che somigliavano a due splendide margherite, mantennero per qualche minuto i loro petali aperti e tesi, scoprendo il loro seno ringiovanito come per opera magica, cosparso di piccoli granelli, poi le loro tinte iridiscenti cominciarono a scolorirsi, gli steli si curvarono, le foglioline si ripiegarono su se stesse e tutto si appassì.

Il grido, che Mirinri aveva fino allora trattenuto, gli uscì formidabile dal petto:

«Sono un Faraone! Lode al grande Osiride! La potenza, la grandezza, la gloria! Ah! È troppo!»

Ounis prese il fiore e lo depose nuovamente nell'incavatura del masso, poi s'inginocchiò dinanzi a Mirinri e gli baciò l'orlo inferiore della candida veste, dicendo:

«A te l'omaggio del tuo più fedele suddito. Io ti saluto, Figlio del Sole!»

«Quando avrò conquistato il trono tu sarai il mio primo ministro ed il capo supremo dei sacerdoti, mio devoto amico. La mia potenza non oscurerà la riconoscenza che ti devo.»

«Non desidero né onori, né grandezze,» rispose Ounis. «D'altronde, quando tu sarai re, io non ne avrò bisogno.»

«Perché Ounis?» chiese Mirinri sorpreso da quella frase oscura.

«Tutto non ti ho ancora narrato. Mi resta da fare al Figlio del Sole una rivelazione ancora, ma non la farò se non quando tu siederai sul trono dei Faraoni. Ora ci resta qualche cosa d'altro da compiere, prima di lasciare questa piramide che non rivedrai mai più da vivo.»

«Quale?»

«Distruggere il cadavere che l'usurpatore ha messo al posto di tuo padre. Quell'ignoto, ch'è forse un miserabile schiavo, non deve occupare un posto che spetta a Teti, né oltraggiare col suo corpo impuro la tomba dei Figli del Sole. Vieni, Mirinri.»

«Quell'infamia la sconterà,» disse il giovane, che ebbe un fremito di collera. «Non bastava a Pepi carpire a mio padre il regno: gli occorreva anche questa crudele derisione. Io farò a pezzi l'uomo che rappresenta in questo sepolcreto il corpo del Faraone, così non passerà l'Amenti e non prenderà un posto che non gli spetta fra gli antenati luminosi.»

Il sacerdote diede all'ingiro un lungo sguardo, poi si diresse verso una delle pareti dove entro un incavo si scorgeva a brillare vagamente qualche cosa.

«Qui lo hanno collocato» disse.

Un feretro stava deposto in quell'escavazione, un po' al di sopra d'una lastra di marmo nero, su cui s'ammonticchiavano corone di trifoglio, di loto bianco ed azzurro, accanto a piccoli mucchi di grano e di farina, a pezzi di carne disseccata ed a fiale contenenti latte, liquori e profumi.

Quella bara era d'una ricchezza straordinaria, costruita con legname di quercia arabica, adorna di sculture finissime, che volevano rappresentare la grande vittoria riportata da Teti contro le orde Caldee, tutta dipinta, dorata ed incrostata di perle preziose.

Verso l'estremità superiore, quel feretro terminava in una testa che doveva riprodurre esattamente i lineamenti dell'uomo che vi stava rinchiuso dentro.

Mirinri gettò via con dispetto i fiori e le offerte, salì sulla tavola di pietra e prese fra le sue robuste braccia la salma, deponendola al suolo.

«Questa testa rassomiglia a quella di mio padre?» chiese con viva emozione.

«Sì,» rispose Ounis.

«E questi occhi sono proprio i suoi?»

«Li hanno riprodotti esattamente.»

Mirinri guardò il vecchio, poi la testa, quindi tornò a guardare il sacerdote, facendo un gesto di stupore.

«Che cos'hai ora?» chiese Ounis aggrottando la fronte.

«Trovo una strana somiglianza fra i tratti di questo viso ed i tuoi. Anche gli occhi hanno il medesimo lampo cupo.»

«Vi sono tanti che si assomigliano,» rispose asciuttamente il sacerdote. «Apri il feretro: voglio vedere chi vi hanno messo dentro.»

Mirinri introdusse la punta della spada fra le commessure e con uno sforzo violento sollevò il coperchio.

Tosto apparve una mummia, rappresentante un uomo di alta statura, col viso solcato da due lunghe ferite malamente cucite e che lo rendevano irriconoscibile.

Tutto il corpo era strettamente avviluppato in un tessuto d'oro, con ricami formati da pietre preziose, per lo più smeraldi, e dorate aveva le unghie delle mani e dei piedi.

«È mio padre, questi?» chiese Mirinri.

«No.»

«Ne sei ben certo, Ounis?»

«L'ho conosciuto troppo bene, per potermi ingannare.»

«Va bene,» rispose Mirinri.

Levò la mummia, che gettò con disprezzo al suolo, rinchiuse la bara e la ricollocò nel vano scavato nella parete della piramide, dicendo con voce ironica:

«Servirà a qualche altro: l'usurpatore appartiene alla famiglia ed ha il diritto di dormire qui dentro. Prenderà il posto di questo miserabile schiavo od ignoto guerriero che sia.»

Poi afferrò la mummia, facendola crepitare fra le proprie dita, tanta era la sua collera e, volgendosi verso il sacerdote, disse con tono che non ammetteva replica:

«Usciamo!»

«Che cosa ne vuoi fare di quel morto?» chiese Ounis.

«Usciamo,» ripetè il giovane.

Attraversò la piramide, finché raggiunse la porta di bronzo che era rimasta aperta. Ounis la chiuse con quella chiave in forma di serpente e si trovarono entrambi in mezzo ai raggi ardenti del sole.

«Nessuno può entrare ora?» chiese Mirinri, che teneva sempre la mummia.

«Nessuno, fuorché Mirinri Pepi, il solo che possegga una chiave eguale a questa.»

«Questa tomba non si aprirà che per ricevere la salma dell'usurpatore,» disse Mirinri, con voce cupa. «Lo giuro su Sib, il dio che rappresenta la terra; su Nout che rappresenta il cielo; su Nou il dio delle acque; su Râ che è il sole; sul grande Osiride e su Iside, l'animale sacro che il mio futuro popolo adora. Che Nacus, l'impuro demonio della morte mi tragga nel regno delle tenebre; che mi sia negato il passaggio dell'Amenti e la pace eterna nella regione nascosta, se io mancherò alle mie promesse. Ounis, tu che sei sacerdote, mi hai udito. Ed ora, vile carcame, che hai osato prendere il posto di mio padre, il grande guerriero che salvò l'Egitto, va'! Troverai una bara nelle viscere immonde delle jene e degli sciacalli.»

Ciò detto sollevò in alto e con quanta forza aveva, scagliò là mummia in mezzo alle dune, dove rimase colle gambe in aria.

«Quando potremo partire?» chiese poscia il giovane. «Ora che so di essere veramente il figlio di Teti, sono impaziente di conquistare l'orgogliosa Menfi.»

«Adagio, Mirinri,» rispose il sacerdote. «Noi dobbiamo recarci colà con infinite precauzioni, e affiatarci segretamente coi vecchi amici di tuo padre. Se tu venissi scoperto prima di essere tanto potente da fronteggiarlo, Mirinri Pepi non ti risparmierebbe.»

«Dovrò dunque rimanere ancor a lungo in questo deserto e lasciar spegnere l'entusiasmo che mi divora?»

«Non ti chiedo che tre o quattro giorni. Torniamo alla nostra dimora.»

La sera dello stesso giorno, Ounis, approfittando del sonno profondo del giovane Faraone, lanciava nel Nilo, con grande spavento dei coccodrilli e degli ippopotami che erano numerosissimi in quei tempi, delle piccole palle fiammeggianti che bruciavano anche in acqua, come i famosi fuochi greci dei quali fu perduto il segreto.

«Gli amici che vegliano sapranno così che Mirinri è pronto,» disse. «Aspettiamoli e che Osiride protegga il nuovo Figlio del Sole.»

 

 

CAPITOLO QUINTO

 

Alla conquista d'un trono

 

Tre giorni dopo, verso il tramonto, un piccolo veliero, che rassomigliava molto alle dahabiad che si usano ancora oggidì sul Nilo, e che, al pari di quelle antiche, hanno gli alberi formati di vari pezzi e uniti con pelli di bue applicati ancora fresche e lasciate poi a disseccare, approdava nel luogo istesso dove Mirinri aveva scoperto il simbolo di vita e di morte.

Aveva la carena piuttosto larga e robusta, la prora arrotondata, con qualche ornamento d'oro sulla polena rappresentante un ibis colle ali spiegate, e due immense vele di lino bianco, simili nel taglio a quelle latine, ma colle punte più slanciate.

La montavano due dozzine e più di etiopi, uomini dalla pelle assai nera, e di forme erculee, che mostravano nude, non avendo che una larga fascia attortigliata intorno ai fianchi coi due capi pendenti fra le gambe che giungevano quasi fino a terra. Era d'altronde quello il costume usato dal popolo ed era più che sufficiente, sotto quel clima sempre caldo anche durante i mesi invernali.

Un uomo che portava due grembiuli di cotone azzurro, di forma rettangolare, ripiegati in avanti e trattenuti intorno alle reni da una cintura di cuoio e sul capo una parrucca con grossi rotoli di capelli a gran riccioli tubiformi e trecce pendenti lungo le spalle, stava al timone.

Era un bell'uomo sulla quarantina, colla pelle solamente un po' abbronzata e che incarnava il vero tipo dell'egiziano antico: alto, piuttosto magro, con spalle larghe e piene, le braccia nervose terminanti con mani lunghe e fini, le gambe secche coi muscoli dei garretti assai pronunciati, come la maggior parte dei popoli camminatori.

Sul suo viso vi era una espressione di tristezza profonda, che si rifletteva viva nei suoi grandi occhi nerissimi, quella tristezza istintiva che si osserva anche oggidì negli egiziani moderni.

Appena la barca ebbe toccata la riva, che in quel luogo era alta e coperta da palmizi splendidi, l'egiziano diede ordine agli etiopi di gettare un pontile di legno, poi s'accostò ad una specie di tamburo di grosse dimensioni, in forma d'imbuto e si mise a percuoterlo poderosamente, intanto che uno dei suoi uomini dava fiato ad un flauto, traendo delle note acutissime che si potevano udire a qualche miglio di distanza.

Quella musica, ingrossata dai colpi sonori del tamburone, durò parecchi minuti, coprendo il gorgoglìo delle acque rompentisi contro le rive e sugli isolotti sabbiosi che ingombravano il maestoso fiume, e propagandosi intensamente sotto le vôlte di verzura.

L'egiziano stava per far segno al suonatore di flauto di cessare, quando sbucarono da una macchia Ounis e Mirinri.

«Che Râ ti porti buona fortuna, Ata,» gridò il sacerdote. «Io ti conduco il futuro Figlio del Sole. Il fiore d'Osiride e Memnone l'hanno riconosciuto.»

«Era ora,» rispose l'egiziano, attraversando il pontile e scendendo sulla riva. «Tutto l'Egitto freme, impaziente di vedere il suo legittimo re.»

S'avvicinò a Mirinri, che si era fermato, guardando con una viva curiosità il comandante di quella bella barca e gli si inginocchiò dinanzi, baciandogli l'orlo della veste.

«Salute eterna al Figlio del Sole,» gli disse. «Salute al discendente del grande Teti.»

«Chi sei?» chiese Mirinri, alzandolo.

«Un amico devoto di tuo padre e di Ounis,» rispose l'egiziano, «e vengo a prenderti per condurti a Menfi. Il tuo posto è là e non fra le sabbie del deserto.»

«Fidati di lui, come di me stesso» disse Ounis, volgendosi verso Mirinri. «È stato un fedele amico di Teti, fu anzi lui a rapirti dal palazzo reale ed a metterti in salvo, prima che nella truce mente di Mirinri Pepi nascesse l'idea di trovare qualche mezzo per sopprimerti.»

«Se un giorno io salirò davvero sul trono dei miei avi, io ti mostrerò la mia riconoscenza,» disse il giovane Faraone.

«Hai veduto a passare i fuochi che io ho affidati alle acque del Nilo?» chiese Ounis...

«Sì,» rispose Ata, «li ho fatti fermare al di sopra di Pamagit, onde le spie dell'usurpatore non potessero sospettare qualche cosa. Bada che dovunque si veglia, perché a corte si sospetta che il figlio di Teti non sia morto.»

«Chi può avere tradito il segreto che ho custodito così gelosamente per tanti anni?» chiese Ounis, impallidendo.

«Lo ignoro, ma io so che un giorno una barca montata da una principessa ha rimontato il Nilo, fino a questo luogo, per ordine del re. Vi era su quella un uomo che aveva veduto più volte il giovane Mirinri, prima che io lo rapissi.»

«Io ho veduto quella principessa, anzi l'ho salvata mentre stava per essere divorata da un coccodrillo,» disse Mirinri.

«E gli uomini che montavano quella barca ti hanno veduto, Figlio del Sole?» chiese Ata, con apprensione.

«Sì.»

«Non ti hanno detto nulla?»

«Assolutamente nulla.»

«Vi era qualcuno che ti osservava attentamente?»

«Mi parve.»

«Ti rammenti, Figlio del Sole, che cosa portasse sul capo?»

«Un berretto molto alto, che s'allargava verso la cima, adorno di simboli d'oro in forma di dischi e di corna.»

«Ed indosso che cosa aveva?»

«Una lunga ciarpa ed una pelle di leopardo annodata fra le due spalle.»

«È lui!» esclamò Ata, facendo un gesto di rabbia.

«Chi lui?» chiesero ad una voce Mirinri e Ounis.

«Il gran sacerdote di Iside. Me lo immaginavo.»

«Spiegati meglio, Ata,» disse Ounis.

«Più tardi: imbarchiamoci e partiamo subito. Sono certo che qualche cosa è trapelato e che in qualche luogo verremo assaliti. Da qualche mese delle persone sospette si aggirano intorno a me e sorvegliano la mia barca. Si cercava certo di sapere dove io mi recavo, quando mi assentavo da Pamagit, per venire a ricevere i tuoi ordini. Noi non viaggeremo che di notte, colle dovute precauzioni e cercheremo di sfuggire gli agguati che ci verranno indubbiamente tesi lungo il Nilo. Il segreto ormai è stato tradito e tu, Figlio del Sole, corri il pericolo di venire arrestato prima di entrare in Menfi.»

«Apriremo bene gli occhi,» disse Ounis.

«E, se verremo assaliti, ci difenderemo,» aggiunse Mirinri. «Sono fidati questi uomini?»

«Sono tutti etiopi valorosi, robusti e devoti a me,» rispose Ata.

«Imbarchiamoci.»

Attraversarono il pontile e salirono sulla barca. Essendo il vento contrario e la corrente invece favorevole, le due grandi vele vennero ammainate sul ponte, poi il piccolo legno fu lasciato libero, mentre gli etiopi, con lunghi remi, lo guidavano in mezzo ai banchi sabbiosi e alle masse di erbe acquatiche che ingombrano così di frequente quel fiume gigante.

Ata, dopo essersi assicurato che il legno non correva, almeno pel momento, alcun pericolo, condusse Mirinri e Ounis a poppa, dove trovavasi una cameretta tappezzata di stuoie variopinte e colle pareti coperte di grandi scudi di pelle, per lo più angolari di sotto e rotondi verso la cima, con un foro nel mezzo, per poter osservare il nemico e d'un gran numero di armi di rame, di bronzo, di ferro e anche di legno, come spade, lance in forma di falci, mazze, ascie, pugnali di varie forme e parecchi archi colle relative faretre, piene di freccie colla punta di metallo...

All'intorno vi erano pochi, però elegantissimi mobili, dalle linee dolci e per lo più oblique, non usando gli Egiziani la linea retta nelle loro costruzioni. Erano dei divanelli guarniti di cuscini ricamati e colle spalliere smaltate e piccole sedie che s'allargavano verso il fondo, dipinte in rosso ed abbellite da penne variopinte incollate lungo le gambe.

Ata prese in un angolo una piccola anfora, dal collo assai lungo, coperta di smalti multicolori e delle tazze di vetro colorato, di squisita fattura, e versò della birra, dicendo:

«Alla grandezza e alla gloria del futuro Faraone. Che Osiride ti protegga, Figlio del Sole.

I tre egiziani vuotarono d'un fiato le tazze, poi Ata sollevò una tenda che copriva il fondo del salotto, aggiungendo:

«Va' a fare la tua toletta, signore. Un principe non può viaggiare con queste vesti e poi, tu devi figurare d'essere un grande personaggio etiope, così sventeremo meglio i sospetti che potrebbero nascere su di te. I negri che montano la barca basteranno colla loro presenza a farti credere tale. Ti aspettiamo sul ponte, signore. È necessario vegliare.

Uscì dal salotto, seguito da Ounis e salì sul cassero, guardando per parecchi minuti, con estrema attenzione, le due rive del fiume, che in quel luogo erano lontane più d'un miglio l'una dall'altra.

Il sole era già tramontato da più d'un quarto d'ora e le tenebre erano calate sul fiume gigante. In lontananza però un debole chiarore annunciava l'imminente comparsa dell'astro notturno.

«Sei inquieto?» disse Ounis vedendo che Ata continuava a guardare.

«È vero,» rispose l'egiziano.

«Temi dunque d'essere stato seguito da qualcuno?»

«Forse no; tuttavia ho osservato dei fatti strani che sarebbero sfuggiti ad altri meno osservatori di me.»

«Quali?» chiese Ounis.

«Tu sai che sul nostro fiume le erbe galleggianti ed i papiri interrompono di frequente la navigazione, che però, una volta aperti i canali, per un certo tempo si mantengono. Ora ho trovato quei passaggi chiusi e sai come? Quando ho fatto tagliare quelle masse vi ho trovato in mezzo dei pali affondati nel fango. Vuol dire dunque che sul fiume si vegliava e che si cercava d'impedirmi che io lo risalissi fino qui.»

«E altro?»

«Vi è qualche cosa ancora,» disse Ata, la cui fronte appariva pensierosa. «Sono tre giorni che navigo e tutte le notti ho scorto, dietro di me, un lume brillare nell'oscurità e dei fuochi scintillare al di sotto dei palmizi, ora su una riva ed ora sull'altra.»

«Ciò mi preoccupa.»

«Ed io non meno di te. Qualcuno deve avere informato che tu non sei...»

Ounis con un rapido gesto gli mise una mano sulle labbra, dicendogli con voce imperiosa:»

«Taci! Lo voglio!»

«Perdonami,» disse Ata, a bassa voce.

«Io non sono che un sacerdote per te, come per tutti.»

«È vero, dimenticavo il giuramento.»

«Continua.»

«Certo si sospetta alla corte che Mirinri non sia morto.»

«Può darsi. Hai avvertito i nostri amici?»

«Tutti sanno a quest'ora che lui è pronto alla riscossa. Quando noi saremo a Menfi li troveremo tutti riuniti nelle tombe dei coccodrilli e là sarà reso l'omaggio dovuto al nuovo Figlio del Sole, e che...»

Un urto leggero, che fece oscillare la barca, lo interruppe. La discesa del fiume si era arrestata.

Ata aggrottatò la fronte.

«Ci hanno chiuso il passaggio,» mormorò. «Me l'aspettavo; eppure stamane le erbe non erano così fitte da impedire al mio veliero di risalire il fiume. Che le spie del Faraone siano già giunte qui?»

«Le piante crescono presto sul Nilo,» disse Ounis. «Bastano ventiquattro ore per ostruire il fiume.»

Ata crollò il capo e si spinse verso la prora, dove gli etiopi si erano raccolti per provare, coi loro lunghi remi, la resistenza che opponeva quella barra erbosa.

Il Nilo va soggetto a delle ostruzioni improvvise, che di quando in quando intercettano completamente la navigazione, obbligando gli equipaggi dei piccoli velieri che lo salgono e lo discendono a delle dure fatiche per aprirsi un passaggio.

Anticamente, quando i papiri e gli ambath erano ben più numerosi d'oggidì e raggiungevano delle dimensioni straordinarie, la navigazione di quel fiume immenso subiva dei ristagni assai più considerevoli. Quelle piante acquatiche, conosciute oggidì col nome di sett o meglio di sudd, prendevano tali proporzioni da impedire qualsiasi passaggio alle navi che dovevano, per scopi commerciali, spingersi verso l'alto Nilo.

Già quasi tutti i fiumi africani vanno soggetti a simili ingombri, perfino lo Zambese; quello che bagna l'Egitto è afflitto da una massa maggiore di quelle cattive erbe, che la corrente, anche durante le piene, non riesce a sfondare.

Anche oggidì, di quando in quando, il corso del Nilo ed i suoi affluenti, quantunque il papiro sia quasi scomparso, vengono invasi da quella vegetazione acquatica, la quale cresce con rapidità prodigiosa formando delle masse enormi così compatte, da obbligare il governo egiziano a mandare delle migliaia d'uomini per aprire dei canali che difficilmente poi rimangono aperti.

Fra il 1870 ed il 1873 Samuele Baker, il famoso esploratore che conduceva una spedizione armata nell'Alto Egitto per reprimere la schiavitù, fu fermato per lungo tempo dal sett che aveva ostruito il Bahr-el-Djebet, in modo da non potergli permettere di giungere a Gondokoro.

Anche nel 1898 le cannoniere inglesi, che operavano contro i madhisti, si videro costrette ad aprirsi un canale attraverso la massa erbosa, la quale era così fitta da sostenere senza alcun pericolo gli uomini che lavoravano. C'era però un altro pericolo, poiché di quando in quando fra quelle piante balzavano fuori dei coccodrilli e le loro formidabili mascelle si serravano attorno alle gambe dei marinai e dei soldati.

Molti anni prima fu il Nilo Bianco che si coprì di sett, eppure quello splendido corso d'acqua ha una larghezza di mezzo chilometro ed una profondità di cinque metri e da quell'epoca le erbe non hanno cessato di aumentare, costringendo il governo egiziano ad un continuo e costoso ripulimento del letto ed all'apertura dei canali, onde mantenere le sue relazioni colle provincie equatoriali.

Tagliare quelle erbe non è difficile, perché non presentano una grande resistenza; il più è mantenere quelle aperture libere, perché tutta la regione intorno al fiume non è altro che una immensa palude, che rappresenta il letto di qualche antico lago nel quale l'acqua si espande su larghi spazii e si evapora in gran parte senza tregua.

Ata, dopo d'aver osservato attentamente la massa erbosa che impediva quel passo, che aveva trovato libero il mattino, chiamò due dei suoi battellieri, dicendo loro:

«Guardate se hanno piantato degli ostacoli nel letto del fiume.»

I due etiopi s'armarono con delle pesanti ascie di bronzo, potendo darsi il caso che fra quelle masse vegetali si nascondesse qualche coccodrillo e si calarono sul sett che era formato da un denso strato di ambath e di foglie di loto, strettamente amalgamate.

«Vi sostiene?» chiese Ata, che stava curvo sul bordo.

«Sì, padrone,» risposero i due battellieri.

«Non scorgete nulla?»

«Aspetta.»

Affondarono le mani nella massa, frugando qua e là fra la moltitudine di radici che formavano un vero graticolato, e ben presto un grido di sorpresa sfuggì dalle loro labbra.

«Avevi ragione, padrone,» disse uno dei due. «Il canale è stato chiuso appositamente per impedirci il ritorno.»

«Che cosa hanno messo?» chiese Ata.

«Hanno piantato nel letto del fiume dei pali e hanno fatto deviare una massa considerevole di erbe, dopo d'averle tagliate dal grande banco.»

«Giù tutti e aprite il passo,» comandò Ata, volgendosi verso gli altri etiopi che stavano dietro di lui, in attesa dei suoi ordini. «Non facciamoci sorprendere immobilizzati. Devono averci preparato qualche agguato. Fortunatamente il fiume è largo e le rive sono lontane.»

Mentre i battellieri scendevano per sbarazzare quel tratto di fiume che dei nemici misteriosi avevano appositamente ostruito, comparve sulla tolda Mirinri.

Il giovane non indossava più la lunga veste bianca che non si addiceva ad una persona d'alto grado, né aveva i piedi nudi.

Portava invece il costume nazionale, così semplice, eppure così pittoresco, degli antichi egizi e che era rappresentato dalla kalasiris, una veste leggera, così trasparente da lasciar intravvedere le forme, a righe bianche ed azzurre, che avvolgeva il corpo a partire dal collo o dalla cavità del petto per cadere fino ai piedi e con un buco per lasciar passare la testa.

Vi aveva aggiunto, come esigeva il costume di quell'epoca, nei personaggi cospicui, anche per le donne d'origine nobile, un collare variopinto di tela inamidata, quasi circolare, tutto chiuso, adorno di cordoni e di catene a cui erano infilate delle perline di vetro e simboli religiosi di pietre multicolori.

Ai piedi portava delle calzature a maglia e dei sandali, lusso permesso solamente ai ricchi, formati da pellicole di papiro sovrapposte a più strati, colla punta in forma di becco, come i nostri pattini da ghiaccio, fissati con un largo laccio guernito di piastrine d'oro e trattenuti da una correggia che passava fra il pollice e l'indice.

«Che cosa c'è dunque?» chiese, vedendo tutti gli etiopi sul sett.

«Brutte nuove,» rispose Ounis. «Si sospetta di noi.»

«Così presto?»

«Questa ne è la prova. Il canale non deve essere stato chiuso per capriccio. Per compiere un simile lavoro in poche ore devono essere giunte qui molte barche, montate da parecchie centinaia d'uomini.»

«Eppure tu hai preso per tanti anni le più accurate precauzioni. Ata è fidato?»

«Non dubito di lui.»

«Chi può aver tradito il segreto?»

«Quella gita compiuta dalla principessa non era che un pretesto. Ti si cercava. Mirinri, guardati da lei!»

«È figlia dell'usurpatore?»

«Sì.»

Un'emozione profonda si era dipinta sul viso del giovane Faraone. Stette parecchi istanti silenzioso, come raccolto in se stesso, poi disse con una certa esitazione:

«Eppure mi pare impossibile che quella donna che io ho strappato dalle fauci del coccodrillo, mettendo a repentaglio la mia vita, esiga la mia morte.»

«Odiala come la peggiore nemica.»

«Lei! Ma dunque le donne dei Faraoni posseggono delle malìe che nessuno può spiegare?»

«L'ami dunque?»

«Sì, immensamente l'amo,» rispose Mirinri con uno scatto d'improvviso entusiasmo. «Io non la posso dimenticare, perché sento ogni momento che io chiudo gli occhi, il fremito che io ho provato in quel giorno, quando la trassi dal Nilo, stillante acqua sacra.»

Ounis ebbe un sussulto ed i suoi lineamenti si contrassero quasi ferocemente.

«Strano destino del sangue,» disse.

Poi, volgendosi bruscamente verso Ata, che osservava sempre gli etiopi occupati a fendere, a gran colpi d'azza, l'ammasso d'erbe che impediva alla barca di proseguire la sua rotta, gli chiese:

«Dunque?

«Ne avremo fino a domani e forse di più,» rispose l'egiziano. «Hanno deviato delle masse enormi che hanno trattenute con un numero infinito di pali. Qui è stato compiuto un tradimento infame e anche...»

Un urlìo furioso, che s'alzava sulla riva sinistra del fiume gigante, accompagnato da scoppi di risa, gli aveva interrotta la frase.

«Qui, naviganti!» urlavano centinaia di voci rauche. «Non venite dunque a bere il dolce vino di palma? A terra o affonderemo la vostra nave e vi faremo bere invece l'acqua del fiume!»

Una turba di uomini e di donne era comparsa improvvisamente sulla riva del fiume e si sbracciava, come se fosse diventata improvvisamente pazza, saltellando al di sotto dei palmizi, che ergevano i loro snelli tronchi e stendevano le loro foglie piumate.

«Qui! Qui!» gridava senza posa. «È la festa di Bast e vuotiamo gli avanzi del vino dell'annata. Nessun forestiero può rifiutarsi! Scendete e rallegrate la nostra festa.»

In mezzo a quell'urlìo, si udivano a squillare delle cornette che avevano delle note assordanti, quegli strani istrumenti musicali chiamati dagli antichi egizi tan e che i greci affermavano sembrare il loro suono all'urlo di cani rabbiosi; le banit ossia le arpe facevano udire dei suoni dolcissimi, ai quali si confondevano le note un po' stridule delle nebel, le chitarre usate in quell'epoca e che sembra fossero importate dai popoli asiatici.

Ata si era fatto oscuro in viso.

«Un agguato o la festa annuale dei bevitori?» si chiese con apprensione.

«Che cosa vuoi dire?» domandò Mirinri, che era stato profondamente colpito da quei suoni, che mai aveva udito a echeggiare fra le sabbie del deserto.

«Tu non conosci le nostre feste,» rispose l'egiziano. «Il Figlio del Sole non è vissuto nelle nostre terre.»

«Chi sono quegli uomini?»

«Persone che si divertono,» rispose Ounis, che gli stava presso. «Tutti gli anni si radunano sulle rive del sacro fiume parecchie centinaia o migliaia di individui per terminare il vino di palma raccolto nell'annata e nessuno deve ritornare alla propria casa se non è ubbriaco. È un costume del tuo futuro popolo.»

«E che cosa vogliono da noi?»

«T'invitano a prendere parte alla loro festa.»

«Io con loro?»

«Sono ebbri, Figlio del Sole, e tu non puoi sapere a quale pericolo ci esporremmo colla barca immobilizzata, a non obbedire al loro invito,» disse Ata.

«Non ci tenderanno un agguato?» chiese Ounis.

«Sono troppo allegri.»

«I tuoi uomini avranno molto da fare ancora?»

«Sì, Ounis. Il passaggio è stato chiuso su una larghezza ragguardevole e non potremo proseguire il viaggio prima di domani mattina.»

«Sicché dovremo accettare il loro invito?»

«Credo che sia cosa prudente non rifiutare. Sono ubriachi, quindi capaci di tutto. D'altronde vedi le loro scialuppe muovere verso le masse erbose. Evitiamo qualsiasi sospetto e scendiamo a terra come onesti naviganti del Nilo. I miei etiopi si terranno pronti, in caso di pericolo, a difendere il Figlio del Sole.»

 

 

CAPITOLO SESTO

 

La festa degli ubriachi

 

Fra le tante feste che gli antichi egiziani avevano, certamente una delle più originali era quella dei bevitori di vino di palma. Tutti gli anni, delle centinaia e centinaia di uomini si radunavano sotto le foreste di palmizi per celebrare la festa chiamata di Bast ed era obbligo assoluto che nessuno tornasse alle proprie case se prima non era consumata interamente la provvista di vino di palma raccolto durante l'annata. È probabile che gli antichi romani abbiano tratto da ciò i loro famosi Saturnali, poiché in quelle feste del vino, permesse dai Faraoni, non mancavano né suonatrici, né danzatrici, per esaltare maggiormente i bevitori e renderli addirittura folli.

Ed infatti sulla riva, che la luna illuminava in pieno, si scorgevano, confuse fra gli uomini, molte donne che indossavano dei costumi splendidi e che tenevano in mano degli istrumenti musicali. Anch'esse, che sembravano pure molto allegre, invitavano con alte grida i naviganti a prendere parte all'orgia e vuotare delle coppe in onore di Bast.

Ata, dopo aver fatto esplorare il banco erboso per accertarsi della sua resistenza, scese a sua volta, accompagnato da Mirinri, da Ounis e da otto etiopi che portavano alla cintura delle pesanti ascie e dei pugnali di rame dalla punta acutissima.

La traversata del sett la compirono senza difficoltà, essendo quelle masse trattenute dai pali piantati da coloro che avevano interesse a trattenere la barca e raggiunsero la sponda fra le grida gioconde dei bevitori.

Vi erano due o trecento persone fra uomini e danzatrici, che traballavano sulle malferme gambe.

Erano gli uomini per la maggior parte pescatori o battellieri, che indossavano dei semplici grembiali di pelle conciata, con qualche fascia variopinta gettata sulla testa o sulle spalle, però non mancavano fra loro dei giovanotti di buona condizione, che indossavano delle ricche kalasiris, con collari inamidati e che avevano parrucche sul capo con lunghe trecce pendenti sulle tempie e delle barbe finte.

Spiccavano invece per ricchezza e buon gusto dei costumi le suonatrici e le danzatrici, con splendide kalasiris variopinte e leggere come veli, con fazzoletti di squisita manifattura annodati intorno al capo, in modo però da lasciare in vista le loro capigliature intrecciate bizzarramente; con fascie legate attorno alle anche coi capi ricadenti fino a terra e coi loro monili di oro, le loro collane di perle ed i loro grossi pendenti di forma rotonda e smaltati a più tinte.

Alcune avevano i seni coperti da conche di rame con ghirigori in doratura, trattenuti da cordoncini che si diramavano all'ingiro come i raggi del sole ed altre, invece del fazzoletto triangolare, portavano sopra i capelli delle pittoresche acconciature, formate da lamine d'oro trattenute sul dinanzi da una testa di uccello di rapina d'egual metallo.

Erano poi tutte giovani e belle, di forme slanciate, colla pelle bruno-dorata, al pari di quella delle donne dell'Abissinia, reclutandosi per lo più nelle regioni dell'alto Nilo.

Mentre gli uomini avevano circondato Ata ed i suoi compagni, offrendo delle grandi tazze di terracotta e delle anfore colme di vino, le suonatrici, che non erano meno allegre, avevano formato circolo intorno ad un vaso di dimensioni mostruose, sormontato da un lato da una figura umana che rappresentava Manerôs, l'inventore della musica secondo gli antichi e che doveva essere colmo di vino di palma, soffiando entro i loro istrumenti e pizzicando quelli a corda.

La musica era molto coltivata sotto i Faraoni, quantunque l'applicassero per lo più alle feste religiose, cosicché possedevano gli egizi un gran numero d'istrumenti. Per lo più erano flauti, trombe di bronzo dorato, non così smisurate come quelle che figurano nell'Aida, anzi cortissime; ma dal suono potente, di una grande varietà di corni di bue, tagliati a becco presso l'imboccatura e che chiamavano comunemente tan; parecchie specie di arpe, per lo più altissime e di forme massiccie, delle trigone, dei sistri e anche certe specie di chitarre, colla cassa piccola ed il manico invece lunghissimo.

Intanto le danzatrici intrecciavano balli sulla riva del fiume, fra le risa, gli applausi e le urla degli ubriachi.

Mirinri, Ata e Ounis, invitati cortesemente a prendere parte alla festa, si erano seduti intorno ad una grossa anfora messa a loro disposizione, sorseggiando il vino di palma che veniva offerto da uno schiavo etiope.

Nessuno d'altronde aveva più fatto attenzione a loro. Tutta quella gente allegra si era rovesciata addosso alle danzatrici o raccolta intorno alle suonatrici.

«Osservi nulla di sospetto qui?» chiese Ounis, rivolgendosi verso Ata che non pareva ancora rassicurato.

«Io non vedo altro che della gente che ha un solo desiderio: quello di divertirsi e di ubbriacarsi,» disse Mirinri.

«Eppure non sono ancora tranquillo, mio signore,» rispose Ata, dopo un breve silenzio.

«Perché questi uomini hanno scelto questo luogo per la loro festa, proprio qui dove ci hanno chiuso il passaggio? Questo io vorrei spiegare.»

«Li ha radunati qui il caso, suppongo,» disse Ounis.

Ata crollò il capo, poi riprese:

«Non vedo chiaro in tuttociò e faremo bene ad allontanarci, non appena il canale sarà aperto. Finché non saremo giunti a Menfi, non sarò mai tranquillo.»

«È non sarà invece maggiore là il pericolo?» chiese Mirinri.

«Vi sono molti amici laggiù i quali sono fedeli ed hanno preparato per te, mio signore, un rifugio sicuro ed inviolabile. Beviamo e poi andiamocene. Noi abbiamo reso l'omaggio dovuto a Bast, quindi non ci tratterranno, se è vero che questi uomini non si occupano altro che di divertirsi.»

Vuotarono qualche tazza ancora, poi si alzarono. Stavano per avviarsi verso la riva, quando delle grida di donna, seguite tosto da urla feroci, li arrestarono di colpo.

Al di là del circolo formato dalle danzatrici, degli uomini si agitavano imprecando, mentre una voce femminile ripeteva con voce singhiozzante:

«Lasciatemi, vili!»

«La maliarda! La maliarda!» si rispondeva da tutte le parti. «Confessa dove lo hanno acciecato! Vogliamo sapere dov'è il tesoro!»

«Che cosa succede?» chiese Mirinri, guardando Ata.

«Non lo so,» rispose questi.

Le grida della donna continuavano a echeggiare, mentre gli ubriachi che parevano fossero diventati improvvisamente furiosi, accorrevano da tutte le parti, imprecando e minacciando.

Le danzatrici e le suonatrici, spaventate, scappavano, abbandonando queste ultime i loro strumenti musicali che venivano calpestati senza misericordia dai bevitori.

Ad un tratto, in mezzo a quel tumulto che diventava spaventevole, si udì una voce tuonante a gridare:

«Acciechiamola e vendichiamo il povero Nufer!»

«Sì, sì, bruciamole gli occhi!» urlarono cento voci. «Arrossate un ferro! Ci dirà meglio la buona fortuna!»

«E c'indicherà dov'è il tesoro!» riprese la voce di prima.

Udendo quelle parole, Mirinri aveva fatto un balzo, strappando ad uno degli etiopi l'ascia di bronzo. Il suo braccio vigoroso alzò l'arma pesantissima come se fosse un semplice fuscello e prima che Ata ed Ounis avessero avuto il tempo di trattenerlo, si era scagliato con impeto irresistibile fra gli ubriachi, tuonando:

«Fermi, miserabili! Fermi o vi uccido tutti!»

«Mirinri!» aveva gridato Ounis.

Il giovane non udiva più la voce dell'uomo che lo aveva allevato e che gli era come un secondo padre.

Colla sinistra rovesciava con forza erculea i bevitori, mentre colla destra faceva volteggiare in aria l'ascia minacciando di lasciarla cadere sulle teste di quei bruti.

Intanto in mezzo alla folla una voce di donna, strillante, energica, gridava:

«Bacino di fuoco! Anima dei boschi! Faro delle tenebre! Spirito della notte! Apri a me e maledici tutti questi infami! Ampê, Miripê, Ma, Tehibo Wouwore, tutti v'invoco!

«Seguiamolo!» aveva detto rapidamente Ata, rivolgendosi verso gli etiopi. «Mano alle armi e se oppongono resistenza non risparmiate nessuno.»

«Un'arma!» chiese imperiosamente Ounis. «Il mio braccio è ancora robusto.»

Ata si tolse dalla cintola uno dei due pugnali di rame, dalla lama assai larga ed affilata e glielo porse.

«Venite!» comandò poi.

Mirinri s'apriva il passo fra la folla. Pareva un ercole o meglio un leone furibondo.

«Largo!» tuonava senza posa. «Guai a chi tocca quella donna!»

Gli etiopi si erano già slanciati in suo aiuto. Quegli uomini, di forme robuste, dalla muscolatura potente, dovevano avere facile ragione sui battellieri e sui pescatori egizi, che male si reggevano sulle gambe dopo tanto vino bevuto.

Con una spinta formidabile penetrarono come un cuneo in mezzo alla folla, che già, passato il primo istante di stupore, cercava di rinserrare in mezzo il giovane e d'impedirgli di raggiungere la fanciulla, che continuava ad invocare il toro delle tenebre, il bacino di fuoco e tutte le divinità infernali in suo aiuto.

L'urto dei poderosi etiopi riuscì finalmente a sgominare quell'orda ubbriaca ed a respingerla contro i palmizi che circondavano lo spiazzo.

Mirinri potè così raggiungere la donna, che era stata lasciata sola.

Era una bellissima giovane, di forme splendide, con una lunga capigliatura nera, che portava sciolta sulle spalle invece di tenerla raccolta od intrecciata come le donne del basso Egitto, cogli occhi scintillanti d'un fuoco strano e penetranti come punte di spade.

I suoi lineamenti erano d'una purezza meravigliosa e la sua pelle aveva una tinta strana, paragonabile solo al bronzo dorato, con delle indefinibili sfumature rossastre, del più straordinario effetto.

Il petto era coperto da conche di metallo dorato; ai fianchi invece aveva una larga fascia a varie tinte, ricamata in argento, annodata dinanzi e coi capi cadenti fino al suolo. Al di sotto portava una kalasiris corta, a righe bianche, rosse ed azzurre, formata da tre pezzi con quello di mezzo terminante in una punta che scendevale fino al ginocchio.

Le gambe invece erano nude, adorne però di un gran numero di anelli d'oro squisitamente cesellati e con grossi smeraldi incastonati.

Anche ai polsi aveva dei monili ricchissimi e sul petto le cadeva una collana formata da turchesi che anche una Faraona le avrebbe invidiata.

«Chi sei tu?» chiese Mirinri colpito dall'affascinante bellezza di quella giovane e sopratutto dal fuoco intenso che le brillava nelle pupille nerissime.

«Nefer la maliarda,» rispose la giovane dardeggiando sul Faraone uno sguardo penetrante.

«Perché quei miserabili ti volevano uccidere?»

«Perché io leggo il futuro e volevano che additassi loro il tesoro del tempio di Kantapek.»

«Perché sei venuta qui?»

«Vado ove scintilla l'allegria.»

«Vuoi seguirmi?»

«Dove?»

«Sulla mia barca. Se rimani, questi ubriachi ti uccideranno.»

Un rapido lampo brillò nelle pupille profonde della maliarda e sul suo corpo parve passasse un fremito.

«Tu sei bello e valoroso,» disse poi, «ed io amo i belli ed i forti. Ti devo la vita.»

«Mirinri, affrettati,» disse Ounis. «Gli ubriachi ritornano e sono armati. Fuggiamo!»

Il giovane Faraone lanciò intorno a sé uno sguardo corrucciato e strinse l'ascia come se si preparasse a tener fronte alla bufera che lo minacciava, poi prese per mano la maliarda e la trasse via, dicendo:

«Sulla mia barca nessuno più ti minaccerà.»

L'orda degli ubriachi, rimessasi dalla sorpresa, sbucava dietro i tronchi dei palmizi, urlando ferocemente:

«A morte gli stranieri! Immoliamoli sull'altare di Bast!»

Non erano più inermi, come quando bevevano e danzavano attorno ai vasi monumentali che racchiudevano il vino di palma. Avevano archi, lancie, sbarre di bronzo per parare i colpi di spada, somiglianti ai frangispada usati nel Medioevo, pugnali di rame ad un solo taglio, simili alle seramasasce dei Merovingi, ascie di bronzo, poi picche che terminavano verso la cima in una specie di falce e coltellacci ricurvi dalla lama larghissima. Alcuni avevano persino indossate delle cotte di grosso filo, cosparse di laminelle di metallo, sufficienti a ripararli dalle frecce.

Resi arditi dal troppo vino bevuto e anche dal numero, s'avanzavano audacemente, ululando come lupi affamati ed imprecando, risoluti ad impedire ai naviganti di riattraversare il sett e di mettersi in salvo sul veliero.

Ata, vedendo che stavano per sbarrare il passo, trasse di sotto la fascia un sab, ossia una specie di flauto obliquo e vi soffiò dentro con forza, traendo alcune note acutissime, stridenti, che si potevano udite anche dall'altra parte del Nilo.

Tosto si videro gli etiopi, che stavano tagliando le erbe galleggianti, interrompere il lavoro e balzare come una legione di demoni attraverso quell'enorme agglomeramento di papiri e di loti, facendo roteare al di sopra delle loro teste le pesanti ascie di bronzo.

«Presto,» gridò Ata. «Di corsa!»

Mirinri, tenendo sempre per mano la maliarda, la quale d'altronde non sembrava affatto spaventata per la rabbia feroce che si era impossessata degli ubriachi, con due colpi d'ascia atterrò due uomini che gli avevano puntato contro due lancie, poi in pochi slanci raggiunse la riva del fiume, mentre i quattro etiopi di scorta, Ounis e Ata coprivano la ritirata, tenendo a distanza gli assalitori.

Il sacerdote specialmente, quantunque vecchio, lottava con una gagliardia che destava stupore in tutti. Pareva che in tutta la sua vita invece di far echeggiare il sistro nelle feste religiose, non avesse fatto altro che maneggiare le armi.

Cogli occhi in fiamme, il viso animato da una collera intensa, adoperava la pesante ascia meglio d'un guerriero, ribattendo, con un'abilità straordinaria, i colpi che gli venivano dati.

«Sàlvati, Mirinri!» gridava. «Basto io per questa canaglia!»

Sarebbe stato però indubbiamente oppresso, assieme ai suoi compagni, se i marinai del veliero non fossero giunti in buon punto a toglierlo dalle strette degli ubriachi, che erano diventati più furiosi che mai.

Quei colossi dell'alto Egitto, temuti dagli stessi Faraoni, i quali dovevano molti secoli dopo provarne il valore e cedere loro il trono, con una mossa fulminea coprirono Mirinri ed i suoi compagni, scagliandosi poi addosso agli assalitori con formidabili urla selvagge e massacrando senza misericordia i più vicini.

Le ascie, maneggiate da quegli atleti, spaccavano alla lettera in due le persone che non erano leste a fuggire o producevano delle ferite spaventevoli, da non lasciare alcuna speranza di guarigione. Bastarono due cariche per respingere gli ubriachi verso i palmizi, sotto le cui larghe foglie gridavano spaventate le suonatrici e le danzatrici.

Mirinri, vedendo che Ata ed Ounis non correvano ormai più alcun pericolo, si slanciò sul sett, assieme alla maliarda e, camminando con precauzione, onde non affondare improvvisamente attraverso quelle masse di vegetali, arrivò felicemente sotto il piccolo veliero.

Gli etiopi giungevano correndo, spingendo innanzi a loro Ata e Ounis, poiché quegli ostinati ubbriaconi tornavano alla riscossa, saettandoli con nembi di freccie e lanciando certe corte lancie di rame, munite d'una punta aguzza, con un arpione da un lato.

«Tutti a bordo!» gridò Mirinri, aiutando la fanciulla a issarsi sulla scala di canapa che pendeva lungo il fianco della navicella.

Gli etiopi, che non erano più in grado di far fronte agli assalitori, i quali pareva che fossero aumentati di numero, non si fecero ripetere l'ordine. Aggrappandosi ai bordi ed ai cordami, in un istante si trovarono radunati sulla coperta.

«Preparate la difesa,» disse Ata. «Qui gli scudi e gli archi. Avremo da fare non poco a calmare quei furibondi.»

«Credi che ci assalgano?» chiese Mirinri.

«Non ci lascieranno tranquilli, mio signore,» rispose l'egiziano. «Hanno bevuto troppo ed il vino è salito ai loro cervelli. Dovevi lasciare che uccidessero quella fanciulla che noi non conosciamo. Tu hai commesso una imprudenza che forse pagheremo cara.»

«Se è vero che io sono un Faraone, mio primo dovere è quello di soccorrere i deboli e di proteggere i miei futuri sudditi,» rispose Mirinri con fierezza. «Mio padre, al mio posto, avrebbe fatto altrettanto.»

«È vero,» disse Ounis. «Io ammiro il tuo coraggio e la tua saggezza, Figlio del Sole. Giammai sono stato orgoglioso di te come oggi. Un giorno hai strappato, dalle mascelle d'un ingordo coccodrillo, una principessa; ora hai salvato una povera fanciulla a te sconosciuta. Ecco la vera generosità d'un vero Faraone. Tu sarai grande come tuo padre!»

«Ma quegli uomini possono spegnere il futuro re dell'Egitto,»rispose Ata. «Siamo immobilizzati fra le erbe e abbiamo dinanzi un nemico dieci volte più numeroso.»

«Mio padre non ha contato le orde caldee quando le ha rigettate nel mar Rosso,» disse Mirinri. «Io, che ho nelle mie vene il sangue del grande guerriero, non conterò costoro. Uno scudo ed una spada! Presto, etiopi: ecco il nemico!»

Gli ubriachi, che parevano in preda ad un vero delirio battagliero, si erano già gettati sul sett, incoraggiandosi con clamori che non avevano più nulla di umano ed agitando forsennatamente le armi.

Si erano improvvisamente trasformati in guerrieri perché la maggior parte di essi eransi muniti di grandi scudi di varie forme, alcuni quadrati, altri ovali con pitture azzurre, ed altri ancora assai allungati e dentellati nelle parti inferiori e superiori; per di più quasi tutti avevano riparato il capo con una specie di berretto di cuoio, che aveva due intagli, per lasciar libere le orecchie.

Gli etiopi, che non parevano affatto spaventati, essendo quelle genti dell'Alto Nilo d'un coraggio a tutta prova, avevano portato sul ponte fasci d'armi e sopratutto molti archi, alcuni con una sola curva ed altri a due, con in mezzo un pezzo di legno per proteggere le dita dallo scatto della corda, e si erano allineati dietro ai bordi, colle faretre piene di freccie dalla punta larga e mobile.

I bevitori si erano arrestati sulla riva del Nilo, come se fossero indecisi sul da farsi o cercassero di rendersi un conto esatto delle forze di cui disponeva il veliero, prima di tentare un attacco.

«Che non si decidano dunque?» chiese Mirinri, che pareva impaziente di provare l'emozione d'una formidabile lotta.

«Aspetteranno che i loro cervelli si snebbino un poco,» rispose Ata.

«Se ne approfittassimo intanto per aprire il canale?» chiese Ounis.

«Manca molto a raggiungere le acque libere?» domandò Ata, volgendosi verso gli etiopi.

«In un'ora di lavoro si potrebbe attraversare la massa erbosa che ancora ci separa,» rispose uno degli etiopi.

«Che quindici uomini scendano. Gli altri rimangano a bordo per difenderli,» disse Mirinri. «Affondati fra le erbe non correranno molto pericolo.»

«Obbedite a questo giovane che è il comandante,» disse Ata ai battellieri.

Mentre l'ordine veniva eseguito, parecchi bevitori si erano gettati sul sett, coprendosi coi loro grandi scudi di cuoio e lanciando qualche freccia, per accertarsi della forza dei loro archi.

Giunti a duecento passi dal veliero si arrestarono, affondando le gambe nella massa erbosa, poi uno di loro gridò con voce poderosa:

«Che gli stranieri dell'Alto Nilo m'ascoltino, prima che il sangue arrossi le acque.»

«Parla,» disse Mirinri, che per precauzione si teneva lo scudo dinanzi al petto, temendo di ricevere qualche volata di dardi.

«V'intimiamo di renderci la maliarda, avendo ormai giurato di sacrificarla sull'altare di Bast, onde il suo sangue renda più abbondante e più generoso il vino che noi berremo l'anno venturo.»

«Quando un principe etiope prende sotto la propria protezione una persona, la difende e non la darebbe nemmeno ad un Faraone,» rispose Mirinri. «Tali sono i nostri usi.»

«Allora prendi il suo posto. Solo a questo patto vi lasceremo scendere il Nilo.»

«Tu non sei altro che un miserabile ubbriacone, a cui il vino ha offuscato il cervello. Né io, né la maliarda, né nessuno dei miei uomini servirà di sacrificio in onore di Bast,» rispose Mirinri. «Venite: vi aspettiamo e vi faremo provare la tempra delle armi etiopi e la robustezza dei nostri muscoli.»

Un clamore assordante coprì le sue ultime parole e l'orda dei bevitori si precipitò sul sett, agitando forsennatamente le armi.

Mirinri si volse e guardò la maliarda.

La giovane stava ritta contro l'albero maestro, fredda, impassibile, con una mano stretta attorno ad una corda. Solamente, i suoi occhi ardevano e scintillavano come quelli d'un animale notturno, fra le tenebre che avvolgevano il piccolo veliero, essendo la luna allora tramontata.

 

 

CAPITOLO SETTIMO

 

La maliarda

 

Gli adoratori di Bast, sempre più esaltati pel troppo vino bevuto e che non dovevano aver ancora digerito, come abbiamo detto, si erano gettati in massa sul sett muovendo risolutamente verso il veliero, che si trovava sempre stretto ed immobilizzato fra le erbe acquatiche, non ostante gli sforzi prodigiosi degli etiopi per aprirsi un passaggio.

Parecchi si erano muniti di rami resinosi, che bruciavano come torcie e che non dovevano certo servire a rischiarare la via, essendo le notti, in Egitto, d'una trasparenza meravigliosa, che permette di discernere un oggetto, anche piccolo, a distanze incredibili.

Erano appunto quelle torcie vegetali che avevano impressionato Ata, il quale non era già la prima volta che combatteva sulle rive del Nilo.

«Guardiamoci!» aveva esclamato. «Ci copriranno di freccie ardenti e corriamo il pericolo di morire abbruciati.»

Anche Ounis aveva aggrottata la fronte ed una profonda inquietudine si era diffusa sul suo viso.

«Che il Figlio del Sole debba finire qui, prima ancora d'aver potuto vedere l'orgogliosa Menfi?»

Mirinri, che si sentiva ardere nelle vene il sangue di prodi guerrieri, aveva prontamente organizzata la difesa. Sembrava che tutto d'un tratto fosse diventato un vecchio ed esperimentato condottiero.

«Coprite il ponte colle vele ed innaffiatele d'acqua!» aveva gridato.

Poi, volgendosi verso la maliarda, che conservava sempre la sua impassibilità, come se tutto quello che accadeva non la riguardasse, le disse:

«E tu, ritirati nella camera di poppa.»

La maliarda scosse il capo con un gesto di diniego e si limitò a fissare con intensità il giovane.

«Mi hai compreso?» chiese Mirinri, stupito.

«Sì,» rispose Nefer con voce dolcissima, ma ferma.

«Le freccie stanno per cadere e saranno munite di fiocchi infuocati.»

«Nefer non ha paura. Se tu, che mi hai salvato, sfidi la morte, perché dovrò cercare di evitarla io? E poi io, umile donna, salvata da te!... La luce che brilla nei tuoi occhi mi dice che il tuo corpo è divino.»

«Che cosa ne sai tu?»

«Nefer legge il futuro.»

Le grida furibonde degli ubriachi interruppero il loro dialogo. Quei frenetici accorrevano all'assalto del piccolo veliero, con slancio irrefrenabile, balzando come una legione di demoni sul sett.

Ata aveva mandato un grido d'allarme:

«Attenzione!»

Gli etiopi avevano tesi gli archi, saettando i più vicini e trapassandone parecchi colle loro lunghe freccie, le cui punte mobili rimanevano entro le carni.

Mirinri era a sua volta accorso dietro la murata, brandendo una mazza pesantissima, col capo dentellato, che solo il suo braccio vigoroso poteva reggere. Nella sinistra aveva lo scudo di pelle coperto di lamine di metallo dorato e così spesso da ripararlo benissimo dai dardi nemici.

La gagliarda risposta degli etiopi arrestò per un momento gli assalitori, ma una voce tuonante, che si alzò in mezzo all'orda, li decise a ritornare all'attacco:

«Il gran sacerdote lo vuole!»

Ata avea mandato un grido di rabbia.

«Lo avevo sospettato! Era un agguato!»

I bevitori avevano ripresa la corsa attraverso il sett, riparandosi dietro i loro grandi scudi. Delle freccie, la cui punta era impregnata d'una materia ardente, che bruciava, spandendo una luce azzurrognola, volavano attraverso le tenebre, conficcandosi nei fianchi del veliero e contro l'alberatura, minacciando di sviluppare un incendio a bordo.

Gli etiopi non si perdevano tuttavia d'animo, e continuavano a saettare gli assalitori, facendone cadere parecchi sulle erbe galleggianti. Quelli che lavoravano all'apertura del canale erano pure entrati in lotta, abbattendo a gran colpi d'ascia i primi arrivati.

La lotta stava per assumere proporzioni spaventose, quando la voce della maliarda echeggiò strillante fra le urla dei combattenti.

«Bacino di fuoco! Anime dei boschi! Toro delle tenebre! Spirito della notte! uditemi! Eh! Eh! Eh! Ih! Ih! Ih! Oh! Oh! Oh! Che Api, il dio del Nilo, spenga per sempre, nelle viscere delle vostre donne i figli vostri; che Hakaon, dio della fertilità, inaridisca per sempre le vostre campagne; che Ovadjit il simbolo del Nord e che Nekhbit il simbolo del Sud devastino l'alto e basso Egitto; che Khnum, il fabbricatore degli esseri umani, spenga la vostra razza infame se voi non vi arrestate! Non penetra nei vostri cuori la potenza divina che il giovane guerriero emana e che io sento? Egli ha lo spirito d'Osiride: la sua carne è sacra. Osate toccarlo! Nefer, la maliarda, ha letto nel suo cuore: uccidetelo e l'Egitto sarà finito!»

Mirinri, Ata e Ounis, stupiti da quello strano linguaggio, si erano voltati.

La maliarda stava ritta, rigida come una statua di bronzo, colle mani alzate, come se stesse per scagliare qualche terribile maledizione, gli occhi sfolgoranti d'una luce intensa ed i lineamenti alterati da una collera impossibile a descriversi.

Gli assalitori si erano arrestati. Pareva che un improvviso terrore si fosse impadronito di loro, poiché avevano lasciati cadere gli scudi, gli archi e le spade.

Ata si era slanciato verso la maliarda, colla spada alzata, gridando:

«Miserabile! Tu ci hai traditi annunciando la presenza d'un Faraone a bordo del mio veliero.»

«Salvo il Figlio del Sole,» rispose Nefer, con voce metallica.

Mirinri aveva fermato Ata, il quale stava già per colpire la fanciulla.

«Non vedi che gli assalitori arretrano?» esclamò. «Perché vuoi uccidere chi mi salva?»

I bevitori infatti si ripiegavano lentamente verso la riva del Nilo, senza più scagliare alcuna freccia. Tutti i loro occhi erano fissi su Mirinri e quegli sguardi, che pochi momenti prima esprimevano una rabbia folle, sembravano terrorizzati.

L'improvvisa rivelazione della maliarda era caduta sui loro crani eccitati dal vino, come una goccia gelata, calmando di colpo i loro cervelli.

Chi avrebbe osato lanciare ancora una freccia contro quella barca montata da un Faraone, da un dio? Era troppo grande la potenza di quei discendenti del Sole perché osassero rivolgere contro di loro le armi.

Se la maliarda lo aveva detto, gli assalitori che, come tutti gli altri egizi, credevano a quelle donne che affermavano saper leggere nel futuro e tutto indovinare di primo acchito, doveva essere vero. Lottare contro un dio sarebbe stato impossibile ed i Faraoni non rappresentavano sulla terra che la più grande divinità adorata dai popoli abitatori delle terre fecondate dal Nilo.

Narrano le antiche cronache egizie, che tutta quella regione racchiusa all'est dal mar Rosso e all'ovest dal deserto libico, era stata per un numero infinito di secoli governata da un dio chiamato, secondo gli uni Horus e secondo gli altri Osiride; che quel dio un giorno, stanco, la abbandonò nelle mani d'un essere umano chiamato Mêna, che fu il primo dei Faraoni, ed a cui passò il diritto divino.

Potevano dunque quei miserabili beoni alzare le armi contro un uomo che discendeva da un dio e che la maliarda aveva loro rivelato?

La ritirata degli assalitori non tardò a cambiarsi in una fuga precipitosa e ben presto, con grande stupore di Mirinri, che non si rendeva ancora conto della sua infinita potenza, la riva del Nilo rimase deserta.

«Fuggiti tutti!» esclamò, guardando Nefer che si teneva sempre ritta sulla murata, colle mani tese in alto. «Chi è costei e quale forza occulta nasconde nel suo corpo per mettere in rotta un piccolo esercito?»

«Ella ti ha tradito, mio signore,» disse Ata che teneva ancora la spada in mano e che pareva in preda ad una vivissima eccitazione.

«Mi ha salvato invece,» rispose Mirinri.

«No: essi ormai sanno che nella mia barca si nasconde un Faraone e fra giorni questa voce giungerà a Menfi. Uccidila! Il Nilo è qui profondo e non restituisce la preda che gli si affida. I coccodrilli faranno sparire ogni traccia.»

«Quando un Faraone salva, non sopprime l'essere che ha strappato alla morte. Se è vero che sono un Figlio del Sole quella giovane donna vivrà.»

«Ecco che parla il sangue di suo padre,» disse Ounis, guardandolo con ammirazione. «Tu hai ragione, Mirinri. Quella fanciulla, chiunque sia, ha tratto da un grave pericolo il futuro re dell'Egitto e per noi è sacra.»

Ata, come era sua abitudine, scosse il capo e non rispose subito. Dopo però alcuni istanti di silenzio riprese:

«Non siamo ancora a Menfi. Quegli uomini ci avevano teso un agguato e non ci lascieranno scendere tranquillamente il Nilo. È Pepi che li ha mandati. Egli ha sospettato che tu, mio signore, non eri morto.»

Poi, volgendosi improvvisamente verso la maliarda, le chiese:

«Tu conoscevi quegli uomini?»

«Sì» rispose Nefer.»

«Perché hanno scelto quel luogo per ubbriacarsi e festeggiare Bast?»

«Non lo so.»

«Chi sono costoro?»

«Battellieri e pescatori ma...»

«Continua.»

«Ho notato fra di loro delle persone che non ho mai veduto nelle borgate bagnate dal Nilo.»

«Gente venuta da Menfi?»

«Lo sospetto,» rispose la maliarda.

«Tu conosci questi luoghi?

«Da parecchi anni erro di villaggio in villaggio, predicando la buona e la cattiva ventura perché io so leggere nel futuro. Mia madre era una famosa indovina.»

Mirinri si fece innanzi.

«Come hai potuto tu sospettare che io sia un Faraone?»

«Quando ti ho veduto, mio signore, mi sono subito sentita correre un fremito strano per le vene, quel fremito che io ho provato quando predissi la sorte alla principessa che un mese fa salì il Nilo.»

«Come!» esclamò Mirinri, che ebbe un rapido sussulto. «Tu hai veduto quella principessa?»

«Sì, mio signore.»

«E le hai predetta la sorte?»

Nefer fece col capo un cenno affermativo.

«Che cosa le hai detto?» chiese Ounis con voce alterata.

La maliarda esitò un istante, poi, vedendo che Mirinri la fissava con uno sguardo imperioso, disse:

«Che un grande disastro minacciava suo padre, e che questo disastro avrebbe, in un tempo non lontano, travolta la sua potenza e offuscata per sempre la sua gloria.»

«Vuoi predire anche a me la mia sorte?» chiese il giovane Faraone.

«Sì, ma non ora,» rispose Nefer. «Bisogna che aspetti lo spuntare del sole perché tu sei un Figlio del Sole e non già delle tenebre. In quel momento l'anima del grande Osiride vibrerà nel mio cervello e la profezia sarà più sicura, perché ispirata da lui.»

«Aspetterò,» disse Mirinri, «quantunque io creda poco alle tue profezie.»

«Eppure, mio signore, ti ho dato poco fa la prova che io difficilmente m'inganno. Solo io ho riconosciuto in te un essere divino e me ne sono accorta appena ti vidi dinanzi a me.»

«Forse tu lo avevi saputo prima.»

«In quale modo, mio signore, e da chi?»

«Dai bevitori.»

«Io non ho mai udito parlare da loro che aspettassero un Faraone.»

«Loro, forse no; quelli che tu sospetti giunti da Menfi, sì; dovevano saperlo od almeno sospettare che su questa barca si trovava il figlio di un grande Faraone,» disse Ata. «La festa non doveva essere che un pretesto per nascondere un agguato e uccidere il futuro Figlio del Sole.»

«Io non ho parlato con loro, quindi non potevo sapere nulla.»

«E perché ti volevano uccidere?» chiese Ounis.

«Per vendicare la morte d'un giovane pescatore che era stato mio fidanzato e che, per appagare la mia smania di ricchezza, si era recato nel tempio di Kantapek a raccogliervi l'oro colà nascosto.»

«Che istoria ci narri tu?» chiese Ata, guardandola con diffidenza.

Nefer stava per rispondere, quando delle grida di stupore e anche di terrore s'alzarono fra gli etiopi che stavano tagliando l'ultimo tratto del sett.

«Tornano i beoni?» chiese Ata, slanciandosi verso prora.

«Guardate, padrone, guardate!» gridavano gli etiopi.

«Dove? Non vedo nessuno sulla riva,» rispose Ata.

«Là, in alto.»

Tutti alzarono gli occhi e con loro grande stupore scorsero volteggiare al di sopra delle palme, che coprivano la riva del Nilo, un numero infinito di punti luminosi che avevano dei riflessi azzurrognoli e che pareva si dirigessero verso il veliero.

«Che cosa sono?» chiese Mirinri. «Delle stelle?»

«Sì, delle stelle che portano fuoco alla nostra nave se non fuggiamo,» rispose Ata. «Quei miserabili non hanno avuto il coraggio di assalire un Faraone, ma si servono dei volatili.»

Si volse verso gli etiopi, che avevano sospeso il lavoro e che guardavano con ispavento quella falange immensa di punti luminosi, che s'accostava con rapidità prodigiosa.

«Quanto manca perché il passo sia libero?» chiese.

«Fra cinque minuti la massa erbosa sarà tagliata,» rispose uno per tutti.

«Affrettatevi se vi è cara la vita. Questo pericolo è forse peggiore dell'altro. Sei uomini a bordo per spiegare le vele. Il vento è favorevole e la corrente è forte al di là della barra.»

Poi, tornando verso Ounis e Mirinri, aggiunse:

«Prendete gli archi e non risparmiate le freccie. Fra pochi minuti saremo avvolti in una rete di fuoco. Che il grande Osiride protegga il futuro re dell'Egitto.»

 

 

8. I piccioni incendiarii

 

L'uso dei piccioni viaggiatori in guerra e anche come rapidi ausiliari del servizio postale, risale alla più remota antichità e gli egizi sembra che siano stati i primi a servirsi di quei gentili messaggeri, come furono pure quelli che più lungamente degli altri popoli li adoperarono.

Li ammaestravano sopratutto per la guerra, onde ardere le città che resistevano troppo ai loro assalti, facendo di essi degli uccelli incendiarii. Possessori di materie ardenti, che non si spegnevano nemmeno coll'acqua e che dovevano essere forse simili ai famosi fuochi greci di cui fu perduto per sempre il segreto, usavano attaccarli alla coda di quei graziosi ed intelligenti volatili ed a colpi di freccia dirigevano grosse schiere sulle città assediate, determinando in tal modo degli incendii spaventevoli, che costringevano ben presto i difensori alla resa.

Non furono d'altronde i soli antichi egizi a servirsi dei piccioni viaggiatori. Anche i greci, molte migliaia d'anni più tardi, li adoperarono pei servizi di guerra, del commercio e sopratutto nei giuochi olimpici. I giostratori che prendevano parte a quelle sfide atletiche, li mandavano regolarmente ai lontani parenti ed amici, apportatori di loro novelle.

Dicesi che Anacreonte, che visse 500 anni avanti l'êra volgare, spedì un piccione a Bathyll, latore d'una sua lettera e Pherekraters narrò ai suoi tempi, - 430 anni prima della nascita di Cristo, - che in Atene i piccioni servivano di messaggeri per le corrispondenze fra paesi e paesi.

Anche i romani se ne servirono, avendo appreso dai Greci l'arte di ammaestrarli e Plinio anzi racconta dei messaggi di guerra scambiatisi per loro mezzo, durante l'assedio di Mutina, e, secondo Geliano, lo stesso avvenne fra Pisa e Algina.

Nessuno però giunse ad addestrare quei volatili come i sudditi dei Faraoni e servirsene per incendiare le città e talvolta perfino le flotte nemiche, che s'impegnavano nei canali dell'immenso delta del Nilo.

Erano forse quei piccioni di specie diversa e più intelligente di quella odierna? Può darsi che appartenessero a quella chiamata più tardi di Bagdad, di cui si servirono i mussulmani per una lunga serie di anni e che è anche oggidì la migliore.

Lo stormo immenso, segnalato dagli etiopi, s'avvicinava rapido al Nilo, solcando le tenebre come una tromba di scintille, spinte da un vento impetuoso. La sua mèta era decisa: la barca montata dal giovane Faraone.

Gli ubriachi o almeno coloro che li avevano aizzati contro i naviganti, non osando assalire direttamente il Figlio del Sole, si erano serviti dei piccioni per combatterlo o meglio per annientarlo, prima che potesse giungere a Menfi. Era quella una prova chiara che alcuni conoscevano l'esistenza del figlio del grande Teti, il vincitore dei Caldei e che qualcuno aveva tradito il segreto, così gelosamente conservato per tanti anni.

«Lo vedi, mio signore,» disse Ata, rivolgendosi verso Mirinri, che guardava, senza manifestare alcuna apprensione, quel turbine di fuoco che stava per abbattersi sulla nave sempre immobilizzata. «Tu non volevi credere che quegli uomini ti avevano preparato un agguato!»

«Sì, avevi ragione,» rispose il giovane. «Ed ora giungeranno qui quei volatili?»

«Certo.»

«Ma chi li dirige?»

«Non vedi, signore, sui fianchi di quell'immenso stormo, salire verso il cielo delle freccie fiammeggianti, per impedire ai colombi di disperdersi?»

«Sì, scorgo infatti delle linee di fuoco che s'alzano fra i palmizi e che formano come una rete ardente.»

«Sono gli adoratori di Bast.»

«Non mi sembra tuttavia che noi corriamo un pericolo così grave come credi, Ata» disse Ounis. «Le nostre vele sono ancora calate e quei volatili non fanno altro che passare in mezzo a noi.»

«È vero, ma molti cadranno qui arsi ed il fuoco che portano appeso alla coda s'appiccherà al ponte. Avranno prima calcolata la durata della corda che sostiene la materia ardente. Guarda, guarda bene: non vedi che i fuochi cominciano già a cadere?»

«Facciamo affrettare il taglio del canale,» disse Mirinri.

«Se possiamo uscire dalle erbe prima che quei volatili siano qui, non avremo più nulla da temere.»

«Manca molto?» gridò Ata, rivolgendosi agli etiopi.

«Pochi colpi ancora, signore,» risposero.

«Sbrigatevi: i colombi giungono.»

In quel momento Nefer che fino allora era rimasta muta senza mai staccare, nemmeno un solo istante, gli sguardi da Mirinri, fece udire la sua voce.

«Io lancierò la maledizione sui messaggeri dell'aria,» disse. «Iside, la grande dea delle incantatrici, mi udrà e ci proteggerà da questo nuovo pericolo.»

Un sorriso d'incredulità apparve sulle labbra del giovane Faraone.

«Provati,» le disse.

Nefer, il cui viso bellissimo appariva in quell'istante trasfigurato ed i cui occhi si erano nuovamente accesi di quella strana fiamma che aveva colpito Mirinri, si slanciò verso la poppa del piccolo veliero, salì sulla murata con un solo salto, poi, tendendo le braccia verso la tromba di fuoco che filava già al di sopra delle palme costeggianti la riva del Nilo, lasciando cadere di quando in quando delle fiamme che non si spegnevano nemmeno se andavano a finire fra gli umidi papiri, gridò, con voce stridula:

«O Iside, grande dea delle incantatrici, vieni a me e liberaci dal pericolo che minaccia il giovane Figlio del Sole. Vieni, Horus, col tuo sparviero! Egli è piccolo, ma tu sei grande! Egli è debole, ma tu puoi dargli la forza e disperderà i tristi volatili che stanno per piombare su di noi. Dea del dolore e dio del dolore, dea dei morti e dio dei morti, salvate vostro figlio che ha nelle sue vene il sangue di Horus. Io sono entrata nel fuoco, io sono uscita dall'acqua e non sono morta. O Sole, fa parlare la tua lingua! O grande Osiride intercedi e scatena la tua potenza. Venite tutti, liberateci dal periglio, salvate il giovane Faraone. Dio del dolore, dea del dolore: dio dei morti, dea dei morti, accorrete!»

Così parlando, la maliarda vibrava tutta, come se una forza misteriosa facesse sussultare le sue carni. I suoi lunghi capelli neri, che erano sciolti sulle nude spalle, si attortigliavano come serpenti attorno al suo superbo collo ed i suoi braccialetti ed i suoi monili tintinnavano armoniosamente.

Mirinri la guardava stupito, chiedendosi se quella bellissima fanciulla era stata creata da un buon dio o da qualche genio del male. Vi era però nel suo sguardo qualche cosa più dello stupore: vi era dell'ammirazione.

«Questa fanciulla vale la Faraona che mi ha stregato» mormorò ad un tratto.

Quantunque avesse pronunciate quelle parole con una voce così bassa da non poterle udire nemmeno Ata che gli stava presso, la maliarda girò lentamente il capo verso di lui e un sorriso le apparve sulla piccola bocca.

Poi si rizzò tutta, mostrando le sue forme scultorie, che la leggera kalasiris multicolore appena velava e, fissando i suoi occhi sulle stelle, mormorò a sua volta:

«Morire, che importa? Scendere nel regno delle tenebre sì, ma col bacio del Figlio del Sole sulle labbra!»

Un gran grido, uscito dai petti degli etiopi, strappò Mirinri da quella contemplazione e fece sobbalzare Ata e Ounis.

«Il passo è aperto!»

La corrente, fino allora trattenuta dalla massa del sett, irrompeva gorgogliando attraverso il canale, aperto dalle scuri di bronzo degli erculei figli dell'alto Nilo. Il piccolo veliero, non trattenuto da nessuna corda, cominciava a scivolare fra i papiri e le foglie del loto, con un dolce fruscìo.

«A bordo! In alto le vele!» tuonò Ata, slanciandosi al timone. «Il vento soffia dal sud! Iside ha ascoltato l'invocazione della maliarda!»

Pareva infatti che la dea delle incantatrici non fosse stata sorda alle parole di Nefer, poiché la tromba di fuoco cominciava a disperdersi, forse perché non più guidata dalle freccie fiammeggianti, avendo dovuto gli arcieri arrestarsi sulle rive del Nilo.

Era formata da migliaia e migliaia di piccioni, che portavano, appesa alla coda, un pezzo di materia ardente che bruciava, spandendo all'intorno quella luce azzurrognola che si osserva nel zolfo liquefatto.

Di quando in quando un gran numero di colombi, investiti dal fuoco, cadevano nel fiume, e quella strana materia anche a contatto coll'acqua non cessava di ardere, crepitando fra i papiri e le larghe foglie di loto.

Quell'uragano di fuoco passò, con velocità vertiginosa, dietro la poppa del veliero ad un tiro d'arco e proseguì la corsa disordinata verso la riva opposta al fiume gigante, illuminando fantasticamente le tenebre.

Nefer non aveva abbandonata la murata, quantunque parecchi piccioni fossero caduti dinanzi a lei. Sempre ritta, come una meravigliosa statua di bronzo, con un braccio alzato in atto di scagliare qualche nuova maledizione, col petto sporgente, aveva sfidato intrepidamente il nembo infuocato, ripetendo:

«Isis! Isis! Grande divinità, proteggi il giovane Figlio del Sole!»

Quando tutti quei fuochi si perdettero nel lontano orizzonte, al di là delle immense foreste che coprivano la riva opposta del Nilo e il veliero, uscito ormai dal canale con tanta fatica aperto, si cullò sulle acque libere, si volse verso Mirinri, che non aveva cessato di guardarla.

«Sei salvo, Figlio del Sole!» gli disse.

«Quale potere soprannaturale possiedi tu?» chiese il giovane. «Io scorgo nei tuoi occhi una fiamma che la figlia dei Faraoni non aveva.»

Nefer ebbe un sussulto ed il suo viso si contrasse dolorosamente. Stette un momento, come immersa in un profondo pensiero, poi chiese, con uno strano tono di voce:

«Di quale figlia del Faraone intendi di parlare, mio signore?»

«Di quella a cui tu predicesti la ventura.»

«Tu l'hai veduta?»

«L'ho salvata anzi dalla morte.»

«Come hai salvato me!» esclamò la maliarda, con un sordo singhiozzo.

«L'ho strappata dalle fauci d'un coccodrillo.»

«E ti ha, in compenso, bruciato il cuore, è vero mio signore?»

«Che cosa ne sai tu?» chiese Mirinri, aggrottando la fronte.

«Forse che io non leggo nel passato e nel futuro e tutto indovino?»

«Ah! È vero, me l'hai detto: anzi aspetto la tua profezia.»

Nefer guardò il cielo. Le stelle declinavano ed in mezzo a loro scintillava, presso l'orizzonte, la cometa. La fissò per parecchi istanti, poi riprese, come parlando fra sé:

«È quella che racchiude il tuo destino, mio signore. Ma io devo attendere lo spuntare del sole, da cui tutti i Faraoni sono discesi.»

«Mancherà ancora qualche ora.»

Ounis interruppe la loro conversazione, chiedendo a Mirinri:

«Vedi più nulla tu, che hai gli occhi migliori dei miei, sulla riva destra?»

«No,» rispose il giovane dopo d'aver lanciato un rapido sguardo al di sotto dei palmizi. «Io credo che gli ubbriaconi, veduti i loro sforzi inutili, se ne siano andati o russeranno sotto le piante attorno ai vasi di vino di palma.»

«E noi approfitteremo per poggiare verso la riva opposta» disse Ata, che aveva fatto spiegare le immense vele. «Colà vi sono delle isole che formano molti canali e che non sono abitate che da ippopotami, da coccodrilli, da ibis e da pellicani.»

«Potremo passare inosservati?»

«Lo credo, mio signore,» rispose Ata a Mirinri. «D'ora innanzi noi dobbiamo prendere le più grandi precauzioni o Pepi ci farà arrestare, prima che noi possiamo scorgere gli alti obelischi della superba Menfi. Si sa già che sulla mia barca si nasconde il figlio del grande Teti e l'usurpatore farà il possibile per darci in pasto ai coccodrilli del Nilo.»

«Attraversiamo il fiume dunque,» disse Mirinri, «e guardiamoci dagli agguati.»

Il piccolo veliero, che aveva il vento in favore, tagliò obliquamente la corrente, accostandosi alla riva sinistra che appariva coperta da colossali palme dum e fiancheggiata da una fitta rete di papiri e di piante del loto.

 

 

CAPITOLO NONO

 

Il tempio dei re nubiani

 

Mentre il legno costeggiava la sponda, dondolandosi leggermente, spinto da una fresca brezza che soffiava dal sud e che gonfiava le sue enormi vele, Mirinri, che non sentiva ancora alcun desiderio di riposarsi, dopo tante emozioni, si era seduto sul casseretto di poppa, abbandonandosi alle sue fantasticherie. Pensava ai begli occhi della giovane Faraona, che aveva salvato dalle acque di quel fiume e che per tante notti aveva turbato i suoi sonni ed i suoi sogni, od alle future grandezze verso le quali muoveva, con animo deciso, pronto a tutto, pur di conquistarle? Forse solo la maliarda che si era coricata a breve distanza da lui, su un tappeto di fibre di papiro intrecciate e lo scrutava attentamente, con uno sguardo intenso, magnetico, avrebbe potuto dirlo.

Raggomitolata quasi su se stessa come una serpe, colle nude braccia puntate sul tappeto e che di quando in quando provavano come un fremito che faceva tintinnare i numerosi braccialetti d'oro, la testa bellissima alzata, come una leonessa in agguato che cerca sorprendere il minimo rumore che le indica la presenza d'una preda o d'un nemico, seguiva le diverse impressioni che si manifestavano sul viso del giovane Faraone.

Di quando in quando un sussulto scuoteva il suo corpo, facendo ondeggiare la leggerissima kalasiris e sulla fronte passava come un'ombra. Mirinri, immerso nei suoi pensieri, pareva che non si fosse nemmeno accorto della vicinanza della maliarda. Tuttavia sia che lo sguardo di quella fanciulla gli penetrasse fino nell'anima od altro, di quando in quando involontariamente girava lentamente la testa verso di lei e faceva un gesto come per allontanare qualche ombra che gli appariva dinanzi.

La barca intanto scendeva lentamente il Nilo; le vele sbattevano sotto i colpi irregolari della brezza notturna, i lunghi pennoni scricchiolavano, urtando contro gli alberi e le corde davano dei suoni strani. Qualche ibis, che sonnecchiava fra i papiri o sulle larghe foglie del loto, fuggiva, rasentando le acque, mandando un grido di spavento e scompariva fra le palme che proiettavano sulla riva delle cupe ombre.

Nessuno a bordo parlava. Gli etiopi, appoggiati alle murate, scrutavano attentamente le tenebre. Ounis e Ata, seduti a prora, guardavano dinanzi a loro, senza scambiarsi una parola. Il primo teneva gli occhi fissi sulla cometa che stava per scomparire dietro i grandi alberi, il secondo osservava le acque.

Ad un tratto Mirinri si scosse e parve che solo allora s'accorgesse della presenza di Nefer.

«Che fai qui, fanciulla?» le chiese. «Perché non vai a riposarti?»

«Non dorme il Figlio del Sole,» rispose la maliarda, con voce così dolce che sembrò al giovane Faraone come una musica lontana.

«Io sono un uomo già abituato alle lunghe veglie del deserto,» rispose Mirinri.

«Ed io devo aspettare la comparsa del sole per predirti la buona o cattiva ventura, mio signore.»

«Ah! Me n'ero già scordato,» disse il giovane, sorridendo. «La statua di Memnone suonò quando la interrogai; il fiore della risurrezione di Osiride dischiuse le sue corolle quando lo bagnai. Quale sarà la tua profezia? Buona o cattiva?»

«Il primo raggio di sole lo dirà,» rispose Nefer. «È lui che deve ispirarmi.»

Mirinri stette un momento silenzioso, poi riprese:

«Ah! Tu devi ancora dirci chi sei, da dove vieni e perché i devoti di Bast volevano acciecarti. Quale sinistra istoria ti avvolge?»

La maliarda lo guardò senza rispondere, con una certa angoscia, che non isfuggì al giovane Faraone.

«E noi,» proseguì Mirinri, «non sappiamo ancora se tu ci sei nemica od amica.»

«Io tua nemica!» esclamò Nefer, con dolore. «Nemica di te, mio signore, che mi hai strappata dalle mani di quei miserabili?»

Si alzò, guardando dapprima le stelle, poi le placide acque del Nilo sussurranti lievemente fra le radici e le foglie del loto bianco e roseo, poi, tendendo la destra verso il sud, con un gesto tragico disse:

«Sono nata laggiù, nella Nubia nera, dove i grandi fiumi portano il loro tributo alle acque del maestoso Nilo. Mio padre non era di stirpe divina come te, mio signore, nondimeno era un gran capo e mia madre era una sacerdotessa del tempio di Kintar. La mia giovinezza si perde nelle nebbie del sacro fiume. Mi ricordo vagamente di vasti palazzi scintillanti d'oro; di templi immensi; di obelischi tanto alti che quando l'uragano infuriava pareva che toccassero le nubi; di guerrieri neri come l'ebano, armati di scuri di pietra e d'archi, che obbedivano a mio padre come se fossero schiavi. Mi pare che io fossi felice. Bambina, nuotavo nel gran fiume o solcavo le sue acque su barche dorate. Delle donne suonavano presso di me non so quali istrumenti e mi servivano in ginocchio. Un triste giorno tutto scomparve: popolo, padre, guerrieri, grandezza, potenza. Una valanga d'uomini giunta dal Basso Egitto passò come una tromba devastatrice sul mio paese e tutto disperse. Erano gli egizi del delta che invadevano la Nubia: erano i guerrieri di Pepi, l'usurpatore».

«L'usurpatore!» esclamò Mirinri. «Che cosa ne sai tu?»

«Tutto il Basso e Alto Egitto parla di quell'uomo e si sussurra che il figlio di Teti è stato rapito da una mano amica per paura che Pepi lo uccidesse e che è vivo.»

«Ah!» fece il giovane Faraone. «Continua, Nefer.»

«Mio padre fu ucciso alla testa dei suoi guerrieri, mentre difendeva disperatamente il suo territorio contro forze dieci volte superiori ed il suo corpo, crivellato di ferite, fu gettato in pasto ai voraci coccodrilli del Nilo. Il suo popolo fu disperso, le sue borgate incendiate, le donne ed i fanciulli tratti in schiavitù a Menfi.»

«Anche tu?»

«Sì, mio signore, ma appena mia madre, oppressa dalle fatiche immani che le faceva subire il suo crudele padrone si spense, io fuggii su una barca che risaliva il Nilo e vissi predicando la ventura o suonando nelle feste il ban-it (l'arpa).»

«Ciò però non mi spiega il motivo per cui ti volevano acciecare,» disse Ounis, che si era silenziosamente accostato e che aveva udite le ultime parole della fanciulla.

«Volevano far subire anche a me il crudele trattamento inflitto al primo uomo che amai,» disse Nefer.

«Chi era costui?» chiese Mirinri.

«Il padrone della barca che mi aiutò a fuggire,» rispose la maliarda, con un sospiro. «Era un giovane leale e coraggioso, che mi aveva amata ardentemente, ma mi sembrava troppo povero per me, che discendo da una casta elevata. Mi era fissa in testa di valermi di quello sventurato per riconquistare il paese strappato a mio padre. Fu una sera che andai a trovarlo sulla riva del Nilo, per metterlo a parte dei miei progetti. Egli mi aveva parlato sovente d'un tempio meraviglioso, che sorgeva nel mezzo d'una foltissima foresta che copriva una grande isola del fiume e che si diceva contenesse dei tesori incalcolabili, accumulati dagli antichi re nubiani. Avevo contato appunto su quelle ricchezze favolose per armare degli schiavi e assoldare dei guerrieri onde mi aiutassero a scacciare gli egizi che spadroneggiavano sulle terre che m'appartenevano. Avevo però udito raccontare che di tutti coloro che si erano avventurati su quell'isola per scoprire quel tempio, più nessuno era ritornato. Erano stati divorati dalle belve che infestavano quella cupa foresta o vi erano dei guardiani che vegliavano sulle ricchezze degli antichi re nubiani? Fino allora nessuno aveva potuto dir nulla. Invasa adunque dal desiderio d'impadronirmi di quei tesori, esposi al mio fidanzato le mie intenzioni.

«Era solo sulla barca quella sera, avendo mandato a terra tutti i suoi uomini. Come al solito era tetro e pensieroso, perché si struggeva d'amore per me e guardava distrattamente il sole morente che lanciava i suoi ultimi raggi obliquamente, come una pioggia d'oro, sulle acque limacciose del fiume. Gli esposi il mio progetto, dichiarandogli nettamente che non mi avrebbe sposata se non sulle terre di mio padre sgombre dagli egizi o mai. Egli mi ascoltò in silenzio, poi, quand'io ebbi finito, s'alzò, dicendomi con voce recisa: - La tua volontà sarà fatta; io andrò ad impossessarmi del tesoro dei re nubiani e con quell'oro armerò un esercito. Addio Nefer, luce dei miei occhi. Se, entro otto giorni, non mi vedrai ritornare qui, vuol dire che la dea della morte mi avrà toccato colle sue nere ali e sarai libera di sceglierti un altro uomo. -

«Strappai dalla riva una foglia di loto e gliela porsi dicendogli: - Prendila e serbala come un mio ricordo. Io l'ho baciata, io l'ho posata sul mio cuore: essa ti darà coraggio. -

«L'indomani il mio fidanzato approdava sulle sponde dell'isola misteriosa. Attraversò la folta foresta senza scorgere nessuno, né uomini né animali e giunse ben presto dinanzi ad un vasto tempio la cui porta era aperta. Non ebbe nemmeno un attimo di esitazione. Entrò in una sala immensa pavimentata a piastrelle bianche e nere, che portavano incise delle foglie di loto e degli ibis colle ali spiegate. Una semi oscurità regnava là dentro e da fessure invisibili sfuggivano delle nuvolette di fumo fortemente impregnate d'un profumo acutissimo.»

«Ma come conosci tu questi particolari?» chiese Ounis, che ascoltava con vivo interesse quella strana istoria.

«Li appresi dal mio fidanzato durante i suoi brevi istanti di lucidità,» rispose Nefer.

«Dunque non fu ucciso?» disse Mirinri.

«Aspetta ed ascoltami, mio signore.»

«Continua dunque.»

«Il mio fidanzato esaminò le pareti, non avendo veduta alcuna porta in nessun luogo e scoprì finalmente una lastra di marmo nero su cui era inciso un fiore di loto. Istintivamente posò un dito su quel fiore e la pietra girò subito su se stessa lasciando vedere uno stretto corridoio alla cui estremità brillava una luce vivissima. Egli era un uomo d'un coraggio a tutta prova e poi il pensiero di poter realizzare la promessa fattami, lo spingeva a qualunque rischio.

«Entrò dunque nel corridoio e sbucò in un'altra sala, contornata da una triplice fila di colonne che si perdevano in una oscurità misteriosa.

«Nel centro invece, una luce verdastra scaturiva dalle pietre che formavano il suolo, permettendo al mio fidanzato di scorgere dei grandi vasi di bronzo, ricolmi fino alla bocca di oro, di smeraldi, di rubini, di zaffiri e di turchesi. Ad una estremità, su un largo gradino, vi erano due sfingi che sembravano d'oro massiccio e che avevano gli occhi formati da grossi rubini. Il mio fidanzato si era fermato, non osando immergere le sue mani in quei vasi, ma poi, come spinto da una forza misteriosa, salì il gradino e passò fra i due leoni. Una tenda pareva che nascondesse qualche altra meraviglia. L'alzò colle mani tremanti ed un grido di stupore, d'ammirazione e nell'istesso tempo di timore gli sfuggì dalle labbra. Presso un gran bacino d'argento, nel cui centro scintillava una fiamma rossa, era sorta improvvisamente una giovane donna d'una bellezza meravigliosa. Un leggero velo, costellato di zaffiri e di smeraldi, copriva il suo corpo fine e flessibile, le sue braccia erano cerchiate di pesanti braccialetti e la sua fronte, ricca d'una capigliatura nera come l'ebano, era adorna d'uno smeraldo d'uno splendore e d'una grossezza incredibile».

Nefer si era arrestata. La sua destra si portò, come involontariamente, sulla fronte e alzò i capelli che le cadevano fino quasi sugli occhi.

Ounis e Mirinri, che la guardavano attentamente, videro scaturire al di sotto dei capelli come un lampo verdastro.

Lo proiettava una grossa pietra, forse uno smeraldo simile a quello che portava la giovane misteriosa che era comparsa presso il bacino d'argento, nel cui centro fiammeggiava la lingua di fuoco rosso.

Nefer che si era forse accorta della loro sorpresa, non lasciò loro tempo di rivolgerle alcuna domanda.

«Il mio fidanzato,» continuò, «cogli occhi pieni di quella visione meravigliosa che oltrepassava in splendore tutto quanto aveva potuto sognare, si era lasciato cadere lentamente sulle ginocchia, tenendo le mani verso l'apparizione radiosa ed immobile, che lo fissava con uno sguardo penetrante come la punta di una spada. In quel momento egli si era scordato di me ed i suoi giuramenti d'amore si erano dileguati. Egli non mirava più le immense ricchezze, che dovevano servire a liberare le terre di mio padre dai guerrieri di Pepi; quella donna era il tesoro impareggiabile, che valeva mille volte tutto ciò che era racchiuso nei vasi.

«Era appena caduto in ginocchio dinanzi a quell'apparizione divina, quando sentì una mano posarglisi su una spalla. Presso di lui, otto sacerdoti, racchiusi in lunghe e candide vesti, coi volti coperti da lunghe barbe bianche, stavano rigidi, implacabili. Uno di essi, colui che l'aveva toccato, gli disse, curvandolo al suolo con forza sovrumana: - Tu hai voluto vedere e tu hai veduto. Quale desideri di tutti i tesori racchiusi in questo tempio? È l'oro il padrone del mondo o sono le pietre preziose rutilanti di luce, dagli splendori abbaglianti che acciecano le fanciulle? Parla e scegli!

«Perduto nella sua contemplazione, il mio fidanzato tese le mani verso la donna bellissima, che stava sempre fitta dinanzi al gran bacino d'argento, illuminata dai rossi riflessi della fiamma: - Lei è il tesoro che io desidero! - esclamò il disgraziato, - Nefer è nulla in confronto a lei e l'ho già scordata. Regina di beltà, i miei occhi non vedranno d'ora innanzi che te, divinità scesa sulla terra. Io non desidero né pietre preziose, né quell'oro che è la leva del mondo; chiedo solo che mi sia permesso di contemplare di continuo la tua raggiante bellezza, o fanciulla divina. Preferirei di non più vedere la luce del giorno, piuttosto che cessare d'ammirarti.

«La giovane fece un gesto, poi disse: - Che sia fatta la tua volontà. La tua risposta ti salva l'esistenza, poiché tu hai scelto la mia bellezza, perfezione eterna, alle immense ricchezze accumulate in questo tempio, da secoli e secoli dagli antichi sovrani dell'Alto Nilo. Ma tu non ignori che coloro che vollero vedermi non ritornano, a meno che non siano Figli del Sole, dei Faraoni. Più fortunato di costoro, tu rientrerai nel mondo, ma non potrai vedere altre meraviglie, né narrare a chicchessia quello che hai veduto. Va', ammira prima bene, riempi i tuoi occhi della mia bellezza divina, poi rientra nell'oscurità fino al giorno della tua morte.

«Il mio fidanzato, sempre inginocchiato dinanzi alla radiosa visione, pareva che non l'ascoltasse. Tutta la sua vita era concentrata nei suoi occhi, che teneva fissi su quella meravigliosa bellezza.

«Ad un tratto un urlo atroce gli irruppe dal petto. Uno dei sacerdoti gli aveva toccate le pupille con un bidente di bronzo arroventato, dicendogli poscia, con voce ironica: - Nella notte che d'ora innanzi ti avvolgerà tu avrai sempre presente la visione superba della beltà eterna che tu sapesti apprezzare meglio dei tesori racchiusi in questo tempio degli antichi re nubiani e, fino alla morte, avrai per te solo l'immagine divina di quella che hai contemplato ed il suo ricordo farà battere per sempre il tuo cuore.

«Che cosa accadde poi? Io non te lo saprei dire, mio signore,» proseguì la maliarda. «Alcuni giorni dopo, il mio fidanzato fu raccolto, da un suo amico che passava per caso presso l'isola maledetta colla sua barca, mentre errava sulla sponda. Egli era cieco e pazzo e non parlava che della divina visione del tempio misterioso. Ecco il perché gli adoratori di Bast volevano far subire anche a me la pena dell'acciecamento, per vendicare il mio compagno».

«È vivo ancora quel disgraziato?» chiese Ounis.

«No,» rispose la maliarda, «un giorno credendo di udire la voce della divina visione sorgere dalle acque del Nilo, si precipitò nel fiume ed i coccodrilli lo divorarono.»

Ounis fece un gesto di collera.

«Che cos'hai?» chiese Mirinri, a cui non era sfuggito quell'atto.

«Io molti anni or sono ho udito parlare di quel tempio meraviglioso. Era l'epoca in cui le legioni caldee irrompevano sul nostro paese e lo stato si trovava sprovvisto di denaro per armare nuovi eserciti. Un uomo, che forse sapeva dove trovavasi quell'isola e che probabilmente non ignorava che fra quei boschi si celava il tesoro degli antichi re nubiani, propose a tuo padre di mandare della gente fidata ad impadronirsi di quelle ricchezze. Le vicende della guerra impedirono a Teti di occuparsi di quell'impresa e più mai se ne parlò. Forse tuo padre non credeva a quell'istoria.»

«E chi fu a parlarne?» chiese Mirinri.

«Pepi, l'usurpatore.»

«Mio zio?»

«Sì, lui stesso. Se si potesse sapere dove si trovano quelle ricchezze, sarebbero per noi d'immensa utilità pei nostri futuri progetti. L'oro è il nerbo della guerra e quello che possediamo non potrebbe forse bastare per colpire a morte le forze di quell'uomo.»

Udendo quelle parole un lampo brillò nelle pupille nerissime della maliarda. Guardò Ounis, poi Mirinri, che appariva pensieroso, preoccupato, poi disse:

«Ma io so dove si trova quell'isola,» disse.

«Tu?» esclamarono ad una voce Mirinri ed il vecchio sacerdote.

«Sì, il mio fidanzato me lo ha detto.»

«È lontana?» chiese Ounis.

«Meno di quello che tu credi, sacerdote.»

«Ne sei ben certa?»

«Saprei condurti anche cogli occhi bendati, perché dopo la pazzia del mio fidanzato, mi ci sono recata colla speranza d'impadronirmi di quel tesoro. Vuoi venire?»

«Sai tu innanzi a tutto chi abita quel tempio?» chiese Mirinri.

Nefer, invece di rispondere, si alzò di scatto, guardando verso oriente. Le tenebre erano scomparse, le stelle stavano per dileguarsi sotto la brusca invasione della luce e l'astro radioso stava per comparire.

«Il sole, la grande anima d'Osiride!» esclamò. «È il momento della profezia. Dammi la tua fronte, figlio della luce eterna, che mai si oscura, né di giorno, né di notte e che scintilla sempre nelle profondità del cielo.»

Mirinri si era pure alzato, sorridendo sardonicamente.

«Ecco la mia testa,» disse. «Che cosa vuoi cavare dal mio cervello?

«Voglio leggere il tuo destino,» disse Nefer.

«Provati.»

La maliarda guardò il sole, che cominciava allora ad apparire al di sopra dei palmizi che coprivano la riva del maestoso fiume. Pareva che i suoi occhi non soffrissero per l'intensa luce che si rifletteva sulle acque del Nilo.

«Sèb,» gridò con voce stridula, «tu che rappresenti la terra nostra! Nout che rappresenti le tenebre! Nou che sei l'emblema delle acque! Neftys che proteggi i morti! Râ, che sei il disco solare, Api che rappresenti il Nilo e tu, grande Osiride che nel tuo cuore batte l'anima del sole, ispiratemi! Toth, il dio che ha la testa dell'ibis, l'uccello sacro, che è l'inventore di tutte le scienze; Logas che rappresenti la ragione e che aiuti coi tuoi consigli e che sei la forza creatrice, datemi la forza di predire il destino a questo giovane Faraone!

Nefer fissava il sole cogli occhi aperti, come se i raggi non le offendessero le pupille ed era invasa da un forte fremito. Sussultavano tutte le sue membra ed i suoi fianchi dalla curva elegante e pareva che perfino i suoi lunghi capelli neri provassero delle strane vibrazioni. Stette parecchi istanti ritta, in una posa superba in faccia all'astro diurno che sorgeva sfolgorante ad di sopra dei palmizi, tutta avvolta nella luce dorata. Ad un tratto si portò le mani agli occhi e se li nascose.

«Vedo,» disse con voce fremente, «un giovane Faraone che atterra un re ed un vecchio che gl'impone di ucciderlo. Vedo una fanciulla, bella come un sole quando lambe, sul tramonto, l'orizzonte e lancia i suoi ultimi raggi sulle acque del Nilo. Vi è una nebbia dinanzi a me. Quali misteri nasconde? Oh velo impenetrabile, sciogliti! No, è sempre denso, sempre denso! Perché non lo posso lacerare? La mia potenza di maliarda, figlia d'una grande maliarda nubiana, mancherebbe in questo momento? Il giovane Faraone sale alto, alto, vittorioso su tutto e su tutti! Ah! La cattiva stella! Sarà fatale a qualcuno! Vedo una fanciulla che piange e le sue lagrime si cambiano in sangue... Osiride! Grande Osiride, lascia che io veda il suo viso! È una fanciulla che muore... dal suo petto squarciato vedo cadere una pioggia rossa... il Faraone sarà fatale a qualcuna... tutto è finito!».

Nefer, come se le forze l'avessero improvvisamente abbandonata, vacillò, poi cadde fra le braccia di Mirinri che gli stava dietro.

A quel contatto, il corpo della maliarda sussultò tutto, come se avesse ricevuto una scarica elettrica e anche quello del giovane Faraone ebbe un fremito.

Ounis, che assisteva alla scena, corrugò la fronte, ma fu un lampo.

«Meglio che sia la maliarda della Nubia che bruci il cuore di Mirinri, piuttosto che la Faraona,» mormorò. «Chissà che cosa serba il destino?»

Con un gesto chiamò alcuni etiopi.

«Portate questa fanciulla in una cabina,» disse. «Ha bisogno di riposarsi.»

I battellieri sollevarono Nefer, che pareva assopita e la portarono nel casotto di poppa.

«Che cosa ne pensi tu della profezia di quella fanciulla?» chiese il sacerdote, volgendosi verso Mirinri che pareva fosse ricaduto nelle sue meditazioni.

«Non so» rispose il giovane, «se debbo crederle.»

«Che cosa dice il tuo cuore?»

Mirinri stette un momento esitante, poi rispose:

«Il sogno sarebbe troppo bello. Potenza e gloria! Mi sembra troppo.»

«Credi di essere veramente un Figlio del Sole? Suonò la pietra di Memnone; schiuse le sue corolle il fiore eterno d'Osiride; parlò la maliarda.»

«Sì, non ho alcun dubbio d'aver nelle vene il sangue del vincitore delle legioni Caldee... Ma chi sarà quella fanciulla a cui sarò fatale? La prima donna che io ho veduta e che ho strappata alla morte?»

«La pensi sempre dunque?»

«Sì, sempre,» rispose Mirinri con un sospiro. «Quella fanciulla che pur discende al pari di me dal sole, m'ha stregato.»

«Una nemica!»

«Chi lo sa?»

«Che tu dovresti odiare.»

«Taci, Ounis. Il destino mio non ha forse ancora scritto l'ultimo papiro.»

 

 

CAPITOLO DECIMO

 

La barca dei gatti

 

Il piccolo legno continuava a scendere il Nilo.

Mirinri, seduto sul casseretto, pareva che avesse ormai dimenticato la profezia della maliarda. Colle mani strette attorno al viso, guardava sempre dinanzi a sé, come se la visione della Faraona, che aveva strappato dalle fauci ingorde del coccodrillo, gli danzasse sempre dinanzi.

Ounis, appoggiato alla murata, guardava distrattamente le acque del fiume; non parlava.

Gli etiopi, ritti presso le scotte delle immense vele, non fiatavano, in attesa che un colpo di vento li obbligasse a qualche nuova manovra.

Anche Ata, che stava appoggiato sulla murata di prora, restava muto.

Dalla riva e dai banchi di sabbia, coperti da papiri, frotte immense d'ibis si alzavano, salutando il sole con strida prolungate. Passavano a stormi immensi attraverso il ponte del piccolo veliero, colle lunghe zampe tese ed il collo più teso ancora, come per augurare il buon giorno agli etiopi di Ata, forti della loro impunità.

Chi d'altronde avrebbe osato importunarli? Quale audace avrebbe lanciato su quei trampolieri una freccia? In quelle epoche lontane erano uccelli sacri, da qualunque suddito dei Faraoni rispettati, perché anche quei volatili avevano il loro dio: Toth.

Ma forse gli antichi egizi li avevano consacrati per un motivo ben più importante; probabilmente per le stesse ragioni che dopo molte centinaia di secoli decisero gl'inglesi a proibire la distruzione dei marabù nelle Indie, ed i messicani ed i popoli dell'America meridionale a far rispettare gli urubus, come volatili preziosi e necessari per la salute pubblica.

Ed infatti guai se l'Egitto non avesse le sue ibis; se le pianure gangetiche dell'India non avessero i giganteschi marabù e le città americane mancassero degli urubus.

Questi tre volatili sono dei veri cenciaiuoli, che non hanno che un solo scopo: quello di divorare tutte le carogne e tutte le immondizie, che potrebbero, sotto quei climi caldissimi, sviluppare delle terribili malattie contagiose.

I servizi che rendeva l'ibis, specialmente nei tempi passati, erano così apprezzati dai Faraoni, che non tardarono a farne un volatile sacro, tanto più che erano quegli uccelli che colla loro comparsa annunciavano la benefica e periodica inondazione del Nilo.

Ai fecondi straripamenti del fiume gigante la superstizione egizia associava sempre l'ibis il quale si lasciava docilmente adorare accontentandosi per suo conto di rimpinzarsi di vermi, di lucertole, di serpi, di rospi, e delle carogne che la piena trascinava e che poi lasciava disperse per le campagne.

Caduta la fede l'uccello sacro scosse le ali ed esulò.

Oggidì infatti non lo si trova che nell'Alto Egitto, dove si è ritirato come in un santuario.

Tra lo scetticismo moderno ed i suoi rimpianti religiosi egli ha posto una barriera: la grande cateratta del Nilo.

Il suo solo altare è il fango della riva, dove il suo becco razzola, facendo prodigiose ecatombi d'insetti e di malefici rettili. Non è più adesso che un semplice trampoliere, ma qualche volta si direbbe che si rammenti d'essere stato un tempo qualche cosa.

Scuote le sue ali spennacchiate e raddrizza la testa venerabile, come volesse dire: un giorno sono stato dio.

Il veliero s'avanzava dolcemente, essendo la brezza debolissima e soffiando irregolarmente. Ata aveva lasciato la prora e si era messo dietro al lungo remo che serviva da timone, per guidare personalmente il legno, essendo in quel punto il Nilo ingombro d'isolotti, coperti di papiri altissimi che formavano delle vere foreste.

Anticamente tutto il corso di quel superbo fiume era coperto da papiri, pianta che oggi invece è quasi completamente scomparsa e che gli egizi di quei tempi ritenevano, a ragione, preziosissima.

E forse non avevano torto, perché da essa ricavavano molte cose utilissime. Ed infatti dalle parti inferiori, tagliate presso le radici, ne traevano un alimento che serviva a sfamare le classi povere; colle foglie formavano panieri, ventagli e molte altre cose utilissime; colle fibre formavano una specie di carta o meglio di fogli lunghi trenta centimetri e larghi da cinque a sei; colle pellicole, sovrapposte a più strati, fabbricavano i loro sandali. Riuniti i flessibili tronchi, ottenevano dei canotti leggeri, che bastavano per attraversare il Nilo. Era insomma, assieme al loto, la pianta nazionale.

Per un paio d'ore il piccolo veliero sfilò attraverso i canali formati da quella moltitudine d'isole, poi sboccò all'aperto. Il grande fiume si svolgeva, colla sua enorme massa d'acque, serpeggiando fra due linee d'alberi che appena si distinguevano, tanto le rive erano lontane l'una dall'altra.

«Io credo che non avremo per ora più nulla a temere, mio signore,» disse Ata, volgendosi verso Mirinri. «Era fra quelle isole che io temeva qualche nuovo agguato. In queste acque sgombre, non ci assaliranno a tradimento.»

«E quando giungeremo a Menfi?» chiese il giovane Faraone, scuotendosi.

«Vi è del tempo, mio signore, e poi non dobbiamo aver fretta. L'allarme deve essere stato dato e noi dovremo avanzarci con infinite precauzioni. Degli altri agguati ci verranno tesi, non dubitare.»

«Che ci spiino?»

«È probabile. Sono certo che, sotto gli alberi che coprono le rive, degli sguardi ci seguono per sapere dove andiamo.»

«E non vi è modo d'ingannare quegli spioni?»

«Forse, quando ci getteremo fra i canali del delta. Colà non sarà cosa facile il sorvegliarci. Le isole pullulano di rettili e di coccodrilli e guai agli uomini che osassero scendere su quei banchi, che il loto ed i papiri coprono.»

«Vi è forse un modo per ingannarli,» disse Ounis, che fino allora era rimasto silenzioso.

«Quale?» chiese Ata.

«Far credere loro che non è Menfi la nostra rotta, bensì l'isola misteriosa, che racchiude sotto le sue foreste il tempio degli antichi re nubiani. Giacché si dice che nessun uomo che si è avventurato su quelle rive è mai tornato vivo, si potrà credere alla nostra morte. Nefer sa ove quella terra si trova, andiamoci. Inganneremo le spie di Pepi e, se è vero che vi sono colà delle ricchezze favolose, conquisteremo un buon nerbo per la guerra che faremo all'usurpatore. Nell'incontro con quella strana fanciulla vedo qualche cosa di soprannaturale.»

«Ciò sembra anche a me,» disse Ata. «È il destino che ce l'ha mandata.»

Un riso stridulo fece volgere la testa ai tre uomini. Nefer stava dietro di loro guardando Mirinri coi suoi occhioni penetranti, sempre animati da quella fiamma che pareva volesse bruciare il cuore di coloro che la guardavano.

«Perché ridi, Nefer?» chiese il giovane Faraone.

«Perché credete che anche in me vi sia qualche cosa di divino,» rispose la fanciulla.

«Se non nel tuo corpo, almeno nei tuoi occhi, Nefer» disse Mirinri. «Io non so il perché, tutte le volte che tu mi guardi, mi pare che un raggio ardente mi tocchi il cuore e che lo turbi.»

«Non ti guarderò più, mio signore, se ciò ti spiace.»

«Oh no, fanciulla! Quel raggio non mi farà male, né brucerà la dolce visione che vi vive sempre dentro.»

Nefer ebbe un lievo sussulto, che sfuggì a Mirinri e un lampo di tristezza infinita si diffuse sul suo bel viso.

Si ravviò con un moto nervoso i suoi lunghi capelli, poi dopo d'aver guardato il Nilo, disse:

«Vuoi che ti conduca dunque in quell'isola, ove si trovano i tesori degli antichi re nubiani? Volevo fartene anch'io la proposta.

«Perché?» chiese Mirinri.

«Per vendicare il mio fidanzato e per dare al futuro Faraone i mezzi di riconquistare il trono dei suoi avi.»

«Mi sembra, fanciulla, che tu sappia troppe cose che riguardano noi,» disse Ounis, guardandola un po' sospettosamente.

«Non sono una indovina io forse?» disse la fanciulla.

«Un'indovina meravigliosa di certo,» rispose il sacerdote, «che rapisce i segreti meglio nascosti.»

«Fatti predire da costei la sorte, Ounis,» disse Mirinri.

Il vecchio scosse il capo, poi rispose con voce risoluta:

«No.»

«Avresti paura?»

«Sono vecchio e se anche mi annunciasse una morte molto prossima che m'importerebbe? Mi rincrescerebbe solo per te, che io devo guidare alla vittoria e alla vendetta.»

Poi, cambiando bruscamente tono, chiese:

«È lontana quell'isola?»

«Ti ho detto che non la vedremo prima di due giorni di navigazione. Sorge là dove il Nilo è più largo, dopo Khibon (l'attuale borgata di El-Hibik).»

«Il paese è tutto deserto all'intorno?»

«Sì, perché tutti hanno paura dei misteriosi abitanti che occupano quel tempio meraviglioso.»

«Non sai chi sono costoro?» chiese Mirinri.

«Si dice che siano degli spiriti dei re etiopi e dei loro grandi sacerdoti.»

«Esseri difficili a vincersi, se fossero realmente tali.»

«Non ci sono io, forse?» disse Nefer. «Lancerò contro di loro un potente scongiuro che li renderà innocui, mio signore. Hai pur veduto i piccioni incendiari deviare; come mi hanno obbedito i volatili, obbediranno pur le ombre dei re etiopi e dei loro sacerdoti.»

«Strana fanciulla!» esclamò Mirinri. «Uno non riuscirà mai a comprenderti.»

Un indefinibile sorriso comparve sulle labbra di Nefer, poi subito come un'ombra passò sulla sua fronte ed un lieve sospiro le sfuggì, a mala pena represso.

«Seguite sempre la riva sinistra, fino all'altezza del gigantesco obelisco di Nofirker, il settimo Faraone della seconda dinastia. Là si apre il canale che conduce nell'isola del tesoro degli etiopi.»

Si sedette presso Mirinri e non parlò più. Anche il giovane era diventato muto e pareva che non pensasse più alla terra misteriosa.

Il piccolo veliero aveva allora attraversato nuovamente il fiume, che in quel luogo misurava più di tre miglia di larghezza e seguiva la riva sinistra mantenendosi ad una distanza di qualche centinaio di metri.

Dei grandi banchi, formati da loti bianchi ed azzurri, lo obbligavano di quando in quando a deviare, nascondendo quel fogliame dei bassifondi.

A quelle piante, oggidì diventate piuttosto rare, specialmente quelle che portano i fiori azzurri, gli antichi egizi dedicavano un vero culto. Non vi erano per loro fiori più apprezzati e ne usavano largamente sia nelle feste, come nei funerali. Ed infatti se ne sono ritrovati in gran numero, disseccati e riuniti in forma di corone, in tutte le tombe, nelle piramidi come entro le ricche bare dei grandi personaggi, in compagnia dei libri dei morti, come chiamavano i papiri funerarii, quei rotoli lunghi quindici metri, scritti con inchiostro rosso e nero e adorni di disegni a vari colori che descrivono il viaggio dell'anima bell'oltretomba.

Insomma il papiro ed il loto erano le due piante nazionali dei Faraoni e godevano eguale estimazione.

Impiegavano il loto nella medicina come refrigerante, e ne mangiavano avidamente i semi, esclusi quelli prodotti dal loto roseo, che erano interdetti a tutti, ai preti come al popolo, perché quel fiore era consacrato al dio solare pel motivo curioso che in essi, allorquando l'astro divino sta per scomparire, le loro fibre inferiori si contraggono e li attirano sotto le acque.

Le dame egiziane sopratutto avevano una vera venerazione, simile a quella che hanno le donne del Giappone pel crisantemo. Nelle loro visite se ne adornavano e ne tenevano in mano e non è raro vedere ancora, sopratutto sui monumenti innalzati all'epoca dei Ramessidi, delle donne tutte avvolte in una specie di diadema di forma spirale, completamente fatto di fiori di loto.

Quando la barca guidata da Ata rasentava quei banchi coperti di quegli splendidi fiori, nubi di uccelli acquatici s'alzavano con un gridìo assordante e, attraverso le larghe foglie, apparivano mostruose teste di coccodrilli, disturbati nel loro riposo o teste enormi di colossali ippopotami.

Questi due pericolosi animali, ormai quasi scomparsi nel medio e nel basso corso del Nilo, erano abbondantissimi al tempo dei Faraoni e sopratutto i canali intricati del delta ne erano infestati, quantunque anche allora i cacciatori egiziani non risparmiassero gl'ippopotami onde impedire a quei voraci divoratori di cereali di distruggere i loro campi coltivati.

Montati su leggerissime piroghe formate di fusti di papiri strettamente annodati, li circondavano con un grande coraggio, quando si offriva loro l'occasione e con dei solidi arpioni, trattenuti da solide corde, li uccidevano in gran numero, non ostante che in alcuni luoghi quei grossi animali fossero adorati sotto il nome di dab.

È strano però che gli antichi egizi non avessero molta passione per la carne di quegli anfibi, che asserivano essere dura e coriacea, quasi nemmeno mangiabile, mentre tutte le popolazioni africane la trovano non meno gustosa di quella del maiale, opinione condivisa da molti navigatori europei che hanno potuto assaggiarla.

Che gli antichi egizi avessero altri gusti o che gli ippopotami abbiano migliorata la loro carne? Sarebbe un po' difficile a dirlo.

Né gli etiopi, né Ata s'inquietavano della presenza di quei mostri, essendo la barca troppo solida per venire assalita ed affondata, usando i carpentieri del Nilo, anche in quei tempi, delle tavole grossissime nelle costruzioni dei loro navigli.

Tutta la loro attenzione era sempre rivolta verso i banchi, che si moltiplicavano, essendo il Nilo uno dei fiumi più capricciosi della terra. Si può dire che ad ogni piena il suo corso si modifica e che là, dove prima esisteva abbastanza fondo per lasciare il passo alle navi, ben sovente non si trovi nemmeno un piede d'acqua.

Già il sole stava nuovamente per tramontare ed i naviganti si apprestavano a spingere la barca verso la riva, per cenare a terra, non osando avanzare prima che non fosse sorta la luna, quando Ata, che sospettava sempre qualche nuovo agguato, segnalò una barca armata d'una sola vela, che scendeva il fiume attraverso gli isolotti, seguendo la medesima rotta tenuta dalla sua.

Quantunque la comparsa di un altro veliero su quel fiume nulla avesse di straordinario, avendo i sudditi dei Faraoni frequenti rapporti coi Nubiani e cogli Etiopi, pure il sospettoso cospiratore aggrottò la fronte, dicendo:

«Vorrei sapere perché quella barca segue la riva sinistra del Nilo, mentre sulla destra la corrente è più forte e le acque sono più sgombre.»

Mirinri e Ounis si erano alzati, guardando nella direzione che Ata indicava.

«Che cosa temi da quella barca che, per portata, non raggiunge la metà della nostra e che non avrà che un meschino equipaggio?» chiese il Faraone.

«Potrebbe essere montata da emissari di Pepi, decisi a tutto e pronti a giocarci qualsiasi pessimo tiro,» rispose l'egiziano.

«E la prudenza non è mai troppa nelle condizioni in cui ci troviamo,» aggiunse Ounis.

«Che cosa decidi?» chiese Mirinri.

«Di fermarci qui,» rispose Ata. «Il fondo mi sembra buono e siamo protetti dalla riva da una serie di banchi che pulluleranno di coccodrilli. Nessuno oserebbe, specialmente di notte, attraversarli.»

Gli etiopi, che aspettavano i suoi comandi, ad un suo segno affondarono due pesanti massi attaccati ad una corda, che allora servivano d'àncora e s'affrettarono ad abbassare sul ponte le vele.

«Ceniamo in coperta,» disse Ata, quando la manovra fu finita. «Così potremo seguire le mosse di quella barca, che mi sembra abbia l'intenzione di ancorarsi vicino a noi.»

Il pasto fu fatto alla lesta, poiché gli antichi egiziani non erano meno parchi di quelli moderni. Mentre questi, parliamo del popolo, si accontentano di un piatto di fave e di lenticchie, legumi che invece erano proibiti al tempo dei Faraoni, non si sa per quale motivo, gli antichi si sfamavano con semi di loto bianco, di radichette di papiri, di prezzemolo e d'altri vegetali ricavati per lo più dalle piante acquatiche del Nilo.

Solo nelle grandi occasioni si permettevano il lusso di far apparire sulle loro magre mense qualche gru di Numidia, volatili che erano riusciti chissà con quali arti a rendere domestici, e che riunivano in truppe numerose per mandarle a pascolare nei campi, guidandole con poderosi colpi di bastone dati sulle lunghe gambe.

Annaffiata la cena con alcuni sorsi di birra, Mirinri, Ata e Ounis si misero in osservazione dietro al casotto, mentre gli etiopi portavano in coperta delle armi, onde essere pronti a respingere qualunque attacco.

La barca segnalata, che non era allora più lontana di cinquecento metri, pareva che avesse proprio l'intenzione di accostarsi al veliero di Ata.

Non essendo ancora scese le tenebre, quantunque la luce cominciasse a dileguarsi, Ata potè scorgere sulla tolda della barca, che era a ponte, sei o sette uomini, che avevano dei grembiali di pelle stretti attorno alle reni, e che si aggiravano in mezzo ad un gran numero di ceste, formate da corteccie di papiro.

«Sono trafficanti che vanno a Menfi,» disse Ata.

«Come lo sai tu?» chiese Mirinri.

«Non odi, mio signore?» disse l'egiziano ridendo.

Mirinri tese gli orecchi e udì distintamente dei miagolii che parevano uscissero dalle gole di bestie furibonde.

«Un carico di gatti,» disse Ata, prevenendo la risposta di Mirinri. «Serviranno probabilmente a ripopolare qualche tempio costruito di recente.»

 

 

CAPITOLO UNDICESIMO

 

Misterioso convegno

 

Come abbiamo già altrove accennato, al tempo dei Faraoni i gatti, ma più specialmente le gatte, erano tenute in conto di animali sacri, anzi i più sacri fra tutti, molto al di sopra perfino dell'ibis.

Tutto il popolo egiziano, sia del basso che dell'alto Nilo, aveva una venerazione estrema per questi cacciatori di topi e vi erano perfino dei templi dedicati esclusivamente a quei graziosi felini, dove se ne mantenevano a migliaia e migliaia.

Il fanatismo per loro era spinto a tale eccesso che, quando scoppiava qualche incendio, si lasciavano magari arrostire le persone, ma si salvava ad ogni costo il gatto della casa.

D'altronde leggi severissime li proteggevano. Qualunque suddito che ne avesse ucciso qualcuno, sia pure anche per accidente, veniva irremissibilmente condannato a morte. Si narra anzi, che dopo la conquista dell'Egitto da parte dei romani, avendo un giorno, un cittadino dell'impero, in un momento di collera, ammazzato uno di quegli animali, scoppiò fra la popolazione una tale sommossa da mettere in serio pericolo le legioni latine e da costringere il governo di Roma ad inviare truppe per sedarla!

Quando morivano - di morte naturale s'intende - gli Egiziani li imbalsamavano e li mandavano, come abbiamo già veduto, a tener compagnia ai Faraoni ed ai personaggi più cospicui sepolti nelle piramidi o negli immensi mausolei delle più distinte famiglie.

La loro effige poi si trovava dovunque: sulle facciate dei templi, sui monumenti, sugli obelischi. Le donne poi ci tenevano ad averne dipinti perfino sui loro oggetti di toletta, sui vasi contenenti i profumi e sui loro gioielli.

Ma ciò che più sorprende si è che, quantunque il gatto non sia più adorato oggidì in Egitto, né sia più considerato come un animale sacro, anche gli arabi o egizi moderni lo tengono ancora in grande considerazione.

Eppure i mussulmani non hanno mai avuto un dio gatto od una dea gatta.

Tuttavia anche oggidì al Cairo si destina ogni anno una certa somma per nutrire i gatti affamati e la grande carovana che si reca ogni anno alla Mecca, è accompagnata sempre da una vecchia che porta sul suo cammello un carico di quei felini e che viene perciò chiamata la mamma dei gatti.

Vi sono perfino delle persone che lasciano delle rendite abbastanza vistose per i mici affamati.

Le richieste di gatti erano sempre numerose a Menfi ed il commercio ne era sempre fiorentissimo e molte barche venivano mandate ogni anno nell'alto Egitto per fare incetta, presso i nubiani, onde i templi ne avessero un numero considerevole.

Non c'era quindi nulla di straordinario nell'arrivo di quella barca piena di ceste, che dapprima aveva tanto allarmato il diffidente Ata.

«Non devono essere spioni quelli,» disse Ata. «Sono certamente degli onesti commercianti che nulla hanno da fare con Pepi. Lasciamoli pure accostare.»

La barca dei gatti, che si lasciava portare dalla corrente, essendo il vento caduto, andò ad affondare le sue àncore, o meglio i suoi massi di pietra, a una decina di metri dal veliero di Ata.

Un vecchio, che portava una barba posticcia fatta con una coda di bue e che aveva la testa difesa da una parrucca, vedendo Ata ed i suoi compagni, li salutò colla mano, gridando:

«Che il grande Osiride vi sia propizio, fratelli, e che Sebek - il dio coccodrillo - vi guardi dai souq() e dai kale().

«Che Khnum - il dio fabbricatore degli essere umani - ti conservi lunga vita,» rispose Ata. «Dove vai?»

«A Menfi.»

«Che cosa porti?»

«Dei gatti pel tempio di Hathor,» rispose il barcaiolo. «Una malattia è scoppiata fra quelle bestie sacre e sono incaricato di farle surrogare con altre più sane e più robuste.»

«Vieni dalla Nubia?»

«Sì, mio signore. E tu dove vai?»

«Devo fermarmi in parecchi luoghi.»

«Buona notte, mio signore. Siamo molto stanchi e abbiamo bisogno di riposo.»

Si ritrasse dalla prora, ma prima fissò intensamente Nefer che stava dietro ad Ata, ritta su una cassa, in modo da poter essere ben vista da tutto l'equipaggio di quella barca.

Lo sguardo del vecchio e quello della maliarda s'incrociarono e sulle labbra dell'uno e su quelle porpuree dell'altra apparve un leggero sorriso.

«Andiamo anche noi a riposarci,» disse Ata. «Non abbiamo nulla da temere da quegli uomini e la notte scorsa non abbiamo chiuso gli occhi.»

Gli uomini della barca dei gatti si erano ritirati e sotto i casotti di prora e di poppa e sulla loro tolda non si udiva che qualche miagolìo soffocato.

«Va' a dormire anche tu, fanciulla,» disse Mirinri a Nefer. La maliarda scosse il capo.

«Lasciami qui a studiare gli astri, mio signore,» rispose dopo una breve esitazione.

Vi era nella voce armoniosa della bella etiope una certa vibrazione che colpì il giovane.

«Perché la tua voce trema?» egli chiese.

«Mi accade sempre così, dopo d'aver predetto il futuro a qualche illustre personaggio. Non farci caso, mio signore.»

«Le notti sono umide sul Nilo.»

«Nefer abita da molti anni le rive del sacro fiume ed è abituata al suo clima.»

«Che cosa vuoi strappare agli astri? Non ti basta aver interrogata stamane la grande anima d'Osiride?»

«Voglio conoscere anch'io il mio destino e questa notte è propizia. Il cielo è limpido e saprò scoprire la stella che mi riguarda. Buona notte, mio signore: va' a riposarti.»

«Strana fanciulla,» mormorò Mirinri, dirigendosi verso il casotto di poppa.

Nefer era rimasta immobile, guardandolo allontanarsi. Ad un certo momento ebbe come un sussulto e aprì la bocca, quasicché volesse richiamarlo, però nessun suono le uscì.

Quando il giovane scomparve, un lungo sospiro le sfuggì e abbandonò le braccia lungo il corpo con un moto di scoraggiamento, abbassando contemporaneamente il mento sul petto.

«L'ha troppo profondamente colpito quella donna. Il sangue dei due Faraoni si è incontrato e forse entrambi i cuori battono ormai. Chi arresterà il loro palpito? Chi cancellerà dai loro sguardi la visione dell'uno e dell'altra? Ah! Grande sacerdote, io credo che tu ti sia ingannato sulla potenza dei miei occhi!

Attraversò lentamente, sfiorando appena le tavole della tolda coi suoi piedini nudi, facendo lievemente tintinnare gli anelli d'oro che le ornavano le caviglie e andò ad appoggiarsi alla murata poppiera.

Una grande calma regnava sull'immensa fiumana. Le acque si svolgevano lente e gorgogliavano dolcemente fra i papiri e le foglie di loto.

Le stelle, scintillanti come poche volte Nefer le aveva vedute, salivano lentamente nel cielo trasparente e all'orizzonte scintillava ancora la cometa.

Una fresca brezza, carica del dolcissimo profumo dei loti bianchi, azzurri e rossi, sibilava fra i cordami della nave, facendo fremere leggermente le vele semicalate sulla tolda.

Nefer conservava una immobilità assoluta. I suoi sguardi stavano sempre fissi sulla barca dei gatti la quale, sia che i suoi battellieri avessero allentate un po' le funi che la trattenevano ai due massi calati sul fondo del fiume o che la corrente l'avesse fatta deviare, erasi lentamente accostata al veliero d'Ata, in modo che quasi lo rasentava.

Ad un tratto la fanciulla si scosse. Un'ombra era comparsa sulla tolda della barca e scivolava silenziosamente verso la prora che era a solo qualche metro dal veliero. Nello scorgerla la maliarda ebbe un sussulto.

Gettò un rapido sguardo dietro di sé. Quattro etiopi, lasciati di guardia, stavano accoccolati presso l'albero di trinchetto e discorrevano a bassa voce, senza occuparsi della fanciulla.

Quando questa tornò a curvarsi sulla murata di poppa, l'ombra aveva già raggiunta la prora della barca dei gatti.

«M'intendi tu, Nefer?» chiese.

«Sì,» rispose la maliarda.

«È lui?»

«Ormai non vi è più da dubitare.»

«Proprio il figlio di Teti?»

«Sì.»

«Il grande sacerdote d'Iside non si era dunque ingannato.»

Nefer non rispose.

«Hanno creduto alla storia che tu hai loro narrato?»

«L'hanno ritenuta vera,» disse Nefer abbassando la voce.

«Sarai capace di condurli in quell'isola?»

«M'hanno incaricata di guidarli.»

L'uomo, che non era altro che il vecchio che aveva salutato per primo Ata, fece udire un risolino sardonico.

«Sei una vera maliarda, Nefer,» disse. «Tu tornerai a godere gli splendori della corte.»

La fanciulla sospirò a lungo.

«Egli ti aspetta nel tempio,» riprese il vecchio. «Guai a te se non saprai indurlo a seguirti e poi hai giurato, dinanzi ad Hathor ed a Iside, di obbedirlo.»

«Obbedirò.»

«Sei riuscita ad ammaliarlo?»

«Non so ancora nulla.»

«Non resisterà a lungo dinanzi alla tua bellezza. Pepi stesso cadrebbe vinto dinanzi a te.»

«Ma forse non il giovane Faraone,» disse Nefer con profonda tristezza.

«Bisogna che ceda.»

«Mi proverò.»

«Egli non deve giungere a Menfi, m'hai capito. È l'ordine di Pepi e del grande sacerdote.»

«Lo incatenerò fra le mie braccia nel tempio degli antichi re Nubiani. Va': ci rivedremo sull'isola.

Il vecchio le fece colla mano un gesto d'addio e s'allontanò senza far rumore, scomparendo fra le vele calate sulla tolda.

Nefer stette un momento immobile, come immersa in profondi pensieri, poi alzò il capo e fissò per qualche tempo una stella che scintillava presso la prima dell'Orsa Maggiore.

«Sempre pallida,» mormorò. «Quando la tua luce aumenterà? Se è vero che anche tu sei un sole, brilla più viva per la felicità di Nefer.»

Si coprì gli occhi colle mani, rizzandosi tutta, con una mossa felina, e mormorando a mezza voce:

«Sarà lui che vincerà la maliarda; non io lui. Il fuoco arderà il mio cuore, ma suo resterà freddo. Tutti cadranno dinanzi al mio sguardo e alle mie malìe, fuorché il giovane Faraone. La vede, la sogna: perché sono giunta troppo tardi? Maledetta Faraona, che la dea della morte ti sfiori colle sue nere ali. Fatalità! La grande luce di Osiride non entrerà che nel suo cuore e giammai nel mio!

Levò le mani e guardò in alto. La luna sorgeva allora al di sopra delle immense foglie piumate delle palme ed i suoi raggi facevano scintillare le acque del Nilo come argento fuso.

«Astro della notte, dimmi anche tu quale sarà il mio destino.»

Una nuvoletta in quel momento passò dinanzi alla luna oscurandola lievemente. Nefer scosse tristemente il capo.

«Tutto è contro di me,» disse. «Tutti gli astri mi predicono che la sventura piomberà un giorno su di me. Ah! Figlio del Sole, tu spezzerai la mia vita!»

Attraversò il casseretto come un'ombra, senza produrre il più lieve rumore, si arrestò un istante a guardare gli etiopi di guardia, che stavano ancora accoccolati presso l'albero di trinchetto, raccontandosi chissà quali istorie, poi entrò nel casotto, dove le era stata destinata una delle piccole cabine...

Quando Ata risalì in coperta, il sole era già un po' alto e sulle acque del Nilo passavano stormi immensi d'ibis, che parevano diretti verso il basso corso.

Appena dato uno sguardo intorno, s'accorse che la barca dei gatti non vi era più.

«Già partiti?» chiese ad uno degli etiopi di guardia.

«Sì, padrone,» rispose il negro.

«Da molto?»

«Hanno spiegata la vela dopo mezzanotte.»

«Perché tanta fretta?»

«Mi hanno incaricato di salutarti e mi hanno detto che partivano perché vogliono giungere a Menfi prima della piena del Nilo.»

«Infatti queste bande di uccelli che passano a masse compatte l'annunciano,» disse Ata, parlando fra sé. «Noi non abbiamo fretta, anzi nessuna fretta.»

Poi, alzando la voce, comandò:

«Spiegate le vele.»

Mirinri e Ounis uscivano in quel momento dal casotto di poppa, accompagnati da Nefer.

La fanciulla pareva che non avesse dormito, poiché i suoi occhi sembravano stanchi. Aveva già fatta la sua toletta, riunendo in trecce i suoi bellissimi capelli, che aveva poi stretti dietro la nuca con una pezzuola variegata di finissimo lino a cui aveva appeso una lastrina di metallo dorato rappresentante Pes, il deforme sposo di Hator, la Venere degli egiziani.

Si era inoltre dorate le unghie, come si usava in quell'epoca, e si era strofinato il corpo con una certa polvere che lasciava sulla pelle dei riflessi d'un verde bronzato del più gradevole aspetto, e aveva profumate le vesti di mendesium, un profumo composto di resine, di mirra, di miele e di cannella, di cui le donne egiziane facevano un consumo enorme e che per lo più veniva preparato dalle sacerdotesse, dovendo servire anche nelle cerimonie religiose.

Mirinri involontariamente, appena uscito dal casotto, si era fermato a guardarla.

«Sei bella, Nefer, più bella d'ieri,» disse.

La maliarda ebbe un sorriso indefinibile.

«Dove hai trovato i profumi?»

«Li porto racchiusi nei miei gioielli, mio signore. Nei villaggi lontani io non potrei trovare tutto ciò che occorre alla toletta d'una indovina. Ah! Passano le ibis! Annunciano la piena.»

«Che c'impedisca di raggiungere l'isola misteriosa?»

«Al contrario, mio signore. L'acqua coprirà tutte le rive e allagherà i boschi e le campagne; ma per quanto s'innalzi non potrà invadere le terre di quell'isola.»

Mirinri stette silenzioso per qualche istante, seguendo collo sguardo gli stormi d'ibis che passavano, senza alcun timore, al di sopra del piccolo veliero, poi riprese:

«Sei mai stata a Menfi tu, Nefer?»

«Vi sono nata, mio signore: mi pare di avertelo già detto.»

«È vero che il palazzo dei Faraoni è il più grandioso monumento che abbiano innalzato gli Egiziani?»

«Non potresti fartene un'idea se non lo vedi coi tuoi propri occhi, Figlio del Sole. Ma forse un giorno tu non solo lo vedrai, ma anche lo abiterai.»

«Forse,» disse Mirinri, guardando fissa la maliarda. «Il mio posto è là e non qui; e v'entrerò da vincitore e da re.»

Sul viso di Nefer passò come un'ombra di profonda tristezza.

«Tu pensi sempre a qualcuna che siede troppo vicina al trono del Faraone, che oggi impera sul basso e sull'alto Egitto. Guarda che quella donna non ti porti sventura.»

Mirinri sorrise, facendo contemporaneamente un gesto come di uno che dimostra di essere troppo sicuro di sé.

«Camminerò diritto, senza esitare, finché avrò compiuta la mia missione,» disse poi, con voce ferma.

«Puoi incontrare sulla tua strada degli ostacoli, che forse non supponi quali possano essere.»

«Li spezzerò, Nefer. Il mio braccio non tremerà.»

«Ed il cuore?»

«Che cosa vuoi dire?»

«Sarà forte come il tuo braccio?»

«E perché no?»

«Avvampa di già per una fanciulla, che non so se sarà tua amica.»

Mirinri sospirò e si passò due o tre volte una mano sulla fronte, che si era improvvisamente imperlata di sudore.

«Sì,» disse poi, come parlando fra sé, «non mi sarà mai amica.»

«Vi sono altre donne che valgono quella e che possono esserti devote fino alla morte. Tu sei bello, sei giovane, sei valoroso, sei un Figlio del Sole: quale cuore di femmina non batterebbe forte per te?»

«È impossibile,» rispose il giovane. «Quella fu la prima donna che vidi e che sentii tremare fra le mie braccia e che mi alitò in viso il suo respiro profumato. Ella ha acceso nel mio cuore un tale fuoco, che non potrà estinguersi che colla mia morte. Che importa a me che ella mi sia oggi nemica? Cederà innanzi all'immensità del mio affetto per lei. La vendetta ed il suo amore: ecco il solo scopo della mia esistenza.»

Nefer ebbe un sussulto così forte che i cerchi d'oro che le ornavano le gambe e le belle braccia tintinnarono rumorosamente.

«Che cos'hai, Nefer?» chiese Mirinri, volgendosi verso di lei.

«Mi è sembrato che in questo momento l'ala nera della morte mi abbia sfiorato...» rispose la fanciulla.

«Mi sembri triste.»

«Anche tu non mi sembri lieto, mio signore.»

«È vero.»

«Vuoi che io rallegri il tuo spirito? Io danzo, suono e canto e nella mia cabina ho veduto appesa alla parete una ban-it e mi accompagnerò con quella. La musica caccia la tristezza ed il canto rasserena le fronti. Guarda, il Nilo comincia a montare: vado a salutare le sue benefiche acque, che scendono dai misteriosi laghi della lontana Nubia.

Nefer, che pareva avesse riacquistata improvvisamente la sua gaiezza, entrò nel casotto e ne uscì poco dopo portando con sé una specie d'arpa leggera, formata da un bastone ricurvo a semicerchio fornito di quattro corde.

Attraversò la tolda, salì sulla prora esponendosi tutta a' raggi ardentissimi del sole, poi, guardando le acque scintillanti di luce ed ergendosi come una superba visione, intonò con una voce fresca, squillante come il suono d'una campana d'argento, l'inno sul Nilo, che era stato messo in gran voga dai letterati egiziani della X dinastia, semplice enumerazione di godimenti pacifici e sicuri.

«Salute, o Nilo, a te che ti sei manifestato su questa terra, che vieni in pace per dare la vita all'Egitto.

«Grande Osiride che conduci le tenebre nel giorno che ti aggrada, irrigatore degli orti che il sole ha creati, per dare la vita ad ogni sorta di bestiame!

«Tu abbeveri la terra in tutti i luoghi, via del cielo che scendi fra le campagne, amico del popolo, e che illumini ogni dimora.

«Signore dei pesci, allorché tu risali sulle terre inondate nessun uccello invade più i beni utili, creatore del grano, protettore dell'orzo, tu fai perpetua la durata dei tempi, riposo delle braccia è il tuo lavoro per milioni d'infelici».

La voce della maliarda, calda, squillante, si espandeva lontano nell'ardente atmosfera, mescolandosi al sussurrìo delle acque e fondendosi dolcemente coi suoni che le sue agili dita traevano dall'arpa. La foresta di palme che coprivano le due rive rimanda l'eco di quelle parole, ripetendole nettamente.

Nefer pareva una divinità del Nilo ed era così bella coi suoi lunghi capelli, che per caso o per arte si erano sciolti coprendo le sue belle spalle, che tutti i battellieri si erano fermati come affascinati. Anche Ounis e Ata pareva che fossero soggiogati e non staccavano gli sguardi dalla maliarda. Solo Mirinri pareva che non vi prestasse molta attenzione. Si avrebbe detto che il suo pensiero seguiva anche in quel momento la visione lontana, che lo aveva colpito mortalmente al cuore e che quella fresca voce, che vibrava sempre più ardente e più forte nell'aria, non riuscisse a scuotere la sua anima.

Quando Nefer ebbe lanciata nello spazio l'ultima frase, si era lentamente voltata, fissando i suoi occhi nerissimi, ripieni di fuoco, su Mirinri. Vedendo il Figlio del Sole seduto su una cassa, come in una specie d'abbandono, immerso in un profondo pensiero, collo sguardo vago rivolto verso il fiume, un sordo singhiozzo venne a morire sulle labbra della fanciulla ed i suoi occhi si offuscarono, coprendosi d'un velo umido.

Si raccolse con una mossa nervosa i capelli, imprigionandoli in un cerchio d'oro, lasciò cadere l'istrumento e s'avviò lentamente verso poppa, passando accanto a Mirinri. Questi non si era mosso; sembrava anzi che non si fosse nemmeno accorto che l'inno del Nilo era cessato e che la maliarda gli era passata così vicino da sfiorarlo colla sua veste.

Ounis, che aveva seguito attentamente la manovra di Nefer, aveva aggrottata la fronte.

«L'ama,» sussurrò ad Ata.

«Una maliarda osar amare il Figlio del Sole!» esclamò l'egiziano. «Questa sera la farò gettare nel Nilo.»

«Tu sei un cattivo politico,» rispose Ounis, sorridendo. «Se quella fanciulla riuscisse a scuotere le fibre di Mirinri, sarei ben lieto. È il ricordo della Faraona che io vorrei strappargli dal cuore. L'amore di quella principessa non potrebbe essere che fatale a questo giovane.»

«E tu credi che Nefer riuscirà?»

«È bella, ha delle seduzioni a cui ben pochi uomini potrebbero resistere, nemmeno un discendente del sole. Non sarebbe d'altronde la prima volta che i Faraoni s'imparentano coi principi nubiani.»

«Tu dunque credi a quanto ti ha narrato.»

«Sì,» disse Ounis. «Una figlia del popolo non avrebbe un viso così perfetto, né una taglia così snella, né mani e né piedi così piccoli. Ha sangue principesco nelle sue vene.»

«E la lascierai amare Mirinri.»

«Farò di più,» rispose il vecchio. «Alimenterò la sua passione pel Figlio del Sole. Chissà: i suoi occhi potrebbero cancellare dal cuore di Mirinri quelli della Faraona. Il pericolo non sta in questa fanciulla, bensì nell'altra, perché quella potrebbe col suo amore attraversare il nostro progetto e sottrarre alla mia vendetta Pepi.»

«Tuo...»

«Taci,» disse Ounis, con voce imperiosa, mettendogli rapidamente un dito sulla bocca. «Quel segreto non appartiene che a me e non lo si conoscerà che il giorno in cui io rientrerò nell'orgogliosa Menfi e che il mio piede calpesterà il simbolo di vita e di morte.»

Ounis, così parlando, si era trasfigurato. Una terribile espressione di collera intensa si leggeva sul suo viso, mentre nei suoi occhi avvampava una fiamma sinistra.

«Tu non perdonerai,» disse Ata che lo guardava.

«Mai,» rispose il vecchio, con voce fremente. «I quindici anni di solitudine che io ho trascorsi nel deserto, per sottrarre alla rabbia dell'usurpatore il futuro re dell'Egitto, non hanno spento l'intenso desiderio di vendetta. Ho sete del suo sangue.»

«Tu farai quello che vorrai, Ounis. I vecchi amici di Teti il grande, saranno pronti a tutto quando il momento sarà giunto.»

«E giungerà» disse Ounis. «Lento sì, ma sicuro ed il saluto che tutto il popolo deve al suo re echeggierà ancora nel palazzo reale di Menfi.»

Una brusca scossa che subì la barca lo interruppe. Ata aveva gettato uno sguardo al di sopra del bordo.

«La piena,» disse. «Ecco l'onda che passa. Anche il Nilo ci aiuta nella nostra impresa.

 

 

CAPITOLO DODICESIMO

 

La piena del Nilo

 

Il Nilo, questo immenso fiume che sbocca dai grandi laghi equatoriali, al pari del Gange, ha goduto anticamente una fama divina. Per i sudditi dei Faraoni non scendeva dai laghi dell'interno del continente nero, bensì direttamente dal cielo e non avevano certo torto di adorarlo, perché senza quel fiume l'Egitto non sarebbe mai esistito.

«L'Egitto è un dono del Nilo,» ha lasciato scritto Erodoto ed infatti esso tutto ha creato: il suolo e le sue produzioni, le occupazioni degli uomini, il loro carattere nazionale, le loro istituzioni politiche e sociali.

Senza quel benefico fiume, i Faraoni non avrebbero certo regnato e la loro grande civiltà non sarebbe mai esistita, perché nessun popolo avrebbe potuto vivere su quel suolo sabbioso, arso dai cocenti raggi del sole e perciò assolutamente sterile.

Sono state le acque del Nilo a conquistare l'Egitto, il quale non è altro, in realtà, che un'oasi poco più lunga di duecento leghe, che in certi punti non ha che una larghezza di una e che solo nel suo basso corso raggiunge le venti.

Solo il delta acquista grandi proporzioni, formando un immenso triangolo fangoso, d'una fertilità straordinaria e anche quello è una conquista del Nilo, non già sulle sabbie deserte, bensì sul mare che ha costretto a poco a poco a ritirarsi dinanzi alle enormi masse di terra che ha, per centinaia e centinaia di secoli, sottratta alle misteriose regioni dell'Africa centrale.

Dove non giungono le acque di quel fiume è il deserto. Ed infatti quella lunga, ma sottile striscia di terra fertile confina, sia a destra che a sinistra, ossia a ponente ed a levante, colle sabbie.

La fertilità di questa striscia la si deve tutta alle piene periodiche di quella gigantesca arteria acquatica.

Al principio del solstizio d'estate, il Nilo, con una precisione matematica, comincia a gonfiarsi A causa delle grandi piogge equatoriali e continua ad aumentare tutti i giorni, senza foga e senza fretta, e raggiunge la sua massima piena nell'equinozio autunnale.

Tutte le terre basse vengono coperte e le più alte, giacché ve ne sono lungo le rive, diventano, per infiltrazione, molli e fangose. Su quella terra il benefico fiume depone ogni anno quel limo prezioso, strappato alle terre vergini dell'interno, che serve di concime ai campi.

È come una miniera inesauribile di terra fertilissima, migliore di quella arricchita col guano, che il prodigo fiume regala gratuitamente ai suoi fedeli adoratori.

Passato l'equinozio, le acque a poco a poco si ritirano e su quella terra nerastra, ancora molle e grassa, l'egiziano getta i suoi semi, i quali si svilupperanno più tardi senza bisogno d'alcun aiuto. Infatti il lavoro agricolo non è necessario; il contadino egiziano non ha bisogno di guadagnarsi la sua raccolta col proprio sudore, come da noi.

Le sementi, gettate alla superficie del suolo, affondano da loro in quella terra ancora satura d'acqua, il calore solare le sviluppa e non rimane a quei fortunati fellah che attendere la maturazione delle messi le quali danno quasi sempre dei raccolti favolosi.

Non si creda però che il Nilo, (malgrado l'origine divina attribuitagli dagli antichi egizi pei quali esso era il dio Api e per le cui acque avevano una tale venerazione da condannare a morte coloro che si fossero permessi di profanarlo col gettarvi dentro un cadavere, sia d'uomini che di animali) sia un fiume diverso dagli altri.

Non tutte le piene avvengono regolarmente, né sempre così abbondanti. In certi anni la sua corrente diventa impetuosa, minacciando gravi disastri e tal'altra è così scarsa da non riuscire a bagnare tutti i terreni destinati alla coltivazione.

La mano dell'uomo però è riuscita a mettere un riparo all'uno e all'altro pericolo ed i Faraoni per primi, malgrado la mancanza di mezzi potenti, hanno fatto compire qua e là opere imponenti, che i secoli non sono riusciti a distruggere, quali dighe, canali per condurre le acque con una certa eguaglianza in tutte le provincie, grandiosi serbatoi artificiali per trattenerla allorquando diventava troppo abbondante e attivare sistemi d'irrigazione per le terre elevate.

Con quelle opere i Faraoni protessero il loro regno contro l'invasione delle sabbie che lo insidiavano, conservando ai futuri Egiziani la fertilità del terreno, senza di che non avrebbero potuto sussistere.

La barca di Ata, dopo la prima ondata che era passata larga e spumeggiante, rumoreggiando fragorosamente fra le due rive, aveva ripresa la sua lenta marcia, giacché, come abbiamo detto, la piena non si manifesta né improvvisa, né irruenta.

Le acque del fiume che prima erano limpide, cominciavano a diventare verdastre e ad intorbidirsi. Dopo alcuni giorni avrebbero cambiato tinta e sarebbero diventate sanguigne.

Al sussulto che aveva subito il veliero, Mirinri si era scosso, poi si era alzato, guardando Ounis.

«È nulla,» rispose il vecchio. «È la piena che comincia.»

«Nefer l'aveva preveduta» disse il Figlio del Sole, che pareva si fosse in quel momento risvegliato da un lungo sogno. «Ci trarrà più rapidi a Menfi, è vero Ounis?»

«Sei impaziente di vedere la grande città?»

«Sì, assai impaziente. Che cosa ho veduto io fino ad oggi? Sabbie e piramidi, palme e coccodrilli e nemmeno un atomo di quello splendore a cui avevo diritto.»

«Non aver fretta, Mirinri. Dobbiamo aspettare che tutto sia pronto per la riscossa, che ti darà in mano il regno più potente che esista sulla terra.»

«La pazienza non è fatta per la gioventù, specialmente quando questa sente scorrersi nelle vene il sangue di guerrieri. E Nefer, dov'è?»

«Eccomi, mio signore,» rispose la fanciulla, che gli si era accostata silenziosamente.

«Poco fa non cantavi tu?»

«Sì, mio signore.»

«Credevo di aver sognato.»

Nefer chinò la sua bella testa e sorrise tristemente.

«La mia voce non rallegrerà mai l'animo del Figlio del Sole,» disse.

Mirinri non rispose. Guardava la riva del fiume, su cui si vedevano parecchie schadouf, quelle macchine primitive che servivano a sollevare ed a espandere l'acqua attraverso le terre alte, che venivano mosse da un solo uomo e dinanzi alle quali s'abbeveravano alcuni buoi.

«Lo vedi Nefer?» chiese indicando colla destra qualche cosa. «Anche quel giorno insidiava così la giovane Faraona, che io ho strappato quasi dalle sue mascelle.»

«Che cosa, signore?»

«Il coccodrillo; fra poco quell'avido animale avrà la sua preda. Lo vedi come si tiene immerso?»

Nefer si era curvata sulla murata. Un mostruoso rettile, lungo più di sei metri, s'apriva dolcemente il passo fra i papiri e le larghe foglie delle piante di loto, che la piena a poco a poco copriva, dirigendosi verso la riva, dove un grosso toro, tutto nero, stava dissetandosi.

«Lo vedi?» chiese per la seconda volta il giovane, che pareva s'interessasse vivamente delle manovre del mostro.

«Sì,» rispose Nefer.

«Va' ad assalire il toro.»

«Lo credi, mio signore?»

«E lo farà suo.»

Nefer stette un momento silenziosa, poi gli chiese a bruciapelo, con uno strano accento:

«È dalle mascelle terribili di uno di quei temsah() che tu hai strappato la Faraona?»

«Sì,» rispose Mirinri. «Stava per addentarla e avrebbe di certo divorato quelle delicate carni, se io non fossi intervenuto a tempo.»

«Potevi morire, mio signore.»

Il giovane scrollò le spalle.

«Un Figlio del Sole non muore così facilmente,» disse poi, quasi con noncuranza. «Io non ho mai avuto paura di quei mostri, come non ho mai temuto i leoni.»

«Sicché tu saresti capace di uccidere anche quello?»

«Sì, se fosse necessario.»

«Ma perché hai esposto la tua vita preziosa per quella donna? Forse perché era una Faraona?» chiese Nefer con impeto.

«Io ignoravo che ella fosse una principessa. Non lo seppi che parecchi giorni dopo, quando rinvenni fra le erbe della riva il simbolo di vita e di morte, che essa aveva perduto.»

Negli occhi neri e profondi di Nefer brillò un lampo strano.

«Ah!» mormorò.

«Guardalo, Nefer,» ripetè Mirinri, che non si era accorto dell'agitazione intensa che si era impadronita della maliarda. «Lo vedi come manovra fra i papiri e le piante di loto? Non sporge che l'estremità del suo muso. Ancora un passo ed il toro sarà preso.»

Nefer sembrava che non lo ascoltasse. I suoi sguardi però seguivano attentamente il mostruoso coccodrillo che continuava ad avanzarsi.

Ad un tratto salì sulla murata, come se avesse voluto vedere meglio il dramma che stava per svolgersi.

Essendo in quel luogo la corrente quasi ferma in causa d'un grande banco che si estendeva parallelamente al fiume, tutto ingombro di piante acquatiche, la piccola nave aveva interrotta la sua corsa, strisciando la sua carena fra i papiri che ingombravano il fondo. Tutti gli etiopi e anche Ounis e Ata si erano collocati lungo le murate, per osservare le manovre del gigantesco sauriano.

Il toro, uno splendido animale di forme massiccie, con lunghe corna ricurve all'indietro, continuava a bere tranquillamente, tuffando quasi tutto il muso nell'acqua, mentre dietro di lui una mezza dozzina di mucche pascolavano, senza che nessuno le sorvegliasse.

Ad un tratto un muggito rauco, selvaggio, gli sfuggì e lo si vide fare uno sforzo poderoso per trarsi indietro.

Fatica vana. Il coccodrillo l'aveva sorpreso e l'aveva afferrato pel naso, piantandogli profondamente i primi denti e serrandoglielo come entro una morsa.

«Lo ha attanagliato!» esclamarono gli etiopi.

«Ed è perduto,» disse Mirinri.

«Purché non gli si offra una preda migliore,» mormorò Nefer con voce cupa.

Il toro opponeva una resistenza disperata, per non farsi trarre in acqua e puntava forte le zampe, irrigidendo i poderosi garretti, mentre il mostro continuava a stringere, fissando la grossa preda coi suoi occhi glauchi e senza espressione.

Per sua mala sorte, la riva satura d'acqua pel principio della piena era diventava fangosa, sicché cedeva sotto i larghi e robusti zoccoli del povero ruminante e, negli sforzi che faceva, le sue zampe affondavano sempre, sicché si trovava nell'impossibilità d'indietreggiare.

Dei muggiti dolorosi, soffocati, gli uscivano dalla bocca, mentre una bava sanguigna gli usciva dalle nari che il sauriano continuava ferocemente a tenagliare. I suoi fianchi poderosi pulsavano fortemente e la sua coda sferzava l'aria, mentre i suoi occhi si dilatavano, irrigandosi di sangue e s'ingrossavano come se volessero uscire dalle orbite.

Il coccodrillo rimaneva immobile, fissando sempre l'enorme preda. Aspettava che il toro, semisoffocato, cadesse, per trascinarlo nel fiume,

D'improvviso si udì un tonfo seguito da un grido di Ounis:

«Nefer è caduta! Giù la pietra!»

La maliarda, sia che avesse perduto l'equilibrio, sia che fosse stata colta da un capogiro, era precipitata nel Nilo scomparendo fra le acque verdastre che in quel luogo dovevano essere assai profonde.

Il coccodrillo, udendo quel tonfo che gli annunciava un'altra preda più facile ad acquistare, aveva aperte le mascelle lasciando libero il toro e si era voltato vivamente, agitando furiosamente la coda.

Nefer in quel momento ricompariva a galla a pochi passi dal tribordo della piccola nave. I suoi veli leggeri si erano distesi sulla corrente ed i suoi occhi si erano subito fissati su Mirinri che si era slanciato, d'un colpo solo, sulla murata.

«Nefer!» gridò il giovane. «Un'arma! Un'arma!»

Un etiope passava in quel momento rasente la murata, per calare in acqua la scialuppa che era adagiata sulla poppa. Nella cintura aveva un pugnale di bronzo dalla lama larga ed a doppio taglio. Levarglielo di colpo e precipitarsi a capofitto nel fiume fu un momento.

Un grido terribile era sfuggito dalle labbra del vecchio:

«Mio... disgraziato! Che cosa fai?»

«Giù il canotto!» aveva urlato dal canto suo Ata, che si era fatto pallidissimo. «Salviamo il Figlio del Sole!»

Il coccodrillo, che aveva ormai veduta Nefer, la quale si manteneva a galla agitando febbrilmente le mani, si precipitava con quell'impeto irresistibile che è proprio di quei bruti.

Con pochi colpi di coda aveva attraversata la massa dei papiri e delle piante di loto bianchi e rossi e si dirigeva a tutta corsa verso quel delicato corpo umano, che non poteva opporre la tenace resistenza del poderoso toro. Già aveva aperte le enormi mascelle per tagliare in due la maliarda, quando Mirinri emerse proprio dinanzi a lui.

Il fiero giovane stringeva nella destra il pugnale. Con un colpo dei piedi, non curante del grave pericolo che lo minacciava, si frappose fra Nefer ed il sauriano e gli vibrò due colpi terribili attraverso le mascelle spalancate, squarciandogliele fino al collo.

Pazzo di dolore, grondante sangue dalle due enormi ferite, lo schifoso sauriano si contorse spaventosamente, lasciandosi sfuggire una specie di muggito che rassomigliava al rullo d'un grosso tamburo poderosamente percosso, battè due o tre volte precipitosamente la coda, sollevando delle vere ondate, poi fuggì fra i papiri nascondendovisi in mezzo.

Mirinri si era voltato ed aveva afferrata la fanciulla attraverso il corpo, abbandonando l'arma che non era più necessaria.

Nefer era svenuta e stava per affondare. Il prode giovane ebbe appena il tempo di sollevarle il capo fuori dall'acqua.

Con un poderoso colpo di tallone si alzò sulla corrente che minacciava di travolgerlo e si mise a nuotare gagliardamente verso il piccolo veliero che se ne andava lentamente alla deriva.

«Presto, Mirinri!» aveva gridato Ounis, mentre gli etiopi calavano frettolosamente la scialuppa.

«Vengo,» rispose semplicemente il sovrano eroe.

Si era serrato contro il petto Nefer e lottava poderosamente contro la corrente, che la piena aveva fatto diventare rapida. I lunghi capelli della fanciulla gli si erano attortigliati al collo, ma pareva che il Figlio del Sole non provasse alcuna emozione.

Con due bracciate raggiunse la scialuppa che s'avanzava a tutta forza di remi, affidò Nefer agli etiopi che la montavano, poi, senza aver bisogno d'alcun aiuto, a sua volta si issò sopra il bordo, sedendosi su uno dei banchi. Pareva che una profonda preoccupazione lo turbasse.

«Non è morta, vero?» chiese ad Ata, che era sceso nella scialuppa assieme ai battellieri.

«No, mio signore,» rispose l'egiziano che teneva fra le braccia Nefer. «Il suo cuore batte e presto tornerà in sé. Perché hai esposto la tua vita preziosa per questa maliarda? Il coccodrillo era grosso e forte e poteva tagliarti in due.»

Mirinri alzò le spalle e sorrise. Poi, dopo un momento di silenzio, rispose:

«Un re deve ben occuparsi della salvezza dei suoi sudditi, se è vero che io sia una Faraone.»

«Ne dubiti?» chiese Ata facendo un gesto di stupore.

«No,» rispose Mirinri.

La scialuppa aveva raggiunto il piccolo veliero. Il giovane si aggrappò alla fune che era stata gettata e salì sulla tolda, dove Ounis lo aspettava in preda ad una profonda emozione.

«Tu sei il figlio del gran Teti,» gli disse il vecchio. «Tuo padre avrebbe fatto altrettanto. Prima un leone, oggi un coccodrillo.»

«Non era quello che inseguiva la Faraona,» disse Mirinri. Poi aggiunse, come parlando fra sé:

«No: il corpo di quella fanciulla non mi ha dato lo stesso fremito. Il sangue è rimasto muto.»

 

 

CAPITOLO TREDICESIMO

 

Il tatuaggio di Nefer

 

Gli antichi Egiziani avevano, per la maggior parte, una vera venerazione per quel brutto anfibio che rappresentava e rappresenta anche oggidì la voracità, la rapacità e la distruzione; venerazione interessata perché lo riguardavano come un essere benemerito distruggendo i rettili di piccole dimensioni.

Ne avevano anzi fatto una specie di semidio, consacrandolo a Tifone, il genio simboleggiante il male, del quale i coccodrilli calmavano il furore.

A Eracleopoli la grande, a Tebe, a Coptos, a Ombos presso la quale sorgeva una città chiamata La città dei coccodrilli, si adoravano quei brutti mostri e specialmente a Menfi, dove si aveva una grande venerazione per una specie di coccodrillo, forse oggi scomparso, molto meno vorace di quello attuale e che gli antichi Egiziani chiamavano serchus.

I sacerdoti di quella città ne tenevano un gran numero in bacini appositamente scavati, li addomesticavano, li paravano con ornamenti preziosi, braccialetti, orecchini, collane e perfino mettevano sulla loro testa dei cappelli, forse per ripararla dai raggi troppo ardenti del sole. Che più? Nelle loro feste religiose serbavano per quegli schifosi sauriani il miglior posto d'onore ed i devoti non trascuravano mai, il giorno in cui scadeva la festa di Tifone, di accorrere in massa a offrire loro un gran numero di vivande chiamate sacre e perfino del vino! Sembra che in quell'epoca non sdegnassero il succo che ci ha regalato papà Noè.

Alla loro morte poi, quei rettili venivano accuratamente imbalsamati con sale e olio di cedro ed altri aromi e si collocavano in grandi urne attorno alle quali venivano tracciati dei cerchi che poi si consacravano con un rito speciale.

In alcune città e sopratutto a Menfi, l'adorazione degli Egiziani per quei mangiatori d'uomini era spinta a tale grado che se un povero diavolo moriva vittima dei denti formidabili d'uno di quei sauriani, sia in terra che nelle acque del Nilo, i suoi resti, se ne rimanevano, venivano imbalsamati e sepolti con grandi onori nelle tombe più superbe della città, e se si trattava d'un personaggio d'alta condizione questi veniva tumulato nel medesimo luogo ove aveva trovata la morte.

Nessun parente od amico poteva toccare quella salma, dopo che i sacerdoti vi avevano tracciato intorno il circolo sacro, perché il morto veniva considerato come possedente una natura superiore alla comune dei mortali... semplicemente perché non era stato tanto lesto da darsela a gambe prima di venire mezzo divorato!

Da questi esempi si può giudicare come fossero grandi il fanatismo e la superstizione di quel popolo antico, che pure giunse al culmine della civiltà nei primordi della vita umana.

Dobbiamo però dire che non tutti gli Egiziani consideravano il coccodrillo come un semidio, poiché ogni città ed ogni provincia aveva il suo animale sacro, che onorava alla sua maniera e avveniva sovente che in una provincia limitrofa a quella in cui si rendevano fanatici onori al coccodrillo, questo culto fosse detestato come cosa abominevole, divergenza che era sovente causa di rappresaglie sanguinose.

Gli abitanti di Elefantina per esempio, non vedevano altro in quel brutto rettile che un nemico dell'uomo ed invece di rispettarlo lo cacciavano assiduamente e non avevano alcun scrupolo a mangiarne le carni, poco curandosi del suo sgradevole odore di muschio.

Il piccolo veliero, dopo l'eroica impresa del giovane Faraone, aveva ripresa la sua corsa, aiutata da una fresca brezzolina che soffiava da mezzodì.

Il Nilo si gonfiava rapidamente, coprendo a poco a poco i papiri che ingombravano le sue rive e le larghe foglie delle piante di loto. Le sue acque a poco a poco perdevano la sua tinta verdastra e diventavano rossastre, come se vi avessero versato dentro delle enormi quantità di sangue.

Di quando in quando una grande ondata sopraggiungeva, allargandosi con lunghi muggiti e scuotendo fortemente il veliero.

Mirinri, dopo d'aver salvato la maliarda, pareva che fosse ricaduto nelle sue fantasticherie, poiché aveva ripreso il suo posto abituale, sull'orlo del casseretto di poppa, su una grande cassa, come se l'impresa straordinaria che aveva compiuto ed il pericolo fosse stato un semplice giuoco. Sembrava che avesse dimenticato completamente Nefer che pure aveva riportata a bordo fuori dei sensi.

Ounis e Ata si erano però subito occupati della giovane, che avevano fatta trasportare nel casotto di poppa. Sia l'emozione provata o l'acqua che aveva inghiottito, la fanciulla non era ancora in sé, quantunque Ounis si fosse subito occupato di lei per riattivarle la respirazione. Stava strofinandole vigorosamente le membra, quando un grido sfuggì al vecchio.

«Possibile! Che io sia diventato cieco? Guarda anche tu, Ata! Io stento a credere ai miei occhi!

La leggera mussola variopinta che copriva il corpo della fanciulla si era slacciata e sulle bronzee e ben tornite spalle il vecchio sacerdote aveva veduto, con suo immenso stupore, tatuato un piccolo serpente colla testa d'avvoltoio, in colore azzurro.

Ata, udendo il grido del vecchio, si era rapidamente accostato al lettuccio su cui giaceva la fanciulla.

«Il tatuaggio del diritto di vita e di morte!» aveva esclamato a sua volta. «Il simbolo dei Faraoni, dei Figli del Sole!»

«Lo vedi?»

«Sì, Ounis.»

«Dunque questa fanciulla ha mentito quando affermava di essere una principessa nubiana! Solo i Faraoni hanno il diritto di portare questo tatuaggio.»

«È vero, Ounis,» rispose Ata che guardava, con crescente stupore, quel serpentello che spiccava vivamente sulla spalla destra della fanciulla.

Il vecchio aveva incrociate le braccia guardando Ata.

«Che cosa ne dici tu?»

«Che questa fanciulla deve essere di stirpe reale,» rispose Ata. «Il simbolo lo dimostra chiaramente, nessuno oserebbe portare un simile tatuaggio se non ne avesse il diritto. La morte ed una morte orrenda attenderebbe colui che si facesse incidere sulle proprie carni un tale segno e tu lo sai meglio di me Ounis, tu che...»

«Taci!» disse il vecchio, interrompendolo bruscamente.

Era diventato pensieroso e guardava intensamente Nefer, ancora assopita, ma che già respirava liberamente.

«Che sia la Faraona che Mirinri ha salvato? E come sotto queste vesti?»

«L'avrebbe riconosciuta,» disse Ata.

«Tu che hai vissuto alla corte di Pepi sai bene quante figlie ha?»

«Una sola: Nitokri.»

«Nessun'altra?»

«No.»

«Sei ben certo?»

«Sì, Ounis.»

«E... l'altra?»

«La tua?»

«Taci, Ata!» disse il vecchio con voce strozzata. «Dov'è? Non si è mai saputo nulla?»

«Scomparsa, forse uccisa da Pepi.»

Uno spasimo supremo aveva alterato il viso del vecchio; ma non ebbe che la durata d'un lampo.

«Un giorno Pepi me ne renderà conto,» disse con voce cupa e come parlando fra sé.

I suoi occhi si erano nuovamente fissati su Nefer specialmente su l'ureo, sul simbolo faraonico che era rimasto ancora scoperto.

«Sì,» rispose, dopo parecchi istanti di silenzio. «Questa fanciulla non può essere che una Faraona che forse Pepi, chissà per quali scopi, ha tenuta lontana dalla corte e che a nessuno ha fatto conoscere. Che sua madre fosse un'ebrea?»

«Mi era venuto il medesimo sospetto, Ounis,» disse Ata.

«Od una caldea?»

«Può darsi anche questo.»

«Lasciami solo, Ata, e che nessuno entri. Nefer sta per tornare in sé.»

Infatti la fanciulla aveva fatto un gesto colla mano destra, come per allontanare qualche cosa, poi un lungo sospiro le era uscito dalle labbra.

Ata era uscito in punta di piedi, chiudendo dietro di sé la porta.

Il vecchio continuava a fissare intensamente Nefer. Pareva che cercasse di scoprire sul bellissimo viso della maliarda qualche segno, qualche particolare ma senza riuscire nell'intento poiché di quando in quando scuoteva la testa con un moto d'impazienza e di collera e mormorava:

«Troppo tempo è trascorso.»

Ad un tratto Nefer fece un nuovo movimento, poi gli uscì dalle labbra, debole come un soffio, un nome:

«Mirinri!»

Ounis aveva aggrottata la fronte poi subito si rasserenò.

«L'ama,» mormorò. «Anche questa è una Faraona ma è meno nemica dell'altra. Se riuscisse a far breccia nel cuore di Mirinri e scacciare l'altra sarebbe una fortuna. Chissà!»

Prese la fanciulla per una mano e la scosse dolcemente dicendole:

«Apri gli occhi, Nefer. Devo parlarti.»

La fanciulla tardò alquanto a obbedire, poi le sue palpebre s'alzarono lentamente ed i suoi occhi nerissimi, sempre animati da quell'intensa fiamma, si fissarono su Ounis.

«Tu, mio signore,» disse.

Poi, come se avesse riacquistato improvvisamente le sue forze, s'alzò a sedere di scatto, coprendosi la spalla sulla quale stava impresso il simbolo di vita e di morte.

«E Mirinri?» chiese con angoscia.

«Non temere per lui,» rispose Ounis. «Quel Figlio del Sole non si lascia divorare dai coccodrilli.»

«Io non lo vedo qui.»

«È in coperta.»

Una viva espressione di dolore alterò per qualche istante il volto della maliarda.

«Pensa sempre all'altra» mormorò.

«Sei caduta o ti sei gettata in acqua, Nefer?» chiese a bruciapelo Ounis.

«Perché mi fai questa domanda, mio signore?» chiese la fanciulla sussultando.

«Perché in quel momento la barca era quasi immobile e l'onda era già passata. Una danzatrice, che sembra possegga la leggerezza e l'agilità d'uno sparviero, non può lasciarsi sfuggire un piede. Non sei caduta: ti sei gettata.»

Nefer lo guardò senza rispondere: aveva però un aspetto così imbarazzato che non sfuggì agli sguardi indagatori del vecchio sacerdote.

«Hai voluto provare se Mirinri ti amava, è vero?» riprese Ounis. «Volevi assicurarti se per te avrebbe fatto ciò che aveva osato colla giovane Faraona.»

Nefer chinò il capo e rimase ancora muta.

«Io ho sorpreso il tuo segreto, fanciulla, tu l'ami.»

La maliarda fece colla testa un segno di diniego; Ounis l'arrestò con un gesto.

«Ti sei tradita da per te,» disse poi. «La prima parola che ti è uscita dalle labbra appena sei tornata in te è stato il nome del Figlio del Sole. E perché non potresti tu amarlo? Sei anche tu una Faraona.»

«Io?!» esclamò Nefer scattando, mentre un lampo di gioia infinita le brillava negli occhi. «È impossibile! Tu ti sei ingannato o ti hanno ingannato. Io sono una etiope e non già una egiziana.»

«Io ho scorto poco fa, su una delle tue spalle, il simbolo che solo i Faraoni hanno il diritto di portare. Chi ti ha fatto dunque quel tatuaggio?»

«Non lo so, mio signore,» rispose Nefer. «So di avere un segno su una delle mie spalle e mai ho saputo che cosa volesse significare, né chi me lo avesse fatto. Certo doveva essere ancora una bambina quando me lo incisero sulla carne.»

«Rappresenta l'ureo, il distintivo di regalità dei Faraoni.»

«Anch'io una Faraona!» esclamò per la seconda volta la fanciulla. «No, è impossibile.»

«Fruga nella tua memoria e cerca di risvegliare dei lontani ricordi. Tu non hai conosciuto tuo padre?»

«Forse, ma quando morì in guerra contro gli Egiziani dovevo essere piccina.»

«E tua madre, sì?»

«Te lo dissi già. Godeva fama di essere una grande indovina.»

«Era bianca o bruna?»

«Bruna, molto bruna: era vero tipo delle donne dell'Alto Nilo.»

«Bella?»

«Sì, bellissima.»

«Quando è morta?»

«Io era ancora giovanissima quando fu divorata da un coccodrillo presso la seconda cateratta.»

«Sei scesa sola verso il basso Egitto?»

«No, insieme ad un uomo che seppi poi essere un grande sacerdote.»

«Chi era?»

Nefer ebbe una lunga esitazione, poi disse: «Non lo so.

«Dove ti ha lasciato?»

«Sulle rive dell'isola ove sorge il tempio di Kantapek.»

«E non l'hai più riveduto?»

« Mai più,» rispose la fanciulla, dopo una seconda esitazione.

«Della tua prima infanzia non ricordi nulla?»

Nefer sembrò raccogliersi e fare uno sforzo prodigioso, poi disse con voce lenta:

«In certi momenti, quando il mio pensiero ricorre al passato, mi sembra di rivedere delle sale immense sfarzosamente ammobiliate, dei templi grandiosi pieni d'idoli, dove legioni di sacerdoti e di danzatrici facevano echeggiare i sistri sacri; delle piramidi immense e degli obelischi colossali, poi un grande fiume coperto di barche dorate. Mi sembra di vedere ancora soldati e schiavi inginocchiati dinanzi ad un uomo che sedeva su un trono d'oro, tutto cinto di grandi ventagli di penne di struzzo col manico lunghissimo. Ma vi è nel mio cervello come una nebbia che io sono impotente a diradare. Sono sogni o realtà? Io non lo so.»

«Cerca di ravvisare quell'uomo che sedeva su quel trono,» disse Ounis.

«È impossibile, mio signore. Quando lo tento mi pare che un fitto velo cali fra me e lui e me lo nasconda.»

«Eppure io non dispero che tu possa un giorno ricordartelo.»

«Perché t'interessa tanto quell'uomo?» chiese Nefer con un po' di diffidenza.

Questa volta fu Ounis che non rispose. Stette per alcuni istanti immobile, poi uscì dalla cabina e risalì in coperta, molto pensieroso.

Nefer si era lasciata scivolare dal lettuccio e lo aveva seguito silenziosamente.

«Dunque?» chiese Ata, quando vide ricomparire Ounis.

«Non sono riuscito a saper nulla,» rispose il vecchio. «Eppure vi è in me un terribile dubbio.»

«Quale?»

«Che Sahuri non sia morta.»

«Tua...»

«La figlia di Teti,» disse Ounis, precipitosamente.

«Eppure io non ho trovato più nessuna traccia di lei alla corte di Pepi, né in Menfi. Io sono certo che l'hanno annegata nel Nilo.»

Uno spasimo supremo alterò il viso di Ounis.

«Un giorno noi lo sapremo,» disse poi con voce cupa.

Si era bruscamente voltato. Nefer s'avanzava lentamente, accostandosi a Mirinri, che stava appoggiato alla murata di babordo, guardando distrattamente le acque che rumoreggiavano fra i papiri e che cominciavano già a coprire le rive più basse.

«Ti debbo la vita, mio signore,» disse la fanciulla toccandolo lievemente su una spalla.

«Ah! Sei tu, Nefer?» rispose il giovane. «Sei ancora bagnata?»

«S'incaricherà il sole di asciugarmi.»

«Sai che il coccodrillo che ti voleva divorare l'ho ucciso? Le ferite che io dò non guariscono.»

«Tu sei un prode.»

«Mio padre era un grande guerriero, «rispose semplicemente Mirinri, senza nemmeno volgersi.»

«Eppure non credevo che tu ti gettassi in acqua per salvarmi.»

«Perché?»

«Io non sono quella Faraona; sono un'altra, ma pur io Faraona.»

Mirinri si era voltato vivamente, guardandola, con profondo stupore.

«Tu dici?» chiese, corrugando la fronte.

«Porto tatuato su di me l'ureo.»

«Tu!» ripetè.

«Io.»

Mirinri con uno strappo improvviso si lacerò la leggera tunica che gli copriva il dorso e mise a nudo la sua spalla poderosa.

«Guarda qui, Nefer,» disse.

«Lo vedo: il simbolo del potere.»

«È uguale al tuo?»

«Sì.»

«Chi sei tu dunque?» gridò Mirinri.

«Te lo dissi: una Faraona, ma non quell'altra che hai salvato prima di me, «rispose Nefer con sottile ironia.»

«Tu mi avevi detto di essere una principessa etiope.»

«Io ignoravo che cosa volesse significare quel tatuaggio.»

«Chi te lo spiegò?»

«Io,» disse Ounis che si era fermato a breve distanza.

«Tu non puoi ingannarti,» disse Mirinri.

Poi, dopo d'aver guardato Nefer, le disse:

«Ebbene, se siamo entrambi Figli del Sole, saremo come fratello e sorella.»

Nefer non rispose. Aveva solo abbassato il capo e quell'ombra intensa di tristezza che già il vecchio sacerdote aveva notata, era ricomparsa sul suo viso.

In quel momento si udì Ata a gridare:

«Ecco la fortezza di Abon ed ecco là delle colazioni pei coccodrilli. Aprite gli occhi e stiamo in guardia. Un pericolo forse si cela laggiù.»

 

 

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

 

L'isola delle ombre

 

Tutti si erano voltati, guardando verso la riva sinistra, dove, su di un'altura, sorgeva una costruzione di forme massiccie, formata da parecchie torri colle pareti in pendenza e le cime irte di merlature grossolane, collegate da grosse muraglie che sembravano bastioni.

Gli Egiziani di quelle remote epoche se avevano curato molto la costruzione dei loro giganteschi monumenti, non avevano trascurate le loro fortificazioni, quantunque nessuna di esse avesse dato prova di resistere lungamente agli attacchi degli invasori, che si rovesciarono sull'Egitto durante le ultime dinastie.

In ciò erano molto inferiori agli Incas del Perù ed agli Aztechi del Messico, tuttavia ne avevano create molte, abbastanza formidabili, specialmente ad Abydos, dove sussistono ancora molti avanzi di fortificazioni con poche feritoie, porte aperte a grandi distanze che davano accesso a tortuosi corridoi costruiti nello spessore delle pareti, pieni di insidie pel nemico che riusciva a cacciarvisi dentro.

Non era però quella specie di castello ciò che aveva attirati gli sguardi di Mirinri e dei suoi compagni.

Erano due o trecento antenne, allineate lungo la riva del fiume, proprio dinanzi alla fortezza, e ognuna delle quali portava infisso un cadavere umano dalla pelle quasi nera. Tutti quei disgraziati avevan la punta dell'asta infissa profondamente nel petto e le loro braccia e le loro gambe pendevano inerti, già mezze scarnate dal becco degli sparvieri che volavano intorno in gran numero.

«Chi sono quegli uomini?» aveva chiesto Mirinri, il quale non aveva potuto celare un fremito d'orrore.

«Dei prigionieri di guerra, che hanno avuto la disgrazia di cadere vivi nelle mani dei soldati di Pepi,» rispose l'egiziano.

«È così che si uccidono?»

«Quando invece non si tagliano loro le mani, onde non possano più impugnare un'arma,» disse Ounis.

«E forse quegli uomini avevano combattuto valorosamente per la difesa del proprio paese,» disse Mirinri, come parlando fra se stesso. «È questa la civiltà egizia? Quando salirò io sul trono queste infamie non si commetteranno più.»

«Tu sei un generoso ed un nobile cuore,» disse Nefer, guardandolo con ammirazione.

«E costoro chi sono?» chiese il giovane, che osservava attentamente la fortezza.

«Sembrano soldati,» rispose Ata, aggrottando la fronte. «Vedo delle barche nascoste al di là dell'altura. Che vengano a farci una visita? Ecco quello che non desidererei.»

Due drappelli d'uomini, che avevano attorno alle anche dei perizomi di grossa tela, con un piccolo grembiale di cuoio che scendeva fino alle ginocchia, il petto avvolto in larghe fascie per difenderlo dai colpi di picca e sul capo degli ampi berretti a grandi righe, che ricadevano sulle loro spalle in modo da riparare tutta la nuca, scendevano la china avviandosi verso la riva.

Tutti portavano scudi di pelle, quadrati sotto e semirotondi in cima, ed erano armati di picche a tre punte, di certe specie di scuri col manico lunghissimo, nonché di daghe dalla lama larga e pesante.

«Che vengano qui?» chiese Ounis, che sembrava inquieto.

«Non sono che una quarantina,» disse Ata. «I miei etiopi avranno facilmente ragione di loro, se vorranno arrestarci.»

«Che siano stati avvertiti che io sono su questa barca?» chiese Mirinri.

«Non so, mio signore; però si direbbe che intorno a noi aleggi il tradimento. Eppure dei miei uomini sono sicuro come di me stesso.»

«Forse non sono che delle semplici supposizioni,» disse Ounis. «Non vi siamo che noi e abbiamo tutto l'interesse di mantenere l'incognito.

«Eppure vengono: guarda. Non vedi, Ounis, che s'imbarcano?»

«E noi lasciamoli venire e prepariamoci ad affogarli tutti, Ata,» disse Mirinri, che conservava la sua calma abituale. «Non si prende un reame lasciando la spada nella guaina.»

I due drappelli erano scomparsi per un momento dietro un gruppo di enormi palme, poi erano ricomparsi a bordo di due barche che non rassomigliavano affatto a quella di Ata, che era un vero veliero che anche i fenici, quegli intrepidi navigatori del Mediterraneo, grandi commercianti e grandi pirati insieme, gli avrebbero invidiato; quelle erano barche di forme massiccie, che terminavano sia a poppa che a prora in due punte altissime, in forma quasi d'un mezzo S, con un casotto che occupava quasi tutta la lunghezza e sulla cui cima si erano collocati alcuni guerrieri armati di archi.

Gli altri soldati si erano messi ai due lati e manovravano i remi.

Quantunque la corrente fosse aumentata di velocità, le due pesanti imbarcazioni non tardarono a giungere a portata di voce, essendo da qualche po' il vento caduto.

«Ohe!» gridò uno dei due comandanti del drappello. «Che Hathor vi protegga e che Tifone tenga sempre lontani da voi i temsah (coccodrilli) ma ditemi chi siete e dove andate.»

«Siamo mercanti che si recano a Denderah,» rispose Ata, mentre i suoi etiopi scivolavano silenziosamente dietro le murate, onde essere pronti ad impedire un abbordaggio. «Che cosa vuoi da noi?»

«Venivo a chiederti se hai uno scriba a bordo.»

«Per che cosa farne?»

«Abbiamo da tagliare quattrocento mani e non vi è fra tutti noi uno che possa prendere nota degli uomini destinati al supplizio e mandare una copia al re.»

«Chi sono costoro?»

«Dei nubiani che abbiamo fatti prigionieri ieri. Ne vedi già un bel numero impalati sulla riva, ma ne abbiamo ancora trecento,» rispose il comandante del drappello, «e debbono subire anche essi le leggi della guerra.»

In quel momento dietro la folta linea di palme che s'allungava sulla riva si udirono delle urla spaventevoli, che parevano mandate non già da esseri umani, bensì da belve in furore. Era un coro infernale di ululati, di ruggiti, di rantoli da far gelare il sangue.

Mirinri, a rischio di compromettersi, erasi rizzato dietro alla murata, colla daga in mano, gridando con voce minacciosa:

«Che cosa fanno laggiù?»

«Strappano la pelle del petto a quelli che non subiranno la mutilazione delle mani,» rispose tranquillamente il comandante.()

«Voi non siete dei guerrieri, siete dei vili sciacalli!» tuonò il giovane.

I soldati che montavano le due barche, sbalorditi da quel linguaggio, che mai prima di allora avevano certo udito, si erano guardati l'un l'altro.

«Giovane, in nome di chi parli?» chiese il comandante.

«Se l'osi, sali sulla mia barca e vieni a vedere il simbolo di vita e di morte tatuato sulla mia spalla, ma quando l'avrai veduto, ti farò gettare nel fiume in pasto ai coccodrilli e sterminerò i tuoi uomini.»

«Imprudente!» disse Ata. «Che cosa hai fatto, mio signore?»

Mirinri non lo ascoltava.

«Su, amici!» gridò, volgendosi verso gli etiopi.

I trenta battellieri si erano alzati come un solo uomo dietro le murate, cogli archi tesi, pronti a far piovere sulle due scialuppe una tempesta di dardi.

L'atto audace del futuro re e anche l'attitudine decisa ed il numero degli etiopi, parve che calmasse l'umore bellicoso del comandante e dei suoi uomini. La possibilità poi che egli fosse un vero principe, viaggiante in incognito, li decise a volgere frettolosamente indietro ed a fuggire più che in fretta verso il castello, senza aver osato lanciare una sola freccia.

«Seguiamo anche noi il loro esempio,» disse Ata. «Tu, signore, hai commesso una grave imprudenza. Noi ignoriamo quanti uomini ci sono in quella rocca e di quante barche possono disporre.»

«Vengano,» rispose semplicemente Mirinri. «Basterà mostrare loro l'ureo che io ho tatuato sulla pelle se è vero che questo serpente colla testa d'avoltoio è l'insegna del potere supremo. È vero Ounis?»

«Tu un giorno sarai un gran re,» si limitò a rispondere il vecchio. «Tuo padre avrebbe fatto altrettanto e anche quello era un grande sovrano.»

«Purché possa sedermi sul trono dei miei avi...» rispose Mirinri, sorridendo.

«Ti ho mostrato l'astro che faceva scintillare la sua lunga coda e quello era un buon segno che annunciava un cambiamento prossimo della dinastia regnante.»

«Vedremo: confido nell'avvenire.»

Mirinri aveva ripreso il suo posto consueto, sedendosi sull'orlo del piccolo cassero; Nefer si era collocata a breve distanza da lui e sembrava occupata a guardare le rive del maestoso fiume, tutte coperte di gigantesche palme dum, che già tuffavano nelle acque le loro radici.

Il Nilo continuava a gonfiarsi, invadendo a poco a poco le campagne, dove ormai non si trovavano più né grano, né orzo, né lino. Dove trovava un'apertura, la corrente irrompeva con lunghi muggiti e si riversava attraverso le terre con incredibile rapidità, fertilizzandole col suo prezioso limo.

Fra gli animali appiattati fra i cespugli avveniva allora un fuggi fuggi generale e si vedevano balzare attraverso i solchi, con rapidità prodigiosa, truppe di graziose gazzelle, bande di antilopi dalle lunghe corna sottili e sciami di sciacalli urlanti, mentre s'alzavano per l'aria immensi stormi d'ibis bianche e nere, di aironi e di anitre.

La barca, che aveva il vento in favore, correva rapidissima, tenendosi costantemente verso la riva sinistra, sulle cui alture apparivano, di quando in quando, delle rovine imponenti, che parevano di antichi templi o di fortezze diroccate, forse avanzi di città distrutte dai Faraoni delle prime dinastie, i quali avevano portate le loro armi ben lungi dal Delta, scacciando a poco a poco i popoli nubiani che le occupavano.

Anche quel giorno trascorse, senza che apparisse sull'immensa distesa d'acqua, che sempre più allargavasi, l'obelisco che doveva indicare l'isola misteriosa. Alle domande che Ounis e Ata avevano rivolte a Nefer, questa aveva semplicemente risposto:

«Aspettate: il Nilo non ha raggiunto la gran piena.»

Altri due giorni trascorsero. Le rive erano ormai scomparse. Il Nilo pareva che fosse diventato un grande lago dalle acque torbidissime, quasi rossastre.

Verso il tramonto del quarto giorno, Ata segnalò quattro grossi punti neri, che scendevano la corrente, tenendosi a breve distanza l'uno dall'altro. Quasi nel medesimo istante si udì Nefer a gridare:

«Ecco l'obelisco profilarsi dinanzi a noi: l'isola di Kantapek è là.

Mirinri e Ounis si eran voltati, guardando nella direzione che la fanciulla indicava col braccio teso.

Sulla superficie delle acque, che il sole faceva rosseggiare e scintillare vivamente, si distingueva ad una grande distanza un'alta linea oscura che spiccava nettamente sul luminoso e purissimo orizzonte.

«Lo scorgi, mio signore? chiese Nefer al giovane Faraone, con uno strano tono di voce.

«Sì,» rispose Mirinri.

Poi la guardò aggiungendo:

«Che cos'hai Nefer? Mi sembri commossa.»

La fanciulla volse altrove il capo, come per sfuggire lo sguardo del giovane, poi rispose:

«No, t'inganni, mio signore.»

Ata in quel momento li raggiunse, dimostrando sul suo viso una estrema apprensione.

«Te lo avevo detto, mio signore, che tu avevi commessa una grave imprudenza,» disse, volgendosi verso Mirinri.

«Perché?»

«Vi sono quattro grosse barche che scendono il fiume e che mi hanno l'aria di volerci dare la caccia.»

«Che siano legni armati da guerra?» chiese Ounis che aveva trasalito.

«Ne sono certo.»

«Da che cosa lo arguisci?» domandò Mirinri.

«Dall'altezza del loro albero e dall'ampiezza della loro vela.»

«Che siano montate da quei soldati che suppliziavano i prigionieri di guerra?»

«Questo è il mio sospetto.»

«Che cosa puoi temere ora che l'isola di Kantapek è in vista?» chiese Nefer, intervenendo. «Quale egiziano oserebbe accostarsi a quelle rive, dove si crede che le anime dei re nubiani errino per vendicare la loro razza distrutta dai primi Faraoni? Essa è là, dinanzi a noi, pronta a offrirci un rifugio e nessuno ci seguirà fino al gigantesco obelisco.»

«E troveremo anche là altri nemici e più pericolosi,» dissero Ounis e Ata.

«Come ho scongiurati i piccioni fiammeggianti, scongiurerò gli spiriti dei nubiani,» rispose la fanciulla. «Non sono forse io una maliarda? Con una mia invocazione li obbligherò a rientrare nei loro sarcofaghi dove da secoli dormivano.»

«Sei certa della tua potenza?» chiese Ounis.

«Sì, mio signore, e se vuoi io te ne darò una prova sbarcando da prima sola su quell'isola, essendo necessario che il mio incantesimo, onde abbia efficacia, io vada a recitarlo in mezzo agli alberi che coprono l'isola.»

«E tu, fanciulla, oseresti tanto?» chiese Mirinri, che non poteva fare a meno di ammirare tanta audacia.

«Sì, pur di salvare il futuro mio re,» rispose Nefer.

«All'isola e senza perdere tempo,» disse Ata. «Quelle barche si dirigono verso di noi. Vi è su quelle rive una cala qualunque che sia sufficiente per ancorare la nostra barca?»

«Sì, dinanzi all'obelisco.»

Ata corse a poppa e prese il lungo remo che serviva in quell'epoca da timone, mentre Mirinri e Ounis si portavano a prora per sondare il fondo del fiume.

Essendo la corrente molto rapida, non trattenendola più le masse fitte dei papiri ormai tutti scomparsi sotto la piena, il piccolo veliero s'avanzava veloce, mentre le quattro barche segnalate sembravano non aver nessuna fretta d'accostarsi all'isola, che cominciava a delinearsi nettamente.

L'obelisco ingrandiva a vista d'occhio, giganteggiando sull'orizzonte, che gli ultimi raggi del sole tingevano d'un rosso ardente e mandava dei riflessi acciecanti come se fosse interamente dorato o coperto di qualche altro metallo risplendente.

«Chi lo ha innalzato?» chiese Mirinri a Nefer che lo guardava attentamente.

«Non lo so, mio signore,» rispose la fanciulla, quasi distrattamente.

«Lo si direbbe tutto d'oro.»

«È solo dorato(), almeno così mi dissero.»

«Che le favolose ricchezze dei re nubiani siano nascoste là dentro?»

«No,» rispose Nefer asciuttamente. «So io dove si trovano.»

«Dunque sei stata parecchie volte qui?»

«Una sola, te lo dissi.»

«Ma vi sono dei sacerdoti che guardano quei tesori?»

«Scongiurerò anche quelli, se ci saranno ancora; credo però che il mio fidanzato abbia scambiato delle ombre per degli esseri viventi.»

«Non lo avrebbero acciecato.»

Nefer non rispose. Pareva che fosse assai preoccupata ed inquieta. Anzi un tremito nervoso agitava fortemente le sue braccia ed i suoi occhi cercavano di non incontrarsi mai con quelli del Figlio del Sole.

Con due bordate, soffiando la brezza abbastanza forte, la barca raggiunse finalmente l'isola, rifugiandosi in una piccola cala le cui rive erano coperte da immense palme e alla cui estremità si rizzava maestoso l'enorme obelisco dorato, lanciando la sua punta a più di quaranta metri d'altezza.

 

 

CAPITOLO QUINDICESIMO

 

Gli scongiuri di Nefer

 

L'uomo moderno, che oggidì visita i luoghi ove l'antica civiltà egiziana eresse monumenti grandiosi, che resistettero per cinquanta o sessanta secoli alle intemperie, alle sabbie dei deserti, alle piene del Nilo, al furore dei Caldei, degli Assiri e dei Persiani - che piombarono nella grande vallata del Nilo abbattendo Menfi e Tebe, le due più colossali e le più meravigliose città che tutto il mondo antico invidiava alle dinastie faraoniche - se si ferma meravigliato dinanzi alla grandiosità delle piramidi che racchiudono mummificate le salme degli antichi re, rimane maggiormente stupito dinanzi ai pochi, ma imponenti obelischi che ergono, ancora orgogliosamente, le loro punte verso il cielo infuocato.

Una domanda spunta subito sulle labbra di chi si ferma, dinanzi a quegli enormi blocchi di granito innalzati a trenta o quaranta metri: quali mezzi hanno impiegato gli antichi egizi per sovrapporre a tanta altezza quei massi?

Quali sforzi prodigiosi hanno fatto per riuscire? Questa istessa domanda ha tormentato per tanti secoli gli egittologi e solamente da poco, dopo lunghissime indagini, sono riusciti a scoprire il mezzo ingegnoso a cui sono ricorsi quei celebri costruttori.

La mano d'opera non mancava nell'Egitto, anzi non costava quasi nulla al governo. Quando un re desiderava farsi innalzare una piramide, un obelisco, un tempio, faceva spopolare d'un tratto solo tutta intera una provincia, i cui abitanti, artigiani, operai, agricoltori, qualunque fosse insomma la loro professione erano registrati sotto la direzione degli architetti reali. I vecchi ed i fanciulli vi erano essi pure iscritti, occupandoli nei lavori meno faticosi, nella preparazione della calce e nel trasporto dei rottami.

Allorché la prima massa di lavoratori era esaurita o decimata dagli stenti e dal clima bruciante, la si rinviava al suo paese e si reclutavano gli abitanti d'un'altra provincia.

I Faraoni non concedevano a quei disgraziati che il vitto e molto scarso per di più.

Tutte le gigantesche costruzioni dell'Egitto, piramidi, canali, serbatoi, dighe, sotterranei e templi, furono eseguiti in tale modo e non fu che più tardi che quei lavoratori furono sostituiti coi prigionieri di guerra.

Come si vede la mano d'opera non mancava, erano invece i mezzi potenti che facevano difetto, poiché gli Egiziani non possedevano alcuna macchina atta ad innalzare quei blocchi enormi, che le braccia umane, per quanto abbondanti, non potevano che smuovere.

Come dunque sono egualmente riusciti ad innalzare quegli obelischi che formano ancora oggidì l'ammirazione degli architetti e degli ingegneri moderni? In un modo curiosissimo che solo la mente ingegnosa di quegli uomini straordinari poteva immaginare.

Mancando di macchine, si servivano d'un piano inclinato che cominciava a qualche metro dal luogo dove l'obelisco doveva venire innalzato e che si distendeva per oltre un paio di chilometri con una pendenza lievissima.

Sulla parte più alta costruivano un muro anche quello inclinato ed un po' più alto dell'obelisco e sulla sommità formavano un coronamento di grossi tronchi d'albero profondamente infissi dovendo sopportare il peso intero dell'immensa colonna.

Bastavano pochi uomini per far salire la rampa all'obelisco, disposto colla base innanzi, sopra curli di legno durissimo che rotolavano su un tavolato portatile.

Quando la base aveva oltrepassato lo spigolo del muro di quasi un terzo della sua lunghezza, gli operai, collocati sui piloni, coll'aiuto di funi solidissime facevano girare l'obelisco attorno al conoramento della scarpa guidandolo fra due file di tronchi disposti a guisa di piuoli.

La discesa dell'enorme massa la effettuavano poi lentamente, togliendo man mano attorno alla base dell'obelisco la sabbia precedentemente accumulata in modo da farlo posare sul punto preciso segnato sul basamento. Riusciva poi facile, a quegli instancabili lavoratori, dare al monolito la dovuta posizione verticale, stabilendo un semplice tavolato fra la rampa ed il pilone.

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Appena gettata la grossa pietra che serviva d'àncora e calate sul ponte le vele, Mirinri, Ata ed Ounis si erano subito portati sul casseretto, premendo assicurarsi innanzi a tutto della direzione presa dalle grosse barche, che sospettavano montate da guerrieri dell'usurpatore, incaricati di catturarli, prima che potessero giungere a Menfi.

Con loro non poco piacere le videro dirigersi lentamente verso la riva opposta e affondare le loro pietre, come se i loro equipaggi avessero presa la risoluzione di passare colà la notte.

«Ci tengono d'occhio,» disse Ata, con inquietudine. «Non hanno osato accostarsi a quest'isola, ma temo che non ci lascieranno tanto facilmente. Nefer ha avuto una buona idea di guidarci qui, purché gli spiriti dei re Nubiani non ci diano maggiori fastidi di quelli che potremmo avere da quei guerrieri. Io temo più i morti che i vivi.»

«Ti ho detto che io saprò placare le loro anime e che le farò rientrare nel serdab() del tempio.»

«Quale potere soprannaturale possiedi dunque, fanciulla?» disse Ounis.

«È mia madre che mi ha insegnato a placare gli spiriti. D'altronde, mio signore, io te ne darò prova. Fa gettare una tavola sulla riva e lascia che scenda a terra. Lancierò lo scongiuro in mezzo alla foresta.»

«Tu sola!» esclamò Mirinri.

«Sì, mio signore,» rispose Nefer con voce tranquilla.

«E non avrai paura?»

«Di che cosa?»

«Non vi sono belve feroci su quest'isola?»

«No, che io sappia.»

«Ed i coccodrilli li hai dimenticati?»

«Le rive sono tutte così ripide da impedire a loro di salirle.»

«Io non divido la tua fiducia, Nefer. Lascia che ti accompagni. La mia daga è salda e ti proteggerà.»

«Lo scongiuro non avrebbe nessun effetto e nessuno deve assistere al rito che io compierò sotto gli alberi.»

«Quale rito?»

«Non te lo posso dire, mio signore. Noi abbiamo delle cerimonie da compiere che non possiamo svelare a nessuno. Lasciami andare e non temere per me. D'altronde, se anche mi toccasse una disgrazia, che cosa t'importerebbe?» disse la fanciulla con profonda amarezza.

Mirinri, che aveva compreso dove mirava la fanciulla ed a che cosa alludeva, credette opportuno non rispondere, tuttavia la guardò con una certa ansietà.

«Addio, mio signore» riprese Nefer, vedendo che la tavola era stata già gettata. «Se io tardo, non inquietarti, poiché lo scongiuro che io lancierò sotto gli alberi potrebbe non essere sufficiente ed in tale caso sarei costretta a ripeterlo dinanzi al tempio.»

«Lascia che ti accompagni fino alla riva,» disse Mirinri.

«Sia, mio signore, purché tu non varchi la prima linea degli alberi.»

Attraversarono insieme la tavola, mentre Ata e Ounis spiavano ansiosamente le quattro grosse barche, temendo che preparassero qualche sorpresa approfittando dell'oscurità della notte, e si fermarono dinanzi ad una vera muraglia di verzura che sembrava quasi impenetrabile.

«È là il passo,» disse Nefer, indicando al giovane un piccolo squarcio aperto fra le camerope a ventaglio e le enormi palme dum che si erano ammassate sulla riva, collegate fra di loro da giganteschi festoni di piante parassite.

Nefer, che si era fermata, fece segno a Mirinri di non avanzare un passo di più. La strana fanciulla appariva in quel momento in preda ad una vivissima commozione ed i suoi occhi avevan perduto in quel momento tutto il loro superbo splendore. Un forte tremito faceva tintinnare i suoi braccialetti.

«Che cos'hai?» chiese Mirinri, sorpreso da quell'improvvisa commozione che aveva subito rimarcata.

«Nulla, mio signore» rispose Nefer con voce soffocata.

«Tremi come se tu avessi freddo.»

«È l'umidità della notte forse che mi fa trasalire così.»

«E anche nella tua voce vi è come un tremito. Avresti paura? Aspetta che sorga il sole per lanciare lo scongiuro.»

«Devo pronunciarlo nelle tenebre. Gli spiriti non escono che di notte.»

«E credi tu che siano veramente spiriti? Io ho visitate più piramidi e mai ho veduto uscire dai loro sarcofaghi quelli che da secoli vi dormivano dentro. Se fossero invece degli esseri viventi?»

«No, sono ombre, mio signore.»

«Sei risoluta?»

«Sì, mio signore. Se tu rimani qui udrai il canto dei morti che io griderò in mezzo alla foresta.»

La voce di Nefer, dapprima tremante, a poco a poco si era rinfrancata; il tremito invece delle sue membra non era cessato. Stette un momento silenziosa, col capo chino, poi s'allontanò bruscamente, dicendo:

«Addio, mio signore: che Iside, Osiride e la vacca Hathor proteggano il Figlio del Sole, che Apap, il serpente del genio del male stia lontano da te.»

Nefer scomparve attraverso lo squarcio aperto nella immensa muraglia di verzura.

La fanciulla camminava rapidamente, come se già altre volte avesse attraversato la folta foresta che copriva quell'isola, gettata attraverso il maestoso Nilo.

Non voltò nemmeno per vedere se Mirinri l'aveva seguita. Era d'altronde certa che il giovane non si sarebbe mosso dalla riva, poiché, cosa strana, gli Egiziani, al pari di tutti i popoli primitivi, se non avevano paura della morte, ne avevano molta degli spiriti dei morti.

La fanciulla però non sembrava tranquilla. Anzi si sarebbe detto che un improvviso accesso di disperazione o di collera intensa l'avesse colta.

Delle frasi spezzate uscivano dalle labbra e le sue dita tormentavano nervosamente le sue vesti, lacerando la leggera stoffa.

«Maledetti...» mormorava, stridendo i denti: «Vogliono tenerlo lontano... troncargli la via gloriosa che dovrebbe condurlo verso il trono del Sole... E io nulla posso fare... Sedurlo... addormentarlo tra le mie braccia.... O gli splendori della corte che io ho appena gustati nella prima gioventù o la morte! Perché non scegliere un'altra invece di me? Perché anch'io sono una Faraona, ma figlia di chi? Quale mistero regna sulla mia nascita? E quel miserabile sacerdote mi tiene nelle sue mani!... E riuscirò io?... Ama troppo l'altra e non ha compreso che io mi struggo per lui... che non sogno che lui... che darei la mia vita per lui e che attraverserei il fiume infernale che va a bagnare i campi divini d'Aaseron().

Si era fermata. Al di sotto delle larghe foglie delle palme regnava una profonda oscurità ed a malapena attraverso quella massa di verzura si poteva distinguere qualche stella.

Un silenzio assoluto regnava intorno alla fanciulla, non soffiando alcun alito di vento. Solo in lontananza muggiva cupamente il Nilo, che la piena aveva reso più impetuoso.

«Mi udranno?» si chiese, dopo d'aver fatto qualche passo innanzi.

Si guardò intorno cercando di distinguere qualche cosa, poi si rizzò e alzando la voce in modo da poter essere udita anche da Mirinri, se questi, come era da supporsi, non aveva lasciata la sponda, gridò:

«Oh tu, Amenti, che sei il signore della montagna e che hai il potere di creare le anime quando te l'ordina Osiride, ascolta la parola di una fanciulla di stirpe divina, perché sono figlia di quel Râ (il sole) che si alza tutti i giorni sull'orizzonte orientale del cielo e che la nera dea Nut protegge coll'ombra delle sue ali. Tu sei possente, perché la tua lingua tocca e lambisce il cielo, la terra ed avviluppa ogni cosa; tu sei grande perché sei il dio che regna nell'emisfero inferiore e la tua forma è nel cielo, nella terra, nelle piante, nelle acque del Nilo e la luce che sfolgori è pari a quella di Toum, che oggi è Osiride e domani è Râ e tutto puoi. Io voglio che tu renda agli spiriti che vagano su questa isola la loro bocca per parlare, le loro gambe per camminare, le loro braccia per rovesciare i nemici, come sta scritto nel Libro dei morti che Osiride ci diede, onde se ne vadano lontani e possano raggiungere la barca del Sole. Nefer ha parlato: è una maliarda ed una Figlia del Sole che Nut protegge. Raccogli gli spiriti erranti e chiamali nei campi divini d'Aaseron. Attendo!...».

La fanciulla aveva appena terminato quelle parole, quando sotto la vôlta immensa delle grandi foglie si udì un fragore assordante, che pareva prodotto da qualche enorme tamburone furiosamente percosso e che durò qualche minuto, poi un'ombra umana comparve, accostandosi silenziosamente alla maliarda.

«Egli ti aspetta nel tempio,» le disse quando fu vicina.

Nefer provò un forte fremito.

«Vieni,» disse l'ombra.

«Ti seguo,» rispose la fanciulla con un sospiro.

Si misero in cammino. L'uomo la precedeva di alcuni passi, scostando i rami che in quel luogo erano molto bassi e dopo pochi minuti s'arrestarono presso una gigantesca costruzione di forma quadrata, dinanzi alla quale si ergevano due obelischi molto meno alti di quello che giganteggiava sulla riva e delle sfingi di mostruose proporzioni, allineate su una doppia fila.

«Entra, Figlia del Sole,» disse la guida arrestandosi.

Nefer si diresse verso una porta larga alla base e stretta verso la cima e si trovò in una immensa sala, la cui vôlta era sorretta da un numero infinito di colonne tutte scolpite e coi capitelli che s'allargavano in forma d'una larga campanula.

Una piccola lampada, sospesa in alto, illuminava a malapena il centro del gran tempio.

«Sei tu, Nefer?» chiese una voce dall'accento rude.

«Sì, sono io, Her-Hor,» rispose la fanciulla.

Un uomo era comparso improvvisamente, uscendo fra le due colonne centrali. Era un vecchio di sessanta o settant'anni, di statura molto alta, dai lineamenti duri, cogli occhi nerissimi e vivissimi ancora, malgrado l'età.

Indossava una specie di zimarra di lino bianchissimo, molto ampia, stretta alle reni da una fascia gialla che ricadeva sul dinanzi ed aveva sul capo un fazzoletto pure giallo a righe nere, che gli scendeva sulle spalle. Ai piedi portava dei sandali di papiro e dal mento gli pendeva una di quelle strane barbe posticcie, di forma quadrata, che erano molto in voga in quell'epoca, quantunque rendessero coloro che le portavano di un aspetto tutt'altro che simpatico.

Nefer, nel vederlo, era diventata pallidissima ed un lampo d'ira le era balenato negli occhi.

«Ho veduto la loro barca ad approdare,» disse il vecchio. «Tu sei una fanciulla meravigliosa e Pepi ha scelto bene. È lui dunque?»

«Sì,» rispose Nefer abbassando il capo.

«Proprio il figlio di Teti?»

«Sì.»

«Non ci eravamo ingannati. T'ama?»

«Non mi pare finora.»

Una profonda ruga si disegnò sulla fronte del vecchio.

«È necessario che t'ami, tu lo sai. Forse non hai tentato tutte le seduzioni. Chi potrebbe resistere a te che sei la più bella fanciulla del Basso Egitto? Chi non fremerebbe dinanzi ai tuoi occhi meravigliosi e alle tue forme divine?»

«Eppure non mi ama ancora, grande sacerdote,» rispose Nefer.

«Deve amarti: Pepi lo vuole, tu sai che ogni volontà del re è comando.»

«Pensa ad un'altra.»

«Che il Capro di Mendes e che il dio Api mi uccidano sul colpo!» gridò il vecchio. «L'altra non lo amerà mai!»

«Che ne sai tu, Her-Hor?» chiese Nefer. «Tu non puoi scrutare il cuore di Nitokri, la figlia di Pepi.»

«Egli è un nemico che potrebbe strappare il trono a suo padre.»

«L'amore vale talvolta meglio d'un trono.»

Her-Hor fece un gesto di collera, poi, cambiando bruscamente tono, disse:

«Tutto è pronto. Ricordati che devi impedirgli di giungere a Menfi e di addormentarlo qui. Ricchezze e feste, danze e profumi, vini inebbrianti, carezze e gli occhi tuoi: cadrà e dimenticherà il suo grande sogno.»

«E se t'ingannassi, gran sacerdote?» chiese Nefer con ironia.

«Tutto dipende da te: vuoi rivedere gli splendori della corte e riprendere il posto che ti spetta per diritto di nascita? Lo devi ammaliare e tarpargli le ali. Lo sparviero è giovane, è sempre vissuto lontano da Menfi, non ha veduto che le sabbie del deserto, dove fu allevato e dove è cresciuto e tu sei bella. Mirinri ti amerà.»

Nefer fece col capo un gesto negativo.

«Il cuore del giovane Figlio del Sole non batterà forse mai per Nefer,» disse poi, con voce triste.

Her-Hor aveva guardato fissa la fanciulla, poi l'aveva presa strettamente per una mano. Una gioia selvaggia illuminava i suoi occhi e traspariva sul suo viso incartapecorito.

«Tu l'ami!» esclamò.

Nefer non rispose.

«Lo voglio sapere.»

«Ebbene... sì,» rispose la fanciulla, chinando la testa.

«Ah, la...»

Con un morso rabbioso il sacerdote aveva impedito alle sue labbra di completare la frase.

«Che cosa volevi dire, Her-Hor?» chiese Nefer.

«Nulla,» rispose asciuttamente il sacerdote, mentre un lampo sinistro illuminava i suoi occhi. Poi, dopo aver girato intorno ad una colonna, come per aver tempo di riprendere la sua calma primiera, chiese:

«Chi accompagna Mirinri?»

«Un vecchio che si chiama Ounis e che pare sia anche lui un sacerdote.»

«Ah? Lui!»

«Lo conosci?»

«Credo.»

«Chi è?»

«Un fedele amico di Mirinri. Hai incontrata la barca di gatti?»

«Sì, a tre giornate da qui; prima che il Nilo si gonfiasse.»

«Mirinri e Ounis hanno creduto a tutto ciò che tu hai narrato?»

«Credo.»

«Ti hanno visto il tatuaggio?»

«Ounis lo scoprì sulle mie spalle.»

«Sicché sono convinti che tu sia una Figlia del Sole?»

«Non lo sarei forse?» chiese Nefer trasalendo.

«Sì, non ti ho mai detto il contrario,» disse il grande sacerdote.

«Allora dimmi chi era mio padre.» gridò la fanciulla.

«Non è ancora giunto il momento di svelartelo.»

«È morto o vivo?»

«Potrebbe dormire il sonno eterno entro una piramide perfettamente mummificato, perché era un gran principe, e potrebbe anche darsi che non fosse ancora salito sulla barca che guida le regioni inferiori e che non sia ancora stato giudicato dal tribunale d'Osiride. Solo Pepi Mirinri lo sa e nulla finora a me disse.»

«Tu mi assicuri che nelle mie vene scorre il sangue divino dei Faraoni?»

«Sì.»

«E che il simbolo del diritto di vita e di morte non mi fu impresso per ingannarmi.»

«Ti fu fatto nel palazzo reale di Menfi.»

«Allora Mirinri può amarmi, perché sono una Faraona come Nitokri?»

«Può amarti.»

«Dammi un filtro affinché il suo cuore arda per me.»

«Il filtro lo hai nei tuoi occhi,» disse il sacerdote. «Pepi stesso non saprebbe resistere al fulgore delle tue stelle, se ora ti vedesse.»

«Ma non Mirinri.»

«Cadrà: tu sei una maliarda.»

«Dammi un filtro o danne uno all'altra Faraona,» disse Nefer coi denti stretti, «uno di quelli che la facciano dormire per sempre. La piramide di Pepi è sempre pronta a ricevere i morti e, spenta quella fanciulla, che ha per lei il fascino del potere e la luce d'un gran trono, che a me, oggi, manca, Mirinri cadrà fra le mie braccia.»

«Io uccidere la figlia di Pepi!» esclamò il sacerdote. «E poi? Sono vecchio, eppur ci tengo ancora alla vita o meglio ci tengo a qualche cosa di più importante della mia vita. Quando lo condurrai qui?

«Domani all'alba.

«Anche il vecchio?»

«Non lo lascerà.»

«Se potessi ucciderlo!»

«Perché? Che cosa ti ha fatto? Che importa a te che viva?»

Il sacerdote, invece di rispondere, si mise a passeggiare fra le colonne, mormorando fra sé:

«Sì, sarebbe una stupida vendetta.»

Poi, tornando verso Nefer, riprese:

«Bada che gli occhi miei e sopratutto quelli di Pepi sono fissi su di te. O gli splendori della corte o la morte: il re sarà implacabile. Va': tutto è pronto per riceverlo e per addormentarlo fra tue belle braccia. Egli non deve giungere a Menfi, ricordatelo e, giacché l'ami, ti avverto che se egli posasse i piedi nella capitale del Basso Egitto, la morte non lo risparmierebbe. Ha regnato suo padre; lui non regnerà mai.»

«Non scorderò le tue parole,» rispose Nefer, mentre un brivido di terrore le correva per le ossa.

«E non una parola o nessuno di noi uscirà vivo dalle tombe degli antichi re Nubiani! Va'! Tu sai che cosa devi fare.»

Nefer si strinse addosso le leggere vesti che la coprivano, come se un gran freddo l'avesse improvvisamente côlta e uscì rapidamente dal tempio, mentre il sacerdote spegneva bruscamente la lampada.

 

 

CAPITOLO SEDICESIMO

 

Le meraviglie del tempio di Kantapek

 

Quando Nefer ritornò alla riva, Mirinri si trovava ancora là, seduto alla base dell'obelisco, colla daga snudata in mano e lo sguardo fisso verso il margine della foresta, pronto certo ad accorrere in aiuto della fanciulla, se qualche pericolo l'avesse minacciata.

Vedendola uscire dallo squarcio aperto fra la muraglia di verzura, si era prontamente alzato, muovendole incontro. Nefer lo accolse con un sorriso e con uno sguardo intenso.

«L'isola è tua, mio signore,» gli disse. «Gli spiriti dei re Nubiani sono rientrati nei loro sarcofaghi e non ne usciranno finché io non lo vorrò.»

«Li hai veduti, tu?» chiese Mirinri.

«Sì, vagavano sulle cime delle palme.»

«Chi sei tu, che possiedi una tale potenza? Io ho udita la tua invocazione e poi un gran rumore che ha spaventato gli etiopi e anche Ata e Ounis.»

«Erano i sarcofaghi che si richiudevano,» rispose Nefer sottovoce.

«Io finora non ti avevo creduto.»

«Ed ora?»

«Invidio la tua potenza occulta. Se io la possedessi, forse a quest'ora Menfi l'orgogliosa sarebbe mia e mio padre sarebbe stato vendicato.»

«Io nulla posso contro i vivi,» disse Nefer.

«Sei stata al tempio?»

«Sì ed ho ripetuto dinanzi alle sfingi il possente scongiuro. Ecco perché ho tardato a tornare, mio signore.»

«Non hai veduto nessun lume brillare là dentro?»

«Regnava una oscurità profonda ed un silenzio assoluto. Coloro che hanno acciecato il mio fidanzato devono essere morti o fuggiti.»

«Non avranno asportati anche i tesori che tu affermi si trovassero nei sotterranei?»

«Domani noi ce ne assicureremo,» rispose Nefer. «Un giorno perduto non ritarderà troppo la conquista del trono a cui hai diritto, mio signore.»

«E poi non possiamo per ora riprendere il viaggio,» disse Mirinri, la cui fronte si era oscurata. «Quelle quattro barche ci sorvegliano: tutti ne siamo convinti e forse aspettano che noi prendiamo il largo per assalirci. Sali a bordo e va' a riposarti, fanciulla.»

Nefer lo seguì, senza aggiungere altro, e invece di recarsi nella sua cabina, si sedette a prora, su un cumulo di cordami.

Una viva ansietà regnava fra l'equipaggio e anche Ounis ed Ata apparivano molto preoccupati. Sentivano tutti, meno Mirinri, che un pericolo li minacciava. La presenza di quelle quattro barche, che non si decidevano a lasciare la riva del Nilo, aveva fatto perdere la calma sia agli etiopi che ai due capi. Ormai erano più che convinti di aver di fronte dei nemici e non già dei semplici trafficanti.

«Sono sempre là?» aveva chiesto Mirinri, appena salito a bordo, raggiungendo Ounis e Ata che vegliavano attentamente, sdraiati sul casseretto.

«Sempre,» aveva risposto il vecchio.

«Che attendano l'alba per andarsene?»

«O per assalirci, invece?» disse Ata.

«Che osino accostarsi a quest'isola che tutti sfuggono?»

«Questo non lo so e può darsi che non si sentano tanto coraggio, ma quand'anche rimanessero là a guardarci, noi non potremmo riprendere il viaggio. Essi ci tengono come prigionieri.»

«Saranno in molti gli uomini che le montano?»

«Le barche sono grosse, mio signore,» rispose Ata, «e avranno equipaggi numerosi quanto il nostro. Mi guarderei perciò bene dall'esporre la tua vita preziosa.»

«Io sarò pronto a proibirlo,» disse Ounis, che sembrava più inquieto di Ata. «Se tu Mirinri cadi nelle mani di Pepi, egli non ti risparmierà ed il tuo bel sogno sarebbe per sempre finito e tuo padre rimarrebbe invendicato.»

«Aspettiamo l'alba,» disse il giovane. «Io farò quello che tu vorrai, Ounis, perché debbo a te e alla tua prudenza la mia vita. Come ho atteso tanti anni, posso attendere dei giorni. Menfi è sempre laggiù e non mi sfuggirà.»

Ad un tratto trasalì. Il piccolo veliero si era spostato bruscamente, come se avesse ricevuto nei fianchi un forte colpo.

Ata e Ounis erano balzati in piedi, guardando intorno con ansietà, mentre gli etiopi correvano lungo le murate in preda ad un vivo panico.

Qualche cosa doveva essere avvenuto, poiché il veliero, quantunque l'acqua non fosse agitata entro quel minuscolo seno, continuava a oscillare sempre più vivamente, accennando a coricarsi su un fianco.

D'improvviso un grido sfuggì ad Ata:

«Affondiamo! Salvati, Figlio del Sole! Ecco il tradimento che presagivo!

Tutti precipitarono verso prora, dove Nefer stava sempre seduta, tranquilla, impassibile. Nemmeno udendo il grido di Ata si era mossa; solo sulle sue labbra era comparso un lieve sorriso.

«Prima il Figlio del Sole!» comandò Ata, arrestando con un gesto gli etiopi che stavano per rovesciarsi sul ponte volante che aveva servito a Nefer per scendere a terra.

«La fanciulla, prima,» disse invece Mirinri.

Il viso di Nefer s'illuminò d'una gioia intensa.

«Grazie, mio signore,» diss'ella alzandosi.

«Presto: la nave si rovescia,» rispose Mirinri vedendola inchinarsi rapidamente sul tribordo.

Nefer balzò agilmente sul pontile, leggera come un uccello, passò e poi la seguirono precipitosamente gli altri.

Si erano appena radunati dinanzi all'immenso obelisco, quando il piccolo veliero si capovolse colla chiglia in aria, spezzando di colpo la fune a cui era appeso il masso che serviva d'àncora.

La corrente che, entrando nel seno, vi faceva il giro, subito lo prese e se lo portò via, prima che gli etiopi, non ancora rimessisi dal panico, avessero pensato a fermarlo.

Per alcuni istanti fra tutti quegli uomini regnò un profondo silenzio. Fu Mirinri che pel primo lo ruppe.

«È la mia sorte e fors'anche il mio trono che se ne vanno,» disse.

«Maledizione!» esclamò Ata «Ci hanno presi!»

«Non ancora,» disse Ounis, che aveva subito ricuperato il suo sangue freddo. «Ero certo che noi non saremmo giunti a Menfi come tranquilli passeggieri e che l'usurpatore ci avrebbe preparati degli agguati lungo la via.»

«Che vi sia qualche traditore fra noi?» chiese Mirinri. «La tua barca era solida, Ata, e non può essere affondata da sola.»

«Gli uomini che montano quelle barche che l'hanno trapanata,» rispose Ata. «Su ciò non ho alcun dubbio. Essi hanno approfittato dell'oscurità della notte per attraversare il fiume e per aprire i fianchi del veliero.»

«Allora sanno che io ero sulla tua barca.»

«Pepi ha disposto certamente numerose spie lungo le rive del fiume,» disse Ounis. «Egli forse sa più di quanto noi crediamo e questa è una prova che gli era nota la nostra partenza dal deserto.»

«Ed ora che cosa faremo? Come potrò io recarmi a Menfi?» chiese Mirinri. «Che tutto sia finito e che la mia stella sulla quale tu, Ounis, riponevi tante speranze, sia tramontata per sempre?»

«Mio signore,» disse Nefer, «pensa innanzi a tutto a salvarti; vedo le barche dirigersi verso l'isola.»

Tutti si erano voltati, guardando la riva opposta. Le quattro barche avevano levate le pietre che servivano d'àncora e veleggiavano già lentamente attraverso il Nilo.

«Vengono!» avevano esclamato tutti.

«E non abbiamo più armi per difenderci,» disse Ata, con rabbia.

«Io vi salverò» disse Nefer.

«Tu!» esclamò Mirinri.

«Sì, mio signore.»

«In quale modo?»

«Conducendovi nel tempio dove riposano gli antichi re nubiani. Ormai i loro spiriti sono placati e non avete più nulla da temere e nessuno di quegli uomini che montano le barche oserebbe seguirvi fino là.»

«E tu ci giuri che non troveremo invece dei nemici?» chiese Ounis.

«Su Osiride, lo giuro,» rispose la fanciulla. «Seguitemi, prima che le barche approdino e che le freccie degli arcieri vi colpiscano. Guardate: s'affrettano.»

«Bada, fanciulla, che se tu c'inganni, anche se tu sei una Faraona non ti risparmieremo,» disse Ata, con voce minacciosa.

«Io non potrò difendermi e sono in mano vostra. Seguitemi, se vi preme la vita.»

Il timore che Mirinri potesse cadere nelle mani dei guerrieri di Pepi fece risolvere Ounis, tanto più che non potevano opporre alcuna resistenza nel caso d'un attacco, non avendo avuto il tempo di salvare le loro armi.

Si cacciarono frettolosamente entro lo squarcio aperto della foresta e si misero dietro a Nefer, la quale procedeva con passo lesto avanzandosi sotto i grandi alberi.

Quell'isolotto, fertilizzato dalle acque del Nilo, che nel colmo della piena dovevano inondare, era ingombro di piante superbe, le quali si erano sviluppate enormemente.

Era un vero caos di camerope a ventaglio dal bel fusto cilindrico, nodoso solamente alla base, coronato alla sommità da un magnifico ciuffo composto di trenta o quaranta foglie, piante assai pregiate anche dagli antichi egizi, i quali si nutrivano delle sue frutta, delle giovani foglie e anche della sostanza farinosa contenuta nel tronco. Al di sotto di quella immensa vôlta di verzura, racchiusa in vere reti di piante arrampicanti, si ergevano gruppi di euforbie, da cui si estrae un succo corrosivo, che sostituisce oggi il caucciù e che è così potente da bruciare le stoffe e da produrre delle ferite dolorose sulle carni, e cespugli foltissimi che rendevano il passaggio difficilissimo.

Nessun animale si presentava agli sguardi del drappello, il quale continuava ad avanzare rapidamente. Solo fra i rami svolazzavano pochi uccelli acquatici, degli anastomi e dei falchi.

Pareva che quell'isolotto fosse assolutamente deserto, non udendosi alcun rumore in alcuna direzione. L'incantesimo della maliarda era dunque pienamente riuscito, così almeno la pensavano i superstiziosi etiopi.

Avevano percorso già un lungo tratto, aprendosi faticosamente il passo fra quelle masse di vegetali, quando tutti si fermarono di colpo, mandando un grido di stupore.

Ai primi raggi del sole che stava sorgendo si erano trovati improvvisamente dinanzi al tempio meraviglioso, il quale s'innalzava in mezzo ad una spianata sgombra d'alberi.

«Ecco il luogo ove dormono le spoglie degli antichi re nubiani,» disse Nefer.

Quel tempio era di dimensioni enormi, dimensioni d'altronde che gli architetti egiziani amavano, essendo abituati a fare tutto in grande: colossali le piramidi, colossali gli obelischi, colossali le dighe, i bacini, le stanze funerarie ed i palazzi.

Era un dado mostruoso, colle facciate però pendenti, sormontato da un altro di dimensioni meno vaste, con una piramide tronca al centro, formato tutto di blocchi enormi di pietra calcarea, tratta senza dubbio dalla duplice catena arabica e libica, quella catena che provvide al vecchio Egitto i materiali necessari per innalzare le sue gigantesche piramidi.

Numerose iscrizioni ed un numero infinito di figure coprivano le pareti, rappresentanti divinità, re in gran costume, montati su carri di guerra, scene di caccia e animali d'ogni specie.

Nel mezzo, in un gran quadrato, giganteggiavano le tre maggiori divinità adorate dagli Egizi: Osiride, seduto su una specie di trono, con un altissimo cappello e l'immancabile barba quadrata appiccicata sotto il mento: Iside, una dea che aveva il corpo seminudo, pure seduta su un trono e che aveva in testa uno strano trofeo, sormontato da due corna, e la vacca Hathor, che fra le due corna reggeva il sole contornato da parecchi simboli e che posava il muso sulla testa d'un uomo.

Ai due lati della porta che metteva nel tempio, si ergevano due obelischi massicci, istoriati al pari delle pareti e dinanzi a loro, su una doppia linea, in modo da formare una specie di viale, stavano due dozzine di sfingi colle teste di re, appartenenti probabilmente alle prime dinastie.

«Chi può aver costruito questo magnifico tempio in questo luogo?» si chiese Mirinri, che mai prima di allora ne aveva veduto uno. «Lo sai tu, Nefer?»

«Entra,» gli disse invece la fanciulla, prendendolo per una mano e traendolo quasi con violenza verso la porta.

«Circondate il Figlio del Sole,» disse il sospettoso Ata rivolgendosi agli etiopi.

«Non è necessario,» disse Nefer. «Nessun pericolo lo minaccia e rispondo della sua vita. Seguitemi tutti!»

La voce della fanciulla, che era ordinariamente dolce e quasi triste, era diventata improvvisamente imperiosa. Mirinri che non era molto superstizioso e che d'altronde non provava alcun timore, fece segno agli etiopi di fargli largo e si lasciò condurre nel tempio.

La luce, che entrava liberamente dall'ampia porta, permise loro di scorgere un numero infinito di magnifiche colonne, i cui capitelli si perdevano nell'alto, tutte coperte di strane pitture in rosso, in nero ed in turchino, le tre tinte favorite degli Egiziani. Alcuni rappresentavano dei Re del primo impero, seduti sui loro troni, che altro non erano che delle semplici sedie massiccie molto basse, con in mano le insegne dell'autorità regale, rappresentate da un bastone un po' ricurvo verso la cima e da una specie d'uncino, altre dei guerrieri in atto di trafiggere dei prigionieri; poi delle divinità rappresentate da uomini con la testa di bue, ibis, coccodrilli e gatti.

In mezzo all'immensa sala giganteggiava la statua d'un re in atto di minacciare qualcuno, con una immensa barba quadrata appesa al mento e armato d'una specie di falce molto ricurva, la prima arme usata dai guerrieri e dai re della prima dinastia.

«Dove mi conduci, Nefer?» chiese Mirinri, vedendo che la fanciulla non si arrestava.

«Nella mastaba, mio signore,» rispose la maliarda, senza lasciargli la mano. «È nel sepolcreto che deve trovarsi il tesoro degli antichi re nubiani ed è là che nessuno oserà venire a cercarti.»

Attraversarono il tempio in tutta la sua lunghezza, seguiti da Ounis, da Ata e dagli etiopi, finché giunsero dinanzi ad una porta di bronzo che era socchiusa e su cui stava scolpito, entro un disco, uno scarabeo che era il simbolo dei successivi rinascimenti del sole ed un uomo colla testa di montone, rappresentante il dio solare.

«La mastaba è dinanzi a noi,» disse Nefer.

«Ci vedremo, là dentro?» chiese Ounis. «Noi non abbiamo alcun lume con noi.»

«Vi è un foro in alto che ci darà luce sufficiente.»

«Avanti dunque.»

Invece di obbedire Nefer aveva fatto un passo indietro come se fosse stata colta da un improvviso terrore o da una grande perplessità.

«Hai udito qualche rumore?» chiese Mirinri.

«No, mio signore,» rispose la fanciulla tergendosi con un moto nervoso della mano alcune stille di freddo sudore.

«Avresti paura delle mummie che tu hai ricacciate nei loro sarcofaghi?»

«Nefer non teme i morti perché sa scongiurarli, tu lo sai.»

«Dunque?» chiesero Ounis e Ata.

Parve che la fanciulla facesse uno sforzo supremo, poi con ambe le mani spinse risolutamente la massiccia porta di bronzo, sussurrando a Mirinri:

«Tu non hai nulla da temere, Figlio del Sole.»

Un buffo d'aria umida investì Nefer, facendole volteggiare intorno i leggeri tessuti che la coprivano; ma quell'aria non era impregnata di quel tanfo sgradevole che regna di solito nei sepolcreti, anzi pareva che fosse satura d'un sottile e misterioso profumo.

Una scala si trovava dietro alla porta. Nefer la discese, tenendo Mirinri per una mano e si trovarono in una immensa sala sotterranea, scavata nel vivo masso e illuminata da un foro circolare da cui penetrava un getto di raggi solari.

Era la mastaba.

Gli Egiziani, sia delle prime come delle ultime dinastie, hanno avuto sempre una grande cura nel prepararsi i loro sepolcri.

I Faraoni si seppellivano entro le grandiose piramidi; i grandi ed i ricchi nelle mastaba ossia in immense sale sotterranee, sormontate da una piramide per lo più tronca, a base rettangolare, la cui lunghezza e profondità variavano secondo il gusto dei costruttori, mentre l'altezza non superava ordinariamente i sette od otto metri.

Le quattro facciate di quei vasti sepolcreti, che racchiudevano sovente un gran numero di mummie, erano piane, senza alcun ornamento né apertura, all'infuori d'una porta che s'apriva sempre verso l'oriente, ossia verso il punto dove s'alzava il sole, il grande astro che racchiudeva l'animo di Osiride. Anzi quei sepolcreti erano sempre orientati con grande esattezza, onde potessero avere le quattro facce della piramide sovrastante le vôlte verso ognuno dei quattro punti cardinali e l'asse trasversale nella direzione nord e sud.

Specialmente attorno alle colossali piramidi ove dormivano i re si costruivano le mastaba, più o meno vaste, secondo la fortuna dei defunti, regolarmente allineate e separate da viali come i quartieri delle grandi città dell'antico Egitto.

Gli scavi fatti eseguire dagli egittologi durante lo scorso secolo ne hanno messo allo scoperto un gran numero e dall'alto della piramide di Cheope se ne poterono indovinare molti altri, per la loro forma geometrica che ha dato alle sabbie delle forme molto pronunciate, ma quante se ne trovano ancora nascoste sotto l'antico suolo? Forse migliaia e migliaia di mummie dormono dimenticate ancora sotto le sabbie, che hanno ormai invaso tanta parte dell'Egitto e probabilmente nessuno riuscirà mai a metterle allo scoperto.

L'interno di quelle tombe era diviso in tre parti distinte: la cappella, il corridoio chiamato serdab e la cripta, ossia la vera tomba sotterranea destinata a contenere le mummie.

Di questi tre reparti, la sola cappella era accessibile ai viventi ed era la cameretta nella quale si raccoglievano i parenti in certi anniversari per recitarvi le preghiere dei morti e deporvi le offerte e le provviste destinate a sostenere l'anima del defunto nel grande viaggio all'altro mondo.

Era in certo qual modo la sala di ricevimento del così detto doppio, essere intermediario fra il corpo e l'anima, nella quale soggiornava fino a che la mummia non fosse completamente distrutta dal tempo.

In quella cappella vi erano due oggetti importantissimi: una tavola chiamata stele, fissata entro una nicchia col nome, le funzioni e qualità del defunto ed una sporgenza di granito la cui superficie, incavata a compartimenti ed a scanalature, serviva a ricevere gli alimenti destinati al trapassato.

Talvolta si ergevano anche, a destra ed a sinistra del sarcofago, due minuscoli obelischi con iscrizioni che riguardavano la biografia del morto.

Nefer era discesa, dopo una breve esitazione, nella cappella, quindi essendo la porta di bronzo della cripta aperta, vi era entrata con una certa rapidità, mostrando colla mano a Mirinri una trentina di sarcofaghi che stavano allineati lungo le pareti, alla distanza d'un metro e mezzo l'uno dall'altro.

«Là dentro che si trovano le mummie dei re nubiani?» aveva chiesto il giovane.

«Sì,» aveva risposto Nefer, «e dentro quei sarcofaghi tu troverai i tesori di cui ti ho parlato.»

«Ne sei ben sicura?»

«Il mio fidanzato che fu acciecato li vide.»

«In che cosa consistono?»

«In turchesi, in rubini, in perle ed in smeraldi. Tu, mio signore, puoi raccogliere qui delle somme favolose che ti basteranno a sufficienza per muovere la guerra a Pepi. Avanzate...»

Mirinri, seguito da Ounis, da Ata e dagli etiopi, si fece innanzi con un certo rispetto, guardando con viva curiosità le bare che, al pari di quelle egiziane, riproducevano delle teste nerissime cogli occhi scintillanti, che mandavano bagliori strani.

Il drappello s'avanzò nell'immenso sotterraneo, mentre invece la fanciulla indietreggiava lentamente verso il corridoio, ossia il serdab.

Ad un tratto un colpo sordo, che si ripercosse lungamente nel sotterraneo, fece arrestare Mirinri, Ata ed Ounis che erano già giunti a metà della mastaba.

Un triplice grido rimbombò nel sepolcreto degli antichi re nubiani.

«Nefer!»

Nessuna voce rispose. La porta di bronzo che separava la serdab dalla cripta era stata violentemente chiusa e la fanciulla era scomparsa.

«Siamo stati traditi!» aveva esclamato Ata, gettandosi dinanzi al giovane Faraone come se avesse voluto proteggerlo da qualche improvviso pericolo. «Lo sospettavo. Ah! Ounis, perché mi hai impedito di gettarla nel Nilo?»

«Nefer fuggita!» esclamò Mirinri, che non voleva ancora credere ad un simile tradimento. «No! È impossibile! Si sarà nascosta dietro ad una di quelle colonne!»

«La porta di bronzo è stata chiusa,» disse Ounis, con profonda angoscia, «e noi siamo prigionieri entro questo sepolcreto dove forse morremo di fame e di sete.»

«Nefer!» gridò Mirinri, respingendo impetuosamente Ata e slanciandosi verso la porta di bronzo, che percosse furiosamente coi pugni.

Anche questa volta nessuno rispose alla sua chiamata.

«Salviamo il Figlio del Sole!» urlò Ata. «A me, etiopi! Difendiamolo coi nostri petti!»

Gli erculei battellieri stavano per chiudere nel mezzo il giovane faraone, quando un grido di spavento ed insieme di stupore fuggì da tutte le bocche:

«I morti risuscitano!»

 

 

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

 

La principessa dell'isola delle ombre

 

Mirinri, Ata, Ounis ed i nubiani, in preda ad una emozione impossibile a descriversi, si erano precipitosamente rifugiati verso la scala che conduceva alla serdab, e che la porta di bronzo chiusa da Nefer non permetteva di salire fino al pianerottolo.

Uno spettacolo terrificante era avvenuto nell'immensa cripta; i coperchi dei sarcofaghi, che dovevano chiudere le mummie degli antichi re nubiani scricchiolavano ed a poco a poco si alzavano, come se i defunti stessero per risuscitare.

Erano le ombre dei morti che Nefer pretendeva di aver ricacciati nei loro sarcofaghi e che tornavano a uscire, quelle terribili ombre che spaventavano tutti i rivieraschi del fiume?

Tutti si erano addossati contro la porta, guardando cogli occhi sbarrati i coperchi che continuavano ad alzarsi, scricchiolando con un crescendo sinistro. Solo Mirinri era rimasto sul primo gradino, guardando intrepidamente le bare, come se volesse sfidare quelle terribili ombre. Certo l'anima del giovane Faraone non tremava, perché nemmeno un muscolo del suo volto aveva trasalito come non aveva trasalito alcuno di quelli di Ounis. Anche il vecchio sacerdote che lo aveva allevato conservava una calma superba e pareva più preoccupato ad osservare Mirinri che i sarcofaghi.

Ad un tratto, con immenso stupore degli etiopi e degli egiziani, si udirono uscire da quei secolari feretri dei suoni dolcissimi, che si fondevano insieme con un accordo ammirabile.

Erano note flebili di flauti, di quei sab che sono tutt'oggi così estremamente difficili a suonare, specialmente quelli di bronzo quantunque simili istrumenti fossero piuttosto rari in quelle lontanissime epoche; erano note di quei doppi flauti chiamati zargbocel, di banit ossia di arpe semicircolari e di nadjakhi ossia di specie di lire, che avevano da sei a quindici corde, molto in uso in quell'epoca.

Gli etiopi, sempre spaventati, essendo maggiormente superstiziosi degli egiziani, avevano dato indietro, non pensando più a difendere il Figlio del Sole.

Nemmeno Ata si era gettato più in difesa del giovane, il quale d'altronde non sembrava che avesse bisogno di chiedere soccorso a chicchessia.

D'improvviso tutti i coperchi dei sarcofaghi s'alzarono come d'un colpo solo ed una legione di fanciulle bellissime, coperte appena da leggeri veli e adorne di ricchissimi braccialetti, di collane e di anelli, sgusciò fuori, allineandosi lungo le pareti della cripta.

Erano tutte di bellezza meravigliosa, vestite colla suprema eleganza delle danzatrici e delle suonatrici di quell'epoca che dettavano la moda perfino alle figlie dei possenti Faraoni e profumate dai piedi ai capelli. Ognuna teneva in mano un istrumento musicale: flauti, arpe, sistri, crotali in bronzo, che battevano l'uno contro l'altro, triangoli, chitarre leggerissime col manico lunghissimo e cimbali di metallo chiamati kimkim che davano dei suoni penetranti i quali echeggiavano fortemente le vôlte dell'immenso sepolcreto.

«Chi siete voi?» aveva gridato Mirinri, balzando dall'ultimo gradino, coll'impeto d'un giovane leone. «Fanciulle od ombre di re nubiani? Il Figlio del Sole non trema dinanzi a voi.»

Uno scoppio di risa argentine fu la risposta.

Le fanciulle, senza smettere di suonare i loro istrumenti musicali, si radunavano lentamente verso l'estremità opposta della cripta, dove si scorgeva un superbo scalone di quella splendida e pregiata pietra calcarea tratta dalle montagne della catena libica.

Mirinri aveva fatto atto di slanciarsi attraverso la mastaba e di piombare sulle fanciulle, ma Ata e Ounis si erano affrettati a trattenerlo.

«No!» avevano gridato entrambi. «Non sogniamo noi! Sono ombre! Qui vi è qualche maleficio di Nefer.»

«Che io spezzerò!» aveva risposto il giovane eroe. «Io, senza avere la potenza di quella fanciulla, ricaccierò tutti costoro nei loro sarcofaghi, dove forse dormivano da secoli e secoli. Io non sono un mortale qualunque! Sono un Figlio del Sole!»

Con una brusca scossa si era liberato della stretta di Ata e di Ounis e stava per scagliarsi contro le fanciulle, che pareva lo guardassero malignamente, quando la porta che si scorgeva sulla cima del grande scalone si aprì di colpo, con immenso fragore e comparve una giovane donna tutta avvolta in veli trapunti d'oro, ed i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle seminude, accompagnata da quattro fanciulle che tenevano in mano delle lampade.

Mirinri si era subito arrestato mandando un grido: «Nefer!»

Era proprio la maliarda che si mostrava sull'ampio pianerottolo dello scalone, fra la luce delle lampade, più bella e più seducente che mai. I suoi occhi nerissimi, animati da una fiamma intensa, bruciante, si erano subito fissati sul giovane Faraone.

«Tu, Nefer!» aveva ripetuto Mirinri. «Tu, miserabile, che ci hai traditi? Vuoi la mia vita? Prendila dunque!»

Un'espressione d'intenso dolore aveva alterato il bel viso della fanciulla.

«Chi ti ha detto che io t'ho tradito, mio signore, io che sarei così lieta di dare tutto il mio sangue per te? Io ti ho salvato, mio dolce signore, dagli uomini che t'inseguivano e che se ti avessero raggiunto t'avrebbero condotto prigioniero a Menfi, spezzando per sempre il tuo bel sogno e distruggendo tutte le tue future speranze.»

«Tu mi hai salvato! Ma se io sono tuo prigioniero!»

«Che cosa te lo dimostra? Vuoi tornare nelle foreste dell'isola? Io farò aprire tutte le porte della mastaba e del tempio, ma dove andrai tu ora che i guerrieri di Pepi hanno distrutto la tua barca e che non hai nemmeno un'arma per difenderti? Lo vuoi, Figlio del Sole? Un solo tuo cenno e sarai libero insieme ai tuoi compagni.»

Il giovane Faraone era rimasto silenzioso, guardando con crescente stupore la fanciulla, che si teneva sempre ritta sul pianerottolo della vasta gradinata, tutta avvolta in una leggera veste azzurrina, aperta solo dinanzi al petto e colle braccia e le gambe adorne di meravigliosi gioielli, che la luce delle lampade facevano vivamente scintillare.

Anche Ata e Ounis non avevano aperto bocca. Pareva che la sorpresa li avesse resi muti.

«Infine che cosa vuoi da me?» chiese Mirinri, dopo un lungo silenzio.

«Che tu accetti, finché i tuoi nemici se ne saranno andati, l'ospitalità che ti offre la principessa dell'isola delle ombre. Vieni, mio signore: la tavola è pronta e tu ed i tuoi compagni dovete aver fame.»

«Sogno io?» esclamò Mirinri, volgendosi verso Ata ed Ounis.

«Non ci sembra, quantunque tuttociò abbia l'apparenza d'un vero sogno,» rispose Ata. «Quella fanciulla è un essere assolutamente straordinario e mi sembra più una divinità discesa dal sole per proteggerti, mio signore, che una creatura umana.»

«Dunque l'istoria del tesoro dei re nubiani era una favola, è vero Nefer?» disse Ounis.

«Taci, vecchio Ounis» rispose Nefer. «Sii contento di essere ancora vivo e di rivedere al tuo fianco quel Figlio del Sole a cui dedicasti la vita.»

«Tu devi spiegarci tante cose.»

«Te le spiegherò più tardi, se lo vorrai. Pensiamo per ora a divertirci.»

Scese la gradinata, sempre seguita dalle quattro fanciulle, prese per mano Mirinri, senza che questi avesse opposto la minima resistenza e risalì verso la porta entrando in un immenso salone la cui vôlta era sorretta da due dozzine di splendide colonne istoriate e dipinte.

Da una larga apertura rettangolare, che s'apriva in alto, scendeva, essendo il sole già alto, una luce vivissima, la quale si rifletteva intensamente sul pavimento marmoreo, che era lucidissimo.

Fra i due ordini di colonne vi erano una trentina di piccole tavole, alte appena pochi palmi dal suolo; dietro a ciascuna, delle pelli di animali che dovevano servire come sedili o meglio come tappeti e dinanzi delle grandi anfore di terracotta verniciata, col collo lunghissimo, che reggevano degli enormi mazzi di fiori di loto bianchi, rossi ed azzurri i quali spandevano dei deliziosi profumi.

Nefer condusse Mirinri presso una di quelle tavole e lo fece sedere su una magnifica pelle di leone, mettendoglisi accanto.

Ounis, Ata e gli etiopi si erano accomodati intorno alle altre, due per due, mentre le suonatrici si coricavano intorno alle colonne, facendo vibrare i loro istrumenti musicali, in modo da non impedire che i convitati potessero parlare ed intendersi.

«Tu sei una dea, Nefer!» aveva esclamato Mirinri, che fiutava avidamente i profumi deliziosi di cui era impregnata la leggera veste della fanciulla. «È impossibile che tu sia una mortale.»

«Perché, mio signore?» chiese la fanciulla, sorridendogli e guardandolo cogli occhi languidi.

«Tu hai compiuto delle cose così meravigliose e hai cambiato tante volte il tuo essere, che io non riesco più a capirci nulla. Prima una povera maliarda, poi una Faraona ed ora?»

«La principessa dell'isola delle ombre.»

«E domani forse regina dell'Egitto.»

«Lo vorrei ben essere, mio dolce signore, per dividere il potere supremo con te. Disgraziatamente questo sogno,» aggiunse la fanciulla con un amaro sorriso, «non si avvererà mai.»

«Perché Nefer? Chi può dirlo?»

«Perché tu, mio signore, ami un'altra e la fiamma non si spegnerà mai.»

«Perché vuoi turbare il mio spirito, Nefer? In questo momento io non pensavo alla Faraona e non vedevo dinanzi ai miei occhi che te.»

«Hai ragione, mio dolce signore,» rispose la fanciulla.

Intanto una dozzina di giovanette, che avevano una larga cintura di stoffa trapunta in oro stretta ai fianchi e che portavano in testa dei pezzi di stoffa pieghettati, cadenti in linea retta lungo gli orecchi, l'acconciatura ordinaria delle sfingi, irruppero nella sala, recando corone di fiori e anfore d'oro squisitamente cesellate e tazze d'egual metallo e d'argento.

Una di esse, che aveva delle splendide forme scultoree, s'avvicinò al tavolino dinanzi a cui stavano seduti Mirinri e Nefer e posò due corone di fiori sul capo e sul collo di entrambi, come voleva l'uso, poi presa ad una compagna un'anfora, riempì due tazze d'un vino color del rubino e profumato.

«Bevi la luce dei miei occhi,» disse Nefer, porgendo una tazza a Mirinri. «Io berrò la potenza che emana dal tuo corpo, o Figlio del Sole.»

Il giovane ebbe una breve esitazione, poi la vuotò, subito imitato dalla fanciulla.

Anche Ata e Ounis avevano avuto corone e vino e nemmeno gli etiopi erano stati dimenticati.

Frattanto la musica riempiva l'aria con delle vibrazioni strane che parevano invitare ad un dolce riposo, mescolandosi al profumo acuto ed inebbriante dei fiori, che le belle fanciulle di quando in quando rinnovavano. La lira, l'arpa, la cetra, il tamburello, il flauto doppio e semplice univano i loro dotti accordi.

In tutti i banchetti degli antichi egiziani la musica aveva una parte importante, come l'aveva pure nelle cerimonie religiose. Pare che in quella lontana epoca avesse già raggiunto, nell'immensa vallata del Nilo, un altissimo grado di perfezione. Essa faceva parte di ogni buona educazione, come nei nostri tempi e non era raro vedere nei templi le figlie dei Faraoni suonare il sistro, l'istrumento sacro delle cerimonie religiose o l'arpa. Vi erano delle vere corporazioni di musiciste che allietavano, specialmente dietro certi compensi, le feste, i banchetti e le serate, insieme alle danzatrici, le quali, secondo il costume dell'epoca, si mostravano anche in pubblico.

Le giovani nubiane per divertire i convitati, i quali non perdevano il loro tempo a vuotare anfore colme di vino e di birra, dopo d'aver rinnovati i fiori, avevano cominciato ad intrecciare danze, che consistevano per lo più in corse sfrenate attorno alle colonne ed in piroette vertiginose. Pareva che talvolta volessero precipitarsi contro le piccole tavole occupate dai convitati; poi, sul punto di rovesciarle, s'arrestavano bruscamente alzando le mani ed indietreggiando con dei larghi movimenti.

Se gli etiopi si divertivano, Mirinri e Nefer non sembrava che si occupassero né delle suonatrici, né delle danzatrici e forse nemmeno Ata ed Ounis, i quali discutevano animatamente fra di loro.

«Nefer,» aveva detto Mirinri, dopo che le danzatrici avevano cominciate le loro danze. «Chi sono costoro?»

«Lo vedi, Figlio del Sole,» aveva risposto la fanciulla. «Delle giovani donne che sono discese dall'alto corso del fiume.»

«Sai perché ti ho fatto questa domanda?»

«No davvero, mio signore.»

«Perché Ounis mi aveva narrato, molto tempo fa, che si trova sul Nilo un'isola abitata esclusivamente da donne. Sarebbe questa?»

«Non lo so,» rispose Nefer. Mirinri la guardò con stupore.

«Non lo sai?»

«No.»

«Mi aveva detto anzi che vi era una regina che comandava a quelle fanciulle.»

«Può darsi.»

«Non saresti tu quella?»

«Non credo.»

«Eppure finora io non ho veduto nessun uomo qui.»

«Non è necessario.»

«Quale donna sei tu?» gridò Mirinri.

«Che ne so io?»

«Non lo sai?»

«No, Figlio del Sole,» disse Nefer, che era diventata pensierosa. «Vi è nella mia vita un mistero che tu cerchi di svelare; ma perderesti inutilmente il tuo tempo, perché io stessa non potrei sollevare il denso velo che l'avvolge. Mio signore, bevi: la vita è breve e la morte può piombare su di noi da un istante all'altro e farci attraversare il fiume infernale che divide i campi divini di Aanron. Bevi. L'ebbrezza è la vita.»

«E questa vita potrebbe spegnersi? Parla, Nefer! Io comincio ad aver paura di te.»

«Perché spegnersi?» chiese la fanciulla. «Se qualcuno ti minacciasse, saprei difenderti, come la leonessa difende la sua prole contro la ferocia del maschio affamato e molto meglio della Faraona che tu ami e che forse, sapendo chi tu sei, t'ucciderebbe.»

«Chi sei tu, dunque? Sono già parecchie volte che io te l'ho chiesto, Nefer.»

«Io l'ho domandato ad Amnone ed è rimasto muto; l'ho domandato a Tanen e non mi ha risposto; l'ho chiesto a Mâ, che rappresenta la verità e nulla mi disse; Râ, Horus, Ament, Hathor, Anoucke, Iside, Neith sono rimasti egualmente muti. Sono una Faraona ed una maliarda insieme; ho sangue divino nelle vene, al pari di te, perché porto il tatuaggio dei discendenti del Sole e sono nel medesimo tempo una povera fanciulla, una danzatrice, una suonatrice di sistro e una indovina. Sono io il destino od un essere divino? Io non lo so, mio signore. Oggi sono la principessa delle ombre: domani che cosa sarò? Nella mia vita ho un solo desiderio, e questo non posso confessartelo, quantunque mi bruci il cuore. E poi» riprese la fanciulla, dopo un momento di silenzio, con voce triste, «è una follìa che mi sarà fatale. No, Nefer non vedrà il suo dolce signore far tremare i nemici del grande Egitto, come l'invincibile suo padre.»

«Che cosa dici?» chiese Mirinri.

La fanciulla parve raccogliersi un istante, poi disse con voce ancora più triste:

«Ieri sera mentre attraversavo la foresta, immersa nei miei pensieri, ho avuto una visione.»

«Quale?»

«Ho veduto una immensa sala piena di gente: vi erano sacerdoti, guerrieri, alti dignitari ed un re, uno dei nostri Faraoni. Egli non era più sul trono dorato: giaceva sulle fredde pietre della superba sala, come tramortito, mentre un vecchio lo copriva d'invettive, minacciandolo col pugno ed una fanciulla, bella come un raggio di sole, lo supplicava inginocchiata ai suoi piedi. Sul trono dorato vi era un giovane, bello, forte, fiero che rassomigliava stranamente a te.»

«A me!» esclamò Mirinri, scattando.

«Sì.»

«Continua.»

«Egli guardava intensamente quella fanciulla supplicante, senza degnare d'uno sguardo un'altra, che fissava invece intensamente lui e che piangeva.»

«Chi erano?»

«Non lo so,» disse Nefer.

«E quel giovane?»

«Non so chi fosse.»

«Io, forse?...»

«Non lo so,» ripetè Nefer.

«Mi hai detto che somigliava a me. Tu sei indovina e puoi prevedere delle cose che io non potrei nemmeno lontanamente concepire.»

«Lasciami finire.»

«Continua, Nefer,» disse Mirinri che era in preda ad una viva eccitazione. «Che cosa è successo di quella fanciulla che si era inginocchiata dinanzi a quel vecchio?»

«Non l'ho più veduta.»

«Chi era quel vecchio?»

«Un re di certo, perché portava sulla testa il simbolo del diritto di vita e di morte.»

«E quel giovane che era sul trono?»

«Anche lui l'aveva.»

«E poi che cosa hai veduto?»

«Una fanciulla, stesa sul pavimento dell'immensa sala, che spirava, mentre le vôlte rintronavano d'un immenso grido: viva il re dell'Egitto!»

«Morta!» esclamò Mirinri, impallidendo.

«Mi parve che fosse agonizzante.»

«Forse la giovane Faraona?»

Nefer guardò Mirinri intensamente, poi come parlando fra sé, disse: «Pensa sempre a lei.»

«Aveva gli occhi neri?» chiese il Figlio del Sole, senza badare a quelle parole.

«Non lo ricordo.»

«I capelli nerissimi?»

«Le visioni si dimenticano facilmente.»

«Parla, Nefer!» gridò Mirinri con angoscia.

«Mi parve che avesse gli occhi sfolgoranti d'una luce bruciante.»

«Come i tuoi?»

«I miei? Non bruciano il cuore d'un Figlio del Sole,» rispose la fanciulla con un mesto sorriso. «Bevi, mio signore. Tu sei mio ospite oggi e il vino della calda Libia mette il fuoco nelle vene e dà l'obblìo.»

«Parla ancora!»

«Guarda: portano le vivande, mio signore e tu non hai mangiato da dodici ore. Divertiamoci e non pensiamo all'avvenire. Chi crede d'altronde ai sogni ed alle visioni? Io no e nemmeno tu che sei un Figlio del Sole.»

Le nubiane avevano interrotte le danze e una dozzina d'altre fanciulle coperte da leggerissime vesti rigate in azzurro, bianco e rosso e che avevano sul capo delle corone di fiori erano comparse, portando dei tondi d'argento colmi di manicaretti che esalavano un profumo appetitoso, mentre dall'alto, dallo squarcio aperto nel tetto, cadevano in tutte le direzioni mazzolini di fiori di loto.

Gli Egiziani nei loro banchetti amavano sfoggiare un lusso veramente straordinario e non lesinavano le portate. Non avevano certo raggiunto i Cinesi, i quali non si spaventavano dinanzi a quaranta o cinquanta piatti svariati, tuttavia abbondavano anche essi, servendo ai commensali un numero rispettabile di pasticci di carne, di uccelli acquatici cucinati in molte salse, di pesci, di legumi squisiti e di frutta, specialmente uva, datteri, fichi e semi di loto.

Al pari dei moderni orientali, non facevano uso né di coltelli né di forchette e mangiavano a due a due e anche in più al medesimo piatto, adoperando le dita, che poi pulivano con apposite salviette che loro offrivano gli schiavi o le schiave. Usavano però per le minestre dei cucchiai bellissimi, per lo più d'oro e d'argento, coi manichi squisitamente lavorati, che rappresentavano delle persone in atto di reggere faticosamente le estremità e delle teste di donna o dei gruppi di fanciulle in atto di lottare fra di loro.

Ma era sopratutto nel bere che eccedevano. Nei loro simposii, la birra ed il vino scorrevano a torrenti, talvolta troppo copiosi, poiché le pitture scoperte sui loro monumenti ci mostrano uomini e donne in preda a disturbi causati da eccessi di gola o condotti a casa in pieno stato di ubbriachezza su dei palanchini.

Una cosa però che ha colpito profondamente gli egittologi si è che nemmeno in mezzo alle loro orgie più sfrenate, i sudditi dei grandi Faraoni dimenticavano l'idea della morte, che pare fosse l'eterna preoccupazione di quegli antichissimi abitanti della fertilissima vallata del Nilo. Infatti in tutte le loro riunioni non mancavano quasi mai, nel colmo dell'allegria, di far comparire un piccolo feretro con una figura di legno così ben dipinta da rappresentare perfettamente un cadavere, che si mostrava a tutti i convitati più o meno ubriachi, dicendo loro: «Getta gli occhi su quest'uomo: tu gli rassomiglierai dopo la morte; bevi dunque ora e divertiti più che puoi!».

Se un anfitrione si permettesse ai nostri giorni un simile scherzo, non so quale pessimo quarto d'ora passerebbe e se le mani dei suoi ospiti rimarrebbero ferme; gli Egiziani invece non vi facevano alcun caso e quel piccolo feretro non guastava affatto il loro appetito, perché per loro la morte non aveva nulla né di terribile, né di ripugnante. Essa li spaventava anzi tanto poco, che si compiacevano di conservare talvolta in casa le mummie dei loro parenti per parecchi mesi, prima di farle trasportare definitivamente nella mastaba della famiglia e non era anche raro il caso che si riservasse a qualche mummia il posto d'onore nei banchetti, senza che la presenza di quel lugubre convitato, dalle pupille fisse e dal volto artefatto e accuratamente dipinto, che nascondeva la faccia sinistra del cadavere, raffreddasse la gaiezza dei suoi vicini viventi o li trattenesse dall'ubbriacarsi.

Il banchetto che Nefer aveva offerto ai suoi ospiti era degno d'una grande principessa faraonica. Le portate si seguivano alle portate, su piatti di metalli preziosi, ed i cibi ed i vini erano squisitissimi, tanto anzi che a metà pranzo quasi tutti gli etiopi, che non si erano probabilmente mai trovati in mezzo a tanta abbondanza, erano più o meno ebbri.

Anche Ata e Ounis, che mangiavano al medesimo tavolino, situato presso quello occupato da Mirinri e da Nefer, sembravano eccitati e parlavano e ridevano fortemente. Certo anche l'acuto profumo che esalavano i fiori, che venivano gettati continuamente dall'alto, formando fra le piccole tavole dei veri cumuli, doveva contribuire a provocare quell'ebbrezza, che pareva avesse colto tutti e alla quale non sfuggiva nemmeno il giovane Figlio del Sole. Nefer d'altronde non si arrestava dal versargli continuamente il dolce e delizioso vino delle montagne libiche.

«Bevi, mio signore,» gli diceva, quando vedeva la coppa vuota, affascinandolo colla potenza dei suoi occhi meravigliosi, dal lampo ardente e vivido. «L'ebbrezza è dolce e fa sognare e anche dimenticare.»

«Sì, bevo, Nefer,» rispondeva Mirinri che era ormai in preda ad una viva gaiezza. «Bevo la luce dei tuoi occhi.»

Pareva che avesse dimenticata la Faraona e che non vedesse ormai più che Nefer dinanzi a sé.

La musica intanto continuava e le danzatrici non avevano cessato di piroettare agilmente, facendo volteggiare con arte maestra le loro leggere vesti e le larghe sciarpe che si erano tolte dalle ànche. Scoppi di risa si confondevano coi dolci fremiti delle leggere mandole, ai tintinnii dei sistri, ai suoni dei pifferi doppi e semplici.

Nefer guardava sempre fisso negli occhi Mirinri, come il serpente affascina l'uccello, senza che il giovane fosse capace di sottrarsi a quel lampo ardente.

«Mi sembra che tu mi bruci il cuore, Nefer,» disse ad un tratto Mirinri. «Non guardarmi più così, vi è un fuoco strano nei tuoi sguardi che mi sembra voglia consumare qualche cosa che mi sta impresso qui dentro.»

«Una visione?»

«Sì, l'eterna visione.»

«La giovane Faraona?»

«Chi sei tu che indovini tutto?»

«Ti ho già detto che io sono una maliarda.»

«Ah! È vero, me n'ero dimenticato.»

«Perché non vuoi che io ti guardi?»

«Non lo so...»

«Temi che il fuoco dei miei occhi arda e distrugga l'immagine di quella fanciulla?»

Mirinri, invece di rispondere, prese la coppa che Nefer aveva in quel momento riempita e la vuotò d'un fiato, poi la tenne sospesa guardandovi dentro.

«Che cosa cerchi?» chiese Nefer. «Temi che io abbia mescolato al vino qualche filtro?»

«No: mi pareva d'aver veduto nel fondo di questa tazza due occhi che non somigliavano ai tuoi e che mi fissavano.»

«Coprili con dell'altro vino e non li vedrai più,» rispose Nefer tornando a riempirgliela con un moto rapido. «Ecco: sono scomparsi.»

 

 

CAPITOLO DICIOTTESIMO

 

Il colpo di daga di Nefer

 

Mirinri seguì il consiglio della maliarda e vuotò nuovamente la tazza, senza più occuparsi se vi scorgeva in fondo i due occhi della giovane Faraona che gli avevano acceso nel cuore quella fiamma che non accennava a spegnersi. Vinto dall'ebbrezza, si era lasciato cadere sulla splendida pelle di leone, reggendosi con una mano la testa diventata ormai troppo pesante e Nefer gli si era messa presso, agitando dinanzi al suo viso un ventaglio di penne di struzzo, che una schiava le aveva portato.

Anche Ounis e Ata si erano lasciati cadere sulle pelli che servivano loro di tappeto e gli etiopi, già quasi tutti ebbri, li avevano imitati ed ascoltavano sbadigliando le istorie che loro narravano le danzatrici le quali si erano sedute alle loro tavole.

«Mio signore,» disse Nefer, con un perfido sorriso. «Non ti sembra che la vita sia bella così?»

«Sì, più bella di quella del deserto,» rispose Mirinri, che si sentiva sempre più affascinato dallo sguardo bruciante della fanciulla. «Qui ho provato una felicità che laggiù, fra le sabbie, non avevo nemmeno lontanamente sognata. Sei una fata tu, fanciulla, tu sei una dea. Ora non ne ho più alcun dubbio.»

«Se tutti i giorni si seguissero così, ti piacerebbe una tale esistenza?»

«Sì, ma tu dimentichi che io ho un trono da conquistare.»

«Un trono! Me lo hai detto e non hai mai pensato che laggiù, nell'orgogliosa Menfi, terribili pericoli potrebbero aspettarti?»

«Che cosa importa? Mirinri saprà sfidarli da giovane forte: non sono forse un Figlio del Sole?»

«È il potere che tu vuoi.»

«Sì, Nefer.»

«Forse che qui ti mancherebbe? Vuoi essere re dell'isola delle ombre? Questa sera il simbolo del diritto di vita e di morte brillerà sulla tua fronte e noi tutti ti adoreremo come un dio. Che cosa ti manca qui? Il fasto della corte dei Faraoni non è superiore a quello che io ti posso offrire. Il sacro fiume bagna questo piccolo regno, le sue acque non sono diverse da quelle che lambiscono le mura dell'orgogliosa Menfi. Tutto ciò che tu desidererai l'avrai: feste, banchetti, danze, suoni e fanciulle per servirti. L'isola delle ombre vale Menfi e non sentirai qui il peso del potere.»

Mirinri scosse il capo. «Laggiù,» disse poi, «non vi è solo un trono da conquistare.»

Nefer si era rizzata a metà, facendo un gesto d'ira che subito represse.

«Il trono e la Faraona,» sospirò poi. «Sempre quella! Sempre quella!»

Afferrò un'anfora d'oro che una nubiana aveva allora posata sul tavolo ed empì la tazza di Mirinri, poi, porgendogliela, disse:

«Bevi ancora, questo vino è stato spremuto sulle rive del mar Rosso e nemmeno a Menfi lo si beve. Ti metterà il fuoco nelle vene e poi t'addormenterà dolcemente.»

Mirinri, che stava per socchiudere gli occhi, ebbe un vago sorriso.

«Vi è qualche filtro nella mia tazza?» chiese.

«Perché dici questo?»

«Perché mi sembra che una grande nebbia si stenda dinanzi ai miei occhi e che me la nasconda.»

«Chi?»

Mirinri non rispose: i suoi occhi, offuscati dal vino bevuto, guardavano la tazza.

«Bevi,» insistette Nefer. «È dolce come il miele e tu non ne berrai nemmeno quando la tua anima immortale navigherà nella vôlta celeste dove splende la dea Nut(). Ma io non voglio che tu creda che Nefer abbia diluito in questo vino un filtro. Guardami.

Posò le sue labbra rosse sull'orlo della coppa d'oro, sogguardando obliquamente colle sue pupille di velluto, imperiose e dolci nel medesimo tempo, il giovane Figlio del Sole e bevette un sorso.

«A te, ora. Bevi come hai bevuto la luce dei miei occhi.»

Mirinri afferrò colla mano tentennante la tazza e sorseggiò il vino squisito, maturato dall'ardente sole dell'Arabia.

«Sì bevo, bella fanciulla,» disse sorridendo.

«Bella!» esclamò Nefer.

«Sì, bella,» ripetè Mirinri.

«Non come la Faraona però.»

«Che importa? Sei bella e basta.»

«Ecco una parola che io pagherei colla mia vita, Figlio del Sole.»

Mirinri si abbandonò sulla pelle di leone, mentre lo sguardo di Nefer, rovente come un ferro scaldato a bianco, lo fissava sempre più intensamente. «Io sono bella, tu hai detto,» disse. «E quanto sei bello tu, figlio d'un gran re!»

Pareva che Mirinri non l'avesse nemmeno udita. Sorrideva con quel riso che è proprio degli ebbri mentre s'abbandonava sempre più.

«Dormi,» disse la maliarda che lo spiava. «Io ti narrerò intanto qualche istoria onde il tuo sonno giunga più dolce. Guarda: anche le mie fanciulle addormentano i tuoi compagni ed i tuoi etiopi. Nel deserto ove hai vissuto per così lunghi anni non hai mai udito a narrare la bella istoria della vaga principessa dalle belle gote di rosa?»

Mirinri fece col capo un cenno negativo.

«Era una Faraona anche quella, una Faraona come quella che tu salvasti, al par di me, dalle terribili mandibole d'un coccodrillo.»

«Ah!» fece Mirinri, sbadigliando.

«Ti annoi, mio signore?»

«Vicino a te è impossibile. Dammi ancora da bere, Nefer, dammi di quel vino che il sole dell'Arabia ha maturato.»

«Sì, mio signore.»

La fanciulla riempì la coppa, vi bagnò come prima le belle labbra, poi la porse a Mirinri che la prese sorridendo.

«Continua, bella fanciulla,» disse.

«Ancora bella?»

«Tu vali la Faraona: quanta luce scorgo nei tuoi occhi! Come sono neri i tuoi capelli... quale profumo esala il tuo corpo divino... non sei un essere mortale tu... sei una divinità... continua... ti ascolto, bella Nefer... Mi parlavi della principessa dalle gote di rosa... chi era costei?»

«Una Faraona,» disse Nefer.

«Ah! Me lo avevi detto,» rispose Mirinri che chiudeva involontariamente gli occhi. «Continua.»

«Era la più bella e la più seducente Faraona che il sole dell'Egitto avesse mai illuminato e non avendo trovato un giovane che le facesse battere forte il cuore, aveva sposato il proprio fratello()

«Ah!» fece per la seconda volta Mirinri, sollevandosi leggermente. «E poi?»

«Il suo sposo non ebbe fortuna e fu assassinato.»

«Da chi?»

«Da un altro fratello.»

«Come mio padre, allora,» disse Mirinri, scattando, mentre un lampo terribile gli avvampava negli occhi.

«Taci ed ascoltami. La bella principessa dalle gote di rosa fece edificare una immensa sala sotterranea e poscia, sotto il pretesto d'inaugurarla, ma in realtà con ben altra intenzione, essa invitò ad un gran banchetto ed accolse nella sala tutti coloro che avevano preso parte all'assassinio di suo marito e fratello. Durante la festa, la bella principessa fece entrare le acque del Nilo mediante un canale che aveva tenuto occulto a tutti e li affogò.»

«E lei?»

«Si gettò in una sala piena di cenere, per evitare la punizione e là dentro vi lasciò la vita.»

«Sei lugubre, Nefer,» disse Mirinri. «Io però avrei fatto altrettanto, e non mi sarei ucciso così scioccamente.»

«Vuoi che ti racconti d'altro?»

«Sì, finché dormirò. La tua voce sembra una musica, è il tremolìo della chitarra, unito alle note dolcissime del flauto e dell'arpa. Mi sembra che mi culli: parla, parla, bella Nefer.»

«Bella! È la terza volta che tu me lo dici. Te lo rammenterai domani?»

Mirinri fece un gesto vago e non rispose.

«Il principe Sotni aveva veduto un giorno passare per le vie di Menfi la bella Tbouboi, figlia d'un gran sacerdote e si era acceso d'amore per lei.»

«Il sacerdote?» chiese Mirinri.

«No, Sotni, un Faraone.»

«Prosegui.»

«Forte del suo potere, un giorno il principe, approfittando dell'assenza del sacerdote, andò a trovare la fanciulla...»

Nefer si era interrotta. Mirinri non l'ascoltava più. Dormiva profondamente con una mano sotto la testa e la bocca sorridente.

La Faraona si era alzata. Anche Ata, Ounis e gli etiopi, coricati sulle pelli, dormivano.

Essa fece alle danzatrici e alle suonatrici un gesto imperioso, indicando loro la porta di bronzo della mastaba, poi, quando le vide scomparire nell'immenso sotterraneo, si curvò rapidamente sul Figlio del Sole e posò le sue labbra sulla fronte di lui. A quel contatto un forte fremito la fece sussultare.

«Non è l'impressione che io avevo sognata,» disse, facendo un improvviso passo indietro. «Il mio cuore non ha palpitato: è rimasto muto. Perché? Eppure io l'amo questo forte e gagliardo figlio di un gran re! Si direbbe che è il bacio che una madre dà al suo fanciullo, o quello d'una sorella ad un fratello.»

Lo strepito d'una porta che si apriva la fece balzare rapidamente in piedi.

All'estremità della vasta sala, fra le due ultime colonne, era comparso un uomo: il vecchio sacerdote.

«Dormono?» chiese.

«Tutti,» rispose Nefer, guardandolo cupamente.

«L'hai vinto?»

«Non lo so ancora.»

«Non l'hai affascinato?»

«Che ne so io?»

«Così vuole Pepi.»

«Il re dell'Egitto potrà uccidere i suoi sudditi, se così gli piace, ma giammai avrà la potenza di comandare ai cuori,» rispose Nefer con voce aspra.

«Non ti ama dunque?»

«No!...»

«Pensa sempre all'altra?»

«Sempre.»

«Forse tu non l'hai affascinato come io speravo.»

«Non mi amerà mai.»

«Dov'è?»

«Dorme qui, presso di me.»

«Hai il braccio fermo tu, Nefer?»

«Perché mi fai questa domanda?» chiese la fanciulla impallidendo.

«Te lo dirò poi. Lascia prima che veda lui e anche il vecchio. La mastaba è pronta ad accoglierli entrambi ed io conosco il processo dell'imbalsamazione.»

«Che cosa vuoi fare, Her-hor?» gridò Nefer, atterrita. «Chi è che vuoi imbalsamare?»

«Taci,» disse il sacerdote, con voce imperiosa. «Fammeli vedere tutti e due.»

«Mirinri?...»

«E quello che si fa chiamare Ounis,» disse Her-Hor, mentre un lampo saturo d'odio intenso gli balenava nelle pupille. «M'interessa più il vecchio che il giovane.»

«Ounis!» esclamò la fanciulla, con stupore.

«Sì, chiamiamolo pur così,» rispose Her-Hor, con un sogghigno. «Il giovane prima: voglio vedere se somiglia a suo padre.» Spinse bruscamente da una parte Nefer, che pareva si preparasse a contrastargli il passo e si avvicinò a Mirinri che dormiva profondamente, coi pugni stretti, bellissimo anche nel sonno.

«Sì,» disse il sacerdote, guardandolo attentamente. «Somiglia a Teti: gli stessi lineamenti, lo stesso mento acuto, la medesima fronte ampia d'uomo fermo nei suoi voleri ed intelligente. Peccato! Se un giorno questo giovane salisse sul trono dei Faraoni sarebbe un gran re, come lo fu suo padre e nessun nemico d'oltre l'istmo oserebbe minacciare la grandezza dell'Egitto. In questo giovane corpo vi è l'intelligenza, la forza del leone, il coraggio indomito dei guerrieri da cui discende e sangue ardente. E fra poco anche tu, che eri destinato a regnare su milioni di sudditi, non sarai che una mummia!»

«Ah no, Her-Hor!» aveva gridato Nefer, con angoscia.

Il sacerdote si era voltato verso la fanciulla col viso alterato da una collera tremenda:

«Che cosa vuoi tu?» chiese. «Sei stata capace di affascinarlo? No, non vi sei riuscita: dunque questo giovane, non più arrestato dalla tua bellezza, non più incatenato dalle tue braccia riprenderà il suo cammino verso il trono che gli spetta. Che cosa avverrà allora? Il giovane leone chiamerà a raccolta i vecchi amici di suo padre, che sono ancora numerosi, quantunque Pepi ne abbia fatti uccidere molti, affinché non gli turbassero i suoi sonni, e la calma che oggi regna sull'Egitto verrà turbata da chissà quale spaventevole guerra. Morto Mirinri ed il vecchio, Pepi non avrà più da tremare.»

«E vuoi uccidere il Figlio del Sole! Tu, un sacerdote! È un Faraone!»

«Sarà una mano Faraona che lo ucciderà,» disse Her-Hor freddamente.

«Chi? Quale?»

«Taci ora. Dov'è il vecchio?»

«Voltati, sta dietro di te.»

Il sacerdote girò lentamente su se stesso e fermò il suo sguardo su Ounis, il quale dormiva accanto ad Ata, sulla pelle di iena striata.

«Lui!» esclamò, mentre il suo viso si alterava ed i suoi denti scricchiolavano.

Un sordo ruggito gli era uscito dalle labbra, mentre una vampa gli saliva sul viso, come se tutto il suo sangue gli fosse affluito al cervello.

«Lo hai già veduto prima d'ora?» chiese Nefer.

Il sacerdote non rispose. Fissava Ounis con due occhi che avevano un lampo sinistro.

«Anche tu fra poco non sarai che una miserabile mummia,» disse poi, dopo un lungo silenzio, «e la tua passata grandezza finirà nella mastaba ignorata di questo tempio. Her-Hor sarà vendicato.»

Si aprì la lunga veste di candido lino che lo copriva ed estrasse una daga di bronzo, affilatissima.

«Che cosa fai, Her-Hor?» chiese Nefer, balzandogli dinanzi.

«Uccidili: tu sei una Faraona come Mirinri. Un buon colpo e tutto sarà finito e tu domani rivedrai gli splendori della corte di Menfi e riprenderai il posto che per diritto di nascita ti spetta.»

«Io!»

«È Pepi Mirinri che lo vuole, il re dell'Egitto, quello che ha il diritto di vita e di morte su tutti i suoi sudditi.»

«Io uccidere Mirinri!» ripetè la fanciulla arretrando.

«E domani la corte di Menfi ti saluterà principessa divina.»

«Dammi la daga.»

«A te, colpisci diritto nel cuore.»

La fanciulla prese l'arma, la guardò per un istante con gioia selvaggia, poi, con una mossa fulminea, la immerse fino all'impugnatura nel petto del sacerdote, gridando:

«Muori tu, infame!»

Her-Hor aveva aperto la bocca come per gridare, poi era caduto pesantemente al suolo, senza mandare nemmeno un gemito.

«Mirinri! Ounis! Ata! Etiopi, in piedi!» aveva gridato Nefer, slanciandosi verso il giovane. «Fuggite!

Ata, che forse aveva bevuto meno degli altri, fu il primo a rizzarsi. Vedendo Nefer curva su Mirinri e quel vecchio disteso sulle lucide pietre del pavimento, colla bianca veste macchiata di sangue, si era gettato addosso agli etiopi, percuotendoli furiosamente con un tavolino e urlando:

«Su, miserabili! Salvate il Figlio del Sole!»

I barcaiuoli, quantunque fossero ancora ebbri, sotto quei colpi, che grandinavano senza misericordia sui loro corpi, erano balzati in piedi ruggendo come leoni feriti.

A quelle grida, a quello strepito che si ripercuoteva fra i colonnati e le vôlte dell'immensa sala, come il fragore d'una tempesta, anche Mirinri ed Ounis, strappati bruscamente al loro sonno, si erano levati.

Vedendo presso di sé Nefer, il giovane Figlio del Sole l'aveva afferrata strettamente per una mano, chiedendole con voce rotta:

«Cos'hai?... che cosa significa questo fracasso?... Nefer... un tradimento... i nemici forse?»

«Fuggi, mio signore!» rispose la fanciulla, che pareva in preda ad una viva esaltazione.

«I nemici? Un'arma, Nefer... un'arma!»

«Eccola... prendila!»

La fanciulla si era rapidamente curvata sul vecchio sacerdote che rantolava presso il tavolino e con un coraggio, che ben poche donne avrebbero avuto, aveva estratta dal petto del miserabile la daga, porgendola a Mirinri, gocciolante di sangue.

«A te, mio signore! Prendi!» gli disse.

«Del sangue!» gridò il Figlio del Sole. «Chi ha ucciso quell'uomo?»

«Io!»

«Tu!»

«I traditori si uccidono.»

«Che cosa è successo qui?»

«Taci, fuggi, mio signore! Ah! l'ureo

Si era nuovamente curvata sul vecchio afferrandogli il braccio destro adorno di numerosi braccialetti d'oro e gliene strappò uno, che aveva la forma d'una vipera colla testa d'avoltoio.

«Seguitemi tutti,» gridò. «Proteggete il Figlio del Sole!»

Gli etiopi, in mancanza d'armi, si erano muniti di tavoli e di anfore d'oro e d'argento, colle quali contavano di accoppare i nemici, se si fossero presentati e avessero tentato d'impadronirsi del futuro re dell'Egitto.

Nefer aveva preso Mirinri per una mano e lo trascinava con sé. Aprì impetuosamente la porta di bronzo, dalla quale era entrato poco prima Her-Hor, attraversò quasi correndo la mastaba, che in quel momento era deserta, spinse una porticina pure di bronzo che non era chiusa e si trovò dietro al tempio, in mezzo alle splendide palme dum che coprivano tutto l'isolotto delle ombre.

«Seguitemi tutti!» aveva nuovamente gridato, con voce imperiosa. «A Menfi! A Menfi! L'incanto è rotto e Nefer non è più la schiava di Her-Hor!»

Nessuno era rimasto indietro; Mirinri, Ounis, Ata e gli etiopi, l'avevano seguita macchinalmente, senza capire veramente di che cosa si trattasse, avendo ancora il cervello troppo offuscato dalle abbondanti libazioni. Avevano solamente compreso vagamente che un pericolo li minacciava e siccome tutti, forse meno il sospettoso Ata, avevano una completa fiducia nella fanciulla, l'avevano seguita, senza nemmeno chiedersi se erano i guerrieri che montavano le quattro barche che cercavano d'impadronirsi di loro se li minacciavano altri sconosciuti nemici.

Nefer, che non aveva abbandonata la mano di Mirinri, camminava rapidamente, inoltrandosi sotto le splendide vôlte di verzura, senza mai esitare un solo istante. Certo doveva conoscere a menadito quell'isola, della quale era la proprietaria e la principessa.

Mirinri, che aveva il cervello ancora offuscato, si lasciava docilmente condurre, seguito da Ata e da Ounis, mentre gli etiopi, ai quali si era repentinamente destato l'istinto selvaggio, balzavano attraverso i cespugli, roteando minacciosamente le anfore ed i tavolini.

Quella corsa durò una ventina di minuti, poi il drappello si trovò improvvisamente dinanzi ad un piccolo seno bagnato dalle gonfie acque del Nilo, in mezzo a cui si cullava dolcemente una barca, fornita d'un albero e poppa e prora altissime.

«A terra!» aveva gridato imperiosamente Nefer. «Io ho nelle mie mani l'ureo di Pepi.»

Alcuni uomini seminudi erano comparsi sul ponte. Udendo quell'ordine avevano subito afferrata la fune che univa la barca alla riva, tirandola vigorosamente, onde accostarla.

«Chi sono costoro?» aveva chiesto Mirinri a Nefer.

«Degli uomini che ti condurranno a Menfi,» aveva risposto la fanciulla.

«Amici o nemici?» aveva domandato Ata.

La fanciulla mostrò il braccialetto che aveva strappato al sacerdote, facendolo scintillare agli ultimi raggi del sole che tramontava lentamente dietro la grande catena libica.

«Fino a che io avrò nelle mie mani questo,» disse, «nessuno minaccerà la vita del Figlio del Sole. Con questo noi andremo indisturbati a Menfi.»

La barca urtò la riva colla larga poppa e un vecchio, che portava una immensa parrucca sul capo ed una finta barba lunghissima, di forma rettangolare, che gli dava un aspetto ridicolo, erasi curvato sulla murata, chiedendo con voce ruvida:

«Mostrami il segnale, fanciulla.»

«Eccolo,» rispose Nefer, alzando il braccialetto. «È l'ureo del re.»

«Va' bene: sono ai tuoi ordini.»

«Salpa subito.»

«Per dove?»

«Per Menfi.»

«E Her-Hor?»

«Non occuparti di costui, per ora.»

Poi, volgendosi verso Mirinri, che era sempre mezzo ebbro, aggiunse: «Sali, mio signore, e anche voi tutti. Il Nilo è gonfio e domani vedremo gli splendori di Menfi l'orgogliosa.»

 

 

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

 

Menfi l'orgogliosa

 

Il vecchio, che comandava la barca, non aveva indugiato a far issare la vela ed a ritirare la fune, che FU legata intorno all'enorme tronco d'una palma dum e prendere poi il largo.

La corrente era diventata rapidissima, giacché in ventiquattro ore il Nilo aveva aumentato immensamente il volume già imponente delle sue acque, quindi la barca, anche senza l'aiuto dei remi e del vento, poteva percorrere velocissimo cammino e giungere molto presto a Menfi.

Nefer, appena imbarcati i suoi amici, conoscendo che non erano ancora in grado di comprendere il motivo di quella fuga improvvisa, aveva fatto condurre Mirinri, Ata e Ounis nelle piccole celle del casotto di poppa e gli etiopi nella stiva dove, appena giunti, si erano nuovamente addormentati sul nudo tavolato, dimenticando completamente il Figlio del Sole ed il pericolo, che d'altronde non avevano nemmeno lontanamente compreso, che li aveva minacciati.

Il vecchio, che comandava ad un equipaggio composto di soli sei uomini, terminate le manovre si era accostato a Nefer che si era portata a prora, guardando le onde che si succedevano alle onde, come se i grandi laghi equatoriali scaricassero incessantemente, nel fiume gigante, le loro immense, inesauribili riserve.

«Chi sono quelli che hai condotto sulla mia barca?» le chiese.

«Amici di Her-Hor,» rispose Nefer, senza nemmeno volgersi.»

«Perché appena giunti si sono addormentati?»

«Erano immensamente stanchi.»

«Da dove venivano dunque?»

Nefer fece brillare dinanzi ai suoi occhi il braccialetto su cui si scorgeva il simbolo dei Faraoni.

«Lo vedi, schiavo?» disse.

«Sì, io devo ubbidire.»

«Basta così: quella che ti parla è una Faraona, mi comprendi? Her-Hor non era che un sacerdote, mentre io sono di stirpe divina.»

Il vecchio s'inchinò profondamente come dinanzi ad una divinità, tale era la potenza di tutti coloro che appartenevano alla stirpe regnante.

«Quando giungeremo a Menfi?» chiese Nefer.

«Domani a sera. La corrente del Nilo è forte e ci trasporta velocemente.»

«Al tramontare del sole desidero vedere gli obelischi di Menfi.»

«Ci sarai.»

«Vattene! Io ora non sono la figlia adottiva di Her-Hor il sacerdote, come tu forse hai creduto; io sono una Faraona. Obbedisci!»

Il vecchio fece un nuovo e più profondo inchino e si diresse verso poppa, dove due dei suoi uomini maneggiavano dei lunghissimi remi, non conoscendo ancora, gli egizi, in quelle lontane epoche, l'uso prezioso del timone.

La notte calava rapidissima e le stelle cominciavano a fiorire in cielo. Al di sopra dei grandi boschi che coprivano la riva vicina un vago chiarore annunciava l'imminente spuntare dell'astro notturno. Le acque del fiume muggivano fra i papiri che a poco a poco copriva, mentre i fiori del loto, vivamente agitati dal frangersi delle ondate, esalavano acuti profumi, che una fresca brezza portava fino sul ponte della barca.

Nefer si era lasciata cadere su un mucchio di corde, prendendosi il capo fra le mani ed immergendosi in profondi pensieri.

Nessun rumore, all'infuori del muggito delle acque, rompeva la calma che regnava sulla barca. I sei uomini dell'equipaggio, appoggiati alle murate, non fiatavano, occupati a mantenere il galleggiante in mezzo al Nilo. Il vecchio, addossato ad un lungo remo che serviva da timone, guardava le stelle. Ounis, Mirinri, Ata e gli etiopi dormivano, mentre la luna saliva lentamente in cielo, facendo scintillare le acque gorgoglianti del maestoso fiume.

La barca correva rapida, sollevandosi pesantemente sull'onda incalzante, con degli scricchiolii ritmici. La piena la portava con crescente furia verso Menfi. La notte passò. La luna scomparve, le stelle si spensero, e l'aurora rosea sorse fugando le tenebre e tingendo le acque di riflessi d'oro.

Nefer pareva che si fosse addormentata, stringendo fra le mani il braccialetto del simbolo di diritto di vita e di morte, che le aveva dato la potenza ed il comando supremo. Una voce la fece sussultare:

«Nefer, dove siamo noi?»

Mirinri le stava presso, con Ounis e Ata, i quali sembravano molto confusi ed un po' vergognosi di essersi lasciati così prendere dal vino traditore maturato dal sole dell'Arabia.

«Ti aspettavo, mio signore,» rispose la fanciulla, alzandosi e sorridendogli dolcemente. «Mi chiedi dove siamo noi? Lo vedi, scendiamo il Nilo su una barca per raggiungere Menfi.»

«Noi andiamo a Menfi!» esclamò Mirinri, mentre un lampo di gioia gli balenava negli occhi. «Che cosa è successo dunque? Chi ti ha procurata questa barca? Ed i nemici che ci aspettavano?»

«Sì, spiegati, Nefer, fanciulla meravigliosa,» disse Ounis. «Perché non siamo più nel tempio degli antichi re nubiani? Il tuo vino era squisito, ma troppo traditore ed ha lasciato nel mio cervello una fitta nebbia che invano tento di disperdere. Mi ricordo vagamente d'un vecchio steso sulle pietre della immensa sala, colle vesti macchiate di sangue...»

«Ed a cui tu hai estratto dal petto una daga,» aggiunse Mirinri, «se non ho sognato.»

«E poi d'una corsa furiosa attraverso la foresta,» disse Ata.

«Abbiamo sognato noi?» chiese Ounis. «Parla, Nefer.»

«No: io ho ucciso quell'uomo, poi vi ho fatti fuggire e vi ho fatti imbarcare,» rispose Nefer. «Quel miserabile voleva la morte del Figlio del Sole e per mia mano.»

«Tu, uccidermi, Nefer!» esclamò Mirinri.

«Vedi ch'io t'ho invece salvato, mio signore. La tua anima sta ancora dentro il tuo corpo, mentre quella di Her-Hor naviga a quest'ora sulla barca luminosa che Râ guida attraverso lo sconfinato mare del cielo di Nun.»

«Chi era quel vecchio?» chiese Ounis.

«Un sacerdote che Pepi mise al mio fianco, onde v'impedissi di calare su Menfi.»

«Dunque tu...» chiese Ounis, con stupore.

«Io doveva fermarvi all'isola delle ombre e tenervi come prigionieri per sempre,» disse la Faraona.

Ounis afferrò fortemente Nefer per una mano e scuotendola ruvidamente: «Quel vecchio sacerdote sapeva che noi avevamo abbandonato il deserto?»

«Sì,» rispose la fanciulla. «È stato lui a preparare l'agguato dei bevitori; è stato lui a lanciarvi contro i piccioni fiammeggianti; lui ad inventare l'istoria del tesoro dei re nubiani, che non è mai esistito ed a spingermi a condurvi nell'isola delle ombre da cui non avreste dovuto mai uscire vivi. Io ho obbedito per paura di lui e di Pepi; ma quando volle costringermi ad immergere nei vostri petti il ferro, mi sono ribellata e l'ho ucciso.»

«Ed a chi appartiene questa barca?» chiese Mirinri.

«A lui o meglio a Pepi.»

«E questi uomini ti obbediscono?»

«Prima di fuggire ho preso al vecchio sacerdote il braccialetto formato ad ureo: l'insegna del comando e del potere.»

«E andiamo a Menfi?» esclamò Mirinri, mentre il suo viso s'imporporava.

«Sì, mio signore: quella è la tua mèta ed io ti conduco laggiù. Mi perdonerai ora, mio signore?»

«A te debbo la libertà e la vita, Nefer» rispose il Figlio del Sole. «Tu seguirai il nostro destino ed un giorno avrai a corte, se la sorte non mi sarà avversa, un posto degno di te. Tu sarai mia sorella, perché anche tu sei una Faraona al pari di me e di stirpe divina.»

«Sorella...» mormorò Nefer con voce triste. «Ah! La terribile visione!»

Si nascose gli occhi colle mani, come se cercasse di sfuggire qualche cosa che gli era apparsa improvvisamente dinanzi, poi, rigettando indietro i capelli e forzandosi di mostrarsi lieta, aggiunse:

«Grazie, mio signore: Nefer, quando tu ne avrai bisogno, darà per te la sua vita, purché tu possa realizzare il tuo grande sogno.»

«Ne dubiteresti ora? La mia stella brilla ancora in cielo tutte le sere: la statua di Memnone ha fatto udire la sua voce ed il fiore della risurrezione ha schiuso le sue corolle fra le mie mani, che cosa potevo pretendere di più? Sono tutti segni di buon augurio, è vero, Ounis?

Il vecchio non rispose. Pareva che fosse assorto in un profondo pensiero.

«Mi hai udito Ounis?» chiese Mirinri.

«Her-Hor,» disse invece il vecchio, come parlando fra sé e passandosi e ripassandosi una mano sulla fronte, come per risvegliare dei lontani ricordi. «Her-Hor.»

«Hai conosciuto quel sacerdote?» chiesero ad una voce Nefer e Mirinri.

«Questo nome non mi sembra di averlo udito solo oggi,» rispose Ounis. «Sono però trascorsi così molti anni che è possibile che io m'inganni.» Poi, scrollando le spalle, aggiunse: «È morto, quindi non vale più la pena d'occuparsi di lui. Quando giungeremo, Nefer?»

«Questa sera saremo in vista di Menfi,» disse Ata, che da qualche istante osservava attentamente le due rive. «Ecco laggiù delinearsi il tempio di Saqqarah colla sua piramide a scaglioni. Scendiamo rapidissimamente. Bada ora, Figlio del Sole, di non commettere imprudenze, perché Pepi ha una polizia splendidamente organizzata e Menfi pullula di spie. Una sola parola che ti sfugga e noi saremo tutti perduti.»

«E come giungeremo noi per non suscitare sospetti?» chiese Mirinri.

«Lascia pensare a me, Figlio del Sole,» disse Nefer. «Forse che io non sono una maliarda? Predirò alle genti di Menfi la buona ventura e tu, mio signore, sarai il mio protettore. Chi sospetterà che un Faraone percorra le vie della grande città come un volgare istrione?»

«E questi uomini?» chiese Ounis. «Non ci tradiranno?»

«Quando saremo in vista di Menfi noi li faremo gettare nel Nilo.» disse Ata. «Non sono che dei miserabili schiavi ai quali la morte non sarà altro che una liberazione.»

«E noi ci saremo serviti di costoro per poi affogarli?» disse Mirinri, con accento di rimprovero. «Un giorno anche questi uomini saranno miei sudditi, se la sorte mi sarà propizia; e non voglio inaugurare il mio trono con degli assassinii. Sono io che comincio a comandare, ora che l'aria di Menfi, l'aria della potenza e della grandezza sconfinata, arriva alle mie labbra.»

«Ecco il buon sangue,» disse Ounis, guardando con orgoglio il giovane Faraone. «Giammai l'Egitto avrà avuto un così grande re.»

Poi mormorò fra sé, mentre un lampo terribile sfolgorava nei suoi occhi:

«Lo uccideremo! Ed i miei diciotto anni d'esilio saranno vendicati!»

Tutti erano rimasti silenziosi, mentre la barca scivolava, ondeggiando fortemente sulle gonfie acque del fiume immenso. I loro occhi erano fissi verso il nord, come se da un istante all'altro s'aspettassero di veder sorgere sul luminoso orizzonte, le grandiose piramidi che circondavano l'orgogliosa Menfi, i templi immensi, gli obelischi giganteschi, le dighe immense, che formavano in quelle lontane epoche e che pur formano anche oggidì, dopo cinquemila e più anni, la meraviglia del mondo.

Le due rive cominciavano ad apparire abitate. Qua e là, sulle piccole alture, che la piena del Nilo non poteva raggiungere, si scorgevano dei templi, delle fortezze merlate colle pareti oblique, dei muraglioni enormi, entro i quali, come inquadrettati fra cornici meravigliosamente scolpite, si scorgevano delle statue gigantesche, coperte solo da un perizoma rigato in tre, colla punta centrale cadente innanzi, la barba rettangolare appesa al mento e delle statuette di divinità ai due lati.

Le divinità dell'antico Egitto sormontavano quelle dighe colossali, costruite per impedire alle acque del Nilo di espandersi nelle fertili campagne, troppo basse e di rovinare i raccolti. Ora era una mucca Hathor che giganteggiava, colle immense corna reggenti degli strani emblemi fra i quali non mancava mai di figurare l'astro solare; ora era Osiride, olimpicamente seduto sul suo trono, colle braccia incrociate sul ventre; o una riproduzione delle colossali statue di Memnone o di Ramsete, o di Menes il fondatore della grande Menfi, il primo re della prima dinastia egiziana che regnò settemila anni or sono, quando né Atene, né Roma e nessun essere umano ancora le sognavano.

Numerose barche salivano o scendevano la fiumana gigante, alcune leggerissime, formate da semplici papiri legati a fasci, con una prora molto arcuata, come usano ancora oggidì gli abitanti dell'alta Nubia, dove quella preziosa pianta non è ancora scomparsa del tutto; altre invece assai più grandi, costruite con tavole massiccie e armate di larghe vele quadrate e cariche per lo più di enormi massi di pietra, destinati certo ad altre colossali costruzioni, poiché tutti i re dell'Egitto avevano una vera smania di lasciare qua o là un'orma incancellabile della loro dominazione, gareggiando nella grandiosità di monumenti di templi o di obelischi o di piramidi, che li ricordassero ai posteri.

La barca montata da Mirinri e dai suoi amici scendeva indisturbata il fiume, poiché, credendola un'onesta veliera proveniente dalle alte regioni dell'Egitto, nessuno si preoccupava di essa, supponendola carica di derrate destinate a Menfi. Onde però non destare l'attenzione o la curiosità dei battellieri e dei rivieraschi, il Figlio del Sole aveva indossato un semplice grembiule di pelle e messo sul capo un berretto di pelle conciata, in forma di un mezzo elmetto e Ounis si era sbarazzato della sua lunga veste di sacerdote, per cingere una specie di kalasiris doppio, terminante in punta sul dinanzi e si era coperta la testa con una enorme parrucca che lo rendeva assolutamente irriconoscibile, specialmente colla barba posticcia, di forma rettangolare, appiccicata sotto il mento. Solo Nefer aveva conservate le sue vesti, ma nella sua qualità di fattucchiera e di maliarda, era necessario che si mostrasse in pubblico con un certo lusso.

Le ore passavano lente e la barca avanzava sempre.

Una viva agitazione si era improvvisamente impadronita di Mirinri, come se la vicinanza di Menfi producesse su di lui una profonda e strana impressione. Era la speranza di poter rivedere la giovane Faraona che aveva strappato alle terribili fauci del coccodrillo e che lo aveva stregato, o l'impazienza di strappare il potere a Pepi e di gridare in faccia all'immenso popolo: «Io sono il figlio del grande Teti! Rendete il trono al Figlio del Sole!» Era il sangue del giovane innamorato che si ridestava o quello del guerriero, assetato di gloria, di potere, e di grandezza? Forse l'uno e l'altro.

Nefer, che non lo perdeva di vista un solo istante, approfittando del momento in cui Ata ed Ounis si erano recati a poppa ad interrogare il capitano della barca, si era avvicinata al giovane, che dall'alto della prora pareva interrogasse ansiosamente l'orizzonte.

«Che cosa cerchi, mio signore?» gli chiese con voce dolce.

«Menfi,» rispose rudemente il giovane Figlio del Sole. «Che non debba mai comparire ai miei occhi? Si direbbe che mi fugge dinanzi.»

«Sei impaziente di vederla?»

«Se tu amassi intensamente un uomo e questo non si lasciasse mai raggiungere da te, non lo cercheresti avidamente, intensamente coi tuoi occhi?»

«Tu cerchi Menfi o la fanciulla che ami?»

«Ora cerco la superba capitale del Basso Egitto che mio padre salvò dai barbari asiatici, «rispose il giovane.»

«E poi?»

«Che cosa vuoi dire, Nefer?»

«La Faraona, è vero?»

«A quella penserò poi, se ne avrò il tempo.»

«Che la sete del potere spenga l'amore?»

«Chi lo sa?»

«No, Mirinri; no, Figlio del Sole.»

Il giovane abbassò il capo senza rispondere, mentre sulla sua fronte passava come una nube.

«Sei inquieto?» riprese Nefer dopo un breve silenzio.

«È forse l'aria di Menfi, che io comincio ad aspirare,» rispose il giovane Faraone. «Un'aria satura di potenza e di grandezza che un giorno, quando era ancora bambino, gonfiò i miei polmoni. Io non so, ma sento entro di me qualche cosa di strano che nel deserto non aveva mai provato. Laggiù, fra le sabbie che l'onda sacra del Nilo bagnava mormorando, sotto le grandi palme che sussurravano quando il vento caldo scuoteva le loro piumate foglie e la fresca brezza della notte tormentava, il mio cuore non aveva sussulti, la mia fantasia non sognava né glorie, né onori, né grandezza. L'alba od il tramonto per me erano eguali, ma ora vi è un risveglio incomprensibile in me. Vorrei ruggire come un giovane leone che ha messo ormai gli artigli e che si sente sicuro delle sue forze e divorare...»

«Che cosa?» chiese Nefer, un po' sardonicamente.

«Non so se l'Egitto intero o la corte reale, dove sono nato e da dove mi hanno tolto per lasciarmi il tempo di mettere i denti.»

«In quella corte, che tu vorresti d'un colpo distruggere, vive la fanciulla che tu strappasti alle fauci del coccodrillo.»

«Taci, Nefer!» gridò Mirinri, con collera.

«Mentre quella che hai salvato più tardi, pure dalle fauci d'un sauriano, sta al tuo fianco e non già sui gradini di quel trono» proseguì Nefer, imperturbabilmente.

Anche questa volta Mirinri non rispose. I suoi sguardi si erano fissati su alcuni punti scintillanti, che vagavano sul maestoso fiume, sormontati da alcune macchie rosse che spiccavano vivamente sulla biancastra acqua scorrente fra le due rive. «Che cosa brilla laggiù?» aveva esclamato, aggrottando la fronte.

Ounis e Ata, avvertiti dagli etiopi, erano già accorsi a prora ed il viso del vecchio sacerdote era diventato improvvisamente pallidissimo mentre una fiamma terribile, feroce, accendeva i suoi occhi.

«Lui!» aveva esclamato, con intraducibile accento d'odio. «Lui solo può avere barche dorate e vele fiammeggianti!»

Mirinri, che lo aveva udito, si era voltato vivamente ed era rimasto colpito dall'espressione feroce, che mai prima d'allora aveva scorta, in tanti anni che aveva trascorsi nel deserto, a fianco di quell'uomo.

«Chi, lui?» chiese.

Ounis ebbe un momento di esitazione, poi disse:

«L'uomo che un giorno tu, figlio del grande Teti, dovrai forse uccidere.»

«Pepi?» gridò il giovane.

«Sì, non può essere che lui, che sale il Nilo per assicurarsi se la piena sarà regolare. Solo un Faraone può sfoggiare tanto lusso. Sii prudente: guarda e taci! Un giorno tu avrai altrettanto se seguirai i miei consigli e se avrai la pazienza d'attendere.»

«Ah!» rispose semplicemente Mirinri, mentre il suo viso assumeva una espressione non meno intensa d'odio del vecchio.

Si guardò attorno, poi scorgendo appeso alla murata un arco con accanto una faretra piena di frecce, si avvicinò lentamente a quell'istrumento di morte e vi si appoggiò contro, mormorando fra i denti:

«Il giovane leone non conosce la pazienza quando ha fame.»

I punti scintillanti ingrandivano a vista d'occhio, essendo la barca trascinata in una corsa velocissima in causa della piena. La corrente diventava sempre più impetuosa di passo in passo che si avvicinava all'immenso delta dove trovava degli sbocchi infiniti nei numerosi canali e canaletti che conducevano le acque del sacro fiume al mare.

Ben presto furono in vista della flottiglia. Era formata da sei grandi barche, tutte dorate, colle prore altissime che reggevano delle sfingi dipinte in verde, con delle lunghe barbe che si arricciavano leggermente verso la punta e che nel centro avevano dei tendalini di lino bianco variegato, sorretti da sottili colonne scanellate, laminate in argento. Grandi ventagli, alcuni semicircolari, formati di penne variopinte, trattenute da una grossa lamina d'oro, su cui si scorgeva l'ureo inciso ed altri di forma rettangolare e certe specie di ombrelli di lino bianco, con frange larghe, multicolori, trapunte in oro, s'alzavano sulla prima barca, che quaranta schiavi, sfarzosamente vestiti, spingevano a grande velocità con dei lunghissimi remi scintillanti di pietre preziose.

Nel centro, dove s'ergevano i ventagli dal manico lunghissimo e gli ombrelli, sdraiato su una specie di sofà tutto dorato, con ampi cuscini, stava un uomo d'età molto avanzata, che aveva sul capo un alto berretto conico, bianco e rosso, adorno dell'ureo, con lunghi e larghi nastri cadenti sul petto, un piccolo mantello sulle spalle ed una specie di sottanino che terminava sul dinanzi in un ampio triangolo a striscie bianche, rosse, verdi ed azzurre.

Mirinri aveva fissati gli sguardi su quell'uomo, che portava le insegne del supremo potere e sul capo il simbolo del diritto di vita e di morte.

«Il re od un grande del regno?» aveva chiesto impetuosamente a Ounis, che pareva volesse divorarlo collo sguardo.

«Pepi,» aveva risposto il vecchio, con voce strozzata.

«L'usurpatore?»

«Sì!»

La barca reale passava in quel momento a soli cinquanta passi da quella montata da Ounis.

Mirinri, con un gesto rapido aveva staccato l'arco sospeso dietro la murata ed aveva levata con altrettanta rapidità una freccia:

«Il leone uccide la preda!» aveva esclamato, tendendo la corda ed incoccando il dardo.

Ata, che gli stava presso, con una mossa fulminea avevagli strappato l'arco, gettandolo prontamente in acqua.

«Che cosa fai, mio signore?» aveva esclamato. «Vuoi farci uccidere tutti e perdere il trono?»

Ounis non aveva fatto alcuna mossa per arrestare il giovane Figlio del Sole. Due sole parole gli erano sfuggite dalle labbra: «Troppo presto!»

Fortunatamente nessuno si era accorto della mossa del giovane, tanto era stato ratto Ata nello strappargli l'arco e la freccia. E poi il superbo Faraone non si era nemmeno degnato di dare uno sguardo a quella barca che faceva una così meschina figura di fronte alle sue dorate galere e nemmeno i grandi dignitari, generali, sacerdoti e governatori di provincie che lo seguivano.

Mirinri era rimasto immobile, dardeggiando sul re, suo zio, uno sguardo fiammeggiante, col braccio destro teso come in atto di sfida, finché tutta quella superba flottiglia fu passata, scomparendo dietro un isolotto.

«Ladro!» gridò finalmente, facendo un gesto di rabbia. «Ti ho veduto e non scorderò più mai il tuo viso, che rivedrò quando la mia daga ti attraverserà il cuore.»

«Eppure quell'uomo ha nelle sue vene il tuo medesimo sangue,» disse Ounis, con voce lenta.

«Io non ho che il sangue del grande Teti,» rispose Mirinri. «Quello che scorre nel corpo di quell'uomo è sangue di traditori e non di guerrieri.»

Un grido di Nefer lo interruppe bruscamente.

«Menfi!»

Il giovane si era slanciato impetuosamente verso la prora.

Sul purissimo orizzonte, che il sole, prossimo al tramonto, fingeva d'un rosso intenso, Menfi, l'orgogliosa si delineava coi suoi colossali monumenti, i suoi obelischi dorati, i suoi templi meravigliosi, i suoi palazzi immensi.

 

 

CAPITOLO VENTESIMO

 

Il quartiere degli stranieri

 

Menfi, che fu la capitale delle prime dinastie faraoniche, mentre Tebe la grande lo fu delle ultime, sorgeva sulla riva sinistra del Nilo. Fondata da Menes, uno dei più grandi re egiziani, circa sette od ottomila anni or sono, dopo lavori imponenti per trattenere le acque del Nilo ed impedire ad esse d'invadere la città durante le piene, aveva raggiunto rapidamente uno splendore immenso, tale anzi da formare la meraviglia del mondo antico.

Gli Egiziani, lo abbiamo già detto, erano grandi costruttori che ci tenevano a fabbricare le loro opere di dimensioni immense, e d'una solidità tale da sfidare i secoli; a Menfi avevano abbondato più che altrove in grandiosità, innalzando templi colossali, che un numero infinito di colonne reggevano, obelischi mostruosi, palazzi reali meravigliosi e piramidi. La città occupava un'area immensa, perché serviva d'asilo a molte centinaia di migliaia di abitanti, spingendo le sue ultime case fino sulle sabbie del deserto libico, su quelle sabbie traditrici, che dovevano più tardi concorrere potentemente alla sua distruzione, secondo la sinistra profezia di Geremia.

Tebe fu meravigliosa, ma non potè raggiungere mai lo splendore di Menfi, che fu la più popolosa città del mondo antico, come la più ricca, per monumenti e la più potente come piazza forte.

Come scomparve attraverso tanti secoli quella grandiosa città, senza lasciare quasi traccia della sua esistenza? Sembrerebbe impossibile, eppure di tutti quei monumenti colossali oggidì non sono rimaste a dimostrare il luogo ove un giorno sorgeva, altro che alcune piramidi che resistettero, assieme ad altre, agli insulti del tempo, un pezzo di una statua colossale che rappresenta Ramsete II ed una necropoli, la più antica del mondo, dacchè ha all'incirca 7000 anni d'esistenza e che nel tempo istesso è anche la più vasta, avendo una larghezza di ben sessanta chilometri. Tutto il resto è crollato, come se una spaventevole scossa di terremoto avesse tutto distrutto e quello che è più, perfino le rovine di quei colossali monumenti sono scomparse.

Là dove un giorno sorgeva orgogliosa la grande città dei più potenti e dei più fastosi Faraoni, ora non si scorgono che colline di sabbia. Nulla è rimasto di tanta gloria e possanza e la terra stessa, nutrice un giorno generosa di tante generazioni scomparse, sembra si sia perfino essa stessa stancata di germogliare, perché solo nei mesi di marzo e di aprile, allorquando le inondazioni hanno reso qualche vitalità alle sue vene dissanguate, essa si copre appena d'una magra vegetazione, che i venti caldi si affrettano poco dopo a disseccare.

La barca di Mirinri, o meglio di Nefer, trascinata dalla corrente che aumentava sempre, aprendosi al di sotto dell'immensa città le innumerevoli bocche del delta, s'avvicinava rapidissima a quella imponente linea di grandiosi monumenti e di superbi palazzi, che si estendeva per miglia e miglia lungo la riva sinistra del maestoso fiume.

Il giovane Figlio del Sole, sempre ritto sulla prora, guardava l'orgogliosa città senza fare un moto, né pronunciare una parola: pareva che fosse affascinato dalla grandezza e dallo splendore della capitale del più antico regno del mondo, entro le cui mura merlate e formidabili aveva aperto gli occhi alla luce, ma che dopo così tanti anni non ricordava più. Il suo viso aveva assunto un aspetto quasi selvaggio e la sua bocca semi aperta aspirava a pieni polmoni l'aria della immensa città, che una fresca brezza sospingeva, al di sopra del Nilo, verso il settentrione: aspirava il lontano profumo della giovane Faraona o la potenza del regno, che suo padre aveva salvato dalle invasioni barbariche degli asiatici?

Ben presto la barca si trovò dinanzi alle gigantesche dighe, formate da colossali blocchi di pietra, che in quei tempi remoti opponevano una barriera insormontabile alle piene periodiche del Nilo; esse erano ingombre di barche di tutte le dimensioni ancora occupati da schiere di schiavi, quantunque la notte fosse per calare.

Ata, che era quasi sempre vissuto a Menfi, diede ordine al comandante della barca di prendere terra all'estremità dell'ultima diga, che difendeva gli ultimi sobborghi del mezzodì, dove pochissimi erano i navigli, non osando sbarcare i suoi amici nel centro della città. La polizia del re poteva essere stata avvertita da qualche traditore del loro arrivo e prenderli subito. Nei lontani sobborghi la cosa era diversa ed in caso disperato potevano, coll'aiuto dei trenta etiopi, opporre una feroce resistenza e fuggire attraverso i canali del delta, prima che potessero giungere le guardie del re.

«Mentre io vado ad avvertire gli antichi partigiani di Teti,» disse Ata, quando la barca fu ormeggiata saldamente alla riva, «voi andrete ad abitare nel Ta-anch (quartiere degli stranieri) dove vi sarà più facile passare inosservati e là attendere il mio ritorno. Vi sarà facile trovare qualche casetta e spacciarvi per poveri battellieri assiri, caldei o greci.»

«Ed io riprenderò il mio mestiere d'indovina,» disse Nefer.

«Ecco una buona idea,» disse Ounis. «Mirinri si farà passare per tuo fratello, così ogni sospetto sul suo vero essere sarà maggiormente allontanato.»

«Dovrò fare l'istrione?» chiese Mirinri.

«Non è necessario, mio signore,» rispose Nefer. «Tu t'incaricherai solamente di ritirare il denaro. Sarai il mio cassiere ed insieme il mio protettore.»

«Se ciò è necessario per conquistarmi il trono, non mi rifiuterò,» rispose Mirinri, sorridendo. «Devo anch'io impormi dei sacrifici.»

«Siete pronti a sbarcare?» chiese Nefer.

«Tutti,» rispose Ounis.

La fanciulla s'avvicinò al comandante della barca, che pareva aspettasse i suoi ordini e dopo d'avergli mostrato nuovamente il gioiello strappato a Her-Hor, gli disse:

«La nave è tua, perché io te la dono, a condizione però che tu parta immediatamente e che tu scenda fino al mare. Colà potrai trafficare coi fenici, coi greci o coi siriani. Bada che se tu pronuncerai una parola con chicchessia di quanto hai veduto, la vendetta di Pepi saprà raggiungerti.»

«Obbedisco,» rispose semplicemente il capo dei barcaiuoli.

«Scendiamo,» disse Nefer.

Essendo la notte già calata, il molo era diventato deserto, sicché poterono sbarcare inosservati. Avevano appena messo il piede a terra, che la barca riprendeva subito il largo, scomparendo ben presto in uno dei numerosi canali del delta che conducevano al mare.

«Perché hai mandato via costui, Nefer?» chiese Mirinri alla fanciulla.

«Qualcuno poteva aver notato il tuo atto, allorquando Pepi passava presso di noi e una parola, un sospetto, potrebbe perderci. I traditori sono dovunque.»

«Ammiro la tua prudenza.»

«E non sarà mai troppa,» aggiunse Ounis. Poi, volgendosi verso Ata, disse: «Il nostro numero non attirerà l'attenzione degli abitanti del sobborgo?

«I miei etiopi hanno già ricevuto l'ordine di disperdersi e di aspettarmi nei pressi della piramide di Daschour. Sarà là che io radunerò tutti i vecchi partigiani di Teti.»

«E noi?»

«Troverò una casa. Vi è qui un vecchio mio amico, un siriano che io ho più volte soccorso e vi cederà la sua casa. Seguitemi e non parlate.»

Mentre gli etiopi si disperdevano, prendendo diverse direzioni, l'egiziano s'addentrò in una viuzza che era fiancheggiata da piccole case di forma quadrata, colle muraglie leggermente inclinate e prive di finestre. Non erano tutte del medesimo stile, essendo popolato, il quartiere destinato agli stranieri, da asiatici appartenenti a diverse razze e anche da commercianti della bassa Europa, specialmente dei dintorni del Mar Nero, ai quali il governo egiziano lasciava la libertà di scegliere quel genere di costruzioni che loro convenivano.

Il piccolo drappello, che prima di lasciare la barca si era munito di armi, non ignorando Ata che quel quartiere, se serviva d'asilo agli stranieri era pure abitato da corporazioni di ladri(), dopo d'aver percorso indisturbato parecchie viuzze si arrestò finalmente dinanzi ad una casetta di modesto aspetto, col tetto coperto di paglia. Ata entrò solo, essendo la porta aperta e poco dopo uscì assieme ad un uomo il quale, dopo d'aver fatto un muto saluto con una mano, si allontanò, scomparendo in fondo alla oscura viuzza.

«La casa è vostra,» disse allora Ata. «Il suo proprietario non verrà ad inquietarvi: consideratevi come legittimi proprietari. Sopratutto prudenza e obbedite a Nefer.»

«Quando tornerai?» chiese Ounis, che sembrava preoccupato.

«Appena avrò preparato il terreno pel gran colpo. Il tesoro deve essere già giunto e potrò assoldare un'armata tale da far tremare il Faraone.»

«Non contare i talenti, ricordatelo, Ata.»

«Ci saranno anche i miei e quelli dei vecchi amici di Teti,» rispose l'egiziano.

Salutò tutti tre, poi a sua volta si allontanò a rapidi passi, nella viuzza deserta.

«Entriamo nella mia reggia,» disse Mirinri scherzando. «Veramente non era questa che mi aspettavo a Menfi.»

«Sii paziente,» disse Ounis, con accento quasi di rimprovero.

«Non mi lagno. Quella che abitavo nel deserto era ben peggiore di questa, eppure ero forse allora più lieto.»

Entrarono, prendendo una lampadina di terra cotta che si trovava appesa allo stipite della porta e prima di tutto esplorarono minuziosamente la casetta.

Non vi erano che due sole stanze, di forma rettangolare, con le pareti ed il pavimento composto d'una specie di cemento a varie tinte, ammobiliate sobriamente, essendo i mobili di lusso riservati ai grandi signori del reame. L'unico letto consisteva in un pagliericcio di lino, pieno di foglie secche, gli arnesi della cucina in vasi di terra cotta, però non mancava un tavolo pieno di vasi e vasetti contenenti unguenti misteriosi e profumi, amando assai gli Egiziani fare ogni giorno una toletta accurata, anche se non appartenevano alle classi molto elevate.

«Tu ti coricherai nella seconda stanza, Nefer,» disse Ounis. «A noi basterà la prima, è vero, Mirinri?»

«Noi siamo già abituati a dormire sulle sabbie del deserto,» rispose il Figlio del Sole. «E poi dormirei anche sulla nuda terra di Menfi.»

«Che cosa provi, trovandoti qui, mio signore?» chiese Nefer.

«Non te lo saprei dire» rispose il giovane. «Mi sembra però di essere diventato un altro uomo. È l'aria di questa immensa città; è l'ansietà d'impegnare la lotta; è la sete di potere e di grandezza o qualche cosa d'altro, mi sento più felice qui, in questa umile dimora, che non sulla barca che Ata guidava sul Nilo. Sento finalmente di essere qualche cosa nel mondo; di non essere più un ignoto.»

«Sicché ti trovi pronto al supremo cimento,» disse Ounis, che lo osservava attentamente.

«Sì,» rispose Mirinri, «pronto a sfidare tutto e tutti.»

«A vendicare tuo padre ed a conquistare il trono?»

«Sì,» ripetè il giovane con suprema energia. «Quando i vecchi amici di mio padre avranno radunati i loro partigiani, io mi metterò alla loro testa e andrò a chiedere conto all'usurpatore del grande Teti, della sua corona ed a strappargli dalla fronte il simbolo di diritto di vita e di morte, che a me solo spetta.»

«Ma sii prudente, come ti ha detto Ata. Pepi deve aver organizzato un servizio di spionaggio per sorprenderti e chissà a quest'ora che non ti si cerchi in questa immensa città, quantunque io speri che abbiano perdute le nostre tracce dopo la nostra fuga dall'isola delle ombre.»

«Rimarrò nascosto in questa casa fino al ritorno di Ata?»

«No, sarebbe un'imprudenza,» rispose Ounis. «Un uomo che si guadagna da vivere non desta sospetti; uno che vive senza poter dimostrare di possedere, può allarmare la sospettosa polizia di Pepi. Segui Nefer: una indovina può ben avere un fratello.»

«Farò come mi consigli,» rispose Mirinri, sorridendo. «Due Faraoni che battono la via come due istrioni!»

«È tardi,» disse il vecchio. «A te il letto, Nefer; noi ci accontenteremo dei tappeti che si trovano nella stanza attigua.»

«A domani, mio signore,» disse la fanciulla. «Impareremo, quantunque siamo Figli del Sole, a guadagnarci la vita.»

Spensero la lampada e si coricarono: Nefer sul lettuccio e Ounis e Mirinri su una stoffa grossolana, formata di fibre vegetali, che occupava una parte della seconda stanza.

 

 

CAPITOLO VENTUNESIMO

 

Le profezie di Nefer

 

L'indomani Nefer e Mirinri percorrevano le vie del quartiere degli stranieri, accompagnati dal vecchio Ounis, il quale si era procurato un tabl, ossia una specie di tamburo di terracotta in forma d'un lungo cilindro, chiuso in alto da una pelle, che percuoteva vigorosamente colla mano, onde attirare l'attenzione dei passanti. Le indovine, che erano nell'istesso tempo venditrici di ricette miracolose, erano tenute in molta stima presso gli antichi egizi, i quali credevano ciecamente alle profezie di quelle astute donne e all'efficacia delle loro polveri misteriose.

Nefer, che per volere di Her-Hor aveva esercitata quella lucrosa professione nelle borgate dell'alto Nilo in attesa di Mirinri, non si era trovata imbarazzata a riprenderla e si era senz'altro installata sulla prima piazza del quartiere, richiamando subito attorno a sé una folla di curiosi, attratti forse più di tutto dalla sua meravigliosa bellezza e dalla ricchezza dei suoi gioielli. Sedutasi su una stuoia, che Mirinri le aveva portata e accompagnata dal rullare sordo del tabl, che il vecchio Ounis suonava come se non avesse mai fatto altro in vita sua, aveva lanciato colla sua voce armoniosa, in volto agli accorsi, il suo richiamo.

«Io sono uscita dalla scuola di medicina di Heliopolis, dove i vecchi del grande Tempio mi hanno insegnato i loro rimedi.

«Io ho studiato alla scuola di Sais, dove la Grande Madre divina mi ha donate le sue ricette.

«Io posseggo gl'incantesimi composti da Osiride in persona e la mia guida è il dio Toth, inventore della parola e della scrittura.

«Gli incantesimi sono buoni pei rimedi ed i rimedi sono buoni per gl'incantesimi.»

Una vecchia egiziana si era subito avanzata e, dopo una breve esitazione, le disse:

«Dammi una ricetta per mia figlia che non può più nutrire il suo bambino ancora lattante.»

«Prendi delle testuggini del Nilo e falle friggere nell'olio e avrà latte in abbondanza,» rispose Nefer.

Un'altra donna si era fatta innanzi.

«Voglio conoscere se il figlio che mi nascerà avrà lunga vita o se morrà presto.»

«Se quando aprirà gli occhi dirà ni, egli vivrà molti anni; se dirà mba la sua vita si spegnerà presto,» rispose Nefer.

Un vecchio si era a sua volta accostato, dicendo:

«Nel mio giardino v'è un serpente che ogni sera esce dalla sua tana e mi divora i polli. Insegnami il modo che non lasci più il suo buco.»

«Metti dinanzi al suo covo un pagre (specie di pesce del Nilo) che sia ben secco ed il serpente non potrà più uscire.»

«Insegnami anche a tener lontani i sorci che divorano le mie granaglie.»

«Ungi le pareti del tuo granaio con olio di gatto e non li vedrai più comparire; oppure brucia del letame secco di gazzella, raccogli le ceneri, bagnale con acqua e copri il pavimento.»

Poi si fece innanzi una giovanetta.

«Che cosa vuoi, tu?» chiese Nefer.

«Insegnami il modo di far diventare bianchi i miei denti e di profumare la mia casa, onde rendere più lieto il mio fidanzato.»

«Prendi della polvere di carbone d'acacia ed i tuoi denti diverrano più candidi dell'avorio degli ippopotami. Se vuoi profumare le tue stanze, mescola dell'incenso, della mimosa, della resina di terebinte, scorza di cinnamono, lentischi, calamo aromatico di Siria, riduci tuttociò in polvere impalpabile e gettala su un braciere. Il tuo fidanzato non avrà da lagnarsi della squisitezza del tuo profumo.»

«E tu?» chiese poi Nefer, rivolgendosi ad un soldato che aveva una benda che gli copriva parte del viso.

«Pronuncia un incantesimo, brava fanciulla,» rispose il guerriero, «onde mi faccia guarire il mio occhio destro che una freccia siriana mi ha rovinato.»

Nefer si alzò, tese le braccia, tracciò in aria dei segni misteriosi, poi disse:

«Un rumore s'alzò verso il sud del cielo, ed appena la notte cadde, quel rumore si propagò fino al nord. L'acqua scrosciò sulla terra in grandi colonne ed i marinai della Barca Solare di Râ batterono i loro remi, per farsi bagnare anche le loro teste. Io porgo la tua testa a quella pioggia benefica, onde cada anche sul tuo occhio ferito ed invoco per guarirtelo il dio del dolore e la Morte della Morte. Applicati ora del miele sul tuo occhio e tu guarirai, perché Toth così ha insegnato.»

Un altro guerriero, molto giovane e molto macilento, aveva preso subito il posto dell'altro:

«Fanciulla,» le disse, «pronuncia anche per me un incantesimo, onde mi liberi dalla tenia che mi esaurisce.»

«Ti guarirò subito,» rispose Nefer, sempre seria. «Oh jena cattiva, oh jena femmina! Oh distruttore! Oh distruttrice! Udite le mie parole: Che cessi la marcia dolorosa del serpente entro lo stomaco di questo giovane! È un dio cattivo che ha creato quel mostro, un dio nemico: che egli cacci il male che ha fatto a quest'uomo od invocherò il bacino di fuoco onde bruci e distrugga l'uno e l'altro. Va'! Tu fra poco non soffrirai più.»

Anche il giovane guerriero se ne andò, più che convinto di dover fra poco guarire, poiché gli antichi egizi avevano più fede nelle invocazioni che nell'efficacia delle medicine.

Quella prima giornata trascorse in continue invocazioni, le une più strane delle altre ed in dispense di ricette, non meno straordinarie, accorrendo continuamente uomini e donne attorno alla bella fanciulla e non fu che ad ora molto tarda che i due Figli del Sole ed il vecchio Ounis poterono ritirarsi nella loro casetta, ben provvisti di denaro, e lieti di non aver suscitato il più lontano sospetto sul loro vero essere.

Chi d'altronde avrebbe potuto supporre che il figlio del grande Teti per sfuggire alle ricerche della polizia di Pepi si fosse adattato a diventare una specie d'istrione?

«Sei contento, mio signore?» chiese Nefer a Mirinri, che contava ridendo i denari guadagnati.

«Sei una fanciulla che vali quanto pesi,» rispose il giovane. «Se un giorno diverrò re ti farò nominare grande indovina del regno. Peccato che io non era fra il pubblico.»

«Perché?»

«Ti avrei chiesto di predirmi il mio destino.»

«Te l'ho già predetto quando scendevamo il Nilo.»

«Che io diventerò re?»

«Sì.»

«Non mi basta.»

Nefer ebbe un sussulto e corrugò lievemente la fronte, mentre un sospiro le moriva sulle labbra.»

«Ti ho compreso,» disse poi con voce lenta, lasciandosi cadere su una scranna ed appoggiando la testa sull'orlo della vicina tavola. «Io ho letto il tuo pensiero.»

«Non sei una indovina tu?»

«È vero.»

«Dunque? Fuori la tua profezia.»

«La vedrai.»

«In Menfi?»

«Qui, in questa città.»

Questa volta fu il giovane che ebbe un forte sussulto, mentre il suo viso s'imporporava, come quello d'una fanciulla quando si reca al suo primo appuntamento d'amore.

Nefer si coprì gli occhi con ambe le mani, comprimendoseli fortemente.

«La vedo,» riprese dopo alcuni istanti di silenzio, come parlando fra sé. «È coricata su una portantina sfolgorante d'oro che otto schiavi nubiani sorreggono e dinanzi a lei s'avanza maestoso un toro tutto nero che ha le corna dorate. Tintinnano i sistri sacri, salgono al cielo le note deliziose delle arpe e delle chitarre e rimbombano i tamburi... le danzatrici intrecciano danze intorno alla portantina regale e fissano l'ureo che scintilla fra le trecce nere della bella Faraona. Vedo carri guerreschi montati da soldati... vedo arcieri e guardie... odo il rombo degli applausi che la folla tributa alla figlia del più possente re dell'Africa. Ah! Quel grido! Quel grido!»

Nefer aveva abbassate le mani ed era balzate in piedi, guardando con terrore Mirinri che le stava diritto dinanzi, ascoltandola attentamente.

«Cos'hai, Nefer?» chiese il giovane, turbato da quell'improvviso scatto.

«Ho udito un grido.»

«E così?»

«E quel grido era tuo, mio signore. Sì, io l'ho udito distintamente.»

«E poi? Continua.»

«Non vedo più nulla dinanzi ai miei occhi. Tutta la visione è scomparsa in mezzo ad una fitta nebbia.»

«E quel grido ti ha spaventata?»

«Sì.»

«Ma perché?»

«Non lo so... eppure nell'udirlo, il mio cuore si è ristretto come se una mano di ferro l'avesse preso e compresso.»

Ounis, che fino allora era rimasto nella stanza attigua, occupato a preparare un certo pasticcio a base di datteri secchi e di semi di pianta del loto, si era affacciato alla porta, guardando Nefer con una specie di terrore. Doveva aver udite le sue parole, poiché il suo viso, ordinariamente calmo, appariva in quel momento estremamente alterato.

«Nefer,» disse, con voce rotta, «sei tu veramente una indovina? Credi di poter leggere nel futuro? Dimmelo, fanciulla mia.»

«Lo spero,» rispose Nefer, che era tornata a sedersi, appoggiando nuovamente il capo sull'orlo del tavolo.

«Di chi era quel grido?»

«Di Mirinri.»

«Non ti saresti ingannata?»

«No.»

«Ne sei ben certa?»

«Conosco troppo bene la voce del mio signore.»

«Io ho udito quanto tu hai narrato a Mirinri,» riprese Ounis, con una certa ansietà che non isfuggì al giovane Figlio del Sole. «Copriti gli occhi e tenta di vedere che cosa è successo dopo.»

Nefer obbedì e stette parecchi minuti silenziosa. Ounis la osservava attentamente, con angoscia, cercando di sorprendere sul suo viso un moto, un sussulto qualsiasi, invece i lineamenti della fanciulla rimanevano impassibili.

«Dunque?» chiese il vecchio.

«Nebbia... sempre nebbia.»

«Non riesci a scorgere nulla attraverso quel denso velo?»

«Sì, aspetta... delle colonne dorate... un trono sfolgorante di luce... poi un uomo... ha il simbolo del diritto di vita e di morte sulla parrucca...»

«Com'è? Giovane o vecchio?»

«Aspetta...»

«Guardalo attentamente.»

«È lui.»

«Chi lui?»

«Il Faraone che abbiamo veduto sulla barca dorata... l'uomo contro cui Mirinri aveva teso l'arco.»

«Pepi!» gridò Ounis.

«Sì... è lui... lo vedo ora distintamente.»

«Che cosa fa?...»

«Non aver fretta... vedo la nebbia turbinare attorno a lui... ora mi appare col viso sconvolto da una collera tremenda... ora tremante e pallido... ora scompare... Ah! Vi sono delle persone attorno a lui... un altro vecchio... ha nelle mani un ferro ricurvo... uno di quei ferri che adoperano i preparatori di mummie per estrarre dalle nari il cervello dei morti... poi vedo pendergli dalla cintura una di quelle pietre taglienti dell'Etiopia di cui si servono per aprire il fianco ed estrarne gl'intestini...»

«Chi vuole imbalsamare?» gridò Ounis, con terrore.»

«Non lo so.»

«Guarda, guarda: fora la nebbia coi tuoi sguardi penetranti. Te ne prego, Nefer.»

«Non vedo più nulla... ah! Sì, ecco un'altra sala più meravigliosa dell'altra... popolo, soldati, sacerdoti... il Faraone... che apre il naos, il reliquario del dio... ah! Lui!»

«Chi?»

«Her-Hor?»

«Il sacerdote che hai ucciso?»

«Sì.»

«Vivo?»

«Vivo,» rispose Nefer, mentre un tremito scuoteva il suo corpo. «Ecco l'uomo fatale... giungerà all'ultima ora... e sarà fatale a me... a me... a me...»

«Che cosa dici, Nefer?» chiesero ad una voce Ounis e Mirinri.

La fanciulla non rispose. Si era abbandonata addosso alla tavola, come se un profondo sonno l'avesse improvvisamente sorpresa.

«Dorme,» disse Mirinri.

«Taci,» rispose Ounis. «Agita le labbra: parlerà forse ancora pur dormendo.»

La fanciulla, che si era assopita, pareva che facesse degli sforzi supremi per muovere la lingua e le labbra.

«Râ segna il giorno,» disse ad un tratto con voce fievole «Osiride la notte. L'alba è la nascita, il crepuscolo della sera la morte, ma ogni giorno che spunta il viaggiatore rinasce a vita novella dal seno di Nout e sale gloriosamente in cielo, ove naviga sulla barca leggera, combattendo vittoriosamente il male e le tenebre che fuggono dinanzi a lui. Alla sera la notte trionfa. Il sole non è più Râ il potente, lo sfavillante, esso diventa Osiride, il dio che veglia fra le tenebre e la morte. La sua barca celeste percorre i tetri canali della notte, dove i demoni cercano assalirla e dopo mezzanotte essa risale dal baratro tenebroso e la sua corsa diventa più rapida e più aerea ed al mattino ritorna sfolgorante di luce e vittorioso. Tale è la vita e tale è la morte. Perché Nefer avrà paura?»

«Sogna!» esclamò Mirinri: «che strana fanciulla!»

Ounis che stava curvo verso la giovane per non perdere una sola parola, si era alzato e, posando le sue mani sul giovane Faraone, gli disse:

«Guàrdati, Mirinri. Questa fanciulla ha veduto un pericolo. Sta in guardia!»

«Credi tu alle visioni di Nefer?»

«Sì,» rispose Ounis.

«Credi dunque al destino?»

«Sì,» ripetè Ounis.

«Ed io non credo che alla mia stella, che sale sfolgorante in cielo; al suono che diede all'alba la statua di Memnone e al fiore della risurrezione che schiuse le sue corolle fra le mie mani,» rispose Mirinri. «Profetizzavano che io un giorno sarei diventato re; e re diventerò, Ounis, perché nessuno spezzerà il mio destino.»

 

 

CAPITOLO VENTIDUESIMO

 

Il grande sacerdote di Ptah

 

Per parecchi giorni Nefer, Ounis e Mirinri si fecero vedere ora nell'una ed ora nell'altra piazza del quartiere degli stranieri, l'una pronunciando incantesimi ed insegnando ricette, l'altro a far l'officio di cassiere ed il terzo a far rullare senza posa il suo tamburo di terracotta, con una costanza invidiabile. Cominciavano ad impazientirsi ed a temere che Ata non fosse riuscito a realizzare le sue speranze, quando la sera del quindicesimo giorno da che si trovavano in Menfi, udirono a bussare alla porta tre colpi.

Ounis e Mirinri, che temevano sempre qualche sorpresa da parte delle spie di Pepi, afferrate le loro daghe si erano slanciati nella prima stanza, interrompendo bruscamente il loro pasto serale, risoluti a qualunque cimento. Udendo risuonare tre altri colpi, più violenti dei primi, Mirinri che non era molto paziente e sempre pronto ad affrontare qualunque pericolo, aveva chiesto con voce minacciosa:

«Chi è l'importuno che viene a disturbarci?»

«Sono io: Ata. Silenzio, mio signore.»

Mirinri aveva aperto e l'egiziano era entrato rapidamente, chiudendo dietro di sé la porta.

«Temevo di non ritrovarvi più,» disse.

«Perché?» chiese Ounis.

«Corre voce che Mirinri sia già riuscito a mettere piede in Menfi.»

«Chi te lo ha detto?»

«Me lo ha riferito un mio amico che ha relazione con la corte ed ha aggiunto che Pepi non dorme più tranquillo e che ha sguinzagliato per tutta la città le sue guardie.»

«Lo sa la popolazione?» chiese Mirinri che non sembrava affatto impressionato.

«Può darsi.»

«E sa che Mirinri è figlio del grande Teti?»

«Gli amici di tuo padre, mio signore, da anni e anni hanno sparsa la voce che il figlio del vincitore dei Caldei non è misteriosamente scomparso come suo padre. È vero, Ounis?»

Il vecchio approvò con un gesto del capo.

«Ah! Il popolo lo sa che io sono ancora vivo e che un giorno andrò a chiedere stretto conto, all'usurpatore, del trono che mi ha rubato.»

«Sì, mio signore.»

«E mi attende?»

«Forse.»

«Forse!» esclamò Mirinri, corrugando la fronte.

«Pepi è possente: è re dell'Egitto.»

«Un ladro!» proruppe Mirinri, violentemente. «Vedremo se il giorno in cui, su un carro di battaglia, percorrerò le vie dell'orgogliosa Menfi, proclamandomi re della stirpe faraonica ed evocando le glorie di mio padre, il popolo rimarrà insensibile. Io solo sono il Figlio diretto del Sole! Io solo discendo da Râ e da Osiride!»

«Ecco il figlio di Teti,» disse Ounis, con un sorriso d'orgoglio. «È il sangue del guerriero che parla. Sì, tu un giorno sarai un grande re, Mirinri! Nel deserto il tuo cuore sonnecchiava; l'aria di Menfi l'ha risvegliato. Ata, che cosa ci rechi tu?»

«Notizie importanti, Ounis,» rispose l'egiziano. «Tutti i vecchi amici di Teti hanno raccolto i loro partigiani ed ho assoldato tremila schiavi etiopi, ai quali ho promesso la libertà se il figlio di Teti riuscirà a strappare il trono all'usurpatore. Ho profuso l'oro che ti apparteneva e che amici devoti hanno trasportato a Menfi, ma frutterà.»

«Siete pronti?»

«Tutti decisi a morire pel trionfo del giovane Figlio del Sole,» disse Ata. «Domani sera noi saremo raccolti nella immensa piramide di Daschour e vi aspetteremo per tentare il colpo supremo. Sarà un'onda gigantesca di ferro e di fuoco che si rovescerà su Menfi e che travolgerà l'usurpatore.»

«Ed io sarò alla testa di quell'onda!» esclamò Mirinri. «Chi mi arresterà?»

«Forse il destino,» disse Nefer, che fino allora era rimasta silenziosa.

«Spezzerò anche quello,» disse il giovane.

«Io ho paura del toro nero dalle corna dorate: l'ho sognato anche ieri sera.»

«Chi è?» chiese Mirinri.

«Il dio Api.»

«Nel deserto dove sono stato allevato io non l'ho mai veduto.»

«Rappresenta il Nilo fecondatore.»

«Ed io rappresento la forza ed il potere. Vale più il tuo toro nero dalle corna dorate, Nefer, od il Figlio del Sole?»

«Dietro al toro, tu incontrerai due occhi che ti saranno fatali.»

«Quali?»

«Tu li conosci senza che io te lo dica.»

«Ah!» fece Mirinri. «Sogni sempre, fanciulla.»

«Quando partiremo?»

«Domani,» disse Ounis.

«Domani! Voglio vedere il palazzo che un giorno sarà mio. Si dice che sorge su una collina, fra giardini incantati. Là dentro andrò ad afferrare l'usurpatore e là gli strapperò il simbolo del diritto di vita e di morte, che egli mi ha rubato!

«Durante la traversata della città non fatevi notare, né per la vostra troppa fretta, né per la vostra curiosità e sopratutto non parlate, né chiamatevi per nome,» disse Ata. «Le guardie del re sono in caccia, ve lo ripeto.»

«Non temere, Ata,» rispose Ounis. «Ci sarò io a frenare l'impazienza di Mirinri.»

«Domani sera, subito dopo il tramonto, ci troverete tutti,» disse l'egiziano. «Ritorno nel centro della città; la via è lunga e la notte è calata.»

Mirinri e Ounis lo accompagnarono fino alla porta. Ata guardò prima attentamente a destra ed a sinistra, e, non scorgendo nessuno, s'allontanò a rapidi passi.

Era già uscito dal quartiere degli stranieri e stava per avanzarsi sulla magnifica strada che costeggiava le colossali dighe erette lungo il Nilo per preservare la città dalla piena, quando s'incontrò con un uomo che era improvvisamente sorto da un ammasso di pietre enormi, che dovevano probabilmente servire a qualche colossale costruzione.

«Che Osiride vegli su di te,» gli disse lo sconosciuto.

«Che Râ ti sia propizio anche dopo la mezzanotte,» rispose Ata, continuando la sua via.

Udendo quella voce lo sconosciuto aveva avuto un sussulto.

Finse di allontanarsi, poi quando vide Ata a sparire sotto la cupa ombra che proiettavano le palme costeggianti le dighe, tornò prontamente verso l'ammasso di pietre, mandando un leggero sibilo. Due uomini, giovani e robusti, che portavano sul capo due penne di struzzo piantate obliquamente nelle loro parrucche, distintivo delle guardie del re, e ai fianchi delle kalasiris di grosso lino a tre punte, ed ai piedi dei sandali di paglia, si erano subito alzati, tenendo in mano due daghe corte, colla lama molto larga e due archi.

«L'ho ritrovato,» disse colui che aveva mandato quel sibilo.

«Era proprio lui?» chiese uno dei due.

«Sì.»

«Non ti sei ingannato, gran sacerdote?»

«Quando Her-Hor ha veduto una sola volta un volto, non lo dimentica più mai. Era proprio l'uomo che accompagnava il vecchio Ounis e Mirinri.»

«Che cosa sarà venuto a fare qui?»

«Non lo so, Maneros. Ah! Se questa sera non lo avessimo perduto di vista fra la folla che ingombrava la piazza, a quest'ora forse Mirinri sarebbe in nostra mano, poiché sono certo che se Ata è qui, vi è pure il figlio di Teti. Pazienza, lo troveremo prima che tenti qualche colpo disperato contro il re, e allora Nefer mi pagherà quel colpo di daga che per poco non mi mandava a navigare sulla barca lucente di Râ.»

«Che cosa dobbiamo fare?» chiese colui che si chiamava Maneros. «Raggiungerlo e ucciderlo?»

«Seguirlo, scoprire il suo rifugio e sorvegliarlo attentamente. Sono certo che egli sta raccogliendo i vecchi amici di Teti. Faremo un gran colpo e delle mani tagliate ve ne saranno molte in Menfi, fra poco,» disse il vecchio sacerdote, con voce strozzata. «Non sono vissuto che per la vendetta e li avrò tutti due insieme, anzi tutti tre.»

«E tu, non vieni, gran sacerdote?»

«Vi seguirò sul carro,» rispose Her-Hor. «Sono ancora troppo debole e la terribile ferita non si è ancora completamente rimarginata. Partite o lo perderemo un'altra volta di vista.»

I due soldati che, come abbiamo detto, erano giovani e anche agili, si slanciarono a corsa sfrenata sulla via, tenendosi sotto l'ombra che proiettavano i filari delle dum e delle camerope a ventaglio, onde non farsi scorgere da Ata.

Il vecchio sacerdote attraversò la diga e raggiunse un piccolo carro che stava nascosto dietro un gruppo d'alberi, guardato da uno schiavo nubiano, di forme atletiche.

I carri egiziani erano ben lungi dal somigliare ai nostri, quantunque fossero tirati pure da buoi, più piccoli dei nostri e lesti come gli zebù, usati oggi dalle popolazioni dell'India. Erano leggere vetture, somiglianti alle bighe romane; con due sole ruote dipinte ordinariamente in verde, molto rialzate sul dinanzi e aperte invece di dietro, che potevano servire tutt'al più a due sole persone, le quali si tenevano in piedi.

Talvolta, invece di essere tirate da buoi lo erano da cavalli, ma queste servivano per lo più ai soldati, non avendo gli antichi egizi mai fatto uso di una vera cavalleria, non avendo mai avuto l'idea - e questa è strana - di servirsi dei cavalli come cavalcature! Occorsero migliaia e migliaia d'anni prima che quegli uomini, che erano pur così innanzi nella civiltà e così intelligenti, avessero potuto comprendere che il cavallo era adatto a lasciarsi montare.

Her-Hor, che pareva si reggesse a stento, si fece deporre sul carro, poi i due piccoli buoi, aizzati dallo schiavo, presero un'andatura abbastanza rapida, un piccolo galoppo che doveva permettere al sacerdote di raggiungere le due guardie del re, prima che Ata tornasse a scomparire fra le vie intricatissime della grande città. La strada costeggiante il Nilo era deserta, avendo gli Egiziani l'abitudine di ritirarsi presto nelle loro case, sicché il carro poteva procedere rapidamente, senza essere obbligato a deviare od arrestarsi. Lo schiavo che correva a piedi, aizzava d'altronde di continuo i buoi, costringendoli a mantenere il loro galoppo.

Ben presto Her-Hor si trovò nel centro della grande città. Il carro aveva lasciato l'immenso viale e trottava fra due file di case di forme massiccie, interrotte di quando in quando da templi meravigliosi, che lanciavano le loro colonne ad altezze straordinarie. Era il quartiere di Ambù, il più splendido di Menfi, ricco di monumenti grandiosi e dove si addensavano i ricchi della capitale egiziana.

«Dove?» chiese ad un tratto il nubiano, volgendosi verso Her-Hor.

«Al tempio di Ptah,» rispose il vecchio. «Vedi le due guardie?»

«No, gran sacerdote.»

«Aspetterò al tempio il loro ritorno.»

Il carro riprese la corsa, poi si arrestò su una vasta piazza, nel cui centro s'alzava un edificio colossale, dinanzi alla cui porta, sorretta da due altissime colonne, giganteggiava una sfinge colla testa del re Menes, il fondatore di quell'opera grandiosa che tutti gli stranieri ammiravano stupiti. Era il tempio di Ptah, che era il più vasto ed il più celebre che avesse Menfi.

Il carro si era appena fermato, quando due uomini comparvero improvvisamente, attraversando la piazza di corsa. Il nubiano aveva estratta dalla cintura una specie d'ascia, ma le penne di struzzo che ondeggiavano sulla testa dei due corridori lo rassicurarono subito.

«Le guardie del re,» disse a Her-Hor.

Erano infatti i due soldati che il vecchio sacerdote aveva lanciati sulle orme di Ata.

«Lo hai raggiunto, Maneros?» chiese Her-Hor, quando le due guardie furono vicine.

«Sì,» rispose il soldato, che sudava come fosse allora uscito da una vasca.

«Dov'è andato?»

«Tu avevi indovinato, grande sacerdote. I vecchi partigiani di Teti preparano un gran colpo per rovesciare il re.»

«Come lo sai tu?» chiese il vecchio vivamente.

«Ho scoperto il luogo ove si radunano.»

«Continua.»

«Hanno forzata l'entrata della grande piramide di Daschour ed è la dentro che si radunano i ribelli.»

«Nella piramide?» esclamò Her-Hor.

«Sì, gran sacerdote.»

«Hanno violato il sepolcro! La punizione sarà doppiamente tremenda! Sono in molti?»

«Lo credo e devono essere anche bene armati, perché abbiamo veduto entrare nella piramide parecchi uomini carichi d'armi. Che cosa dobbiamo fare, gran sacerdote?»

Her-Hor stette alcuni istanti silenzioso, poi disse:

«È domani che si condurrà il dio Api ad abbeverarsi nel Nilo, è vero?»

«Sì, gran sacerdote,» rispose Maneros.

«La cerimonia riuscirà più splendida e più gradita alle nostre divinità, se sarà accompagnata da parecchi carri pieni di mani tagliate. Faremo una grande offerta ai numi del Nilo, e quelli ci saranno riconoscenti. La barca d'Osiride sta per rimontare in cielo: i ribelli devono dormire. È il momento buono per sorprenderli nel loro covo e renderli per sempre impotenti. Pepi si sbarazzerà così anche degli ultimi partigiani di suo fratello ed il popolo questa volta nulla potrà dire.»

«Attendo i tuoi ordini, gran sacerdote,» disse Maneros.

«Manda il tuo compagno al palazzo reale, onde informi Pepi di quanto succede. Raccoglierà tutta la guardia reale e io la guiderò senza indugio alla piramide. Prima che l'alba sorga, tutto deve essere finito.»

Si levò da un dito un anello e lo porse al compagno di Maneros.

«Con questo, tutte le porte del palazzo ti saranno aperte ed il re ti accoglierà subito. Va' e non perdere tempo.»

Il soldato partì, veloce come una freccia, dirigendosi verso la collinetta sulla cui cima giganteggiava il meraviglioso palazzo dei Faraoni.

«Alla piramide,» disse poscia Her-Hor, rivolgendosi al nubiano che aspettava i suoi comandi a fianco dei buoi.

«E io?» chiese Maneros.

«Mi scorterai,» rispose il sacerdote. «Conosci tutti i passaggi della piramide?»

«Sì, Her-Hor,» rispose Maneros. «Sono stato io che ho murata l'ultima pietra, dopo che fu sepolta la principessa.»

«Sicché tu puoi guidare con piena sicurezza le guardie del re attraverso i corridoi della mastaba?»

«Conosco tutte le serdab che conducono nella cripta centrale dove riposa, entro il suo sarcofago di basalto azzurro, la salma della graziosa e soave Rodope.»

«Come potremo sorprenderli?»

«Scendendo dalle gallerie superiori.»

«Va bene: partiamo. Pepi mi sarà riconoscente e tu avrai un bel grado, se riusciremo nel nostro intento. Mai il trono dei Faraoni ha corso un pericolo così grande e sta a noi salvarlo.»

«Io sono pronto a morire per il re.»

«Alla piramide,» disse Her-Hor al nubiano.

Il carro si rimise in marcia, attraverso le deserte vie dell'immensa città, dirigendosi verso il sud, là dove si stendeva la gigantesca necropoli menfina, che occupava quasi tutta la punta del Delta per una lunghezza di più leghe, spingendosi verso l'altipiano formato dalle ultime ondulazioni della catena libica. Là da migliaia e migliaia d'anni venivano sepolti i cadaveri a milioni e milioni.

Il carro, raggiunto l'ultimo lembo della città, si trovò finalmente in aperta campagna. Nelle tenebre giganteggiavano alcune piramidi fra cui una di mole smisurata, che lanciava orgogliosamente la sua cima al di sopra delle palme, proiettanti la loro ombra sulla necropoli sotterranea. Il nubiano aveva arrestato i buoi, guardando il sacerdote.

«Che cosa vedi?» chiese Her-Hor.

«Vi sono dei soldati,» rispose lo schiavo.

«Non aver paura: non sono qui per arrestare noi.»

Alcuni uomini, che portavano sul capo degli elmetti di cuoio e che avevano il petto difeso da una specie di corazza formata da fibre di papiro strettamente intrecciate, si erano fatti innanzi cogli archi tesi, pronti a scoccare le loro freccie.

Maneros si era subito slanciato dinanzi ai buoi, dicendo:

«Fate largo a Her-Hor, il gran sacerdote del tempio di Ptah: ordine del re.»

I guerrieri abbassarono gli archi e caddero in ginocchio, battendo la fronte al suolo ed il carro proseguì, arrestandosi di fronte alla grande piramide, dove riposavano le spoglie della bella Rodope.

 

 

CAPITOLO VENTITREESIMO

 

L'assalto alla piramide di Rodope

 

Nell'epoca in cui Menfi aveva raggiunto il suo massimo splendore, numerose piramidi s'alzavano nei suoi dintorni, non meno gigantesche di quelle che sussistono oggi e che formano oggi l'ammirazione dei viaggiatori perché prima cura di ogni capo d'una nuova dinastia era quella di prepararsi un sepolcro, che servisse di ricovero alla sua salma ed a quella dei suoi discendenti.

La costruzione della piramide cominciava subito dopo la sua incoronazione, certo con non molto piacere dei suoi sudditi, i quali erano costretti a lavorare anni ed anni duramente, senza percepire alcun stipendio, poiché i re si limitavano a nutrire quei disgraziati operai con rape e con legumi, che però importavano sempre una spesa enorme, poiché si trattava di dare da mangiare a migliaia e migliaia di bocche, per parecchi lustri di seguito. Si sa per esempio che la costruzione della piramide di Cheope che è la più grande che ancora sussista, costò la bagatella di mille e seicento talenti, pari a novecento milioni, spesi in soli legumi! ...

Fino a che il re viveva, il lavoro non veniva interrotto, sicché la piramide continuava ad ingrandirsi, aggiungendovi, senza posa intorno pietre enormi, cosicché più immense diventavano a misura che si prolungava la vita del sovrano. Quella di Cheope per esempio è la più colossale, perché il re che la fece costruire visse cinquantasei anni dopo la sua salita al trono. Essa è la meraviglia del genere, misurando duecento e ventisette metri per lato ed un'altezza di cento e trentasette, ma si crede che fosse assai più vasta e più alta e che la sua vetta sia stata in parte distrutta assieme ad una buona parte del suo rivestimento esterno. Comunque sia, desta sempre una profonda impressione al viaggiatore per la sua massa enorme e per la grandiosità delle sue linee e pari effetto producono le sue sorelle minori che le stanno ai fianchi, quelle chiamate Chefren e Mycerino, benché assai più piccole.

All'infuori però della meraviglia prodotta dalla mole, le piramidi egiziane non hanno nulla che possa interessare l'artista, essendo formate di enormi massi perfettamente lisci, senza alcuna scultura. Gli Egiziani non contavano certamente di fare delle opere d'arte, bensì di preparare al loro re un asilo sicuro, indistruttibile, che potesse sfidare i secoli e dove la mummia reale potesse riposare indisturbata fino alla fine del mondo.

Infatti le piramidi non sono altro che sepolcri particolari, simili alle mastabe, che si facevano costruire i ricchi egiziani, incominciate e condotte a compimento secondo proporzioni degne dei loro ospiti. Come le mastabe, nascondono entro i colossali loro fianchi delle serdab, ossia delle tortuose gallerie; e nel loro centro hanno la cripta, il luogo destinato a ricevere la salma del re. La cripta che si trova proprio nel cuore delle piramidi, non era altro che una piccola cella tenebrosa, coperta da un enorme lastrone di granito roseo, destinato ad impedire la caduta dell'enorme massa di pietre che doveva esercitare una pressione spaventevole.

Per ovviare il pericolo d'un franamento, gli architetti egiziani avevano la precauzione di costruire al di sopra della cripta cinque camere di scarico, sovrapposte le une alle altre, la più alta delle quali si trovava sormontata da due blocchi inclinati a guisa di tetto che dividevano e rigettavano la pressione esercitata da quella immensa fila di pietre.

Erano camere senza dubbio meravigliose, costruite con una solidità a tutta prova, che non piegarono d'una sola linea per centinaia e centinaia di secoli e che costituiscono il lato veramente straordinario della costruzione delle piramidi.

Nella piramide si rivela più luminoso il genio degli architetti egiziani di sei o sette mila anni fa, che eseguirono lo sforzo sovrumano benchè dotati di cognizioni scientifiche primitive e probabilmente privi di macchine. Ciò poi che desta maggior stupore è il fatto che le piramidi più antiche, costruite sotto le prime dinastie, hanno meglio delle altre resistito al tempo. Sembra che gli architetti di settemila anni or sono fossero migliori di quelli che vissero sotto le ultime dinastie. Infatti le prime sono ancora là, giganteggianti sui margini del deserto, ergendo orgogliosamente le loro cime, sfidando nella loro formidabile impassibilità i secoli, rinserrando ancora nei loro fianchi mostruosi le mummie dei re che le costruirono, come una sfida all'eternità. Sono i monumenti più antichi del mondo e probabilmente saranno anche gli ultimi a sparire.

Allorquando il nostro globo si sarà raffreddato e andrà roteando vuoto e spopolato; allorché l'ultima famiglia umana sarà scomparsa ed il tempo avrà ridotto in polvere le opere moderne, forse la grande piramide che racchiude la mummia di Cheope sussisterà ancora, ultimo avanzo della rovina d'un mondo e forse allora, in fondo a qualche sepolcreto incontaminato, una mummia proseguirà ancora il suo sonno secolare, circondata dagli oggetti più cari che ne allietarono l'esistenza, mentre noi moderni non saremo che polvere. Può darsi che quella mummia, dopo essere stata uno dei primi uomini a far sorgere l'alba della nostra civiltà, sia anche l'ultima testimonianza, sulla Terra deserta e morta, dell'esistenza del genere umano sul globo...

La piramide di Rodope, entro cui si erano riuniti i partigiani di Teti, non aveva le dimensioni di quella di Cheope, quantunque fosse annoverata fra le maggiori dell'immensa necropoli di Menfi ed in quel tempo era ancora intatta, non avendo ancora dovuto servire i suoi materiali alla costruzione di Tebe. Al pari delle altre, aveva camere vuote immense, corridoi e nel suo centro la cripta, dove dormiva già da secoli la salma della bella regina, entro un meraviglioso sarcofago di basalto azzurro, chiusa da un masso enorme di granito così duro da sfidare il piccone, poichè gli Egiziani curavano al massimo l'inviolabilità dei sepolcreti dei loro re e delle loro regine.

Her-Hor, dopo essersi fatto mettere a terra dallo schiavo nubiano, si avanzò lentamente verso la piramide, appoggiandosi al braccio di Maneros, osservando attentamente la fronte del colossale monumento la cui cima scompariva fra le tenebre.

«Dove si trova la pietra di chiusura?» chiese a Maneros.

«Al di sopra del ventisettesimo gradino,» rispose la guardia.

«Credi che siano entrati per di là?»

«È impossibile, grande sacerdote. Per chiudere la serdab dopo che fu sepolto l'ultimo rampollo della cessata dinastia, fu adoperato un masso così enorme e di pietra così resistente, che nessun essere umano avrebbe potuto né intaccare, né muovere. Non deve essere da quella parte che i ribelli sono riusciti a entrare nella piramide.»

«Allora, vi è qualche altro passaggio?»

«Sì, al di sopra del quarantesimo gradino sia a levante che a ponente, esistono due gallerie che immettono in una delle cinque stanze di scarico. Andiamo a vedere se i massi che le chiudevano sono stati smossi.»

«Quanti soldati vuoi?»

«I passaggi sono stretti fino alla camera,» rispose Maneros. «A me, ne basteranno due dozzine per ora: altri cinquanta rimarranno fuori sul gradino, pronti ad accorrere alla prima chiamata. I rimanenti circonderanno la piramide, poiché può darsi che esista qualche altro passaggio a me sconosciuto. Tu sai, grande sacerdote, come sono costruite le nostre piramidi e quanto sia difficile dirigersi attraverso le serdab.»

Her-Hor si volse verso lo schiavo nubiano che gli stava presso, in attesa dei suoi ordini e gli sussurrò alcune parole. Poco dopo due drappelli di arcieri, muniti di torcie e carichi di grossi fasci di legna verde, giungevano dinanzi alla piramide, mentre parecchi altri, molto più numerosi, si avanzavano silenziosamente, stendendosi intorno al gigantesco monumento.

«Obbedite a quest'uomo,» disse il sacerdote agli arcieri, indicando loro Maneros. «Egli solo conosce l'entrata.»

«Andiamo,» disse la guardia del re, snudando la sua larga daga. Si mise a salire i gradini della piramide finché raggiunse il quarantesimo, seguito da tutti gli altri che avevano già accese le torcie. Come aveva già previsto, la pietra che chiudeva una delle due gallerie che s'aprivano una dinanzi ed una dietro la piramide, coll'orientazione esatta da levante a ponente e che dovevano mettere nelle camere di scarico, era smossa. L'intonaco, quell'intonaco non meno duro del granito, di cui gli antichi egizi solo possedevano la ricetta per fabbricarlo, era stato levato con qualche istrumento tagliente.

«Sono entrati per di qui,» disse Maneros, volgendosi verso gli arcieri. «Il difficile sarà a scoprirli. Si troveranno nelle camere, nei pozzi o nella cripta?»

L'impresa non era davvero facile, poiché i costruttori delle piramidi scavavano, nell'interno di quelle masse enormi di pietra, un numero straordinario di gallerie e di pozzi per far perdere le piste ai futuri violatori e far prendere abbaglio sul posto reale della mummia e vi sono riusciti così bene che, quando gli arabi invasero l'Egitto, perdettero inutilmente il loro tempo a scoprirle, quantunque il califfo Amron avesse fatto scavare parecchi corridoi entro quei giganteschi sepolcreti.

Vi erano passaggi senza sbocco; pozzi che non servivano ad altro che a far smarrire le ricerche dei violatori; gallerie che scendevano e risalivano con grandi angoli e che conducevano sempre al medesimo punto; celle sotterranee scavate molti metri al di sotto del livello della piramide; gradinate che non mettevano in nessun luogo. Un vero labirinto insomma, che costringeva i violatori a perdere ogni speranza di raggiungere la famosa cripta dove la mummia reale riposava indisturbata.

Maneros, aiutato dagli arcieri, spostò l'enorme massa di granito rossastro che aveva servito a chiudere il passaggio, prese una torcia e s'inoltrò risolutamente nella serdab che scendeva verso il centro della piramide. Tutti gli altri lo avevano seguito, colle daghe sguainate, non potendo gli archi servire, almeno pel momento.

Un sandalo di paglia, abbandonato in mezzo alla galleria e che conservava ancora qualche traccia d'umidità, li persuase di essere sulla buona pista. I ribelli dovevano essere passati per di là e qualcuno si era sbarazzato di quella specie di suola, i cui legacci, per una causa qualunque, si erano spezzati.

La serdab continuava a scendere, non troppo ripida però. Era un corridoio abbastanza alto, perché un uomo si potesse tenere in piedi e largo un metro e mezzo, e che probabilmente doveva condurre nel pozzo centrale, da dove il sarcofago della bella regina era stato fatto scivolare nella misteriosa cripta, perduta chi sa dove fra quell'ammasso enorme di pietre, che Menkeri aveva fatto accumulare onde la sua bella potesse riposare tranquilla attraverso i secoli.

Il drappello, munito di fiaccole, s'avanzò con precauzione, arrestandosi di quando in quando per ascoltare, finché si trovò dinanzi ad una specie di pozzo assai largo, fornito di una gradinata che scendeva in forma di spirale e che presumibilmente doveva terminare in una delle cinque camere di scarico, probabilmente la superiore.

«Silenzio,» disse Maneros, rivolgendosi verso gli arcieri.

Si curvò sul margine del pozzo il cui fondo non era visibile ed ascoltò attentamente.

Un debole rumore, che sembrava prodotto dal russare di qualche gigantesco animale, giunse ai suoi orecchi.

«I ribelli sono sotto di noi,» sussurrò. «Hanno occupato le camere di scarico e dormono tranquilli, sicuri di non venire disturbati. Certo non s'immaginavano di venire sorpresi.»

Si volse verso gli arcieri: «Accendete un fascio di legna, gettatelo nel pozzo, e mandate qualcuno a vedere se il fumo esce dietro la piramide. Suppongo che anche l'altra galleria sia stata forzata per prepararsi una pronta ritirata.»

Un arciere diede fuoco ad un fastello e lo lasciò cadere nel pozzo, mentre un altro si allontanava correndo.

«Preparate gli archi,» continuò Maneros. «Se i ribelli si mostrano, non fate risparmio di freccie.»

Una densa colonna di fumo s'alzò per qualche istante dal pozzo, nel cui fondo crepitava il fascio, lanciando intorno a sé lunghe lingue di fuoco che avevano dei bagliori sanguigni. Certo qualche materia molto infiammabile doveva essere stata racchiusa fra i legni che formavano il fastello, a giudicare dalla violenza delle vampe e dalla intensa luce che proiettavano sulle pareti.

Quella nuvola ebbe però una durata brevissima. S'abbassò rapidamente, poi scomparve completamente come se fosse stata assorbita.

«Invade le camere di scarico,» disse Maneros con un feroce sorriso. «Si vede che i ribelli hanno forzata anche la serdab che sbocca a ponente della piramide.»

Un urlo immenso, che pareva sfuggito da centinaia e centinaia di petti, rintronò nel mezzo della piramide, seguito da un tumulto spaventevole.

«Il fuoco! Il fuoco!»

Quelle voci echeggiavano in alto ed in basso, propagandosi attraverso le misteriose gallerie che salivano e scendevano nei fianchi del colossale monumento.

«Giù i fasci!» comandò Maneros.

Una ventina di fastelli furono precipitati nel pozzo, alzando una fiammata tale da costringere gli arcieri a retrocedere rapidamente.

«Ecco chiuso il passaggio,» disse Maneros. «Ora possiamo andare ad attendere i ribelli allo sbocco della seconda galleria. È impossibile che possano resistere, tanto più che non potranno scendere fino alla cripta di Rodope che è chiusa da una lastra di pietra assolutamente inattaccabile.»

Il drappello, ormai certo che nessuno dei ribelli avrebbe potuto passare attraverso il fuoco che avanzava come un piccolo vulcano entro il pozzo, allungando le sue lingue fino ai margini superiori, riprese frettolosamente la via del ritorno onde sottrarsi ai nuvoloni di fumo che invadevano ormai anche la serdab.

Giunto all'aperto, Maneros s'avvide che la piramide era stata ormai tutta circondata dalle truppe reali, le quali formavano un immenso rettangolo, con delle linee assai profonde.

«Sono presi,» disse. «Il mio avanzamento è assicurato.»

Scese frettolosamente i gradini e raggiunse Her-Hor che stava seduto presso il carro.

«Li teniamo ormai tutti,» gli disse. «Il re sarà soddisfatto della nostra spedizione.»

«Sei certo che vi siano dentro?» chiese il gran sacerdote.

«Abbiamo udite le loro grida. Sali sul carro e vieni ad assistere alla loro resa.»

Il nubiano prese Her-Hor e lo rimise sul veicolo; poi guidò i buoi verso la parte opposta della piramide, dove Maneros supponeva esistesse il secondo corridoio, passando attraverso le linee degli arcieri che stavano tendendo gli archi.

La guardia non si era ingannata. Al di sopra del quarantesimo gradino della facciata posteriore dell'immenso sepolcreto, sfuggiva un filo di fumo perfettamente visibile, cominciando allora il cielo a tingersi dei primi riflessi dell'aurora.

«Lo vedi?» chiese ad Her-Hor, indicandoglielo.

«Sì,» rispose il sacerdote. «Fa venire innanzi gli scribi, i carnefici ed i carri. Fra mezz'ora Pepi potrà esaminare le mani dei vecchi partigiani di suo fratello.»

Quattro giovani, quasi completamente nudi, perché non avevano che una cintura stretta intorno alle reni, sostenenti alcuni rotoli di papiri e dei pennelli, si erano fatti innanzi, sedendosi ai fianchi di Her-Hor.

Erano quattro scribi, personaggi molto importanti ed assai apprezzati alla corte dei Faraoni, perché incaricati di registrare tutti gli avvenimenti importanti che succedevano, di scrivere le necrologie dei grandi e dei re, di tenere stretto conto delle condanne pronunciate e delle pubblicazioni letterarie, (infatti anche in quelle lontane epoche gli scrittori non mancavano.) Trassero i rotoli che tenevano nelle cinture e li svolsero preparandosi a scrivere. Erano i famosi papiri che servivano agli antichi egizi come carta, tagliati in striscie sottili lunghe dieci o dodici piedi, incollate a strati e disposte ad angolo retto, con una soluzione di gomma arabica.

Dietro di loro erano subito comparsi due schiavi nubiani, di forme atletiche, che tenevano in mano delle daghe di bronzo affilatissime, dalla lama molto larga e assai pesante verso la costa superiore: erano i carnefici reali.

Her-Hor teneva gli sguardi fissi sulla nuvoletta di fumo che sfuggiva ad ondate al di sopra del quarantesimo gradino. Una gioia sinistra animava il suo viso incartapecorito. Ad un tratto mandò un grido: «Tendete gli archi!»

Un uomo era comparso attraverso il fumo, balzando, con un salto immenso, sul gradino. Era sbucato dalla galleria di ponente e si era subito fermato, facendo un gesto di rabbia, mentre gli arcieri che circondavano la piramide alzavano gli archi, pronti a saettarlo.

Her-Hor, aiutato dal nubiano, si era alzato, gridando: «Arrenditi o ti faccio uccidere. La giustizia del re t'ha ormai raggiunto e Pepi è clemente anche verso i ribelli che gl'insidiano il potere. Scendi!»

Dietro a quel primo uomo ne erano comparsi molti altri, rovesciandosi verso i gradini superiori che in breve furono tutti occupati.

I ribelli sorpresi dal fumo che aveva invaso certamente le ampie stanze di scarico e anche le serdab, ed impotenti a sfidare il fuoco che ardeva nel pozzo, per sfuggire alla soffocazione erano fuggiti per l'apertura di ponente, aggruppandosi sui gradini della gigantesca piramide. Siccome rimanevano immobili, come incrostati contro le pietre, Her-Hor aveva ripetuto:

«Arrendetevi o le guardie del re si lancieranno all'assalto della piramide.»

Un grido fendette lo spazio:

«Addosso: meglio la morte con le armi in pugno.»

Era stato Ata a lanciarlo.

Tosto quei sette od ottocento uomini che erano sbucati dalle viscere dell'immenso sepolcreto, si rovesciarono attraverso i gradini come una valanga spaventevole. Era tutti armati di daghe, di ascie dalla lama larghissima e di lunghi pugnali.

Le guardie del re, tre o quattro volte superiori di numero, e fornite di grandi scudi, si erano prontamente radunate dinanzi alla fronte di ponente della piramide, stringendo le file e lanciando una nuvola di dardi.

Dei ribelli, trafitti dalle freccie, di quando in quando stramazzavano sui gradini e ruzzolavano come corpi inerti, balzando e rimbalzando sui fianchi della piramide; ma gli altri, guidati da Ata che pareva un leone affamato, continuavano la loro furibonda discesa, urlando ferocemente ed agitando forsennatamente le daghe e le azze di guerra.

Quella corsa durò appena mezzo minuto. I dardi delle guardie del re non erano riusciti ad arrestare quella valanga umana, la quale giunse ben presto alla base della piramide, scagliandosi, con impeto disperato, contro i sudditi dell'usurpatore.

Erano i partigiani di Teti quasi tutti vecchi, però esperti nel maneggio delle armi, avendo partecipato alla lunga e terribile campagna intrapresa contro le falangi dei Caldei, quindi potevano costituire un grave pericolo anche per le guardie reali, malgrado queste fossero assai più numerose.

L'urto fu terribile. Ata che guidava i vecchi amici di Teti, con uno slancio irresistibile sfondò le prime file, tentando di aprirsi a viva forza un passaggio. Disgraziatamente altre truppe, che fino allora si erano tenute nascoste in mezzo ai palmeti, accorrevano in soccorso di quelle che avevano circondata la piramide, rinforzando le loro linee. Erano altre migliaia di guerrieri che piombavano sui ribelli, montati su carri di battaglia trascinati da focosi cavalli, che si scagliavano in mezzo alle file ormai disorganizzate dei combattenti.

Fu l'affare di pochi minuti. Il numero aveva vinto il valore disperato dei partigiani di Teti. La disfatta era completa.

Her-Hor, che aveva assistito impassibile alla terribile battaglia, stando coricato sul suo carro, quando vide i ribelli disarmati e stretti fra le truppe reali, gridò:

«Che si avanzi il capo di questi miserabili.

Ata che aveva le braccia ed il kalasiris insanguinato, essendosi battuto ferocemente, si fece innanzi, gettando sul gran sacerdote uno sguardo ripieno di disprezzo.

«Sono io, il capo,» disse. «Vuoi la mia vita? Prendila: qualcuno penserà a vendicarmi e più presto che tu nol creda. Il regno di Pepi, l'usurpatore, sta per tramontare per sempre.»

Her-Hor fissò sul valoroso egiziano i suoi occhi, esclamando:

«Io ti conosco.»

«Può darsi,» rispose Ata.

«Ti ho veduto nell'isola delle ombre.»

«Ah! Eri là anche tu?»

«Dov'è Nefer?» gridò il vecchio, digrignando i denti.

«Vattela a cercare.»

«E Ounis?»

«Chi lo sa?»

«E Mirinri?»

«Che ne so io?»

«Erano con te.»

«Li ho perduti lungo la via,» rispose Ata, con accento beffardo. «Se vuoi trovarli cercali lungo il Nilo. Ti avverto però, vecchio, che il fiume è lungo e che le sue sorgenti sono nascoste nel regno scintillante di Râ e d'Osiride.»

«Tu ti prendi gioco di me!» urlò Her-Hor.

«Vuoi la mia vita? Ti ho detto di prendertela. Ounis e Mirinri mi vendicheranno.»

«Ounis!» ruggì il gran sacerdote, con un intraducibile accento d'odio. «Lo voglio in mia mano, mi comprendi? Più lui che Mirinri!»

«Perché?»

«Perché è lui il nemico più terribile. Io solo so chi si nasconde sotto quel nome.»

«Va' a prendertelo dunque.»

«Dove li hai lasciati?»

«Te l'ho già detto, vecchio: sul Nilo.»

«O sono qui, invece?»

«Solo essi potrebbero dirtelo. Va' ad interrogarli.»

«Non temi la collera del re?»

«Io non ho conosciuto che un solo re: il grande Teti e da quello nulla avevo da temere, perché era mio amico.»

«Passa dunque!» gridò Her-Hor, furibondo.

«Ah! I carnefici del re,» disse Ata. «So la sorte che mi attende. Ecco le mie mani!»

S'avanzò tranquillo attraverso le file dei soldati e offrì le sue braccia al primo carnefice che l'aspettava colla daga alzata:

«Taglia dunque,» disse. «L'anima del vecchio guerriero non perirà per questo.»

Due volte la lama scintillò e le due mani del disgraziato caddero al suolo, senza che un lamento gli fosse sfuggito.

«Donale all'usurpatore,» disse il fiero egiziano, spruzzando col suo sangue il viso del grande sacerdote. «Ounis e Mirinri un giorno ti faranno pagare cara questa mutilazione.»

Un aiutante del carnefice lo aveva subito afferrato, immergendogli rapidamente i moncherini sanguinanti in un bacino d'olio caldo per arrestare l'emorragia.

«Avanti gli altri,» disse Her-Hor.

Seicento sfilarono dinanzi al suo carro e mille e duecento mani caddero.

Mezz'ora dopo sessanta carri di battaglia lasciavano i dintorni della piramide, portando alla corte quei sanguinanti trofei.

 

 

CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

 

Il dio Api

 

L'indomani della visita di Ata, Mirinri, Ounis e la fanciulla, muniti ognuno d'un istrumento musicale per fingersi suonatori ambulanti, lasciarono dopo il mezzodì la casetta, per recarsi all'appuntamento. Dovendo attraversare tutta l'immensa città, la quale si estendeva per molte leghe lungo le rive del Nilo, si erano messi in cammino per tempo, contando di giungere nei pressi della piramide non prima del tramonto.

Usciti dal quartiere degli stranieri, si erano cacciati nelle tortuose vie che conducevano al centro della metropoli, fiancheggiate dapprima da meschine casupole, formate da quattro mura di terra battuta, contenenti uno o due locali destinati a rinchiudervi le provvigioni ed un cortiletto che serviva da stanza da letto e da cucina, usando i poveri dormire all'aria libera, e poi da palazzi d'aspetto severo e dalle linee semplicissime.

Gli antichi architetti egizi non spiegavano soverchia fantasia nella costruzione dei loro palazzi, né si preoccupavano di dare una soverchia robustezza e la prova ne è che neppure una di quelle abitazioni, destinate ai ricchi ed ai grandi del regno, poté sussistere fino ai nostri tempi.

Ciò che gli Egiziani volevano fare eterni erano i templi ed i sepolcreti; i primi perché formavano quasi formule magiche o atti perpetui d'adorazione che, finché esistevano rendevano il dio propizio; i secondi perché proteggevano le mummie e le statue dei morti che erano il rifugio dell'anima sulla terra e perché il loro muto ospite non poteva perire finché i suoi resti sussistevano inviolati nella profondità del sepolcreto.

Nondimeno davano ai loro palazzi, se non una eccessiva solidità, una certa eleganza, con bellissimi peristilii formati da colonnati di legno, esili e allargantisi verso la cima; decoravano i soffitti con disegni intrecciati, incrostavano le pareti delle sale di malachite e di lapislazzuli e i palazzi stessi fornivano di terrazze e di cortili dai pomposi mosaici, ombreggiati da immense tende e rinfrescati da fontane mormoranti.

Mirinri, che nulla aveva mai veduto di simile nel deserto dove era cresciuto, guardava con ammirazione crescente lo splendore e la grandiosità dei templi, l'altezza degli obelischi scintillanti d'oro, le lunghe file di palazzi, che si seguivano senza interruzione, la vastità delle piazze dove s'ergevano delle sfingi colossali le cui teste ricordavano i re delle prime dinastie.

«Che cosa ne pensi della tua capitale?» gli chiese Ounis, che sembrava invece non stupirsi di nulla, come se Menfi gli fosse famigliare.

«La mia?» rispose Mirinri. «Non lo è ancora.»

«Domani tu sarai re e l'usurpatore non siederà più sul trono che ti ha rubato. Quando i partigiani di tuo padre irromperanno, come una valanga irresistibile, attraverso la città proclamando re il figlio di Teti il grande, il popolo farà subito causa comune con loro. Questo popolo non può aver dimenticato colui che salvò l'Egitto dalle invasioni dei Caldei.»

«Io sono pronto a guidare i vecchi amici di mio padre,» disse Mirinri. «Nemmeno la morte mi arresterà. È ancora lontana la piramide?»

«La via è ancora lunga,» disse Nefer, che gli camminava accanto.

«La conosci tu?»

«Ho danzato il ballo funebre molte volte intorno ad essa. La bella Rodope amava la musica e la danza e tutti gli anni le più belle fanciulle di Menfi vanno ad allietare la sua mummia.»

«Rodope! Chi era costei?» chiese Mirinri. «Una regina forse?»

«Una povera che Menkeri innalzò agli onori del trono e che il popolo adorò come una divinità, per le sue gote color di rosa, ma era già destinata a salire molto in alto.»

«Perché?» chiese Mirinri.

«Si narra che un giorno, mentre la bella fanciulla stava bagnandosi nel fiume, un'aquila piombò su uno dei suoi sandali che aveva deposto sulla riva del Nilo e lo portò verso Menfi, lasciandolo poscia cadere ai piedi del re che stava seduto all'aria aperta. Sorpreso e meravigliato dalla stranezza di quel caso e per l'estrema piccolezza di quel sandalo, diede ordine che si cercasse in tutto il regno la sua proprietaria, immaginandosi che non potesse appartenere che a qualche bellissima fanciulla. Fu trovata: era Nitagrit. Il re, subito innamoratosi, la sposò, imponendole il nome più grazioso di Rodope e...»

Un lontano rullare di tamburi aveva bruscamente interrotta Nefer, seguito subito da una vivissima animazione da parte del pubblico che ingombrava la via. Uomini e donne avevano affrettato il passo, anzi taluni si erano messi a correre velocemente.

«Che cosa succede?» aveva chiesto Mirinri a Nefer ed a Ounis.

«Qualche cerimonia religiosa,» aveva risposto la prima.

«Può darsi,» aveva detto il vecchio. «Mi sembra che noi ci troviamo non lungi dal tempio della sfinge.»

«Non t'inganni,» disse Nefer. «Ecco la vasta piazza su cui sorge il più antico tempio che vanti il regno.»

«Andiamo a vedere,» disse Mirinri. «Bisogna che conosca anch'io le cerimonie religiose del mio popolo.»

Affrettarono il passo, mentre il rullo dei tamburi diventava più sonoro, accompagnato da uno squillare acuto di trombe, di corni e di flauti. La folla precipitava la corsa, quantunque fosse composta in maggioranza di donne, poiché gli uomini ordinariamente se ne stavano a casa a sbrigare le faccende domestiche. Ben presto Mirinri, Ounis e Nefer si trovarono su una immensa piazza, già gremita di gente, nel cui centro s'alzava un immenso tempio.

Era il tempio chiamato della Sfinge, uno dei più celebri di Menfi ed anche il solo che sia sfuggito in parte all'invasione formidabile delle sabbie del deserto libico, che fecero scomparire quasi ogni traccia dell'immensa metropoli egiziana.

Era quello il monumento più antico del mondo e, per la semplicità della sua architettura, costituiva il vincolo d'unione fra le costruzioni megalitiche e l'architettura propriamente detta.

Da una iscrizione che data dal regno di Cheope, trovata sulla sua facciata alcuni anni or sono dall'egittologo Mariette, che lo disseppellì dalle sabbie che lo coprivano, sembra che fosse stato, in tempo più antico, ancora novamente coperto dalle colonne sabbiose che il vento spingeva attraverso il Nilo. Lo si attribuiva, come la gigantesca sfinge che conteneva nel suo interno, agli Schesou-Hor, ossia agli antenati dei Faraoni, popolo misteriosamente scomparso, e che nondimeno fondò la prima civiltà nella vallata del fiume gigante.

Quel tempio occupava un'area immensa e poteva contenere fra le sue mura, formate da enormi massi di pietra calcarea, migliaia e migliaia di persone, le quali potevano circolare liberamente fra le innumerevoli colonne quadrate, formate da massi enormi di granito e d'alabastro sovrapposti, sostenenti la piattaforma orizzontale ed i soffitti delle sale.

Nel momento in cui Mirinri ed i suoi compagni giungevano sulla piazza, un gran numero di suonatori e di suonatrici usciva dall'immensa porta, facendo echeggiare le trombe di bronzo, i flauti doppi e semplici, le arpe, le lire, le trigene ed agitando furiosamente i sistri sacri e le sekhem e le sesbesh di bronzo e di porcellana.

Nefer era diventata pallidissima.

«Accompagnano il dio Api ad abbeverarsi al Nilo!» aveva esclamato, stringendosi contro Mirinri.

«È un toro, è vero?» aveva chiesto il giovane.

«Sì.»

«Vediamolo.»

«Io ho paura.»

«Di che cosa Nefer?»

«Penso alla mia profezia.»

Mirinri alzò le spalle.

«Sogni troppo di frequente,» rispose con un sorriso.

«E se vi fosse...»

«Chi?»

Nefer non proseguì: guardava però Mirinri con angoscia estrema, ma già il giovane Figlio del Sole aveva rivolta la sua attenzione sul corteo che usciva dal tempio.

Dopo i suonatori e le suonatrici, che s'avanzavano fra un fracasso assordante, si erano rovesciati sulla piazza, formando delle lunghe file, nubi di danzatrici vestite sfarzosamente e colle gambe e le braccia scintillanti di gioielli preziosissimi. Erano le sacerdotesse del tempio, incaricate di rendere più attraenti le cerimonie religiose, amando gli antichi egizi sfoggiare nei loro templi un lusso ben maggiore di quello della chiesa cristiana.

Già parecchie centinaia di suonatori e di danzatrici erano sfilate fra la folla che si accalcava sulla immensa piazza, quando uscì dalla porta del tempio, scortato da due drappelli di guardie reali e da numerosi sacerdoti, un bellissimo toro dal pelame tutto nero, con le corna dorate. Era il famoso dio Api, a cui era stato dedicato il tempio della Sfinge e che tutto l'Egitto adorava come una emanazione d'Osiride e di Ptah.

Era di solito un animale giovane, scelto con grande cura dai sacerdoti, perché doveva avere sul suo dorso certi segni speciali, per far riconoscere la sua origine divina: ossia il pelame nero, con un segno bianco sulla fronte in forma di triangolo, una macchia oscura lungo la spina dorsale che bene o male doveva raffigurare un'aquila, un'altra sotto la lingua che doveva rassomigliare ad uno scarabeo ed i peli della coda doppi.

Quei segni particolari del corpo del toro erano accuratamente rilevati dai sacerdoti, i quali però si accontentavano di una vaga disposizione dei mazzetti di pelo indicanti le figure necessarie, così alla lontana, come un gruppo di stelle disegna nel cielo l'orsa, la lira, il centauro ecc.

La venerazione che avevano gli Egiziani per quel fortunato animale era eguale a quella che hanno ancora oggidì i siamesi pel loro elefante bianco e allorquando moriva, era un lutto per tutto l'Egitto. Però non gli si lasciava varcare il venticinquesimo anno, e per quanto dolorosa potesse sembrare la sua morte, i sacerdoti non esitavano ad annegarlo in una fontana che era consacrata a Osiride-Api; poi il suo corpo, accuratamente imbalsamato ed aromatizzato, veniva sepolto con grandi onori in un apposito sepolcreto a fianco dei suoi predecessori.

Alla comparsa del toro, la folla si era subito gettata a terra, battendo la fronte sulle pietre della piazza, mentre il toro, che sembrava stordito dal fracasso assordante che producevano, tutti quegli strumenti musicali, muggiva sordamente tentando di prendere la corsa.

Lo seguivano venti carri di battaglia, montati ognuno da due persone: un auriga ed un grande dignitario, che si teneva ritto, appoggiandosi ad una lunga lancia. Quei carri costituivano la cavalleria egiziana, perché, come abbiamo già detto, i guerrieri faraonici non avevano appresa l'arte di cavalcare. Essi si componevano d'un grande canestro, che da ambi i lati portava delle rastrelliere per le armi e per le faretre che contenevano parecchie centinaia di freccie e posava sopra un asse a due ruote, ornati, come pure il timone, di lamiere di metallo e dipinti a colori smaglianti.

Ogni carro era tirato da due vigorosi cavalli, coperti di gualdrappe variopinte e che portavano sulla testa dei grandi ciuffi di penne. L'effetto che producevano quei carri, lanciati a corsa sfrenata attraverso i campi di battaglia, era quanto mai pittoresco. Anche i re combattevano dall'alto di quei carri, guidando quasi sempre la carica nel momento supremo della lotta.

Erano appena sfilati dinanzi alla folla, quando questa, che dopo il passaggio del toro si era rialzata, tornò a gettarsi precipitosamente al suolo.

Sulla soglia del tempio era comparso un magnifico palanchino, tutto scintillante d'oro, sorretto da quattro schiavi etiopi di alta statura, seminudi e colle braccia e le gambe adorne di braccialetti di metallo prezioso.

Mollemente adagiata su un largo cuscino di lino azzurro, cosparso di smeraldi e di rubini e semicoperta da un immenso ventaglio di piume di struzzo, col manico lunghissimo, che una giovane schiava etiope reggeva, stava una bellissima fanciulla, che aveva lunghe collane di pietre preziose al collo e larghi braccialetti d'oro ai polsi e che sul capo portava una strana acconciatura formata da laminette d'oro, con dinanzi una testa di sparviero, il simbolo del diritto di vita e di morte.

Aveva la carnagione quasi bianca, gli occhi bellissimi, colla pupilla di velluto dall'espressione imperiosa e dolce ad un tempo; le labbra rosse come corallo ed i capelli corvini, raccolti in un numero infinito di trecce che le sfuggivano al di sotto dell'acconciatura d'oro, scendendole sulle spalle.

Mirinri aveva appena posati i suoi occhi sulla fanciulla, che un grido irrefrenabile gli sfuggì dalle labbra:

«La mia Faraona!»

Poi, prima che Ounis avesse pensato a trattenerlo, con un impeto irresistibile atterrò le persone che gli stavano dinanzi e la doppia linea degli arcieri e s'inginocchiò dinanzi alla lettiga, colle braccia tese, gridando:

«Mi riconosci tu? Io ho stretto fra le mie braccia il tuo corpo divino!»

La folla e le stesse guardie che seguivano il corteo, stupiti da quell'atto, per qualche istante rimasero muti ed immobili: anche la giovane Faraona, che udendo quel grido si era alzata, fissando con profonda sorpresa il giovane, non aveva pronunciata alcuna parola.

Ad un tratto popolo e guardie si scagliarono tumultuosamente addosso all'audace, colle daghe, colle mazze, colle ascie da guerra alzate, per accopparlo. Un comando imperioso della giovane Faraona arrestò tutti:

«Fermi!»

Mirinri non si era mosso.

Stava sempre in ginocchio dinanzi al palanchino dorato, colle braccia tese, in una specie d'adorazione, cogli occhi fissi sulla figlia dell'onnipossente re.

«Mi riconosci?» ripetè.

La Faraona fece col capo un leggero cenno affermativo, mentre le sue gote diventavano rosee.

Le armi si erano abbassate, però gli arcieri avevano formato attorno a Mirinri e attorno a Nefer, che si era spinta risolutamente innanzi, un doppio circolo per impedire a loro di fuggire e pareva che non aspettassero che un segno per farli a pezzi.

«Seguimi al palazzo reale,» disse finalmente la Faraona «Nitokri riconosce in te il valoroso che un giorno, sulle rive dell'alto Nilo, l'ha strappata dalle fauci d'un coccodrillo.»

Mirinri aveva mandato un grido di gioia, a cui aveva fatto eco un altro di dolore: il gemito di Nefer.

Il corteo aveva ripreso la marcia. Mirinri era passato dietro allo splendido palanchino assieme a Nefer, stretto da vicino da una dozzina di guardie reali che lo guardavano poco benignamente, intanto che Ounis, imprecando, si allontanava.

Giunto all'estremità d'un immenso viale, il corteo si era diviso: quello del bue Api proseguì verso il Nilo, mentre quello della giovane Faraona, composto esclusivamente di grandi dignitari montati sui loro carri di battaglia, e di guardie reali, risaliva verso la parte orientale della metropoli.

Nitokri, la bellissima figlia di Pepi, era tornata a coricarsi sul ricchissimo cuscino, mentre la schiava etiope che le camminava a fianco della lettiga le faceva dolcemente vento col ricchissimo ventaglio dalle lunghe e variopinte penne, fissate su una placca d'oro di forma semicircolare. Pareva che non si fosse più occupata di Mirinri, ma invece, di quando in quando, volgeva lentamente indietro la testa, sollevava dolcemente le sue lunghe ciglia e le sue pupille profonde e vellutate si fissavano, colla rapidità del lampo, sul suo salvatore, ammirando forse la finezza dei lineamenti e la taglia elegante ed insieme vigorosa, ed ora sulla bella Nefer che la seguiva silenziosa, cogli occhi umidi. Certo sapeva chi era il giovane che l'aveva strappata ad una morte sicura; certo non ignorava che nelle loro vene scorreva il medesimo sangue; che erano entrambi di discendenza divina, entrambi Figli del Sole.

Dopo aver percorso un'ampia strada ombreggiata da doppi filari di splendide palme dalle immense foglie piumate, si avanzò su un viale che saliva dolcemente ed era fiancheggiato da superbi giardini, dove giganteggiavano dei colossali sicomori che mantenevano una deliziosa frescura. Dopo cinque minuti, la lettiga ed il seguito giungevano dinanzi alla superba dimora dei possenti Faraoni.

Mirinri si era fermato guardando estatico l'imponente palazzo dove era nato e dove aveva regnato suo padre, quando si sentì improvvisamente atterrare. Sette od otto guardie si erano precipitate su di lui e, dopo d'averlo gettato a terra, l'avevano rapidamente legato ed imbavagliato, prima ancora che avesse potuto opporre qualsiasi resistenza.

La Faraona e Nefer avevano mandato due grida:

«Non uccidetelo! È un Figlio del Sole.»

Una voce, che fece fremere Nefer, s'alzò fra le guardie:

«Non ora: più tardi.»

«Her-Hor!» aveva gridato la fanciulla.

Guardò Mirinri, che non dava più segno di vita, come se sul bavaglio avessero versato qualche narcotico, poi stramazzò svenuta fra le braccia d'una guardia.

 

 

CAPITOLO VENTICINQUESIMO

 

Nei sotterranei del palazzo reale

 

Quando Mirinri potè riaprire gli occhi, invece del superbo palazzo dei Faraoni egiziani, si vide dinanzi solamente delle tenebre fittissime.

La splendida visione era scomparsa assieme alla lettiga dorata della fanciulla che aveva salvato, al sole risplendente sull'immenso viale e alla luce che lo aveva abbagliato.

Per un momento si credette cieco. Perché i suoi nemici non potevano aver approfittato del suo improvviso svenimento per fargli scoppiare, con un bacino infuocato, gli occhi? Ounis gli aveva narrato e, non una sola volta, d'altre punizioni simili. Non sarebbe stato quindi nulla di straordinario. A quel terribile pensiero ebbe un sussulto, che cessò però subito, poiché non provava alcun dolore e sentiva le palpebre alzarsi ed abbassarsi senza alcuna difficoltà.

«Che la notte sia calata?» si chiese finalmente. «E dove sono io? In un sepolcreto od in un sotterraneo del palazzo reale? E Nefer? E Ounis? Che cosa sarà accaduto di loro? Ah! La sinistra profezia della fanciulla si è avverata! Me l'aveva predetto!»

Si rizzò sulle ginocchia, girando intorno le mani. Non toccò nulla, tenebre sole e tenebre densissime lo avvolgevano.

«Dove sono io?» si chiese per la seconda volta. «Che mi abbiano sepolto vivo in qualche mastaba o nella piramide di Rodope? Che la mia giovinezza, che i miei sogni di gloria e di potere debbano finire così miseramente? Ah no! È impossibile! Io non voglio morire, io che sono il figlio del grande Teti!»

La sua voce, squillante come una tromba di guerra, echeggiò poderosa fra l'oscurità. «A me! A me! Salvate il figlio di Teti! Liberatemi, miserabili! Io sono il re dell'Egitto!»

Un sordo gemito rispose a quell'invocazione disperata:

«Mio signore!...»

Mirinri stette un momento silenzioso, credendo di essersi ingannato, poi proruppe in un grido acutissimo:

«Nefer!»

«Sì, mio signore!»

«Ove sei tu, povera fanciulla?»

«Vago fra le tenebre, cercandoti.»

«Lascia che le mie mani tocchino il tuo corpo!»

«Sì, mio signore... non ti vedo, ma ti sento e ti odo... eccomi... sono presso di te.»

Mirinri aveva allungate le braccia stringendo la fanciulla.

«Presso di te,» le disse con voce alterata, «la morte mi pare più dolce... ed io ti ho tratto alla rovina, io che ho troppo abusato di te, buona e dolce Nefer.»

«Bastano queste parole, che mai ho udito uscire dalle tue labbra divine, per compensarmi,» disse la fanciulla, posando le sue mani sul viso di Mirinri. «Che importa a me di morire? Noi siamo abituati fino dall'infanzia all'ultimo passo della vita e guardiamo, senza tremare, la raggiante barca di Râ.»

«Morire!» gridò Mirinri, che era stato preso da un terribile accesso di furore. «Noi, così giovani, dare un addio al Nilo e alla terra che esso bagna; alla luce ed al mondo; seppellire qui, entro queste tenebre la vendetta e perdere il regno che per diritto di nascita mi spetta! No, non voglio morire, prima d'essermi assiso, almeno per un momento solo, sul trono dei possenti Faraoni.»

«E veder ancora colei che ti ha perduto, è vero, signore?»

«Taci, Nefer! Sai tu dove siamo?»

«Nei sotterranei del palazzo reale, suppongo.»

«È giorno od è notte? Io non vedo alcun barlume di luce in nessun luogo.»

«Il sole è scomparso da più ore,» rispose Nefer. «Quando io ho ripresi i sensi vi era ancora un po' di luce qui dentro, ma che non durò tanto da permettermi di scoprirti.»

«Eri svenuta o t'avevano dato da bere qualche filtro misterioso?»

«Nessuno mi diede nulla.»

«E come è che io, appena mi hanno messo quel bavaglio, non ho più veduto, né udito nulla?»

«Certo quel bavaglio doveva essere stato prima impregnato di qualche essenza narcotica.»

«Nefer,» riprese Mirinri, dopo essere rimasto alcuni istanti silenzioso. «È vasto questo sotterraneo?»

«Mi parve immenso.»

«Hai veduto nessuno discendere dopo che ci hanno portato qui?»

«Mi sono trovata sola quando riaprii gli occhi.»

«Che ci abbiano condannati a morire qui dentro di fame e di sete?»

Nefer rimase muta raggomitolandosi su se stessa. Dalla vibrazione dei suoi braccialetti, il giovane Faraone capì che tremava fortemente.

«Rispondimi, Nefer,» disse Mirinri, con angoscia.

«Non te lo posso dire, mio signore. Io però ho paura di quell'uomo che è potente quasi come il re.»

«Di quale?»

«Non è morto: quel vecchio sinistro deve avere l'anima ben fissata entro il suo corpo ischeletrito, eppure il colpo di daga io l'ho vibrato con mano sicura.»

«Il sacerdote del tempio delle ombre, quello che mi avevi detto d'avere ucciso?»

«Sì, è vivo. Nel momento in cui ti arrestavano, ho udito la sua voce.»

«Ti sarai ingannata: quando si è vecchi non si guarisce da un colpo di daga. Nella confusione avrai scambiato quella voce con un'altra.»

«Vorrei che così fosse, mio signore. Anche a me pare impossibile che egli sia ancora vivo.»

«È di Pepi che io ho paura,» disse il giovane Faraone. «Fra la perdita del trono e la soppressione mia, non esiterà.»

«E Ounis? E Ata? Li hai tu dimenticati? La voce del tuo arresto si sarà sparsa per la città ed a quest'ora sarà giunta ai loro orecchi.»

«Le angoscie, che mi tormentano in questo triste momento, m'avevano fatto scordare di quegli amici affezionati e devoti fino alla morte. Che cosa faranno essi ora che hanno radunato i vecchi partigiani di mio padre? Tenteranno un colpo disperato contro la reggia o solleveranno il popolo in mio nome? Ah! Quante ansie provo in quest'ora! Cadere, quando ormai non mi era necessario che d'allungare una mano per strappare a quel miserabile il simbolo del potere supremo! I pronostici hanno mentito dunque?»

«Non disperare, mio signore, e aspettiamo che sorga l'alba. Tu non sai ancora quello che deciderà Pepi. Presso di lui hai forse una valida protettrice.»

Mirinri non rispose e si coricò su una grossa stuoia, che aveva trovato accanto a sé. Nefer lo aveva imitato, raggomitolandosi quasi su se stessa.

Le ore passavano lente, angosciose, pei due disgraziati giovani. Nessun rumore giungeva fino a loro, fuorché il monotono stillare d'alcune gocce d'acqua che battevano sul marmoreo pavimento dell'immenso sotterraneo. Pareva che tutte le centinaia e centinaia di persone che abitavano il meraviglioso palazzo si fossero allontanate, poiché non si udivano nemmeno le grida delle guardie che si cambiavano e delle scolte notturne, che Nefer aveva altre volte intese.

La notte finalmente passò ed un barlume di luce pallida, annunciante l'imminente apparire dell'astro diurno, si diffuse a poco a poco nel sotterraneo.

Mirinri si alzò di scatto, guardandosi intorno con ansietà estrema. Si trovava in un sotterraneo vastissimo, colle pareti, le vôlte ed il pavimento di marmo bianco e lucido. Da due piccole finestre, difese da enormi sbarre di bronzo, aperte presso le vôlte, entrava una scarsa luce, così debole da non riuscire ad illuminare tutti gli angoli della immensa prigione.

«Che questo sia proprio un sotterraneo del palazzo reale?» chiese Mirinri a Nefer che si era pure alzata.

«Non ne ho alcun dubbio,» rispose la giovane. «Mi rammento di aver visitato da fanciulla varie sale sotterranee della reggia e d'avervi anche giuocato coi figli di molti principi: e rassomigliavano a questa.»

«Temevo che ci avessero sepolti in qualche mastaba della necropoli o nel centro di qualche piramide.»

«Taci!»

«Che cos'hai udito?»

«Il grido delle guardie che si cambiano.»

«Nefer, cerchiamo un'uscita,» disse improvvisamente Mirinri. «Ecco là una porta di bronzo.»

«Che resisterà ai tuoi sforzi.»

«Chissà che dietro di essa non vi siano delle guardie e che rispondano alle mie chiamate. Proviamo!»

S'avvicinò alla porta, che pareva d'uno spessore straordinario e la percosse col pugno più volte.

Alla quinta battuta udì un fragore di ferraglie come se delle catene e dei catenacci venissero levati ed un vecchio soldato, che era privo della mano sinistra e che in quella destra impugnava una specie di falcetto colla lama larghissima, una di quelle terribili armi che con un solo colpo spiccavano una testa dal busto, comparve, dicendo:

«Che cosa vuoi, giovane?»

«Sapere innanzi a tutto dove mi trovo.»

«Nei sotterranei della reggia,» rispose il vecchio soldato, con una certa deferenza che non isfuggì a Mirinri.

«Che cosa si vuol fare di me e di questa giovane Faraona?»

Il soldato ebbe un moto di stupore e fissò a lungo Nefer, che si era accostata silenziosamente a Mirinri.

«Costei, una Faraona, hai detto?

«Ne dubiteresti? Guarda allora.

Levò il collare variopinto che la giovane portava sopra la camicia leggerissima aperta sul dinanzi e le mise a nudo la spalla.

«L'ureo!» esclamò il soldato, scorgendo il tatuaggio.

«Sei convinto ora che sia una Faraona?»

«Sì, perché nessuno oserebbe portarlo,» rispose il soldato.»

«Tu sei vecchio,» riprese poi Mirinri, «sicché avrai preso parte a molte battaglie, fors'anche a quella terribile che ruppe e vinse per sempre le orde dei Caldei.»

«Ho perduta la mia mano sinistra in quella battaglia, troncatami da un colpo d'azza,» rispose il soldato. «Era Teti il grande che ci guidava alla vittoria.»

«Tu dunque l'hai conosciuto?»

«Sì.»

«Guardami in viso: io sono il figlio di Teti!»

Il vecchio guerriero aveva frenato a stento un grido.

«Tu! Il figlio del grande re! Ma sì, gli assomigli in tutto! I suoi stessi occhi pieni di fuoco, i medesimi lineamenti, gli stessi capelli... la fossetta al mento...»

«Egli aveva lasciato un bambino che poi scomparve,» disse Mirinri.

«Lo so e si diceva che fosse morto.»

«Hanno mentito: amici devoti di mio padre m'avevano rapito, per timore che Pepi mi facesse avvelenare.»

«Io ho udito questa storia, signore, sussurrata non solo fra il popolo, bensì anche fra l'armata.»

Poi, cadendo in ginocchio dinanzi al giovane, gli disse con voce profondamente commossa:

«Signore, che cosa posso fare pel figlio del grande re ed a cui tutto l'Egitto deve la sua salvezza e la sua prosperità? Io non sono che un povero soldato e per di più vecchio, tuttavia se la mia vita può giovarti, prendila.»

«Tu puoi essermi più utile vivo, che morto,» rispose Mirinri.

«Che cosa devo fare?»

«Sai dirmi innanzi a tutto a quale scopo Pepi ci ha fatti rinchiudere qui dentro?»

«Lo ignoro, mio signore. Vi hanno portati qui ieri sera, qualche ora prima del tramonto, incaricandomi di vegliare attentamente su di voi e di uccidervi nel caso aveste tentata la fuga.»

«Sei solo qui?»

«Vi è un drappello di guardie all'estremità della scala, dietro la seconda porta di bronzo.»

«Incorruttibili?»

«Sono soldati giovani, signore, che non hanno mai conosciuto il grande vincitore dei Caldei.»

«Tu, signore, hai dimenticato che nella reggia hai forse una protettrice,» disse Nefer, rivolgendosi a Mirinri. «Se questo soldato potesse segretamente avvertirla?»

«Chi è?» chiese il vecchio.

«La figlia di Pepi Mirinri,» rispose Nefer. «Ella probabilmente ignora dove ci hanno portati le guardie che ci arrestarono.»

«Io posso farle parlare, avendo una mia nipote nella reggia,» disse il guerriero.

«Puoi uscire dal sotterraneo?» chiese Mirinri.

«Comando io il drappello delle guardie che sorvegliano dietro alla seconda porta di bronzo. Posso quindi entrare nel palazzo reale. Lasciatevi rinchiudere, non bussate, rimanete tranquilli e giuro su Râ di far giungere vostre notizie alla figlia di Pepi.»

«Possiamo fidarci di te?» chiese il giovane Figlio del Sole.

Il vecchio gli porse l'arma che teneva sempre in pugno, dicendogli:

«Vuoi uccidermi e tentare la fuga? Eccomi ai tuoi piedi, figlio del vincitore dei Caldei.»

«Ti credo: la prova che mi hai dato mi basta.»

«Ritiratevi allora, lasciate che chiuda la porta e aspettate mie notizie.»

Mirinri e Nefer si ritrassero ed il vecchio veterano di Teti rimise a posto le catene ed i catenacci.

I due giovani erano rimasti l'uno di fronte all'altro, guardandosi con angoscia.

«Nefer,» disse Mirinri, «tu che tutto indovini, che cosa predici al figlio di Teti?»

La giovane Faraona si coperse gli occhi colle mani, rimanendo raccolta per parecchi minuti.

«Sempre la stessa visione,» rispose poi.

«Quale?»

«Un uomo giovane che atterra un re possente, che gli strappa dalle mani il simbolo del potere supremo, un grido immenso che lo saluta re... e poi...»

«Continua.»

«Una fanciulla che cade, in mezzo ad una sala immensa, di fronte al trono dei Faraoni, morente.»

«Chi è quella fanciulla?»

«Non la posso vedere in viso. Vi è come una nebbia dinanzi a lei, che mai sono riuscita a dileguare.»

«La figlia di Pepi?» chiese Mirinri con angoscia.

«Non lo so.»

«Guarda bene!»

«È impossibile! Non posso vederla.»

«Sempre la stessa risposta!» gridò Mirinri, con rabbia. «Non puoi conoscerla?»

«No, la nebbia si frappone ostinatamente fra me e quella fanciulla.»

«È giovane?»

«Mi sembra.»

«Bruna?»

«Mi pare.»

«Di stirpe divina?»

«Sì, perché su una sua spalla vedo tatuato l'ureo.»

«La figlia di Pepi forse?»

Nefer, invece di rispondere, si scoprì gli occhi e Mirinri vide che due grosse lagrime scendevano lungo le bellissime gote della fanciulla.

«Piangi!» esclamò. «Perché?»

«Non preoccuparti, signore,» rispose Nefer. «Quando cerco di studiare intensamente il futuro, mi succede sovente di risvegliarmi cogli occhi bagnati di lagrime.»

«Debbo crederti?» chiese Mirinri, impressionato dalla tristezza profonda che traspariva sul viso della fanciulla.

«E perché no? Tu sai che io sono una indovina e ti ho dato tante prove finora.»

«È vero, Nefer,» rispose laconicamente Mirinri.

Tornarono lentamente verso la stuoia e si coricarono l'uno presso l'altro. Mirinri appariva vivamente preoccupato e Nefer pensierosa.

Nella immensa sala la luce continuava a diffondersi, alzandosi sempre più il sole, ma era sempre una luce scialba, quasi cadaverica, che si rifletteva tristamente sulle lastre di pietra che coprivano il pavimento, la vôlta e le pareti.

Il ben noto fragore di ferraglie e di catene li scosse entrambi. Era il vecchio guerriero di Teti il grande, che tornava o qualche altro?

«Avessi almeno un'arma,» mormorò Mirinri.

La porta di bronzo si aprì ed il veterano di Teti comparve, accompagnato da quattro guardie che portavano dei canestri di foglie di palma contenenti probabilmente dei viveri.

«Mangiate,» disse il vecchio, scambiando con Mirinri uno sguardo molto significante e additando l'ultima cesta di destra. Poi, senza aggiungere altro, uscì accompagnato dai suoi uomini, rinchiudendo la pesante porta di bronzo.

«Hai veduto, Nefer, quel gesto?» le chiese Mirinri, quando furono soli.

«Sì, mio signore.»

«Oltre delle provviste, vi deve essere qualche cosa di più importante là dentro,» disse il giovane.

Levò il pezzo di lino che copriva la cesta segnalata dal veterano di Teti ed estrasse delle gallette di granoturco, dei pesci arrostiti, della frutta e dei pasticcini, senza nulla trovare di ciò che s'aspettava.

«Niente,» disse, guardando Nefer. «Che quel vecchio ci abbia burlati?»

«Leva il pezzo di lino che copre il fondo del paniere,» disse la giovane.

Mirinri obbedì e raccolse rapidamente un pezzetto di papiro, su cui un minutissimo pennello aveva tracciato dei caratteri con inchiostro azzurro.

«Si trova in fondo a questo canestro per caso o l'hanno messo appositamente per noi?»

S'accostò ad una delle due finestre, essendo la luce sempre scarsa, specialmente nel centro dell'immensa sala e riuscì, non senza fatica però, in causa dell'estrema piccolezza dei segni, a decifrare quanto vi era scritto:

«Nitokri veglia su di voi. Non temete nulla».

Mirinri aveva mandato un urlo di gioia.

«Non mi abbandona!»

Nefer aveva chinato il capo sul petto, senza pronunciare parola alcuna. Anzi il suo viso, invece di manifestare un qualche moto di contentezza, era diventato più triste del solito.

Forse sarebbe stata più lieta di morire insieme al giovane Figlio del Sole, piuttosto che dovere la vita e la libertà alla possente rivale.

«Nefer,» disse Mirinri, sorpreso di non vederla felice. «Hai capito che cosa ci hanno scritto?»

«Sì, mio signore.»

«Se Nitokri ci protegge, riuscirà certo a strapparci dalle mani di suo padre.»

«Lo credo anch'io.»

«Mangiamo, Nefer. Ora che le nostre angoscie sono finite, possiamo pensare ai nostri corpi.»

Il giovane Figlio del Sole che pareva non si fosse nemmeno accorto della profonda tristezza della povera Nefer, rovesciò i panieri che erano tutti ben forniti di vivande squisite e si mise a lavorare di denti coll'appetito dei suoi diciott'anni.

Ad un tratto s'interruppe.

Al di fuori erano improvvisamente scoppiate delle grida, che diventavano di momento in momento più acute, accompagnate da un rotolar fragoroso, come se dei carri di battaglia uscissero a gran corsa dal palazzo reale.

«Che i congiurati assalgano la reggia?» si chiese Mirinri.

«Qualche cosa di straordinario succede di certo,» disse Nefer, che ascoltava attentamente.

«Che sia Ounis che giunge con Ata? Ah! Se fosse vero!»

«Taci, mio signore.»

Le grida si allontavano, diventando rapidamente fioche, mentre il rotolar dei carri aumentava. Pareva che uscissero a centinaia e centinaia dalle ampie sale pianterrene dell'immensa reggia.

Mirinri, in preda ad una crescente ansietà, ascoltava sempre. Quelle grida che si allontanavano non gli parevano di buon augurio. I congiurati, se erano veramente tali, dovevano essere fuggiti dinanzi alla carica dei carri di battaglia.

Guardò Nefer, pallido, agitato.

«Che cosa ne dici tu, fanciulla?» le chiese con ansietà.

«Non so che cosa dirti.»

«Che abbia avuto luogo un combattimento?»

«Può darsi... qualcuno viene. Il fragore delle catene e dei catenacci era tornato a farsi udire, poi la porta si era violentemente aperta ed il veterano di Teti era tornato a mostrarsi, solo e senz'armi. Mirinri gli si era slanciato contro.»

«È vero che Nitokri ci protegge?» gridò.

«Sì, mio signore, anzi fra poco ella sarà qui.»

«Per salvarci?»

«Lo spero.»

«E suo padre?»

«Qualche burrasca deve essere avvenuta fra il grande Faraone e la figlia, almeno così mi dissero.»

«E quel fragore di carri di battaglia e quelle grida? Che cosa significavano?»

«Un capriccio del re. Egli ha fatto impegnare una vera battaglia fra le guardie per divertirsi, e provare la buona qualità dei suoi cavalli. Basta, mio signore: ho un ordine da eseguire.»

«Quale?»

«Di far uscire questa fanciulla e di condurla in una casa appartenente al re dove troverà servi e schiave.»

«Perché? » chiese Nefer che aveva gli occhi lagrimosi.

«Io non lo so, mia signora,» rispose il veterano. «Mi fu comunicato questo ordine da un ufficiale del palazzo ed io debbo obbedire, pena la morte.»

Mirinri era diventato pensieroso, e guardava Nefer con un senso di profonda pietà. Aveva ben compreso quanto dolesse alla povera fanciulla lasciarlo nelle mani di Nitokri.

«Nefer,» disse ad un tratto, con voce dolce. «Tu, libera, mi puoi essere di maggior utilità che rimanendo qui.»

«In quale modo, mio signore?» disse la giovane singhiozzando.

«Recandoti ad avvertire Ounis.»

«Dove lo troverò io?»

«Alla piramide della bella Rodope.»

«L'appuntamento era per ieri sera.»

«Può darsi che si trovi ancora colà con Ata. Quest'uomo ti scorterà.»

«Sì, mio signore,» rispose il veterano. «La prendo sotto la mia protezione.»

«Va', Nefer,» disse Mirinri. «Io spero che noi ci rivedremo ben presto.»

«Addio, e non scordarti troppo presto di me.»

 

 

CAPITOLO VENTISEIESIMO

 

La derisione dell'usurpatore

 

Il palazzo reale dei Faraoni sorgeva fuori dalla città, sulla cima d'una collinetta, l'unica che si trovava in Menfi ed occupava un'area immensa, essendo tutto circondato da giardini magnifici che destavano l'ammirazione degli stranieri. Era un gigantesco parallelogramma, a tetto piatto, avendo al di sopra delle immense terrazze lastricate in alabastro e coperte d'immensi vasi contenenti piante odorose, con quattro porte sormontate da bastioni sui quali gli arcieri montavano dì e notte la guardia.

Visto da lontano aveva l'apparenza d'un enorme masso di pietra candidissima, essendo tutto costruito in marmo bianco, nondimeno, a quanto sembra, la sua solidità era fittizia, perché non resse alle ingiurie del tempo come le piramidi e scomparve fra le sabbie, probabilmente diroccato, senza lasciare traccia, malgrado le larghe ricerche fatte dagli egittologi moderni.

Si narra che avesse delle sale immense, d'una bellezza meravigliosa, colle pareti ed i soffitti incrostati di lapislazzuli, i pavimenti di malachite e le alte colonne coperte di lamine d'oro e tutte istoriate, con disegni variopinti alla base e alla cima.

I quattro schiavi nubiani, giunti nel peristilio che era guardato da due dozzine di arcieri, avevano deposto sulle lucide pietre il palanchino e la figlia di Pepi, leggera come un uccello, era discesa, entrando in una vasta sala, col pavimento di mosaico, le pareti d'alabastro e la vôlta tutta dorata sorretta da quattro colonne di diaspro. Una luce dolcissima, attenuata da tende variopinte che coprivano le finestre, la illuminava discretamente.

Nitokri l'attraversò in tutta la sua lunghezza e si fermò dinanzi ad una porta di bronzo, larga alla base e stretta verso la cima, dinanzi alla quale vegliava un guerriero, tenendo in mano un'ascia lucentissima.

«Mio padre?» disse la fanciulla.

«È nelle sue stanze.»

«Che venga qui subito.»

«Non ama essere disturbato, lo sai, Figlia del Sole.»

«Bisogna che lo veda, » disse Nitokri, con voce imperiosa.

La guardia aprì la porta di bronzo e scomparve.

Pochi istanti dopo Pepi entrava nell'ampia sala. Non indossava più il ricchissimo costume, dal grande triangolo dorato, come quando Mirinri e Ounis l'avevano incontrato sul Nilo; aveva un semplice kalasiris di stoffa verde annodato ai fianchi, colla punta centrale gialla e adorna di fiocchi, una stretta tunica azzurra senza ricami ed in testa due parrucche ed un piccolo ureo d'oro che gli cadeva sulla fronte. Le braccia e le gambe nude erano però adorne di larghi braccialetti finamente cesellati e aveva al collo una fila di grosse perle rossiccie.

«Che cosa vuoi, Nitokri?» chiese, guardando con profonda ammirazione la giovanetta.

«L'ho incontrato.»

«Chi?»

«Quello che mi ha salvato dal coccodrillo.»

«Il figlio di Teti!» esclamò il re, impallidendo.

«Sì, Mirinri. È ben così che si chiama, è vero? È lui il giovane che hanno or ora arrestato?»

Pepi non rispose: pareva fulminato.

«Egli è qui,» riprese Nitokri.

Parve che un aspide avesse morso il Faraone in mezzo al petto, perché si ritrasse facendo un gesto di spavento.

«Qui! In Menfi!» esclamò. «Ma dunque le mie spie, le mie guardie, le mie navi che avevo fatto scaglionare lungo il Nilo per arrestarlo, a che cosa hanno servito? Solo a tagliare poche centinaia di mani che potevano darmi ben pochi fastidi? Nessun arciere possedeva una freccia per ucciderlo?»

«Ucciderlo, hai detto?» gridò Nitokri, guardandolo con terrore. «Uccidere lui, che è figlio di tuo fratello, d'un gran re, che è pure Figlio del Sole, che è, al pari di noi, d'origine divina? Lui che ha salvato tua figlia, senza sapere che io fossi sua cugina! Che cosa dici, padre?»

«E che, vorresti tu che io deponessi l'ureo che mi brilla in fronte e lo posassi sulla sua testa? Che cosa diverresti tu?»

«Rimarrei una Faraona e forse più ancora,» rispose la fanciulla.

«Che cosa vuoi dire, tu?» gridò Pepi.

«Mi ama.»

«Che il bacino di fuoco bruci i miei occhi, Apap il dio del male mi avvolga fra le sue spire e mi spezzi la colonna vertebrale; che la Fenice() roda il mio cuore!» bestemmiò il re, lanciando su Nitokri una terribile occhiata. «Che cosa pretenderesti tu? Che io lasciassi scoppiare qualche sanguinosa guerra che travolgesse me e te insieme?»

«Egli è figlio di colui che per vent'anni regnò sull'Egitto intero e che lo salvò dall'invasione dei Caldei,» rispose la fanciulla.

«Teti è morto e anche dimenticato,» disse Pepi Mirinri facendo un gesto di stizza.

«Morto! Hai dimenticato quello che ha detto Her-Hor, il gran sacerdote del tempio di Ptah?»

«Egli ha sognato od ha creduto di ravvisare mio fratello in quel vecchio imbecille.»

«Eppure tu sei turbato e mai come ora ti ho veduto così pallido. Se Her-Hor non si fosse, come tu supponi, ingannato? Pensaci padre.»

«Non cederò il trono né a lui, né al figlio e poi è impossibile. La salma di mio fratello dorme il sonno eterno nella piramide che egli stesso si fece costruire sui margini del grande deserto. Ha avuto gli onori che gli spettavano, di che potrebbe lagnarsi? Non tornerà più mai in vita, perché la sua anima vaga già da anni e anni nella sfolgorante barca di Râ. I sacerdoti me lo hanno confermato.»

«Che cosa devo rispondere allora a Mirinri?»

«A lui? Basta che io faccia un segno alle guardie che l'hanno arrestato e domani andrà a riposare, come un cittadino qualunque in Menfi, nell'immensa Necropoli.»

«La sua morte!» gridò Nitokri, ergendosi superbamente dinanzi al re. «Tu, macchiarti del sangue di quel giovane che è tuo nipote?»

Un lampo sinistro brillò negli occhi di Pepi.

«Che cosa vorresti?» chiese con accento ironico. «Che io lo accogliessi come il futuro re dell'Egitto?»

«Ne ha il diritto.»

«Lo vuoi?»

«Sì padre, lo voglio.»

«Sia: e di quella fanciulla che fu arrestata insieme a lui, che cosa intendi di fare?»

«Tu hai saputo che Mirinri non era solo?»

«Mi avvertì Her-Hor.»

«Il grande sacerdote di Ptah.»

«Sì: fu più lesto di te.»

«Sai tu, padre, chi sia quella giovane?»

Il re fece un gesto di stizza, poi, dopo una breve agitazione, disse:

«Lo so.»

«Forse un'amante di Mirinri?» chiese Nitokri, scattando ed arrossendo.

«No.»

«Dimmi chi è.»

«La chiamano Nefer.»

«Non mi basta.»

Il re ebbe una seconda esitazione, poi rispose, alzando le spalle:

«Quand'era bambina ha giocato con te in questo medesimo palazzo.»

«Allora è Sahuri!»

«Sì, la principessa misteriosa. Io non voglio però che ella entri nel palazzo reale con Mirinri. Quella fanciulla mi dà troppa noia. Darai ordine che la conducano in una delle nostre case che abbiamo in città e che venga trattata coi riguardi che spettano ad una principessa del sangue. Ora va': ho gravi affari di stato da sbrigare.»

«Ho la tua promessa, padre.»

«Domani riceverò il tuo salvatore, il figlio di Teti, se veramente lo è.»

«Me ne accerterò io,» rispose Nitokri. «Dà gli ordini in mia presenza, così sarò più sicura.»

Il re si volse verso il guerriero che stava immobile, come una statua di bronzo, dinanzi alla porta, dicendogli: «Domani a mezzogiorno farai squillare dalle trombe di guerra la fanfara reale e farai radunare tutti i grandi del regno, onde prendano parte ad un banchetto che io intendo offrire ad un nuovo Figlio del Sole.»

«Ti basta?» chiese poi, rivolgendosi a Nitokri.

«Sì, padre,» rispose la bellissima Faraona.

«Va'.»

Mentre la fanciulla usciva, Pepi la seguiva collo sguardo, e un brutto sogghigno gli coronava le labbra.

«Purché non ti pentisca,» mormorò...

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

L'indomani, un'ora prima del mezzodì, quando già Nefer aveva abbandonato il sotterraneo, Nitokri, preceduta da due trombettieri e scortata da otto guardie, entrava nella prigione del giovane Figlio del Sole.

Mirinri, che dopo la partenza della povera Nefer si era lasciato cadere sulla sua stuoia, in preda ad un profondo sconforto, vedendo apparire improvvisamente la bellissima Faraona, era balzato in piedi mandando un grido altissimo, poi aveva piegato un ginocchio a terra, dicendo con voce tremante:

«Mirinri, figlio di Teti il grande, saluta sua cugina. Se io devo a te di essere ancora vivo, tu devi a me la tua preziosa vita.»

Nitokri inarcò le lunghe e sottili sopracciglia, poi, alzando un braccio, fece cenno alla scorta ed ai trombettieri di uscire.

Attese che il rumore dei passi si fosse dileguato, poi rivolgendosi verso Mirinri che teneva sempre un ginocchio a terra e che la fissava cogli occhi ardenti, gli disse: «Tu mi affermi d'avermi un giorno salvato la vita sull'alto Nilo.»

«Sì, Nitokri,» rispose il giovane, alzandosi. «Io ho stretto fra le mie braccia il tuo corpo divino, ma anche il mio era divino.»

«Quando?»

«Non mi riconosceresti più?» gridò Mirinri. «Dubiteresti forse di me?»

«Mio padre vuole una prova.»

«Ebbene io te la dò subito: quando io ti ho salvata tu hai perduto fra le erbe della riva l'ureo che adornava la tua testa e che ritrovai dopo parecchie settimane.»

«È vero,» rispose la Faraona, mentre un vivo rossore si diffondeva sulle sue gote ed i suoi dolcissimi occhi lampeggiavano. «Ora sono sicura di essere stata salvata da te. D'altronde, quantunque sia passato molto tempo, io ho sempre avuto dinanzi ai miei occhi il volto del giovane audace che lottò col coccodrillo e che lo uccise.»

«Pensavi dunque qualche volta a me?» gridò Mirinri.

«Più di quanto credi,» rispose Nitokri, abbassando il capo. «Il sangue dei Figli del Sole si era inteso.»

«Io sono il figlio di Teti! Lo sai tu?»

Nitokri, invece di rispondere, porse una mano a Mirinri dicendogli, con una certa emozione:

«Vieni: il tuo posto è nel palazzo reale. Tu sei un Faraone.»

Mentre uscivano dal sotterraneo, nella grandiosa sala pianterrena del palazzo reale si erano radunati il re ed i suoi ministri, fra l'acuto squillare delle trombe di bronzo ed il sonoro rullare dei tamburi. Subito, udendo la fanfara reale, una trentina di alti dignitari, per la maggior parte attempati, ministri, generali e grandi sacerdoti, a giudicarli dalle loro vesti e dalla ricchezza delle loro collane, dei loro braccialetti e dalla acconciatura del capo, erano entrati nella sala accompagnati da scudieri e da ciambellani di corte, curvandosi umilmente dinanzi al possente monarca.

«Il grande Osiride ha restituito all'Egitto uno dei suoi figli divini» disse il re. «Andiamo a riceverlo e facciamogli l'accoglienza che gli si spetta per diritto di nascita.»

«Chi è?» chiesero ad una voce i grandi dignitari.

«Lo saprete più tardi. Ah! Le mie insegne reali.»

Un ciambellano s'allontanò correndo e tornò poco dopo, recando una specie di frusta col manico d'oro, non più lunga d'un piede, con tre cordoncini di canape intessuti con fili d'oro ed un bastone col manico molto ricurvo.

«Così comprenderà che io solo sono il re dell'Egitto,» mormorò Pepi con un sorriso sarcastico.

Fece segno agli alti dignitari del regno di seguirlo e s'avviò con passo maestoso verso il peristilio in mezzo al quale erasi allora fermato Mirinri con a fianco la bella Nitokri.

«Il re!» avevano esclamato i soldati della scorta, curvandosi fino a terra.

Una mano si posò sulle spalle di Mirinri, mentre una voce gli diceva con tono minaccioso:

«Curvati! Giù la fronte nella polvere! È il re!»

«Un Figlio del Sole non si getta al suolo come un miserabile mortale,» rispose fieramente Mirinri. «Giù quella mano! Tu non sei degno di toccare le mie carni divine.»

Poi, dopo aver respinto violentemente l'arciere che tentava di piegarlo, mosse verso Pepi che si era fermato, guardandolo attentamente e chiedendogli:

«Sei tu il re?»

«Sì,» rispose Pepi.

«Ed io sono il figlio d'un re: ti saluto!»

«Io so chi tu sei,» disse Pepi, «a tu, in presenza di questi uomini che mi seguono, non lo dirai per ora. Però, come vedi, ti ricevo cogli onori che spettano al tuo grado. Vieni: sei mio ospite nel palazzo che un giorno abitò uno dei più grandi monarchi del regno.»

Mirinri, stupito da quell'accoglienza che era ben lungi dall'attendersi, che distruggeva tutte le paure create da Ounis e dal sospettoso Ata, era rimasto muto, credendo d'aver male compreso.

«Sei mio ospite nella casa dei tuoi avi,»ripetè Pepi, che aveva forse compreso il suo pensiero.

«Ed io ti sono riconoscente,»rispose Mirinri, che divorava cogli sguardi ardenti la bella Nitokri, che si era collocata dietro al padre.

«Entra dunque, giovane Figlio del Sole,»disse Pepi.

Mirinri passò attraverso le guardie che non osavano alzare la fronte da terra, prese fra le sue mani le dita che la giovane Faraona gli porgeva incoraggiandolo con un adorabile sorriso, e varcò la soglia della sala, mandando un profondo sospiro di soddisfazione. Probabilmente in quel momento non pensava più al fedele Ounis, né alla sventurata Nefer.

«Sei in casa tua,»disse Pepi, volgendosi verso Mirinri che ammirava stupito l'ampiezza e la ricchezza di quella sala. Quindi, volgendosi verso alcuni scudieri, continuò: «Occupatevi di questo principe faraonico. Lo aspetto nella sala del trono.»

«Ci rivedremo?» chiese Mirinri a Nitokri.

«Sì, mio principe,» rispose la fanciulla. «Ci sarò anch'io.»

Mirinri fu condotto in un gabinetto di toletta, anche quello tutto in marmo bianco e dove regnava una deliziosa frescura, e affidato alle cure di giovani schiavi assiri. Mezz'ora dopo usciva scortato da scudieri e da ciambellani, lavato, profumato, imbellettato e vestito come un principe.

Gli avevano messo sulla parrucca il cappello reale, di stoffa bianca, con un rialzo di stoffa rossa sul dietro, adorno di lunghi nastri che gli scendevano fino al petto e fornito sul dinanzi dell'ureo d'oro; sulle spalle una specie di corto mantello di lino candidissimo, trattenuto sul davanti da un ricchissimo fermaglio composto di rubini e di smeraldi d'un valore inestimabile; ai fianchi un kalasir, intessuto con pagliuzze di metallo, con un grande triangolo formato da una placca d'oro, sospeso alla cintura e smaltato a tinte multicolori. Ai piedi aveva dei sandali di papiro trattenuti da sottili correggie dorate.

Una dozzina di guardie reali, armate d'azze, con lunghe penne di struzzo fissate ai due lati della parrucca, lo aspettavano nel salone per rendergli gli onori spettanti ad un principe d'origine divina e per scortarlo.

«Il re ti aspetta, Figlio del Sole,» gli disse il capo del drappello. «I convitati sono già ai loro posti.»

Uscirono dalla sala, attraversarono una grandiosa galleria, le cui ampie finestre erano riparate da splendide tende di finissimo tessuto a righe multicolori, drappeggiate con eleganza ed entrarono in un secondo salone, due volte e forse più ampio del primo ed il cui soffitto era sorretto da una doppia fila di colonne di marmo roseo della catena libica.

Mirinri si era fermato sulla soglia, stupito dalla magnificenza di quell'immensa sala. Tutte le pareti erano di marmo verde con magnifiche venature, il pavimento in mosaico d'oro, il soffitto tutto dipinto meravigliosamente. Quattro immense coppe, sorrette da quattro nani di pietra rossa, collocati presso i quattro angoli della sala, lanciavano in alto dei grossi zampilli d'acqua profumata, mentre dei vasi enormi, dal collo lunghissimo, tutti di lapislazzuli, reggevano dei colossali mazzi di fiori di loto e di rose, i quali spandevano all'intorno dei deliziosi odori.

Trenta piccole tavole, disposte su due file, occupavano il centro della sala, coperte di lini a svariati colori e cariche di tondi d'oro e d'argento, di coppe d'ogni forma e d'ogni dimensione meravigliosamente cesellate e di piccole anfore che reggevano delle foglie di palma. Dinanzi a ogni tavola stava sdraiato su un tappeto, appoggiandosi ad un cuscino di forma rotonda, un alto dignitario in attesa del pranzo, mentre dietro delle giovani e bellissime schiave agitavano dei ventagli di penne di struzzo per rinfrescarli.

Ad una tavola un po' più grande, bassa però quanto le altre e collocata all'estremità della doppia fila, si trovavano Pepi e Nitokri, coricati su pelli di pantera. Otto grandi ventagli, dai manichi lunghissimi, stavano piantati entro alte anfore d'oro, e attorno a loro otto schiave stavano schierate presso le due prime colonne, spruzzando di quando in quando il monarca e la giovane con dell'acqua profumata.

«Vieni, principe,» disse Pepi, vedendo che Mirinri non s'avvicinava. «Il tuo posto è presso di me.»

Il giovane Faraone, dopo una breve esitazione, passò fra le due file di tavole, salutato con profondi inchini dai grandi del regno che si erano subito alzati e si sedette di fronte al re, pure su una pelle di pantera.

I suoi occhi ardentissimi, che pareva fossero diventati più neri e più profondi del solito, anziché fissarsi su quelli di Pepi, si erano arrestati su quelli vellutati e dolcissimi della fanciulla.

«Ecco la vita come avevo sognato fra le sabbie del deserto,» disse. «Ecco il mio destino che si realizza.»

Pepi ebbe un lieve sussulto, poi un sorriso sarcastico gli contorse le labbra.

«Tu sei vissuto molti anni nel deserto, è vero?» gli chiese.

«Sì.» rispose Mirinri.

«E sognavi la grandezza ed il fasto di Menfi.»

Il giovane Faraone rimase un momento pensieroso, poi disse:

«No, io pensavo sempre, più che al fasto della corte faraonica, agli occhi della fanciulla che avevo strappato alla morte e che fra le mie braccia aveva provato forse il primo fremito.»

Nitokri lo guardò, sorridendo.

«Nemmeno io ti avevo dimenticato,» disse. «Nelle mie notti insonni io ti rivedevo sovente ed una voce segreta mi diceva che io un giorno ti avrei incontrato e che il mio corpo non era stato stretto dalle braccia d'un uomo uscito dal popolo. Il nostro sangue si era compreso: era sangue di dèi.»

La fronte di Pepi si era aggrottata. «Mi racconterai più tardi perché sei vissuto tant'anni lontano dagli splendori di Menfi,» disse. Poi, rivolgendosi alle schiave, che parevano aspettare qualche ordine: «Versate!»

Due giovani portarono delle anfore d'oro ed empirono le coppe che stavano sulla tavola.

«A te, mio valoroso, che mi hai strappato alla morte e che hai conservato a mio padre sua figlia,» disse la Faraona, porgendo la coppa a Mirinri.

«A te che per lunghi mesi ho sempre sognato,» rispose Mirinri, porgendole la sua.

Pepi aveva lasciata la sua dinanzi a sé, senza alzarla. Anzi la sua fronte si era maggiormente abbuiata ed aveva lanciato sui due giovani uno sguardo pregno d'ira intensa.

In quel momento un drappello di fanciulle, splendidamente vestite, aveva fatto irruzione nella sala. Erano danzatrici e suonatrici e le precedeva una giovane che teneva fra le mani una rosa superba. Si fermò dinanzi al tavolo guardando la giovane Faraona e Mirinri, poi, mentre pizzicavano dolcemente le chitarre e le arpe, disse:

«Osiride, Figlio del Sole, stanco dei vezzi e dei baci di Hathor, la venere egiziana, un giorno abbandonò l'astro diurno e scese con un volo immenso, sulla nostra terra, in cerca di nuove avventure. Egli incarnava l'amore. Spiccò il volo attraverso gli spazi celesti e cadde sulle rive del nostro Nilo. Là, sulle arene finissime e vellutate dal nostro sacro fiume, in mezzo ai papiri ed ai fiori dal profumo fragrante dei loti, che scendevano giù nei polmoni come una carezza, vide distesa sopra una pelle di pantera una creatura che dormiva.

"Oh! quanto sei bella!" le disse Osiride.

"Oh! quanto sei bello!" aveva risposto la bronzea creatura, svegliandosi.

«Sothis, l'astro maligno del cielo, li vide, fu preso da furore, e con un raggio bruciante di Râ colpì i due giovani. Le loro carni furono d'un colpo incenerite, ma non potè disgiungere le labbra che si erano fuse in un bacio supremo. Da quel bacio nacque questa rosa e le punte del raggio solare si convertirono in spine. A te figlia del grande Faraone!... È il bacio della fanciulla bronzea e del Figlio del Sole».

Nitokri prese il fiore ed invece di puntarselo fra i capelli lo porse a Mirinri, dicendogli con un adorabile sorriso: Come le labbra d'Osiride hanno baciato quelle della fanciulla bronzea, si tocchino un giorno quelle del salvatore e della fanciulla salvata. A te: serbala per mio ricordo.»

Pepi gettò sulla fanciulla un secondo sguardo feroce, ma non disse parola.

«Gettate rose,» disse Nitokri, alzando una mano verso il soffitto.

Mentre le suonatrici, sedutesi intorno alle colonne, intonavano una marcia deliziosa e le schiave e gli schiavi portavano ai convitati anfore di vino bianco e nero e di birra e pasticci dolci e manicaretti, dall'alto della sala, attraverso dei fori quasi invisibili, scendevano dolcemente, silenziose e profumate, miriadi di foglie di rose e di petali di loto, che si addensavano intorno ai convitati.

Nitokri, accesa forse dal delizioso vino delle colline libiche aveva, chiacchierava con Mirinri, facendo sfoggio della sua grazia e del suo spirito; Pepi invece guardava intensamente il giovane, al di sotto delle sue lunghe ciglia, ed un sorriso beffardo e crudele, di quando in quando gli appariva sulle labbra. Non doveva essere leale ospitalità quella che offriva al figlio del grande Teti.

Quando il banchetto, veramente luculliano, perché anche gli Egiziani, al pari dei romani, amavano fare sfoggio di molte portate e di cibi scelti, terminò, il re si alzò con una mossa maestosa, facendo cenno ai convitati, già quasi tutti brilli, di uscire. Sorretti dalle schiave e dagli schiavi, i grandi dignitari si erano alzati, avviandosi nelle stanze vicine attraverso le numerose porte che mettevano su delle vaste gallerie e su dei giardini ombreggiati da palme colossali.

«Va' anche tu,» disse a Nitokri, che era rimasta coricata presso Mirinri. «Ciò che io devo dire a questo principe, nessuno deve saperlo fuorché me e lui.»

«Padre!» disse Nitokri, con angoscia.

«È un Figlio del Sole,» rispose Pepi. «Va'!»

La fanciulla prese la rosa che stava dinanzi a Mirinri e la baciò.

«Ti amo, ha detto Osiride, quando scese dal cielo, alla fanciulla bronzea e anche quello era un Figlio del Sole.»

«Ti amo, ha risposto il giovane. Quanto sei bella! Era la sua frase,» rispose Mirinri. «E anche quella era certo d'origine divina come lui.»

Pepi sorrise sarcasticamente, poi fece un gesto imperioso alla fanciulla.

«Va'!» disse. «Io sono il re!»

Nitokri depose la rosa e si allontanò lentamente, volgendosi indietro a guardare il giovane Faraone che le sorrideva.

Quando la porta di bronzo si chiuse dietro di lei, il viso del re aveva assunto un aspetto ben diverso.

«Tu,» disse, «che ti credi figlio di Teti il grande e perciò mio nipote?»

«Sì,» rispose Mirinri. «Io sono il figlio di colui che salvò l'Egitto dall'invasione dei Caldei.»

«Ne hai le prove?»

«Tutti me lo hanno detto.»

«Ti credo. Hai provato la grandezza ed il fasto dei Faraoni; ti basta?»

«Nel deserto dove sono vissuto non avevo mai veduto nulla di simile.»

«Sicché tu hai provato le gioie del potere.»

«Non ancora.»

«Che cosa vorresti ora?»

«Il trono,» rispose audacemente Mirinri. «Tu sai che appartiene a me.»

«Perché?»

«Sono il figlio di Teti e tu mi hai rubato il potere.»

«Per regnare bisogna avere dei sudditi fedeli, dei partigiani. Ne hai tu?»

«Ho gli amici di mio padre.»

«Dove sono?»

«Io solo lo so e non te lo dirò per ora.»

«Vuoi vederli?» chiese Pepi ironicamente.

«Chi?» gridò Mirinri.

«I partigiani di tuo padre, quelli che dovevano aiutarti a strapparmi il trono!»

«Che cosa dici tu?»

Pepi, invece di rispondere, si alzò tenendo in mano la frusta dalle corregge dorate che era il simbolo del potere e la fece scoppiettare.

Un vecchio entrò subito da una delle numerose porte dell'immensa sala e s'inchinò dinanzi al re.

«Sei l'imbalsamatore ufficiale della corte tu, è vero?» gli chiese Pepi, guardando Mirinri.

«Sì, re,» rispose il vecchio.

«Apri quel verone.»

«Che cosa dici tu?» gridò finalmente Mirinri, che sembrava si risvegliasse da un lungo sogno e che intuiva il pericolo.

«Guardali i tuoi partigiani,» ripetè Pepi con un triste sorriso. «Sono là!»

Il giovane si era slanciato verso l'ampia finestra che il vecchio aveva aperta e subito un urlo d'orrore gli sfuggì.

In un immenso cortile stavano seduti cinque o seicento uomini, privi tutti delle mani e coi moncherini fasciati che trasudavano ancora sangue attraverso le bende, e dinanzi a tutti, in mezzo a due enormi cumuli di mani, Mirinri aveva scorto Ata.

«Miserabile!» esclamò il giovane Faraone, indietreggiando.

«A che cosa ti potrebbero servire ora i tuoi partigiani se non possono più impugnare un'arma qualunque?» disse Pepi con voce beffarda. «Basterebbero dieci soli dei miei arcieri per metterli fuori di combattimento.»

Mirinri forse non l'aveva nemmeno udito. Guardava cogli occhi dilatati dal terrore quei disgraziati, sui quali tanto aveva contato per rovesciare l'usurpatore e riconquistare il trono che per diritto gli spettava.

«Tutto crolla a me dintorno,» disse finalmente, con voce strozzata. «Il mio grande sogno è finito.»

Poi volgendosi impetuosamente verso il re, gli chiese:

«E di me che cosa intendi di fare? Ricordati che sono anch'io un Figlio del Sole e che mio padre fu uno dei più grandi monarchi che governarono l'Egitto.

«Ascoltiamo prima l'imbalsamatore,» rispose Pepi con un sorriso. «Vedremo come tratterà il tuo corpo.»

 

 

CAPITOLO VENTISETTESIMO

 

La necropoli di Menfi

 

Mirinri, il cui cervello pareva che dopo la vista dell'orrendo spettacolo si fosse offuscato, era rimasto immobile, guardando con uno stupore impossibile a descriversi ora Pepi ed ora l'imbalsamatore ufficiale della corte. Certo non doveva aver compresa l'idea del re.

Questi, che lo guardava sogghignando, come se cercasse di sorprendere l'effetto che avrebbero dovuto produrre le sue parole sull'animo del giovane, vedendo che rimaneva immobile, come se fosse stato fulminato, riprese: «Udiamo prima che cosa dirà l'imbalsamatore.»

«L'imbalsamatore!» esclamò finalmente Mirinri, come se si fosse in quel momento risvegliato. «Che c'entra quell'uomo col mio destino?»

«Con quale destino?» chiese Pepi, sempre sardonico.

«Col mio.»

«Che cosa ti diceva il tuo destino adunque? Sarei curioso di saperlo.»

«Che avrei riconquistato il trono di mio padre.»

«Chi te lo predisse?» gridò Pepi, che non potè fare a meno di sussultare.

«Il cielo, la terra ed una maliarda,» rispose Mirinri.

«Ah! Follie!»

«No: quando uscii dalla minorità, una stella caudata comparve nel cielo; quando un mattino, prima dell'alba, appoggiai i miei orecchi alla statua di Memnone, la pietra crepitò e suonò ripetutamente; quando strinsi fra le mie mani il fiore della risurrezione, che era stato rinchiuso nella piramide eretta da mio padre, dischiuse i suoi petali; quando incontrai una fanciulla che prediceva il destino, mi disse che un giorno sarei risalito sul trono dei miei avi: e quella fanciulla era Nefer!»

«Nefer!» gridò Pepi che sembrava atterrito. «Il cielo, Memnone, il fiore e quella fanciulla!»

Non era più Mirinri ora che sembrava fulminato; era il possente re dell'Egitto, che pareva istupidito e che guardava, con profondo terrore, il giovane.

«Nefer!» ripetè. «La stella cometa, il fiore, Memnone!» Poi volgendosi verso l'imbalsamatore, gli disse quasi con ira:

«Hai udito?»

«Sì, re.»

«Tu sei abile, è vero?»

«Credo di sì.»

«Come faresti ad imbalsamare un grande principe? Io non l'ho mai saputo esattamente. Spiegamelo e bada che si tratta d'un uomo di stirpe divina.»

«È la grande, la ricca imbalsamazione che tu vuoi, re?»

«La più costosa, onde la mummia possa resistere secoli e secoli, meglio se fino alla fine del mondo.»

«Venti secoli sono trascorsi e quelle che sono state imbalsamate col nostro processo non presentano ancora nessun deterioramento, quindi, o re, puoi essere sicuro che l'operazione che io eseguirò riuscirà perfetta.»

Mirinri, appoggiato contro una colonna dell'immensa sala, ascoltava, forse senza comprendere tutto.

«Prosegui e spiegati meglio,» disse Pepi.

«Dapprima con un ferro ricurvo noi strappiamo pezzo a pezzo il cervello del cadavere che ci viene affidato e distruggiamo gli ultimi avanzi per mezzo di droghe, che noi soli sappiamo manipolare.»

«Continua,» disse Pepi.

«Levato il cervello, che è il primo che si corrompe e che può compromettere la buona riuscita dell'imbalsamazione, facciamo una incisione al fianco con una di quelle pietre taglienti che ci rendono gli Etiopi, perché non si trovano che nei loro paesi, e leviamo da quello squarcio gl'intestini che poi laviamo con vino di palma e che in seguito immergiamo in aromi frantumati.

«La faccenda veramente è poco allegra,» disse il re, che non staccava gli sguardi da Mirinri.

«Quindi riempiamo il ventre di mirra pura tritata, di cannella e di altri aromi, eliminando completamente l'incenso, perché potrebbe guastare il processo.»

«Ah!» fece Pepi.

«Cucito lo squarcio mettiamo il cadavere nel sale, coprendolo di diversi sali alcalini e ve lo lasciamo settanta giorni, dopo di che lo laviamo, lo avviluppiamo interamente in bende spalmate di gomma arabica e tutto è finito. Così trattato, il corpo potrà sfidare impunemente il tempo.»

«Allora tu t'incaricherai di imbalsamare col tuo processo meraviglioso...»

«Chi?» chiese il vecchio, stupito.

«Quel giovane, allorquando sarà morto,» disse Pepi, puntando l'indice della mano destra verso Mirinri. «Non avrà certo da lamentarsi della mia generosità.»

Il giovane Faraone si era bruscamente scosso, staccandosi dalla colonna contro cui fino allora si era appoggiato.

«Me!» aveva gridato.

«Sì,» rispose Pepi. «Quando tu sarai morto entro la grande necropoli di Menfi, quest'uomo s'incaricherà di imbalsamarti come un grande Faraone, come tuo padre.»

«Mio padre! Vile! Io ho gettato agli sciacalli la sua mummia che non era la sua! Ah! Bisogna che ti uccida!»

Con un balzo improvviso il fiero giovane era piombato, pari ad un leone che si scaglia sulla preda, contro il re, atterrandolo di colpo. Stava per strangolarlo quando, ad un grido altissimo dell'imbalsamatore, le dodici porte di bronzo che mettevano nella immensa sala si aprirono d'un colpo solo e cinquanta guardie reali, armate di azze da guerra e di daghe, si scagliarono furiosamente, gridando:

«Salviamo il re!»

Mirinri udendo quel fracasso e comprendendo che un grave pericolo lo minacciava, aveva lasciato Pepi.

«Ah! Mi volete uccidere! Ecco come vi accoglie, miserabili, il figlio del grande Teti!»

Si precipitò verso la tavola più prossima, afferrò una pesante anfora di bronzo ancora semipiena di vino, poi appoggiatosi contro una delle colonne, attese intrepidamente l'attacco.

Pareva un giovane leone ruggente, pronto a mordere ed a lacerare a colpi d'unghia.

«Prendetelo vivo!» aveva urlato Pepi, con voce strozzata.

Il primo soldato che giunse addosso a Mirinri e cercò di afferrarlo a mezzo corpo, cadde fulminata col capo fracassato. L'anfora era piombata su di lui come una mazza, atterrandolo di colpo e la morte era stata istantanea.

Un secondo soldato, un terzo ed un quarto avevano tentato di atterrarlo, ma Mirinri, che pareva una belva furibonda e che aveva forza muscolare da vendere, li fece stramazzare ad uno ad uno dinanzi alla colonna.

L'anfora, maneggiata formidabilmente dal figlio del deserto, stava per fare una strage orribile degli assalitori, quando questi, che avevano lasciate cadere le daghe e le azze di guerra, lo assalirono tutti d'un colpo con impeto irrefrenabile.

Oppresso dal numero il giovane scosse per alcuni istanti quel grappolo umano, poi, vinto da quello sforzo supremo, cadde sulle ginocchia. Era preso!

Due lunghe fascie gli furono gettate addosso e dieci mani lo legarono strettamente, impedendogli qualsiasi movimento.

«Devo ucciderlo?» chiese il capo delle guardie, alzando su Mirinri la sua azza e guardando Pepi che si era rialzato.

«Nessun di voi è degno di versare del sangue faraonico,» rispose il re.

«Che cosa dobbiamo fare, dunque?»

Pepi stette un momento silenzioso, poi disse: «Mettetelo in un palanchino che sia tutto coperto e chiudetelo nella grande necropoli, con una di quelle pietre solide che mettiamo all'entrata delle nostre piramidi. D'ora innanzi i miei sudditi si costruiranno un altro sotterraneo se vorranno farsi seppellire. Il terreno non manca in Egitto per scavare delle mastaba.»

«Miserabile!» urlò Mirinri, facendo uno sforzo disperato per rompere le fascie che lo avvincevano.

«Quando la morte lo sorprenderà,» proseguì Pepi, freddamente, «il nostro imbalsamatore ufficiale s'incaricherà di preparare il corpo come si fa con un re od un figlio di re. Obbedite!»

«Qualcuno mi vendicherà!» gridò Mirinri.

«Chi?» chiese ironicamente Pepi.

«Ounis che è ancora libero.»

Udendo quel nome, un pallore spaventevole si diffuse sul volto del possente monarca ed un fremito scosse le sue membra.

Pareva in preda ad una vivissima emozione, anzi ad una profonda angoscia.

«È anche lui a Menfi?» chiese, quasi balbettando.

«Sì e sarà lui che mi vendicherà e che ti pianterà in mezzo al cuore la sua daga.»

«Saprò prevenirlo,» disse Pepi, come parlando fra sé.

Quattro arcieri avevano portato in quel momento un palanchino tutto coperto da una tenda nera.

«Via! Portatelo via! Toglietelo ai miei sguardi!» gridò il re che sembrava smarrito.

Mirinri fu sollevato di peso, cacciato nel palanchino e le otto guardie che si erano collocate fra le stanghe, uscirono quasi correndo.

«Uscite tutti,» disse Pepi, indicando alle altre le porte di bronzo.

Quando si vide solo si lasciò cadere pesantemente dinanzi al tavolino, dove Mirinri aveva pranzato in sua compagnia, tuffandosi quasi fra le foglie di rose che coprivano la pelle di pantera. «Sono un miserabile,» disse passandosi una mano sulla fronte che era bagnata di sudore freddo; «eppure la tranquillità dell'Egitto lo esige.»

Afferrò un'anfora che era ancora semipiena di vino e riempì una tazza che vuotò d'un fiato. «Dimentichiamo,» disse poi.

«Chi?» chiese una voce dietro di lui.

Pepi si era vivamente voltato, afferrando una delle daghe lasciate cadere dalle sue guardie.

Her-Hor, il grande sacerdote del tempio di Ptah, era entrato silenziosamente nell'immensa sala e gli stava dinanzi.

«Chi, re?» ripetè Her-Hor.

«Che cosa vuoi tu?» chiese Pepi.

«Metterti in guardia,» rispose il sacerdote.

«Contro chi? È già stato condotto nella necropoli e fra pochi minuti il blocco di pietra chiuderà per sempre il passaggio.»

«Mirinri, tuo nipote, non è giunto solo in Menfi.»

«Sì, vi è anche colui che si fa chiamare Ounis, è vero?» chiese Pepi con amarezza, soffocando un sospiro.

«E forse quello è più pericoloso di Mirinri,» rispose il sacerdote. «E poi vi è un'altra persona alla quale tua figlia ha concessa stamane e imprudentemente la libertà.»

«Sahuri?»

«O meglio Nefer, giacché gli abbiamo imposto questo nome.»

«Bah, una fanciulla!»

«Pericolosa quanto Ounis, se non di più.»

«Che cosa mi consigli di fare?»

«Distruggerli tutti.»

«Tutti!» esclamò Pepi, con spavento. «Anche Sahuri?»

«La tranquillità del regno lo esige e poi io odio Nefer.»

«Ancora?»

«Non ho dimenticato il colpo di daga che mi ha dato nell'isola delle ombre.»

«Sai tu dove si trova Ounis?»

«Ho sguinzagliato dietro a lui i più abili agenti della tua polizia. Si dice che si trovasse insieme a Mirinri nel momento in cui si conduceva ad abbeverarsi nel Nilo il bue Api.»

«Che riescano a prenderlo?»

«Sono già sulle sue tracce.»

«Che cosa ne farò poi di lui?»

«Lo si ucciderà» rispose Her-Hor.

«Un'altra infamia!»

«La tranquillità dello Stato lo vuole, re.»

«Ma lui! Anche lui!»

«Il popolo crede che sia morto e da tanti anni!»

«Temo che un simile delitto mi costi il trono, Her-Hor.»

Il sacerdote alzò le spalle.

«L'ureo è troppo fermo sulla tua fronte, re,» disse poi. «Quale sarà la mano audace che te lo strapperà?»

«Eppure» rispose Pepi dopo un breve silenzio, «ho dei vaghi timori. Non mi sento tranquillo come prima e questa sera non dormirò come le altre notti.»

«Le urla di Mirinri affamato, aggirantesi come belva feroce nelle tenebrose gallerie della mastaba, non turberanno per troppo tempo i tuoi sonni, re» disse Her-Hor. «Cinque, sei, forse sette giorni, ammesso che possa resistere tanto perché mi parve d'una robustezza eccezionale, poi tutto sarà finito e non udrai più la sua voce.»

«Nelle sue vene scorre il sangue mio!» gridò Teti.

«Non è tuo figlio,» rispose freddamente il sacerdote.

«È figlio di mio fratello.»

«Già, quasi uno straniero.»

«Chi ha creato te? Il genio del male?»

«La dea della vendetta.»

«Non esiste una simile divinità nella nostra religione.»

«Nascerà un giorno.»

«Sei più terribile di me.»

«Cerco di realizzare un sogno.»

«Quale?»

«Di colpire in mezzo al cuore colui che fece di me, grande sacerdote del tempio delle sfingi, quasi un miserabile.»

«Vendicarti di Teti?»

«Sì, di tuo fratello,» disse Her-Hor, con accento feroce. «Se io non avessi trovato in te un protettore, che cosa sarei io oggi? Un miserabile affamato, peggio forse d'uno di quei disgraziati che per mangiare esauriscono le loro forze nell'erezione delle nostre colossali piramidi.»

«Ma tu dilapidavi le ricchezze del tempio.»

«Lo dissero i miei nemici,» disse Her-Hor furibondo, «e tuo fratello credette più a loro che a me.» Poi, dopo aver fatto un gesto di rabbia, riprese:

«Io non sono venuto qui per discutere sulla mia persona bensì per salvare il tuo regno ed il tuo popolo, re.»

«Che cosa mi consigli di fare, dunque?» chiese Pepi Mirinri con voce tremante.

«Uccidere inesorabilmente,» rispose Her-Hor «se ti preme la tranquillità del tuo regno.»

«Esito ad alzare la mano su di lui.»

«Un re non deve esitare mai.»

«Non è ancora preso.»

«Questa sera sarà in nostra mano. Ti ho già detto che le guardie sono già sulle sue tracce.»

«Che io non lo veda. Non potrei reggere al suo sguardo bruciante: sarebbe un'accusa che mi colpirebbe troppo al cuore.»

«Un colpo di daga dato da una guardia fidata e chi si rammenterà di lui?»

«Ne parleranno i suoi partigiani.»

«Impugnino le armi ora che sono senza mani,» rispose Her-Hor ironicamente. «Se poi...»

Il fracasso d'una delle porte di bronzo che s'apriva impetuosamente lo interruppe di colpo.

Nitokri, la bella principessa, era entrata impetuosamente nell'immensa e magnifica sala, col viso alterato, gli occhi fiammeggianti, le vesti scomposte. Tese, con un gesto imperioso, le sue braccia nude, adorne di splendidi braccialetti d'oro verso il grande sacerdote, dicendogli con voce imperiosa:

«Esci tu, genio maligno!»

«Nitokri! » gridò Pepi spaventato dall'ira che traspariva sul viso della bella fanciulla.

«Esci!» ripetè la giovane Faraona, senza guardare il padre ed indicando, con un gesto energico, ad Her-Hor le porte di bronzo.

«Tu dimentichi, signora, chi io sono,» disse il sacerdote, aggrottando la fronte.

«Il grande sacerdote del tempio di Ptah, lo so,» rispose Nitokri, con voce stridula, che echeggiò sinistramente nella sala. «Ti basta? E tu sai chi sono io? Una Faraona che un giorno regnerà sull'Egitto e che con un solo cenno punirà tutti quelli che le daranno fastidio. Esci ora!»

«Non sei ancora regina, fanciulla.»

«Quando la voce d'una Faraona tuona qui dentro, nel palazzo reale, dal primo all'ultimo suddito, tutti devono obbedire!» gridò Nitokri, ergendosi fieramente dinanzi a Her-Hor: «Esci!»

«Quando me lo comanderà tuo padre, che è il solo che regna in questo momento e che solo può comandare,» rispose il vecchio sacerdote, che era diventato livido. Poi, volgendosi verso Pepi gli chiese: «Devo obbedire a tua figlia?»

Il re parve che non lo avesse nemmeno inteso. Si era appoggiato contro una colonna e guardava smarrito, come annichilito, sua figlia.

«Devo obbedire?» ripetè Her-Hor.

Pepi fece col capo un cenno affermativo.

«Sta bene,» disse Her-Hor ironicamente. «Non scordarti però Pepi che tu sei il re e che il tuo regno si trova sull'orlo d'un baratro, e che tutti i sacerdoti sono con te per la salvezza, la tranquillità e la grandezza di questa terra, dal grande Osiride benedetta e fecondata da Râ.

Lanciò su Nitokri uno sguardo che pareva di sfida, poi attraversò lentamente la sala, senza affrettarsi e uscì dalla medesima porta di bronzo da cui era entrata la fanciulla.

La principessa attese che i due battenti si chiudessero, poi volgendosi impetuosamente verso Pepi, gli chiese con voce fremente:

«Che cosa ne hai fatto tu, padre, di Mirinri, del giovane a cui devo la vita? Dimmelo! Io voglio saperlo!»

«È fuggito,» rispose il re.

«Dove?»

«Non lo so. Forse egli non voleva essere ricompensato da me.»

«Menti!» gridò la fanciulla, coll'impeto selvaggio di una giovane leonessa che si rivolta verso il cacciatore che l'ha ferita. «È stato vinto dalle guardie e portato via.»

«Ma no...»

«Chi ha ucciso quegli uomini che giacciono, col capo fracassato, attorno a quella colonna?» chiese Nitokri indicando le guardie che nessuno aveva ancora pensato a trasportare altrove. «Il braccio possente di colui che uccise il coccodrillo che stava per divorarmi nelle fresche acque dell'Alto Nilo, dove il mio corpo divino si bagnava.»

«Erano dei traditori costoro, degli alleati di quei ribelli che i miei fedeli hanno sorpreso nella piramide di Rodope.»

«Tu menti!» ripetè la principessa con maggior forza. «Quei disgraziati sono stati atterrati da Mirinri.»

«Chi te lo disse?» chiese Pepi.

«Io l'ho saputo. Dove è? Dove l'hai fatto tradurre? Io so che poco fa una lettiga, coperta d'un gran drappo nero, è uscita da questo palazzo scortata da un drappello dei tuoi arcieri. Chi vi era dentro?»

Il re rimase per qualche istante muto, poi facendo uno sforzo supremo, disse:

«Non sono io più il re dell'Egitto, dunque? Comando io o tu? Se uno mi dà fastidio, lo faccio scomparire. La tranquillità del regno innanzi a tutto.»

«L'hai fatto uccidere?» gridò Nitokri, avventandosi contro Pepi e scuotendolo violentemente.

«Chi?»

«Mirinri.»

«No... che cosa temi?» disse Pepi, con aria imbarazzata.

«Che tu me lo uccida!»

«L'ameresti forse?» chiese Pepi spaventato.

«Sì, l'amo,» rispose la fanciulla.

Pepi si passò due o tre volte una mano sulla fronte poi disse, come parlando fra sé, mentre un brivido scuoteva il suo corpo:

«Lui sì... forse... ma l'altro?... Crollerebbe tutto ed io che cosa diverrei?»

«Padre!» gridò Nitokri. «Io l'amo!»

Pepi s'appoggiò alla colonna e si coprì con ambe le mani il viso, ripetendo con voce strozzata:

«Ecco la fine... tutto crolla intorno a me... il mio potere... il regno... È la punizione...» Poi ergendosi, con uno sforzo supremo, disse: «Lui... no... mai... Her-Hor lo catturerà... il popolo l'ha dimenticato... è morto sotto i Caldei... sparirà nuovamente...»

«Che cosa dici, padre?» chiese Nitokri, che lo guardava con angoscia.

«Manda uno dei miei capitani nella necropoli dove io aveva fatto rinchiudere Mirinri vivo,» disse Pepi. «La pietra fatale non sarà ancora collocata... se lo fosse fa' diroccare le mura... viva e sia felice giacché tu l'ami e ti ha salvata la vita... e regni... ma dopo di me... il popolo egiziano mi sarà riconoscente... è un Figlio del Sole.»

«Nella necropoli hai detto, padre!»

«Sì, va', comanda... te lo dono...»

«Mirinri è mio? Oh la suprema felicità!»

«Taci! È la rovina dell'Egitto forse. Va'!»

Nitokri uscì, quasi correndo.

Era appena scomparsa quando Her-Hor rientrò nella sala. Un lampo maligno illuminava i suoi occhi.

Pepi empì una tazza e la vuotò senza guardarlo.

«Hai ceduto re, è vero?» gli chiese il grande sacerdote.

«L'ama,» rispose asciuttamente Pepi, posando la tazza vuota, «e Nitokri è mia figlia, carne della mia carne.»

«E lui è preso.»

«Chi?» gridò Pepi scuotendosi.

«Ounis.»

«Lui!»

«Lo salverai?»

«Domani si scateni il mio leone favorito, nel grande serbatoio del Nilo... Vedremo se il vincitore dei Caldei saprà vincere anche il terribile figlio delle sabbie libiche... salvo il figlio, ma lui no... Il popolo d'altronde lo ha dimenticato!»

 

 

CAPITOLO VENTOTTESIMO

 

La cattura di Ounis

 

Ounis, dopo la cattura di Mirinri, era fuggito bestemmiando, confondendosi fra la folla che ingombrava l'immensa piazza. Pareva che in pochi minuti quell'uomo, che sembrava vigoroso come una quercia nonostante l'età avanzata, fosse invecchiato di dieci anni almeno.

Aveva infilata una via, poi una seconda, quindi una terza, quasi correndo, finché si era arrestato sul magnifico viale che costeggiava il Nilo, lasciandosi cadere affranto, pallido, disfatto, su una delle enormi pietre che dovevano servire alla costruzione di quelle colossali dighe delle quali, anche oggidì, dopo cinque o sei mila anni, si trovano ancora gli avanzi.

Un rauco singhiozzo aveva lacerato il petto del povero vecchio. «Preso!» veva mormorato. «Amore fatale che lo ha perduto, quando l'alba sorgeva per lui raggiante, protetta da Râ e da Osiride! A che cosa hanno servito tanti anni d'esilio nelle sabbie ardenti del deserto e tanti sacrifici? Io, che avrei potuto splendere come l'astro che irradia questa terra che il Nilo feconda e che gli dei proteggono! Io, che avrei potuto con un cenno far tremare i popoli al di qua ed al di là del Mar Rosso! E tutto è caduto! Quale immensa rovina intorno a me! Meglio sarebbe stato che io fossi morto davvero là, dove ho pugnato e vinto, sotto l'enorme cumulo dei Caldei che la mia daga ha spenti e che il mio carro di battaglia ha calpestatO! Che cosa sono io ora? L'ombra d'un grande che non avrà nemmeno più gli onori d'una imbalsamazione, né una piramide per asilo... meno d'una mummia... Abbiano almeno le acque di questo fiume, che scendono dal cielo, il mio corpo. Râ mi accoglierà nella sua barca sfolgorante...

Si alzò con una mossa violenta, fissando i suoi occhi sulle acque gonfie del fiume che muggivano sordamente, rumoreggiando contro le colossali dighe.

«Scomparire dal mondo, senza essermi vendicato di Pepi?» disse ad un tratto, indietreggiando. «Che cosa ci guadagnerei io? Un vecchio guerriero sopprimersi dinanzi al pericolo? No, tutto non può essere finito e... Ata? E i miei amici, i vecchi partigiani di Teti il grande? Forse che non mi aspettano nella Piramide di Rodope? Ata! Il mio cervello si era dunque talmente sconvolto, da farmi dimenticare quei valorosi che altro non attendono che un mio cenno per mettere a ferro ed a fuoco Menfi? Sì, rovesceremo tutto e passeremo come una tromba devastatrice attraverso l'Egitto, se Pepi vorrà lottare con noi. Il mio grido di guerra, quel grido che un giorno ha sgominato orde sterminate, assetate di sangue e di stragi, farà crollare le cento colonne del palazzo reale e la mia mano strapperà l'ureo che brilla sulla fronte dell'usurpatore. Menfi l'orgogliosa cederà o cadrà distrutta coi suoi templi e coi suoi monumenti. M'uccidano Mirinri ed io farò passare a fil di spada i trecentomila abitanti della città e non lascerò una pietra sola che possa ricordare l'esistenza di questa metropoli che è la meraviglia del mondo. Andiamo: io non sono più Ounis! Ritorno quello che fui un giorno!»

Si staccò dal parapetto e si mise a costeggiare il Nilo, avviandosi verso la parte settentrionale della città, dove giganteggiava, fra un tramonto tutto color di fuoco, la piramide entro cui dormiva la mummia della bella Rodope nel suo sarcofago di marmo azzurro. L'immenso viale, ombreggiato da doppi filari di palme, era quasi deserto, essendosi la popolazione riversata in massa verso il basso corso del fiume, dove i sacerdoti avevano condotto, con grande pompa, ad abbeverarsi il bue sacro. Ounis camminava rapidamente, tuttavia non fu che verso il tramonto che giunse sul luogo ove doveva abboccarsi coi congiurati.

«là che dorme Rodope,» mormorò il vecchio.

La piramide s'innalzava maestosamente dinanzi a lui, a meno di trecento passi, tutta rosseggiante sotto gli ultimi raggi del sole morente. All'intorno non si scorgeva alcuna persona. Solo due sciacalli dal pelame bruno sonnecchiavano l'un presso all'altro, sotto l'ombra che proiettavano le foglie d'una palma.

«Dove sarà Ata?» si chiese Ounis. «Io non so ove sia l'entrata che conduce alle serdab. Tutto è silenzio qui! Mi fa impressione questa immensa calma. Qui dovrebbe battere il cuore del futuro regno ed invece mi pare che dentro il mio si sia spezzato qualche cosa... Ah! Genio maligno! Del sangue!»

Si era curvato verso il suolo e col dito sollevava le sabbie che i venti caldi del vicino deserto libico avevano deposte intorno alla gigantesca piramide.

«Del sangue!» ripetè, con voce strozzata. «Tutta la sabbia è rossa qui!»

Indi alzò gli sguardi verso la piramide.

«Dei dardi!» esclamò poi, girando intorno uno sguardo smarrito. «Sono stati presi.»

Rimase silenzioso: era un silenzio tragico. Un improvviso accasciamento lo prese e cadde al suolo come fulminato, rimanendo inerte. Scese la notte e le ore passarono lente.

Una voce a lui ben nota lo fece tornare in sé dopo moltissime ore. Quanto tempo era trascorso? La notte era scomparsa ed il sole era riapparso e forse da molto tempo, perché era quasi alla metà del suo corso.

«Nefer!» esclamò Ounis.

«Sì, sono io, mio signore,» rispose la giovane. «Che cosa ti è successo? Ti abbiamo trovato svenuto.»

Ounis si passò parecchie volte una mano sulla fronte, per meglio risvegliare le sue idee ancora offuscate.

«Non so,» disse poi. «Mi è sembrato che un macigno mi fosse piombato sul cranio e che il cuore mi fosse scoppiato... è giorno! Quanto sono rimasto come morto?...» Poi guardando Nefer con un certo stupore, disse:

«E come ti trovi qui? Chi è questo vecchio soldato che ti accompagna? Non eri con Mirinri tu?»

«Sì, mio signore.»

«Mirinri!» gridò Ounis. «Dove si trova?»

«Nelle mani di Pepi.»

«Ah! Disgraziato! È perduto!»

«Sì, perduto,» singhiozzò Nefer. «Per me e per te.»

Ounis si era alzato di scatto, come se avesse riacquistate improvvisamente tutte le sue forze. «Narrami che cosa è avvenuto,» disse con voce cupa.

Nefer in poche parole lo informò dell'arresto e della prigionìa nei sotterranei del palazzo reale, poi della sua liberazione e delle promesse di Nitokri di proteggere Mirinri.

Un amaro sorriso contrasse le labbra del povero vecchio.

«Nitokri! È la figlia dell'usurpatore e non è lei che comanda. Tutto è finito, mia fanciulla: Mirinri non uscirà vivo da quel sotterraneo. Conosco troppo bene Pepi.»

Stette alcuni minuti silenzioso, poi chiese:

«Eri certa di trovarmi qui?»

«Avevo qualche speranza,» rispose Nefer, «sicché, appena libera mi feci condurre qui da questo soldato, che era incaricato di proteggermi.»

«Ora non hai più bisogno di lui: congedalo.»

«Va', amico, e aspettami nella casa che il re ha messa a mia disposizione,» disse la giovane al veterano. «Ci rivedremo presto.»

Il vecchio guerriero s'inchinò profondamente senza parlare e si allontanò a lenti passi.

«Nefer,» disse Ounis quando furono soli, «i vecchi amici di Teti sono stati presi. La piramide è stata espugnata e forse a quest'ora nessuno di quei prodi è vivo.»

«Siamo dunque maledetti?»

«Sì,» rispose Ounis. «Il trono a cui Mirinri aspirava è ormai perduto, la vendetta mi fugge di mano quando credeva di tenerla ben salda nel pugno... ed a te, mia povera fanciulla, che cosa rimane?»

«La morte,» rispose Nefer con un sordo singhiozzo.

«Camminiamo verso la morte dunque,» disse Ounis. «Là, sulle sabbie del deserto, sulle quali è forse rimasta ancora impressa l'orma di colui che doveva tutto distruggere, ritroveremo un po' di tranquillità. Vieni fanciulla, risaliremo il Nilo e accanto alla grande piramide dove lui visse e passò la sua prima giovinezza e sotto le foreste di palme sotto le quali sognò e dormì, ritroveremo la calma che l'aria pestifera dell'orgogliosa Menfi ha distrutto! Torno nella terra dell'esilio, io che avrei potuto regnare qui possente e ben più forte di Pepi.»

«Chi sei tu? Dimmelo almeno una volta!» gridò Nefer.

«Il leone del deserto libico» rispose Ounis. «Dove io sia nato, chi lo sa? Che cosa sono stato un giorno? Io solo lo so. Vieni fanciulla: andiamo a respirare l'aria che ha vivificato i polmoni di Mirinri, andiamo a udire il mormorìo dolce delle acque che lui ascoltava per ore ed ore sotto la fresca ombra delle palme dùm; andiamo a rivedere i luoghi ove egli visse. È morto! Menfi maledetta, come ti distruggerei! Osiride non irradia più coi suoi raggi il cielo! Egli ha abbandonato i figli del Sole! Che la sua barca si fonda sotto le fiamme di Râ! Siano maledetti tutti gli dèi dell'Egitto! Che l'ombra cupa della notte eterna li dissolva tutti. Vieni, Nefer! Vieni nel deserto! Tu sarai mia figlia!».

Riprese la fanciulla, che singhiozzava sempre, per una mano, e tornò verso il Nilo.

Stava per accostarsi ad una barca che si trovava ormeggiata alla diga, quando quattro guardie reali, che si tenevano nascoste dietro il parapetto, gli piombarono improvvisamente addosso, colle daghe alzate, atterrandolo.

Il vecchio, con una mossa fulminea, aveva afferrato pel polso l'uomo che gli stava più presso, strappandogli l'arma.

«Largo, miserabili!» tuonò, con voce formidabile. «Cento caldei non hanno fatto paura a me e tutti caddero sotto il mio ferro. A te pel primo!»

Con un'agilità meravigliosa, che qualunque giovane gli avrebbe invidiata, era balzato in piedi, gridando:

«Indietro, Nefer!»

La daga, un'arma solida ed affilata, balenò un istante nell'aria e scomparve tutta intera nel corpo della guardia.

Le altre tre si erano scagliate sul vecchio, urlando: «Arrenditi!»

«Ecco come si arrende chi vinse i Caldei!» rispose Ounis.

Tre volte scintillò la lama già rosseggiante di sangue ed i tre uomini caddero l'un sull'altro, contorcendosi fra gli spasimi della morte.

Ounis stava per prendere la fuga, quando un drappello di guardie, sbucato da una via laterale, lo circondò. Erano quaranta o cinquanta uomini, armati d'azze di guerra e gagliardi.

Ounis aveva gettata la daga stillante sangue, dicendo con ironia: «Non uccido il mio popolo! Chi mi vuole?»

«Il re,» disse un vecchio arciere, avanzandosi.

«Ah!» fece Ounis.

Poi, volgendosi verso Nefer, disse: «Nemmeno il deserto ci vuole. Ecco la catastrofe completa. È la fine di tutto!» Quindi, guardando irosamente le guardie, chiese sdegnosamente: «Da chi mi conducete?

«Dal re,» risposero le guardie.

«Mi avevate seguito, dunque?»

«Sì,» disse il vecchio arciere che comandava il drappello.

«E di questa fanciulla che cosa ne farai tu?»

«Io non ho ordini per lei: chi si cura d'una vagabonda?»

Un urlo di belva feroce irruppe dal petto del vecchio Ounis.

«Miserabile!» gridò, liberandosi con una scossa violenta dalle guardie che lo trattenevano pei polsi. «Costei una vagabonda! A te! È una Figlia del Sole!» La mano del vecchio cadde sul viso dell'arciere come un terribile colpo di frusta, facendolo girare due volte su se stesso. «Inchinati davanti a questa fanciulla che porta sul suo corpo divino il tatuaggio dell'ureo. Giù o t'uccido! Se Pepi non ti farà sgozzare, vi sarà chi ti punirà se non obbedisci! Giù! Tu non sai chi è l'uomo che te lo comanda!»

Vi fu fra le guardie un momento di stupore impossibile a descriversi. Quel vecchio che aveva già ucciso quattro uomini e che comandava coll'autorità d'un re, aveva sgomentato tutti.

«È tua figlia?» chiese il capo degli arcieri con voce alterata.

«Chi sia non lo so,» disse Ounis. «È una Faraona e ti basti! Guarda, vile schiavo d'un re ladro!»

Con un gesto rapido strappò alla fanciulla la leggera tunica che la copriva e mise a nudo la sua spalla mostrando il simbolo del diritto di vita e di morte. «Lo vedete?» disse. «È una Faraona! Giù, a terra, tu che l'hai offesa, perché è d'origine divina!»

L'arciere era caduto in ginocchio, mentre gli altri avevano allargato il cerchio.

«Ed ora,» disse Ounis, «conducetemi pure da Pepi. Desidero vederlo.»

«Ed io?» chiese Nefer.

«Seguimi,» rispose il vecchio. «È là, nel palazzo delle cento colonne, che noi daremo l'ultima battaglia. Chissà! Forse tutto non è ancora perduto e quando urlerò in faccia a lui la sua infamia, può darsi che la fenice rinasca per abbruciare il corpo di suo padre nel tempio del Sole e che addenti, pari ad un famelico coccodrillo, la sua anima. Vieni, Nefer, vieni fanciulla mia. Le ali dorate e rosse della fenice ci proteggeranno.»

Gli arcieri si erano stretti intorno a loro ed il capo aveva svolta la fascia che gli cingeva il kalasiris, per legare le mani a Ounis.

«Non occorre,» disse il vecchio. «Non ho più una daga per uccidervi tutti. Andiamo! Il palazzo reale ed io ci conosciamo.»

Ounis, tetro, pensieroso, camminava fra le guardie e Nefer lo seguiva, colla testa chinata sul petto, come un'ombra vagante. Salirono il viale che conduceva al palazzo reale, senza che né l'uno, né l'altra, né la scorta avessero pronunciata una parola. Quando però Ounis si trovò nel peristilio di marmo parve ridestarsi come da un lungo sogno.

Guardò come stupefatto le immense porte, le alte terrazze bastionate, le colonne sfolgoranti d'oro che s'ergevano maestosamente attraverso l'immensa sala, dove Mirinri era stato ricevuto ed aspirò fragorosamente l'aria.

«Diciotto anni,» disse, fermandosi bruscamente. «E lo rivedo, ma non più mio!»

Si era voltato verso le guardie, come se volesse scagliarsi contro di loro o come se volesse gridare qualche cosa sui loro volti, poi, frenandosi, chiese:

«Dov'è il re?»

«Domani lo vedrai,» rispose il capo degli arcieri.

«E dov'è Nitokri, sua figlia?» chiese Nefer, con impeto.

«La figlia del Faraone?» chiese il capo del drappello, con stupore.

«Non sono anch'io una Faraona forse?» chiese la fanciulla. «Hai visto tu il tatuaggio, sulla mia spalla? Va' a dirle che vi è una Figlia del Sole che vuole vederla e subito! Mi hai compreso?»

«È la figlia del re,» osservò umilmente il capo degli arcieri.

«Ed io di chi sono, se l'ureo ha marcato il mio corpo?»

«Nefer!» disse Ounis. «Che cosa vuoi fare tu?»

«Nelle cento colonne daremo battaglia, sia pure l'ultima,» disse la fanciulla con un singhiozzo. «Getto il mio destino! Addio, signore, spero di rivederti presto.»

Ounis scosse tristemente il capo e seguì gli arcieri che avevano aperta una porta la quale pareva che mettesse in qualche sotterraneo. Il capo intanto si era allontanato, salendo una gradinata di marmo, che era nascosta da una immensa tenda intessuta di pagliuzze d'oro ed a larghe fascie di tinte svariate, tutte smaglianti.

Nefer, rimasta sola nell'immensa sala, si era appoggiata ad una coppa di lapislazzoli che serviva in certe occasioni da fontana, nascondendosi il viso fra le mani. Dai sussulti che di quando in quando scuotevano il suo corpo, si capiva che la disgraziata fanciulla singhiozzava.

Un passo leggerissimo, accompagnato dal fruscìo d'una veste, trasse Nefer dalla sua muta disperazione. Nitokri, la figlia di Pepi Mirinri, le stava dinanzi.

Le due fanciulle si guardarono a lungo, senza parlare, poi Nitokri disse:

«Sei tu, che chiamano la principessa dell'isola delle Ombre?»

«Io sono Nefer.»

«O meglio Sahuri: era questo il nome che portavi quando ti tolsero di qua.»

«Non me lo ricordo,» rispose Nefer. «Ero ancora bambina allora.»

«Che cosa vuoi, fanciulla?»

«Sapere che cosa è avvenuto di Mirinri, il figlio del grande Teti,» rispose Nefer, scoppiando in singhiozzi. «Tu che sei onnipossente, proteggilo, signora, contro le ire di tuo padre... io, che l'ho immensamente amato, te l'abbandono purché gli salvi la vita.»

«Mirinri... l'hai amato? E lui?» gridò Nitokri.

Nefer scosse tristemente il capo.

«Egli non sognava e non vedeva che la fanciulla salvata sulle rive dell'Alto Nilo. Nefer era nata sotto un raggio funesto di Râ: il raggio azzurro che porta sventura a tutti quelli che tocca.»

Nitokri era rimasta silenziosa. Una profonda compassione traspariva dai suoi occhi bellissimi.

«Povera Sahuri,» disse poi, con un sospiro. «Nata sui gradini d'un trono al pari di me, la felicità ti è mancata.»

Ad un tratto si scosse.

«Mirinri corre qualche pericolo?» gridò.

«Sì, forse a quest'ora ha subito la sorte orrenda dei partigiani di suo padre. Io ho veduto il loro sangue sulle sabbie che circondano la piramide di Rodope.»

«Mirinri minacciato! Forse morto! Attendimi, fanciulla! Guai se mio padre ha osato alzare la mano su di lui! Sarebbe troppo! Sorella, uniamo le nostre forze contro i tristi consiglieri di Pepi: siamo due Faraone!»

 

 

CAPITOLO VENTINOVESIMO

 

Il trionfo di Teti

 

Un po' al di sopra di Menfi, ad occidente del Nilo, in quel luogo ove la catena libica comincia ad allargarsi, formando una pittoresca oasi che chiamasi ancora oggidì il Fayum, si apriva quel famoso serbatoio fatto costruire da Amenemhat III che formò per secoli e secoli la meraviglia degli assiri, dei caldei e dei naviganti greci e che era destinato a ricevere le acque sovvabbondanti del fiume ed a regolare l'irrigazione in tutto il paese circostante.

Era un'opera meravigliosa, un bacino immenso che aveva delle dighe di cinquanta metri di spessore e della lunghezza di parecchie decine di chilometri, come si può constatare dagli avanzi che ancora sussistono oggidì, dopo migliaia e migliaia d'anni da che esse furono erette.

Sulle rive del famoso lago di Moeris, come fu chiamato dai Greci che lo visitarono più tardi, sulle cui rive sorgeva il Labirinto, che era il più vasto palazzo del mondo, con più di tremila camere, la facciata di calcare bianco, che si rispecchiava nelle acque, come marmo di Paros e con nel mezzo le due colossali statue di Amenemhat III e sua moglie.

In quel meraviglioso bacino, ventiquattro ore dopo la cattura del disgraziato Ounis, più di centomila persone si erano radunate, scaglionandosi sulle gigantesche dighe che formavano come un immenso anfiteatro.

Al mattino mille araldi avevano fatto echeggiare le loro trombe per le vie della superba metropoli, annunciando uno spettacolo emozionante ed invitando gli abitanti a radunarsi nel serbatoio, che le acque del Nilo non avevano ancora invaso, non avendo il fiume raggiunto ancora la sua massima piena; e migliaia e migliaia di persone si erano rovesciate sulle dighe, quantunque ignorassero ancora di che cosa veramente si trattasse.

La notizia però che anche il re, seguito dalla sua corte sfarzosa, vi avrebbe preso parte, aveva bastato per muovere i buoni menfini assieme alle loro famiglie.

L'ora dello spettacolo era stata fissata a tre ore prima del tramonto, sicché quando il sole cominciava a declinare rapidamente e l'aria a rinfrescarsi, tutte le dighe che si stendevano di fronte al meraviglioso palazzo del Labirinto si erano coperte di spettatori. Sulla facciata del palazzo le due gigantesche statue di Amenemhat e della sua consorte, si ergevano superbamente in attesa che i flutti del sacro Nilo, scendenti dal cielo, bagnassero i loro piedi estendendosi intorno a loro con flebili mormorii, come un gran mostro soggiogato dai suoi possenti vincitori.

Pepi, seguito da tutta la sua corte, composta di grandi dignitari, di ciambellani, di sacerdoti, di arcieri, di guardie reali, di suonatrici e di danzatrici, che facevano echeggiare rumorosamente i loro svariati istrumenti musicali e da un gran numero di giovani schiavi, che reggevano immensi ventagli risplendenti d'oro e sormontati da magnifiche penne di struzzo e diversi simboli religiosi di metallo prezioso, era giunto all'ora fissata.

Dinanzi alla candida facciata del Labirinto era stato innalzato per lui e pei suoi dignitari un palco grandioso, a tinte smaglianti, coperto da un immenso velario di finissimo lino a grandi fascie multicolori e vi aveva subito preso posto, sedendosi su una specie di trono altissimo, da cui poteva dominare tutto il bacino e le gigantesche dighe.

Il popolo notò subito, con un certo stupore, che Nitokri non lo aveva accompagnato. Ignorava che in quel medesimo momento la giovane Faraona, accompagnata da Nefer e da uno stuolo di schiavi e di guardie, si dirigeva verso la Necropoli per far spezzare la durissima pietra murata nella serdab principale, ove Mirinri era stato chiuso.

Un grande silenzio si era fatto, rotto solo dal rumoreggiare monotono delle acque scorrenti lungo le dighe, impazienti di precipitarsi nell'immenso serbatoio e di fecondare quelle terre benedette dal sole. Pareva che tutte quelle migliaia di persone avessero trattenuto il respiro.

Un lungo squillo di tromba, seguito tosto dalle prime battute della fanfara reale, avvertì la moltitudine che lo spettacolo promesso stava per cominciare. Alcune guardie, uscite dal palazzo del Labirinto, si erano avanzate verso la diga di ponente, scendendo la gradinata che conduceva nel fondo del serbatoio. Scortavano un vecchio d'aspetto imponente, dalle membra ancora robustissime, coperto solo da un corto kalasiris, stretto ai fianchi, munito d'uno scudo semiovale, simile a quello che usavano i guerrieri di quell'epoca e armato d'una daga di bronzo dalla lama molto larga e molto pesante: era Ounis!

Il vecchio, quantunque ignorasse ancora contro chi l'usurpatore desiderava che si misurasse, procedeva tranquillo, a testa alta, impugnando saldamente la daga, destando una profonda ammirazione fra gli spettatori che si erano tutti alzati in piedi per meglio osservarlo.

Quando giunse fra le due gigantesche statue fu lasciato solo e le guardie si ritrassero correndo.

Quasi nel medesimo istante da una delle gallerie sotterranee che servivano di canale per le acque del Nilo, si vide balzare fuori, con un salto immenso, un superbo leone libico, di forme poderose, con una lunga criniera quasi nera.

Un immenso grido, somigliante al rumoreggiare sinistro di una grande marea od al rombo d'un maremoto, s'alzò fra i centomila spettatori.

Si ribellavano contro la ferocia del loro re, che esponeva un vecchio, probabilmente un guerriero a giudicarlo dal modo con cui erasi prontamente coperto collo scudo e dal fiero atteggiamento. Oppure salutava il leone? Ounis, immobile, colla daga tesa, il corpo curvo innanzi per offrire minor bersaglio alle terribili unghie del carnivoro, attendeva intrepidamente l'assalto, con un sorriso strano sulle labbra.

La belva, che era stata probabilmente tenuta a digiuno per qualche giorno, udendo l'urlo della folla si era arrestata, poi, vedendo la preda dinanzi a sé, spinta dalla fame aveva spiccato un secondo salto, cadendo a cinque o sei passi da Ounis.

Ad un tratto, mentre stava per spiccare l'ultimo, s'accasciò guardando in aria e mandando un lungo ruggito che si ripercosse come un colpo di tuono entro le gigantesche dighe. Tutti gli spettatori erano nuovamente balzati in piedi, guardando anche essi verso il cielo. Un terrore improvviso pareva che avesse sorpreso tutti: uomini e bestie.

Quale strano fenomeno succedeva? L'aria si era fatta rapidamente oscura, le dighe cambiavano tinta, il palazzo del Labirinto, prima tutto bianco come l'alabastro, aveva assunta una tinta grigiastra, il cielo all'orizzonte prendeva delle sfumature verdastre, i raggi del sole sparivano: tutta la natura sembrava sul punto di spegnersi.

Gli aironi e le ibis, che prima volteggiavano in gran numero al di sopra del serbatoio, si lasciavano cadere al suolo, come se fossero state improvvisamente colpite da freccie invisibili; in lontananza i buoi che si abbeveravano sulle rive del Nilo, muggivano sinistramente, i cani urlavano lugubremente ed i volti degli spettatori assumevano delle tinte cadaveriche.

Sembrava che qualche sinistro avvenimento stesse per piombare sull'Egitto. Dai quattro punti cardinali, delle dense tenebre salivano, invadendo con velocità fantastica il cielo, mentre il sole spariva dietro una immensa macchia nera.

Uno spavento indicibile si era impadronito di tutti gli spettatori. Perfino Pepi si era alzato, guardando l'astro diurno che si ottenebrava. Poi un gran grido si confuse coi muggiti dei buoi e colle urla dei cani:

«Râ fugge!»

Il ruggito del leone vi fece eco. Il formidabile carnivoro pareva che non pensasse più alla preda umana che gli stava dinanzi. Si era accovacciato, rannicchiandosi su se stesso, come se avesse perduto completamente la sua istintiva ferocia.

Ounis però non l'aveva dimenticato. Uomo d'una coltura superiore, aveva subito capito che quel fenomeno non era altro che una eclissi totale di sole, e quelle tenebre che piombavano sulla terra non l'avevano punto spaventato. Râ, il disco solare, veniva nel supremo momento in suo aiuto e ne approfittò. Con un salto fu sopra al leone, la sua daga balenò in aria e scomparve tutta intera nel petto della belva.

Il ruggito formidabile che uscì dalle fauci spalancate della fiera, strappò bruscamente il pubblico dal suo terrore. Abbassò gli occhi verso il fondo del bacino e nella penombra scorse il vecchio con un piede sul leone già morente e la daga sanguinante in mano.

«Popolo!» gridò allora Ounis, con voce tuonante. «Râ si è offuscato per non assistere all'assassinio d'uno dei suoi figli. Non riconosci più dunque tu Teti, il vincitore dei Caldei, quel Teti che un giorno chiamasti Grande e che mio fratello, quell'uomo che siede sul palco reale e che impallidisce sotto il mio sguardo, fece credere morto? Popolo, il tuo re è vivo ed è tornato in questa Menfi orgogliosa, dove ha regnato. Tu vedi nel segno che ti ha dato Râ la mia origine divina! Nell'uccisione di questo leone il valore dell'antico guerriero che debellò le orde asiatiche! Ed ora, guardami in viso e se mi riconosci ancora, vieni con me a strappare dalla fronte di mio fratello, di colui che mi rubò il potere, il simbolo di vita e di morte, per darlo a mio figlio, che per diciott'anni ho nascosto e allevato nel deserto!».

Fra i centomila spettatori regnò per qualche istante un profondo silenzio. La notte che era piombata, l'audacia del vecchio guerriero che aveva ucciso il leone, l'accusa terribile che aveva lanciato contro l'usurpatore, lo sgomento manifestatosi improvvisamente nel palco reale, il ricordo del grande re che aveva salvato l'Egitto e che mille vaghe voci avevano affermato essere davvero vivo, avevano prodotto un effetto impossibile a descriversi su quella moltitudine.

Poi tutto d'un tratto delle voci isolate echeggiarono:

«Sì, egli è Teti! Ieri Pepi ha reciso le mani ai suoi partigiani! Viva il vincitore dei Caldei! Popolo, seguiamolo!»

Sembrò che un muggito, uscito dalle fauci di migliaia di fiere, facesse tremare le immense dighe del bacino. Il popolo si precipitava, con rombo spaventevole, giù dalle gradinate, mentre Pepi e la sua corte abbandonavano precipitosamente il palco reale, fuggendo verso Menfi.

In quel momento il sole riappariva raggiante e le tenebre si dileguavano.

«Ecco Râ che torna!» tuonò Teti. «Egli ci illumina la via! Vieni popolo! Il tuo re ti guida!»

«Al palazzo reale!» urlarono migliaia di voci. «Viva Teti!»

Il vecchio, che imbracciava ancora lo scudo e che impugnava la daga sanguinante, aveva saltato via il leone e s'avviava verso il Labirinto. I centomila spettatori, guidati da alcuni partigiani del vecchio re, lo seguivano in falangi compatte, fra un urlìo assordante. Egli salì la gradinata, poi, giunto sulla cima, dominando colla sua voce tuonante il fracasso e alzando la daga, gridò:

«Al palazzo reale! Menfi questa sera avrà un altro re!»

«Viva Teti!» rispose la folla, che pareva in preda ad un vero delirio.

Quando l'immensa colonna rientrò in Menfi, la città era in subbuglio.

La voce che Teti, della cui morte già molti avevano dubitato, era ricomparso, si era divulgata colla rapidità del lampo e gli abitanti scendevano nelle vie armati, pronti a farsi uccidere in difesa del salvatore dell'Egitto.

Il grido di: «Viva Teti il grande!» risuonava in tutti i quartieri della metropoli, dalle rive del Nilo ai margini del deserto e nuove falangi si aggiungevano a quelle già sterminate, uscite dal gigantesco serbatoio. Una specie di guardia reale si era formata, avvolgendo Teti, che s'avanzava sempre alla testa del popolo, in uno spazio lasciatogli libero.

Quando le falangi giunsero dinanzi al palazzo reale, trovarono tutte le porte spalancate. Guardie, arcieri, dignitari, favoriti, tutti erano vilmente fuggiti. Teti sostò un momento a guardare quella grandiosa costruzione ove aveva regnato da grande monarca, poi entrò nell'ampio peristilio e salì il marmoreo scalone, penetrando audacemente nella immensa sala del trono che più nessuno difendeva. Dalle ventiquattro porte di bronzo, che nessuno aveva chiuse, il popolo si era già riversato con terribili clamori.

In fondo alla sala, raggomitolato quasi sul trono risplendente d'oro, coperto dalle vesti reali e colle insegne del comando strette fra le mani rattrappite, livido, atterrito, stava Pepi, l'usurpatore.

Il popolo si arrestò ed era diventato muto. Quei simboli del potere supremo, che il re stringeva nelle mani e sopratutto l'ureo che gli brillava sulla fronte e la maestà del trono, ancora una volta si erano imposti a quegli schiavi della potenza faraonica.

Teti, fortunatamente, non si sgomentò. Mosse diritto verso suo fratello che lo guardava con spavento, salì i gradini del trono, poi, con una mossa rapida, gli strappò l'ureo che aveva in fronte e lo gettò al suolo con disprezzo, gridando:

«Ecco: non sei più re!»

Poi, gettato lo scudo, lo afferrò per un braccio e lo trasse in mezzo alla sala, senza che egli opponesse resistenza e lo atterrò sulle lucide pietre del pavimento, alzando su di lui la daga.

«Quest'arma ha ucciso un leone,» disse «ed ora ucciderà un usurpatore, un ladro!»

 

 

CAPITOLO TRENTESIMO

 

La vendetta di Her-Hor

 

Mentre nell'ampio serbatoio del Nilo, Pepi Mirinri giocava la sua ultima carta contro il fratello per tentare di salvare il trono che ormai gli sfuggiva, un drappello d'arcieri usciva dal palazzo reale scortando una lettiga tutta coperta da una tenda variopinta e sorretta da quattro giganteschi schiavi nubiani.

Nella lettiga vi erano Nitokri e Nefer. Strappata a Pepi la grazia di Mirinri, si dirigevano verso la necropoli per liberare il disgraziato, rinchiuso vivo nell'immenso cimitero sotterraneo, che occupava quasi la quinta parte dell'opulenta città. Nitokri pareva lieta; Nefer invece, che sapeva ormai di aver perduto per sempre l'uomo che aveva intensamente amato, anche se non corrisposta, era triste e faceva sforzi supremi per frenare le lagrime che le tremolavano sotto le palpebre.

«Sorella,» diceva Nitokri, «le prove terribili che Mirinri ha subite, ormai sono giunte alla loro fine. Ormai non correrà più alcun pericolo perché io veglierò su di lui e mio padre non oserà più nulla. Egli sarà l'orgoglio della corte e quando mio padre, che è già vecchio, morrà, il popolo lo acclamerà re dell'Egitto.»

«Accetterà Mirinri di aspettare tanto?» chiese Nefer. «Egli ha lasciato il deserto ed ha disceso il Nilo per impadronirsi del trono di tuo padre.»

«Il mio non può abdicare così d'un tratto. Forse più tardi, ma non ora.»

«Ti ripeto, Nitokri, accetterà?»

«Non insisterà dinanzi a me: mi ama troppo.»

«Ah! È vero,» mormorò Nefer, soffocando un singhiozzo. «Tu sei stata la sua eterna visione, sia nel deserto, sia sul Nilo, sia qui.»

«Parlava dunque sempre di me?» chiese Nitokri, mentre nei suoi bellissimi occhi s'accendeva come una fiamma.

«Sempre... sempre...»

«Ed anch'io non avevo scordato quell'eroico giovane, che per salvare la mia vita, espose freddamente, con un coraggio da leone, la sua. Sentivo in me qualcosa che mi diceva che egli non era un uomo comune.»

Erano ormai uscite dalla città e i nubiani affrettavano il passo, dirigendosi verso le ultime ondulazioni della catena libica, dove si vedevano spiccare un numero infinito di piramidi più o meno alte, che occupavano una immensa estensione di terreno. Era l'immensa necropoli di Menfi, il cimitero più gigantesco del mondo, dove ricchi e poveri, gli uni entro le mastabe, gli altri nei sotterranei infiniti che serpeggiavano fino alla punta del delta del Nilo, dormivano da secoli e secoli, indisturbati.

Nefer, scorgendo in mezzo a quel caos di piramidi un'alta muraglia formata da blocchi di basalto grigio, aveva provato un fortissimo tremito.

«Egli si trova là, dietro quella muraglia, è vero?» aveva chiesto a Nitokri.

«Sì,» aveva risposto la figlia di Pepi che aveva pur provato un fremito di spavento.»

«Sarà ancora vivo?»

«Non sono che poche ore che vi è chiuso dentro.»

«E se, in un momento di sconforto, si fosse ucciso?»

«Taci, Nefer!» esclamò Nitokri con angoscia. «E poi, come uccidersi? Non vi sono armi là dentro.»

«Affrettiamoci.»

«Sì, di corsa!» gridò Nitokri ai nubiani.

Gli schiavi si slanciarono, obbligando così anche gli arcieri a mettersi in corsa.

Il palanchino s'avanzava ora fra quella moltitudine di piramidi e di monticelli di pietra, che le sabbie del vicino deserto, quelle terribili sabbie che più tardi dovevano seppellire tutto, in parte coprivano. Nessun essere umano si scorgeva fra queste tombe, poiché gli Egiziani, all'infuori delle grandi feste, si tenevano lontani dalla necropoli, quasi avessero paura di turbare il riposo dei loro morti.

Il drappello, giunto dinanzi all'alta muraglia di basalto che s'inalzava pure in forma di piramide e che segnava l'entrata della necropoli sotterranea, si era fermato. I nubiani deposero a terra il palanchino e Nitokri e Nefer scesero.

«Dov'è la pietra?» chiese la figlia di Pepi che pareva in preda ad una vivissima emozione.

«Eccola,» rispose un arciere, mostrando colla mano un masso di marmo più oscuro. «È la quinta.»

«Avanti gli operai.»

Sei uomini, che erano pure vestiti da soldati e che portavano dei pali di bronzo e certe specie di pesantissimi martelli in forma di cunei, si fecero innanzi.

«Non perdete tempo,» disse a loro Nitokri. «E voi» riprese poi rivolgendosi agli arcieri, «preparate le torce.»

La pietra, un masso enorme, di due metri cubi per lo meno e scelta fra le più dure della catena libica, fu subito assalita vigorosamente; ma non era cosa facile spezzarne i margini.

Trascorsero tre ore e di sforzi titanici, prima che l'intonaco che la saldava alle altre fosse frantumato e che il masso cominciasse a muoversi.

Durante quel tempo parecchie volte Nitokri aveva fatto sospendere il lavoro e aveva appoggiato un orecchio alla pietra, colla speranza di udire un grido o qualche altro segnale di Mirinri e senza nessun risultato. Il disgraziato giovane si era smarrito nelle tenebrose gallerie, credendo di trovare in qualche luogo un'apertura, o in un accesso di disperazione si era spaccato il cranio contro le pareti?

Una vivissima ansietà si era impadronita di tutti. La pietra si era già spostata e cominciava a scivolare sotto i pali di bronzo e nessun grido si era ancora udito, eppure la luce entrava e poteva essere scorta anche da lontano.

Nitokri aveva guardato Nefer, la quale era diventata smorta, come se tutto il suo sangue le fosse uscito dalle vene.

«Temi anche tu, sorella?» le chiese.

«Sì, ho paura.»

«Che si sia ucciso?»

«O che si sia smarrito.»

«Lo cercheremo: le redab non hanno alcuna uscita.»

«E se fosse avvenuta qualche frana?»

Nitokri guardò gli arcieri che aiutavano gli operai a far scivolare il masso.

«Voi avete accompagnato Mirinri, quel giovane che mio padre aveva fatto rinchiudere, è vero?»

«Sì,» rispose il capo del drappello.

«Il sepolcreto è bene conservato?»

«Ho visitate tutte le gallerie ieri mattina e non ho verificato alcun franamento.»

«Si è ribellato il giovane quando l'avete cacciato qui dentro?»

«No.»

«Era abbattuto?»

«Oh sì!»

«Accendete le torcie.»

«Sono già pronte.»

«Entriamo: vieni, Nefer!»

Scalarono le quattro pietre inferiori e penetrarono nella necropoli, precedute da quattro arcieri che portavano fiaccole composte d'una materia resinosa, che luccicando, spandeva all'intorno una luce vivissima e quasi bianca. Al di là dell'apertura vi era una scala che scendeva sotto terra, formata da gradini di pietra molto alti e molto larghi; essa conduceva in una immensa galleria a vôlta, fiancheggiata da un numero infinito di animali imbalsamati, disposti in bell'ordine su una doppia fila.

Vi erano gatti, ibis, coccodrilli, vitelli, tutte bestie, come abbiamo già detto, se non adorate, almeno assai rispettate dagli antichi Egiziani.

Nitokri e Nefer, sempre precedute dagli uomini che portavano le fiaccole e seguite dalla scorta, s'inoltrarono nella galleria, impregnata d'un tanfo poco gradevole, sprigionato da milioni e milioni di mummie che, malgrado l'imbalsamazione, lentamente si corrompevano, trattandosi di gente povera che non poteva permettersi il lusso di far subire ai loro corpi un trattamento eguale a quello dei ricchi e dei re.

Percorsi due o trecento passi, Nitokri si volse alla scorta dicendo:

«Mandate un gran grido che si ripercuota nelle profondità delle serdab. Il giovane che voi avete qui rinchiuso deve essersi smarrito.»

Gli arcieri si raccolsero in circolo e fecero rintronare le profonde ed infinite gallerie, che per leghe e leghe si susseguivano sotto l'ultimo pianoro del Delta, con un rimbombante: «Wohè!...»

Quando l'eco cessò, perdendosi in lontananza, tutti si misero in ascolto.

Trascorsero parecchi istanti d'angosciosa aspettativa, poi un grido fievolissimo, che veniva chissà da dove, giunse:

«Wohè!»

«È lui!» avevano esclamato ad una voce Nitokri e Nefer, trasalendo.

«Sì, quella che ha risposto è una voce umana,» disse il capo degli arcieri.

«Cerchiamolo! Cerchiamolo!» gridò la principessa.

Si erano rimessi in marcia, sfilando fra quelle file immense, interminabili, di bestie imbalsamate e fra pareti di granito che mostravano delle piccole tavole portanti inciso il nome dei morti sepolti o sotto o sopra la galleria.

Di quando in quando delle s'incontravano ramificazioni. Erano altri serdab tenebrosi che avevano altre direzioni. La scorta gettava, a piena gola, un nuovo e più potentissimo grido e non ricevendo risposta, proseguiva attraverso la galleria principale.

Mirinri doveva essersi molto allontanato dall'entrata della necropoli, fors'anche senza saperlo in causa della profonda oscurità che regnava là dentro.

«Che sia morto?» chiedeva insistentemente Nefer.

«Se ha risposto!»

«E se fosse stata l'eco, Nitokri?»

«No, signore,» rispondeva il capo degli arcieri. «Era una voce umana quella, ben diversa dall'eco. Avanti sempre, noi...» Si era bruscamente interrotto, comandando: «Fermi tutti! Nessuno si muova!»

In lontananza aveva udito come un rumore di passi. Qualcuno camminava sulle pietre di marmo che lastricavano la galleria.

«Egli ha veduto la luce delle nostre fiaccole e ci muove incontro,» disse finalmente il capo.

«Ne sei certo?» chiese Nitokri.

«Sì, principessa.»

«Prova.»

«Wohè!» tuonò l'arciere.

Una voce, molto più distinta di prima, rispose subito: «Chi è il coraggioso che viene a cercare il figlio di Teti?»

«Mirinri!» avevano gridato Nitokri e Nefer.

Successe un breve silenzio, come se il giovane, colto da uno stupore facile d'altronde a comprendersi in quel momento, si fosse arrestato, poi le pietre tornarono a risuonare precipitosamente, come sotto un passo velocissimo.

«Lasciate qui due fiaccole e andate ad aspettarci all'uscita della necropoli,» disse Nitokri alla scorta. «Ormai non corriamo più alcun pericolo.»

Gli arcieri erano appena scomparsi dietro una svolta della galleria, quando Mirinri, che si era slanciato a corsa sfrenata appena aveva veduto la luce delle fiaccole, giunse dinanzi alle due fanciulle.

«Voi! Nitokri! Nefer!» aveva esclamato. «Sogno io o la mia anima ha già abbandonato il mio corpo?»

«No, Mirinri, siamo noi,» disse Nitokri, prendendolo per una mano. «Noi che siamo qui scese, in questa orribile necropoli, a salvarti.»

«Ed a morire con me? Possibile che Pepi m'abbia fatto dono della vita dopo d'avermi fatto rinchiudere qui? Nitokri, Nefer, parlate.»

«Sei salvo e libero,» disse la figlia di Pepi. «Il palazzo reale aspetta il suo principe ed il suo futuro re.»

«Io un re!» gridò Mirinri, trasfigurato. «No, è impossibile, questo è un sogno.»

«No, mio signore,» disse Nefer.

«Io libero e re!»

«Futuro re,» corresse Nitokri.

«Che m'importa, purché io esca da qui e non mi separino più mai da te, Nitokri.»

Nefer si voltò da un'altra parte, appoggiando le mani alla parete. Mirinri se ne accorse e comprese l'effetto che dovevano aver prodotto le sue parole sull'animo della povera fanciulla. «Mi amava,» sussurrò a Nitokri.

La Faraona s'avvicinò alla fanciulla e la prese dolcemente per una mano, dicendole: «Vieni, sorella: il palazzo reale ci accoglierà tutti.»

Si misero in cammino: Mirinri e Nitokri erano preoccupati, Nefer era sempre triste. Già cominciavano a intravedere la luce che entrava dallo squarcio aperto nella grande muraglia, quando Mirinri s'arrestò, fissando Nefer.

«E Ounis?» chiese.

«Preso anche lui,» rispose la fanciulla.

«Ounis!» esclamò Nitokri. «Chi è? Io ho già udito questo nome.»

«L'uomo che mi condusse nel deserto, che mi curò nell'infanzia, che mi fu più che amico, padre,» rispose Mirinri. «È vero che si trova nelle mani di tuo padre?»

«Non lo so.»

«Lo so ben io,» disse Nefer. «Ero presente quando lo arrestarono.»

«E che cosa ne hanno fatto?» gridò Mirinri, con voce minacciosa. «Che un capello cada dalla testa di quell'uomo ed io, Nitokri, romperò la tregua che regna ora fra me e tuo padre.»

«Non parlare così, Mirinri,» rispose Nitokri. «Se vi è un altro da salvare, noi lo salveremo e non rientreremo nel palazzo reale se prima non avremo la sua grazia. Sorella, tocca a te ora.»

«Che cosa devo fare?» chiese la giovane stupita.

«Precedermi al palazzo reale, e recarti da mio padre a dettargli la mia volontà se vorrà rivedere sua figlia. O la grazia dell'uomo che ha salvato e guidato Mirinri o rinunciare per sempre a me. Io lego il mio destino a voi due e sono risoluta a gettare via l'ureo che porto sulla fronte.»

Mirinri guardò Nefer con angoscia.

«Sì, mio signore,» disse la fanciulla. «Andrò.»

«E Ata? E gli altri?»

«Tutti presi.»

Mirinri ebbe un moto d'ira, ma subito si calmò.

«A noi, Nitokri,» disse. «Uniamo le nostre forze. Tuo padre sarà per me sacro; ma guai a lui però se tutti i miei amici cadranno sotto la sua vendetta.»

«Mio padre cederà dinanzi a noi tre, che siamo tutti Figli del Sole,» rispose la giovane Faraona. «Usciamo da qui: l'aria è troppo pestifera e dobbiamo respirarne ben altra.»

Raggiunsero rapidamente l'uscita della necropoli, dove gli schiavi e gli arcieri li aspettavano.

«Sali nel palanchino, Nefer,» disse Nitokri, «e precedici al palazzo reale. Tu sai che cosa deve fare mio padre se vorrà rivedermi e avere ancora una figlia. Il sole tramonta, non indosso le vesti regali e nessuno farà attenzione a noi. Parti, Nefer, e strappa a mio padre la grazia di Ounis e per i suoi amici.»

La fanciulla salì nel palanchino, fece abbassare le tende e gli schiavi partirono a passo di corsa seguiti da dodici arcieri.

In pochi minuti raggiunsero le prime case della città, senza aver incontrato anima viva. Pareva che tutti gli abitanti avessero abbandonato Menfi. Si trovavano invece raccolti nell'immenso serbatoio del Nilo, ad assistere alla lotta fra il vecchio Ounis ed il leone libico.

Giunta, dopo una buona mezz'ora, al palazzo reale, Nefer salì lo scalone, risoluta a presentarsi a Pepi.

Stava per entrare nelle stanze private dell'onnipossente Faraone, quando si vide sbarrare il passo da un vecchio sacerdote, che era uscito rapidamente da una porta laterale.

Nefer si fermò di colpo, gettando un grido di spavento:

«Her-Hor!»

«Sì, il gran sacerdote del tempio di Ptah, che non ha lasciate le sue ossa nell'isola delle ombre, - rispose il vecchio, con accento ironico.

L'afferrò bruscamente per un braccio e la trasse a forza in una vasta stanza che si trovava dietro la sala del trono.

«Che cosa eri venuta a fare qui?» chiese Her-Hor, socchiudendo la porta che metteva nell'immenso salone scintillante d'oro.

«A cercare il re,» rispose Nefer, che aveva ripreso il suo sangue freddo.

«Pepi! Ha ben altro da fare in questo momento. Chi ti ha mandato?»

«Nitokri.»

«Allora avete già tratto dal suo sepolcro Mirinri.»

«Sì.»

«E si trova colla figlia di Pepi in questo momento.»

«È vero.»

Her-Hor ebbe un sorriso feroce. «L'ha salvato» disse.

«L'abbiamo trovato ancora vivo.»

«E vengono qui?»

«Questo è il posto di Mirinri.»

«Sì, lo so, Pepi ha ceduto stupidamente dinanzi a Nitokri. Lo ha graziato, ma sai a quali condizioni?»

«Le ignoro, né m'interessano.»

«T'inganni, Nefer,» disse Her-Hor. «Quando Mirinri sarà qui, che cosa accadrà della principessa dell'isola delle ombre? Che cosa rimarrà a te, che sei pure una Figlia del Sole? In quale gradino del trono siederai tu?»

Nefer lo guardò con smarrimento.

«Io non avevo pensato a questo,» disse poi, con voce soffocata. «Sì, che cosa sarà di me dopo?»

Her-Hor fece udire un breve sogghigno.

«La principessa dell'isola delle ombre ha alzato la sua mano su un grande sacerdote,» disse poi, «ed ecco gli dei che mi vendicano. Mirinri sarà un giorno re, Nitokri sarà un giorno regina e tu, che lo hai amato?»

«Taci Her-Hor!» gridò Nefer. «Non spezzarmi il cuore.»

Il sacerdote, niente commosso dalla disperazione che si leggeva sul viso della povera fanciulla, continuò implacabile:

«E tu, dall'ultimo gradino del trono; e tu che hai amato intensamente il futuro re del regno faraonico, il figlio di quel Teti che gl'imbecilli chiamavano il Grande, assisterai...»

«Taci, Her-Hor!» ripetè Nefer, singhiozzando.

«Alle nozze del giovane fortunato con la figlia di Pepi!»

«Tu m'uccidi!»

«Forse che non hai cercato di uccidere anche me?» chiese il sacerdote, con voce dura. «Ho sofferto io, soffri anche tu!»

«Allora a me non rimane altro che morire!» gridò la disgraziata.

Her-Hor alzò una tenda che nascondeva una specie d'armadio e mostrò alla fanciulla una piccola panoplia, dove vi erano delle daghe, dei pugnali e certe armi in forma di piccole falci. «Non hai che da scegliere,» disse freddamente.

Nefer stava per slanciarsi, quando in lontananza si udì un fragore assordante che rapidamente s'avvicinava. Pareva che migliaia di persone s'accostassero al palazzo reale.

Her-Hor arrestò Nefer, mettendosi in ascolto.

«Che cosa avviene in città?» si chiese, con inquietudine. Trasse la fanciulla verso un'ampia finestra e alzata la tenda variegata, guardò verso l'immenso viale che conduceva al palazzo reale.

Una folla immensa s'avanzava rumoreggiando minacciosamente. Erano le falangi che Teti guidava per strappare all'usurpatore il trono.

«Una ribellione od una insurrezione?» Si chiese Her-Hor, che manifestava una crescente inquietudine.

Ad un tratto mandò un grido di terrore. Pepi circondato da pochi soldati, era comparso sul viale. I suoi schiavi correvano all'impazzata, minacciando di sbalzarlo da un momento all'altro dal palanchino. Guardie, sacerdoti, suonatori, danzatrici, portatori d'insegne reali, non erano più con lui. Il magnifico corteo si era disciolto.

«Il re fugge!» gridò Her-Hor.

Poi una rauca imprecazione gli sfuggì. Gli erano giunte agli orecchi le grida della moltitudine, acclamante Teti.

«Tutto è finito,» mormorò. «Non mi rimane che la vendetta. Ounis è stato riconosciuto dal suo popolo e ucciderà Pepi!»

Rimase alla finestra, tenendo sempre stretta per una mano Nefer, la quale pareva che non comprendesse affatto ciò che stava per succedere.

Le falangi del popolo intanto giungevano schiamazzando ed acclamando Teti. Her-Hor le vide entrare nel palazzo reale, mentre le guardie del corpo, i servi, gli schiavi, le donne fuggivano disordinatamente attraverso gli immensi giardini.

«Vieni,» disse con voce imperiosa a Nefer, «ma prima prendi questo perché la nostra ultima ora sta per suonare e avrai una prova che Mirinri è definitivamente perduto per te.»

Staccò un pugnale e la trasse verso la porta che metteva nella sala del trono.

Proprio in quel momento Teti, dopo d'aver strappato a suo fratello l'ureo, aveva atterrato l'usurpatore, alzando su di lui la daga, pronto a ucciderlo.

Già il terribile vecchio stava per compiere il fratricidio, senza che il popolo che gremiva la sala avesse fatto nessuna mossa per salvare il possente re, che fino a pochi istanti prima aveva adorato e temuto come un dio, quando la folla s'aprì impetuosamente.

«Padre! Che cosa fai?» gridò una voce d'uomo. E nello stesso tempo una voce femminile implorò: «Salvate il re! Me lo uccidono! Grazia per lui!»

Mirinri era comparso, seguito da Nitokri, pallida come uno spettro e piangente.

Teti aveva alzata la testa, poi abbassò la daga.

«Padre!» ripetè Mirinri, precipitandoglisi incontro. «Ah, il cuore non mi aveva ingannato! Mio padre! Viva il grande Teti!»

«Che cosa vuoi, figlio?» chiese il vecchio monarca, mentre una gioia sconfinata gli irradiava il viso.

«È il padre di Nitokri, della fanciulla che io ho salvata» disse Mirinri.

«L'ami tu?»

«L'amo, padre.»

Teti gettò lontano da sé la daga.

«Dono la vita a quest'uomo,» disse poi. «Osiride lo vuole e tu lo vuoi: sia!»

Her-Hor, udendo quelle parole, aveva fatto echeggiare la stanza del suo riso stridente. «Credi ora tu, Nefer, che Mirinri possa amarti?»

«No... tutto è finito,» rispose la disgraziata. «Venga la morte!»

Alzò l'arma che teneva in pugno. Guardò un istante la luccicante lama, poi se la immerse tutta intera nel petto, in direzione del cuore.

Her-Hor l'aveva presa fra le braccia. La sollevò senza badare al sangue che gli lordava le vesti e si slanciò nell'immensa sala, gridando:

«Ecco la mia vendetta!»

Le file del popolo per la seconda volta si erano aperte, sicché il sacerdote potè giungere senza fatica dinanzi al trono.

«Her-Hor!» avevano esclamato Teti e Mirinri.

«Ecco tua figlia!» gridò il sacerdote, con voce stridula, deponendo dinanzi a Teti la fanciulla. «Si è uccisa: è morta d'amore ed io sono vendicato. Tu mi cacciasti dal tempio, dove esercitavo le funzioni di grande sacerdote, ma io vengo ad amareggiarti il trionfo.»

«Nefer!» avevano esclamato Mirinri e Teti, con orrore.

«No, Sahuri, tua figlia che io avevo condotto sulle tracce di tuo figlio, perché l'amasse e come vedi vi sono riuscito. S'è uccisa, udendo Mirinri confessare il suo amore per Nitokri.»

Un urlo di belva ferita era sfuggito dal petto di Teti.

«Arrestate questo miserabile!»

Mirinri, prima di tutti, era già piombato sul grande sacerdote, afferrandolo per la strozza. «Devo ucciderlo?» chiese.

«No: si facciano imponenti funerali a mia figlia, si porti la sua salma nella grande piramide che io ho fatto costruire sui margini del deserto e vi si chiuda dentro vivo quest'uomo. Rinuncio il trono a mio figlio: egli è degno di suo padre.»

«E tu?» chiese Mirinri.

«Io torno nel deserto, dove per diciotto anni vissi, e vado là per udire le urla fameliche di quest'uomo che ha causata la morte di mia figlia. Ti ascolterò, Her-Hor, attraverso la pietra che ti chiuderà per sempre, fino all'ultimo tuo ululato.»

Raccolse l'ureo che aveva strappato a Pepi e lo posò sulla fronte di Mirinri, il quale si era inginocchiato presso al cadavere di Nefer, frenando a gran pena i singhiozzi.

«Popolo,» gridò, «ecco le mie ultime volontà! Sia fatta grazia a mio fratello e lo si esili nell'alto Nilo: egli è il padre della fanciulla che mio figlio ama. E tu, Mirinri, non scordarti Ata: benché abbia le mani tagliate, pure potrà essere un buon ministro. Ed ora addio: vado ad udire le urla feroci di Her-Hor dinanzi al sarcofago di mia figlia.»

Prese fra le sue braccia il cadavere di Nefer, che grondava sangue e s'avviò verso una delle ventiquattro porte di bronzo, mentre la immensa sala rintronava d'un grido immenso:

«Viva Mirinri, re dell'Egitto!»