Emilio Salgari

 

Gli Ultimi Filibustieri

 

 

 

 

Capitolo I

UN TERRIBILE TAVERNIERE

 

Co... co... co... Che cosa vuol dire, per tutti i tuoni e le tempeste del mare di Biscaglia? Co... co... So che dei pappagalli si chiamano Cocò, ma io credo che chi mi ha scritto questa lettera non sia uno di quei volatili variopinti!...

“Sarà meglio che chiami mia moglie. Chissà che non riesca a decifrare questi scarabocchi.

“Panchita!...”

Una robusta donna sui trentaquattro trentacinque anni, bruna, cogli occhi tagliati a mandorla come le andaluse, vestita leggiadramente, ma colle maniche rimboccate che mostravano delle ben tornite e vigorose braccia, uscí dal lunghissimo banco d'acagiú, dietro a cui stava risciacquando dei bicchieri.

- Che cosa vuoi, Pepito? - chiese.

- Al diavolo Pepito!... Sono don Barrejo io e non un Pepito qualunque. Quand'è, moglie, che ti ricorderai che io sono un nobile della Guascogna?

- Pepito è un nome piú dolce, marito mio.

- Lascialo in Siviglia.

L'uomo che parlava cosí era uno spilungone, alto e magrissimo, con due baffi spioventi, un po' brizzolati, ed i lineamenti energici, che mal si adattavano ad un taverniere.

Colle gambe allargate, ritto di fronte ad una tavola occupata da una mezza dozzina di meticci, i quali stavano vuotando un grosso boccale di mezcal, fissava i suoi occhi grigiastri, che avevano il lampo dell'acciaio, su un pezzo di carta.

- Leggi tu, Panchita, - disse, porgendo alla donna il foglio. - In Guascogna non si scrive cosí, per tutti i tuoni del mar di Biscaglia!...

La taverniera prese la lettera e vi gettò sopra uno sguardo.

- Caramba!... - disse. - Io non ci capisco niente.

- Sono dunque tutti asini i castigliani!... - esclamò il taverniere, allargando maggiormente le sue magre gambe. - Eppure laggiú si parla la purissima lingua della grande Spagna!

- E in Guascogna? - chiese la bella bruna, scoppiando in una allegra risata. - Non vi sono asini nel tuo paese, Pepito?

- Lascia stare la Guascogna. Quella è una terra eccezionale che non nutre che spadaccini.

- Come vuoi, marito mio; ma io non capisco niente di ciò che è scritto su questa carta.

- Non ci vedi? Hai forse le traveggole? Co... co...

- E poi? Avanti, giacché tu, don Barrejo, ci capisci qualche cosa.

- Tonnerre!... Non ci capisco niente, io!

- Chi ti ha portato questa lettera?

- Un ragazzo indiano, che non mi parve appartenesse all'Amministrazione delle Poste.

- Ehi!… don Barrejo!... - gridò Carmencita, mettendosi le mani sui fianchi e lasciando sul marito uno sguardo di fuoco. - Sarebbe forse un appuntamento con qualche donna straniera? Ricordati che le castigliane portano sempre un pugnale nel seno!...

- Non te l'ho mai veduto, - rispose il taverniere, ridendo.

- Saprei mettercelo però.

- Allora c'è tempo e in tanto potremo decifrare tranquillamente questi dannati sgorbi. Tonnerre!... Co... co... Al diavolo tutti i pappagalli dell'America!...

In quel momento la porta si aprí ed entrò un uomo coperto da un ampio mantello grondante d'acqua, poiché in quel momento si rovesciava su Panama un furioso acquazzone accompagnato da lampi e tuoni.

Era uno splendido tipo d'avventuriero, non piú giovane però, poiché la sua barba ed i suoi baffi erano quasi bianchi e la sua fronte spaziosa era solcata da profonde rughe che l'ampio feltro piumato nascondeva malamente.

I suoi altissimi stivali di cuoio giallo erano ritagliati bizzarramente verso l'estremità superiore e dal fianco gli pendeva una spada.

Si diresse verso un tavolino, aprí il mantello mostrando una ricca giubba di panno finissimo con alamari d'oro, si tolse il cappello e batté un pugno formidabile, gridando:

- Ehi, oste del malanno, non si dà dunque da bere ai gentiluomini?

Il taverniere, tutto occupato a decifrare la lettera misteriosa, non si era nemmeno accorto dell'entrata di quel personaggio. Udendo però il tavolo scricchiolare sotto quel terribile pugno e quelle parole abbastanza offensive, passò la carta alla moglie e guardò trucemente il gentiluomo, dicendo con voce fremente:

- Mi avete chiamato?...

- Oste del malanno, - rispose il nuovo venuto, tranquillamente. - Quando un gentiluomo entra in una taverna, il padrone deve accorrere e domandare che cosa si desidera. Almeno cosí si usa in Europa, se non in America.

- Ehi, signor mio, - rispose il taverniere, prendendo una posa tragica. - Mi pare che voi alziate un po' troppo la voce in casa mia.

- Casa vostra!...

- Tonnerre!... Siete voi che pagate il fitto, mio gentiluomo?

- Una taverna è una casa pubblica.

- Corpo d'un cannone! - urlò il taverniere.

- Ohé, bell'uomo, mi pare che siate voi ora che alzate un po' troppo la voce!

- Fulmini di Biscaglia!... Sono il padrone della taverna, io!...

- Benissimo.

- E sono un guascone!...

- Ed io sono della bassa Loira.

Il taverniere aveva fatto un giro su se stesso e parve che quella piroetta lo avesse calmato di colpo, poiché disse con voce non piú fremente:

- Un gentiluomo francese!... Perché non me lo avete detto prima?

- Non lasciate nemmeno parlare la gente, voi!...

- Capirete che i guasconi...

- Hanno la lingua lunga e la mano pronta. Lo so.

- Si vede che siete proprio un francese della Loira. Che cosa desiderate, mio signore?

- Una bottiglia del migliore; Xeres o Alicante o Porto, non m'interessa. Bevo qualunque vino maturato sotto tutti i soli del globo, purché sia buono.

Il taverniere si volse verso sua moglie, la quale aveva assistito sorridendo a quella comica scena, dicendole con molto sussiego:

- Hai capito tu come sanno bere i francesi della grande Francia?

- E tu mi rimproveri se qualche volta alzo un po' troppo il gomito e faccio breccia nella cantina. Noi non siamo spagnuoli.

“Porta al signore una bottiglia delle piú vecchie. Mi pare che ce ne sia qualcuna di Bordeaux. Farà molto piacere al mio compatriotta.”

- Sí, Pepito.

- Eh, lascia andare Pepito. Io sono un guascone e non già un torero qualunque di Siviglia. Ricordatelo, moglie!...

Le riprese la lettera dalle mani e si mise di nuovo a leggere, borbottando sempre: co... co... me... me... si... si...

Stava forse per decifrare qualche nuova parola, quando la porta della taverna si aprí ed un altro uomo entrò. Come il primo, indossava un ampio mantello pure inzuppato d'acqua, aveva altissimi stivali di pelle gialla, portava al fianco uno spadone e sul capo un feltro piumato adorno di alcuni bottoncini d'argento.

Poteva avere quarant'anni, tuttavia i suoi baffi erano misti a non pochi fili d'argento ed il suo viso molto abbronzato. Di media statura, membruto, pareva possedesse una forza muscolare piú che comune.

Come il gentiluomo francese, si sedette d'innanzi ad un tavolino e vi piantò sopra un tale pugno che per poco non lo sfasciò completamente.

Il taverniere udendo quel fracasso, che rassomigliava allo scoppio d'una bomba, fece un soprassalto e guatò con sguardo truce l'impertinente che si permetteva di fracassargli i mobili, senza nemmeno chiedere il permesso al padrone.

- Tonnerre!... - gridò, rialzando i baffi spioventi. - C'è quest'oggi un’invasione di cani arrabbiati? Passi il mio compatriotta, ma questo poi l'accomodo io!...

Si avvicinò al nuovo avventore, e, dopo averlo squadrato dall'alto in basso, gli chiese:

- Chi siete voi?

- Un bevitore assetato, - rispose lo sconosciuto.

- E dove credete di trovarvi?

- Diavolo!... In una taverna, mi pare.

- Che non è casa vostra, mi pare.

- Chiacchiera meno, taverniere di messer Belzebú, e portami invece da bere, che muoio dalla sete e poi ho molta fretta.

- E io nessuna.

- Ehi, taverniere dell'inferno! - urlò lo sconosciuto, picchiando un altro pugno sul tavolo. - L'hai finita? Mi porti una bottiglia si o no?

- No, - rispose l'oste.

- Vuoi che ti tagli gli orecchi?

- A chi?

- A te, por Dios!...

- Ah!... Baie!...

Il gentiluomo francese, che stava bevendo, proruppe in una clamorosa risata, la quale ebbe per effetto d'irritare sempre piú il bollente taverniere.

- Tonnerre!... - urlò. - Per chi mi si prende? Sono un guascone sapete?

Il secondo avventuriero si torse i baffi, appoggiò un gomito sul tavolino, ormai sgangherato da quei due poderosi pugni, e lo guardò, ridendo ironicamente.

- Come sono buffi questi guasconi! - disse poi.

Don Barrejo, proprietario della taverna d'El Moro, piccolo gentiluomo guascone, scoppiò come una bomba.

- Tuoni dei Pirenei e fulmini del mar di Biscaglia!... A me dare del buffone!... Ah, tu vuoi bere del mio vino!... È dalla tua botte che ne spillerò!... Carmencita!... La mia spada...

Il secondo venuto proruppe in un altro scroscio di risa, piú fragoroso del primo e che fece saltare la mosca al naso al bollente taverniere, il quale non aveva mai tollerato, da buon guascone, che si ridesse sulle sue spalle.

- Bisogna che vi uccida dunque? - urlò.

- Con che cosa? Col tuo spadone? Chiese ironicamente l'allegro sconosciuto, togliendosi il mantello. - Mio caro, deve avere a quest'ora un mezzo pollice di ruggine.

- Che lascerò tutta nel vostro corpo, mascalzone!..

- Tu sei sempre piú buffo, compare.

- Finitela por Dios! Uscite o vi uccido come un cane arrabbiato!... Panchita!... Portami la draghinassa!...

- Tua moglie pare non abbia nessuna premura di vedere il mio sangue, - disse lo sconosciuto, appoggiandosi ad un tavolino e guardando fisso il taverniere.

Poi, volgendosi verso il primo entrato, il quale assisteva a quella allegra scena che poteva però finire tragicamente, gli chiese:

- Non vi sembra, signore, che sia sempre lo stesso questo indiavolato guascone? Nemmeno il matrimonio lo ha calmato.

Queste parole le aveva pronunciate su un tono un po' diverso del primo. Don Barrejo, colpito da quell'accento che gli pareva di aver già udito in altri tempi, stette un momento dubbioso, poi si precipitò addosso allo sconosciuto e se lo strinse fra le braccia, gridando:

- Tonnerre!... Mendoza il Basco!... Il braccio forte del figlio del Corsaro Rosso!...

- Ci voleva tanto dunque a riconoscermi? - disse il biscaglino, contraccambiando, con minore entusiasmo, l'abbraccio.

- Sono passati sei anni, mio caro.

- Ma sei sempre lo stesso. Per poco non mi aprivi il ventre colla tua famosa draghinassa e spillavi il mio sangue.

- Tonnerre!... Mi hai fatto uscire dai gangheri!...

- E l'ho fatto apposta per vedere se il mio guascone si era conservato ancora guascone.

- Briccone!... E tu ne dubitavi? - gridò don Barrejo, rinnovando l'abbraccio. - E che cosa fai qui? Da dove vieni tu? Qual buon vento ti ha portato alla taverna d'El Moro?

- Non tanta furia, mio caro guascone, - disse il basco.

Poi, indicandogli il gentiluomo francese della bassa Loira che si godeva sempre, sorridendo sotto i baffi, la scena, gli chiese:

- E quel signore là, che sta assaggiando il tuo pessimo vino lo conosci?

- Pessimo, hai detto?

- Giudicheremo piú tardi.

Don Barrejo aveva piantato gli occhi addosso al gentiluomo, mentre si passava e ripassava una mano sulla fronte come per evocare dei lontani ricordi.

Ad un tratto si slanciò verso il tavolo colle mani tese, gridando:

- Tonnerre!... Il signor Buttafuoco!...

Il famoso bucaniere della marchesa di Montelimar si alzò sorridendo, e strinse calorosamente le mani che gli venivano tese, dicendo:

- S'invecchia dunque, don Barrejo, per non riconoscere piú gli amici?

- È il matrimonio, - disse Mendoza, scoppiando in una risata.

Il bravo guascone non aveva nemmeno rilevata la frase. Si era slanciato dietro l'immenso banco di acagiú, urlando a squarciagola:

- Panchita!... Panchita!... Porta sopra le migliori bottiglie della nostra cantina e lascia in pace lo spadone. Non ne ho piú bisogno!...

Poi in tre passi tornò verso il tavolino occupato dal bucaniere e dal biscaglino e, piantandovi sopra a sua volta due pugni, chiese:

- Che cosa siete venuti a fare qui, dopo tanti anni di assenza? Come sta il conte di Ventimiglia? E la marchesa di Montelimar? Di dove siete sbucati voi? Sandomingo è lontano da Panama.

- Silenzio, - disse Mendoza, accennando con un dito i meticci che stavano bevendo il mezcal.

- Che cosa? - chiese il guascone.

- Puoi mandarli via?

- Se non andranno con le buone li manderò fuori a pedate - rispose il terribile taverniere. - Il fitto lo pago io e non loro, corpo d'un tuono secco!...

S'avviò verso il tavolino occupato dai tranquilli bevitori ed indicando loro la porta con un gesto tragico, disse:

- Mia moglie sta male ed ha bisogno di riposo. Andatevene subito senza pagamento. Il mezcal che avete bevuto ve lo regalo.

I meticci si guardarono l'un l'altro, un po' stupefatti certamente, poiché proprio in quel momento la graziosa castigliana, invece di giacere su un letto, usciva dalla cantina reggendo fra le robuste braccia un gran paniere pieno di bottiglie polverose.

Lieti però di aver bevuto senza sborsare una piastra, si alzarono, levandosi i vecchi e sfilacciati sombreros, e se ne andarono senza protestare, quantunque al di fuori la pioggia continuasse ad infuriare.

- Moglie mia, - disse don Barrejo. - Ho l'altissimo onore di presentarti il signor Buttafuoco, un autentico gentiluomo francese e quella vecchia pelle, che tu hai già conosciuto, di Mendoza.

“Abbracciali pure: io non sono geloso di questi uomini.”

La bella taverniera depose il paniere e diede quattro grossi baci sulle gote degli amici del marito, senza che questi inarcasse le sopracciglia.

- Ora, moglie mia, chiudi la porta e sprangala, - disse il taverniere. - Oggi non si riceve nessuno, perché vi è festa in famiglia.

- Sí Pepito.

- Pepito!... - esclamò Mendoza. - Sei diventato un pollo, un pappagallo, un gallo, un toro...

- Mia moglie, vedi, ha una vera mania, - rispose il guascone.

- Quando è di buon umore, si ostina a chiamarmi Pepito.

- Pi... pi... pi... - fece Mendoza, ridendo.

- To... to... to... - Completò il guascone, levando dal paniere una bottiglia ricoperta di ragnatele. - Beviamo ora e poi mi direte per quale caso strano vi trovate in Panama. Il signor conte di Ventimiglia non deve essere estraneo a questa visita.

- Certo, e anche...

Mendoza si era bruscamente interrotto e si era alzato, guardando verso la porta.

- La mignatta, - disse, rivolgendosi al Buttafuoco. - Panchita, non chiudere la porta. Aspettiamo un altro amico.

- Chi è? - chiese don Barrejo.

- Non lo sappiamo ancora, però, dal modo con cui storpia le parole, io lo crederei un olandese o un fiammingo.

- E che cosa vuole da voi?

- Da quando siamo giunti a Panama quell'uomo misterioso ci si è appiccicato ai fianchi e ci segue dovunque andiamo, pagandoci anche delle buone bottiglie, colla migliore gentilezza del mondo.

- Meno male: non si trovano sempre delle persone generose, - disse il taverniere empiendo i bicchieri. - Vorrei però sapere perché vi segue con tanta ostinazione.

- Io non credo che sia una spia, - disse Buttafuoco.

- E non avete trovata ancora l'occasione di sbarazzarvi di quel signore? Tu, Mendoza, hai sempre avuto la mano lesta.

- Non hai mai potuto incontrarlo di sera e solo.

- Credi che finisca per entrare?

- Certamente, compare.

- Allora vedremo se sarà capace di uscire di qui. Ho ricevuto stamane una botte contenente dieci ettolitri di Alicante, e capace di contenere un uomo per quanto sia grosso.

- Che cosa vorresti fare? - chiese Mendoza.

- Farlo sparire dentro quella botte, cosí l'Alicante acquisterà un sapore di piú.

Mendoza, che stava in quel momento gustando l'eccellente Xeres del taverniere, sputò via tutto il vino che aveva in bocca, facendo una brutta smorfia.

- Ah!... Cane d'un taverniere!... - gridò, fingendosi stomacato. - Ci offre del vino dove ha conservato dei morti!...

Don Barrejo scappò via, tenendosi il ventre, mentre il bravo biscaglino approfittava del momento per afferrare la bottiglia che gli stava dinanzi e per vuotarla in tre tempi.

In quel momento l'uomo misterioso ripassò dinanzi alla porta della taverna e si soffermò a guardare dentro.

- Eccolo, - disse Buttafuoco. - In guardia, Mendoza.

- La botte è pronta, - rispose il biscaglino ridendo. - Si conserverà magnificamente là dentro, ma io, per paura che don Barrejo mi offra di quell'Alicante, non metterò poi piú i piedi nella taverna d'El Moro.

“Questi osti meriterebbero di venire appiccati.”

La bella castigliana, vedendo lo sconosciuto mettere la mano sulla maniglia, fu pronta ad aprire la porta, dicendo:

- Entrate, señor: il vino è eccellente alla taverna d'El Moro.

L'uomo misterioso, che grondava acqua da tutte le parti, si fece innanzi e si tolse il feltro adorno d'una vecchia penna, dicendo:

- Pona sera, signori: io averfi cercato tutta mattina.

Era un individuo fra i trenta ed i quarant'anni, magro come il guascone, colla carnagione bianchissima, i capelli biondissimi, anzi quasi bianchi e gli occhi azzurri.

Nel suo insieme inspirava una certa ripulsione, quantunque potesse benissimo darsi che fosse un galantuomo.

Mendoza e Buttafuoco avevano risposto al saluto, poi il primo si era affrettato a dire:

- Scusate, signore, se non ci avete trovati al solito albergo. La pioggia ci ha sorpresi lungo la via e ci siamo rifugiati qui, dove l'ostessa è amabilissima, l'oste un brav'uomo ed il vino squisitissimo.

- Foi permettere a me di tenerfi compagnia?

- Con tutto il piacere, - disse Buttafuoco.

L'uomo misterioso si levò il cappello ed il mantello che erano alla lettera inzuppati, mostrando una draghinassa ed uno di quei pugnali chiamati misericordie.

Don Barrejo si era messo a girare e rigirare attorno al tavolo, fissando quell'individuo sospetto.

Quella curiosità però non parve andare troppo a sangue al fiammingo, poiché volgendosi d'un colpo verso il guascone, gli chiese con tono un po' piccato:

- Foi folete qualche cosa da me?

- Niente affatto, signore, - rispose prontamente don Barrejo. - Aspettavo i vostri preziosissimi ordini.

- Io non afere ordini da dare a foi, avete capito? Io befo con gli amici.

- Befete pure, mio gentiluomo, - rispose il guascone, andando a sedersi, insieme a Panchita, dietro il lunghissimo banco.

- Assaggiate, - disse Mendoza, porgendo un bicchiere ben colmo all'uomo misterioso. - Di questo vino non se ne beve nemmeno in Spagna.

L'uomo misterioso bevette d'un fiato il contenuto, poi fece schioccare la lingua.

- Pfiffer! Io mai afere befuto fino cosí buono. Ah!...

- Oh!... - fece Mendoza, tornando ad empirgli il bicchiere. - Bevete pure, mastro Pfiffer.

- Che cosa Pfiffer? - chiese il fiammingo.

- Non vi chiamate cosí?

- Io mai essere stato un Pfiffer.

- Avrete qualche nome suppongo, - disse Mendoza, versandogli un terzo bicchiere. - Io per esempio mi chiamo Rodrigo de Pelotas, ed il mio compagno invece Rodrigo de Peloton.

Il fiammingo guardò bonariamente il biscaglino, con un certo fare da sornione, poi disse:

- Pfiffer essere un interca.

- Un intercalare, volevate dire. Abbiamo capito, ma non sappiamo ancora come chiamarvi.

- Arnoldo Fifferoffih.

- Ah!... Dei fi fi ce ne sono nel vostro nome. Si poteva quindi chiamarvi benissimo mastro Pfiffer. Si faceva piú presto.

- Se folete, chiamatemi cosí.

- Eh... come va la vita, mastro Fiffer... fi... fer...?

- Pene!... Pene!... - rispose il fiammingo. - A Panama stare tutti penissimo. Conoscete la città?

- Non ancora tutta.

- Foi fenite da lontano?

- Ma che!... Da Nuova Granada.

- E... per affari?

- Dobbiamo comperare cinquanta muli per conto d'un ricco baciendero che si crede intenda poi venderli ai filibustieri.

- Oh!... - fece il fiammingo.

- Bevete mastro Fiff... fiff... Questo vino è eccellente.

- Oh molto pono!... Ostessa pelissima, oste brutto e fino ponissimo.

- È stata una vera fortuna scoprire questa taverna cosí fuor di mano, - disse Mendoza, il quale, pur chiacchierando, non cessava di empire i bicchieri.

Il fiammingo, quantunque dovesse essere piú abituato a tracannare birra che vino, resisteva tenacemente a Mendoza, però non doveva lottare a lungo con quel formidabile bevitore.

Già le sue esclamazioni s'imbrogliavano maledettamente, facendo sorridere il silenzioso Buttafuoco, il quale se era avaro di parole non risparmiava nemmeno lui i buoni bicchieri.

Cominciava intanto ad annottare e la pioggia non cessava di scrosciare di fuori, con largo accompagnamento di tuoni e lampi.

Pareva che su Panama, che allora era la regina del Pacifico, si rovesciasse un vero ciclone.

Don Barrejo, dopo aver portato altre bottiglie, accese la fumosa lampada ad olio, poi, ad un segno di Mendoza, chiuse le porte della taverna mettendovi dietro, per sicurezza, una spranga di ferro.

- Taferniere, che cosa fate? - chiese il fiammingo, il quale si era accorto di quella manovra.

- È tardi e chiudo, - rispose asciuttamente il guascone.

- Noi folere uscire presto.

- Con questa pioggia?

- Io afere mia testa pesante e folere andare a dormire.

- Forse che non c'è del buon vino qui? - disse Mendoza. - Il padrone della taverna d'El Moro è un brav'uomo e rimarrà in piedi fino a domani mattina, sempre pronto a servirci.

- Io folere andare, - ripeté il fiammingo. - Pfiffer! Afer befuto troppo.

- Ma che!... Abbiamo appena cominciato!... È vero, don Rodrigo de Peloton?

Buttafuoco fece col capo un gesto affermativo.

- Pasta, - rispose l'ostinato fiammingo, prendendo il suo mantellone ed il suo cappello. - Pona sera a tutti! Taferniere, aprite.

Mendoza allontanò la sedia, subito imitato da Buttafuoco, e due spade brillarono nelle mani dei due avventurieri.

Don Barrejo aveva già preso la sua arrugginita draghinassa, portatagli di nascosto da sua moglie e si era messo dinanzi alla porta.

- Pfiffer! - esclamò il fiammingo, gettando intorno uno sguardo smarrito. - Cosa folere voi, signori? Assassinarmi?

- No, mettervi in conserva dentro una botte di Xeres, - disse don Barrejo. - Mio caro Pfiffero!

- Sedete, - disse Mendoza, con voce minacciosa, posando la spada sul tavolo. - Abbiamo da vuotare altre bottiglie ancora e anche molto da discorrere, amico.

 

 

Capitolo II

LE MERAVIGLIOSE TROVATE D'UN GUASCONE

 

Il fiammingo, che si reggeva già male sulle gambe, non avendo la resistenza di Mendoza e di Buttafuoco, abituati alle sfrenate orge dei filibustieri e dei bucanieri, si era lasciato cadere sulla sedia, non cessando di guardare, con spavento, quelle tre spade che gli pareva gli si appuntassero contro il petto.

- Pfiffer! - esclamò, dopo aver mandato un profondo sospiro.

- Questo è cattivo scherzo.

- V'ingannate, mastro Arnoldo, - rispose Mendoza. - Questo non è affatto uno scherzo e le nostre spade non sono fatte di burro, bensí di puro acciaio di Toledo temprato nelle acque del Guadalquivir.

Il fiammingo proruppe in una risata.

- Datemi da pere, brafo amico.

- Finché vorrete, mastro Arnoldo. La cantina d'El Moro è tutta a nostra disposizione, purché vi prepariate a rispondere alle domande che vi farò.

- Pene!... Pene!... Dite... dite... - rispose il fiammingo, riprendendo un po' d'animo.

- Allora, - disse Mendoza, - ci spiegherete per quale motivo voi ci seguite ostinatamente da tre giorni, comparendoci sempre come un uccellaccio di malaugurio, nei luoghi che frequentiamo.

- Foi ed il fostro amico siete molto simpatici.

- Ma chi siete voi?

- Fe l'ho detto.

- Che cosa fate a Panama?

- Niente; fifo di rendita.

- Eh, messer Arnoldo, non cercare d'ingannarci, perché potreste uscire di qui conciato male.

Il fiammingo divenne livido come un cadavere, tuttavia rispose con abbastanza fermezza:

- Sono molto ricco.

- E per questo vi divertite a pagare da bere alle persone che vi sono simpatiche, - disse Mendoza, ironicamente. - Compare Arnoldo, non saremo noi che berremmo queste frottole. Sapete come si chiamano nel mio paese le persone che s'attaccano alle altre, come tante mignatte, senza perderle mai di vista?

- Calantuomini.

- No, compare Arnoldo, le chiamano spie.

Il fiammingo prese un bicchiere colmo e lo vuotò lentamente, certo per nascondere la sua emozione.

- Spie, - disse poi. - Io mai afer fatto questo prutto mestiere.

- Eppure vi ripeto che voi dovete essere la spia di qualche pezzo grosso di Panama: del marchese di Montelimar per esempio.

Il bicchiere sfuggí dalle mani del fiammingo e si ruppe con fracasso.

- Ohé, messer Arnoldo, vi piglia male? - chiese don Barrejo.

- Siete piú giallo d'un limone. Volete che vi faccia preparare da mia moglie della camomilla?

Il fiammingo ebbe uno scatto d'ira.

- Taferniere della malora, occupati del tuo fino tu!... - gridò.

- In questo momento le mie botti non hanno affatto bisogno di me, quindi posso prendermi la libertà di scambiare due chiacchiere anch'io.

- Ebbene, mastro Arnoldo, - proseguí l'implacabile Mendoza. - Perché, quando ho pronunciato il nome del marchese di Montelimar, le vostre mani sono state prese da un tremito? Vedete bene che la tazza l'avete spezzata.

- Io pagarla.

- Il padrone d'El Moro è generoso e non vi farà pagare niente. Non approfittate però della rottura del bicchiere per cambiare discorso.

“Ditemi invece come e dove m'ha veduto il marchese di Montelimar e come ha fatto a riconoscermi, dopo sei anni che manco da Panama.”

- Non conoscere marchese di Montelimar, - disse il fiammingo asciugandosi la fronte che appariva bagnata di grosse stille di sudore.

- Ah!... Non volete dirmelo!... - gridò Mendoza. - Vi avverto che quel signor lí, che non parla mai, è uno dei piú famosi bucanieri di Sandomingo, e che io non sono affatto un negoziante di muli, bensí un filibustiere che ne ha fatte di tutti i colori con David e con Raveneau de Lussan.

- Quest'uomo sta male!... - esclamò don Barrejo. - Presto, Panchita, prepara una tazza di camomilla pel signore.

“Gli farà molto bene.”

Infatti pareva che il fiammingo fosse lí lí per svenire, tanto era pallido e disfatto.

- Non vedete che vi tradite? - gridò Mendoza. - O vi decidete a parlare o vi caccio in gola tutta la vostra misericordia.

- Aspetta che abbia almeno bevuta la camomilla, - disse don Barrejo, ridendo.

- Confessate: lo conoscete il marchese di Montelimar, si o no?

È inutile che vi ostiniate a negare ancora.

Arnoldo fece finalmente col capo un cenno affermativo.

- Finalmente!... - esclamò il biscaglino, mentre Buttafuoco, per dimostrare la sua soddisfazione, tracannava due bicchieri, uno dietro l'altro.

- Messer Arnoldo, bevete una goccia anche voi di questo vecchio Xeres, che si dice sia stato imbottigliato nientemeno che da papà Noè, - disse il guascone porgendogli un altro bicchiere. - Vi darà un po' d'animo e vi rimetterà in gambe, ve l'assicura un vecchio taverniere.

Messer Arnoldo, quantunque fosse completamente ubbriaco, non rifiutò il consiglio. Aveva ben bisogno, dopo tante emozioni e tante angosce, di rimettersi un po'.

- Quando mi ha veduto? - riprese Mendoza.

- Tre giorni fa, - rispose il fiammingo.

- Tu sei dunque uno dei suoi confidenti, per sapere queste cose.

Il fiammingo crollò il capo senza rispondere.

- Dove? - continuò Mendoza, con voce minacciosa.

- Sulle calate del porto.

- Corpo d'un archibugio!... - esclamò il biscaglino, dandosi un paio di pugni sulla testa. - Ed io non mi sono accorto della sua presenza!..

- Ti avevo detto di non mostrarti nei luoghi troppo frequentati, - disse Buttafuoco.

- Sono trascorsi sei anni.

- Si vede che non sei troppo cambiato, compare, e che sei rimasto sempre giovane, - disse don Barrejo. - Che uomo fortunato!

Mendoza si accingeva a riprendere l'interrogatorio e s'avvide che il fiammingo si era abbandonato sulla sedia, lasciando penzolare le sue lunghissime braccia fino quasi a toccare il suolo.

- Che sia morto? - si chiese.

- È briaco fradicio, - disse il guascone, il quale si era avvicinato. - Oh!... Me ne intendo io di sbornie!... Quest'uomo, mio caro, non potrà sciogliere la sua lingua prima di ventiquattro ore.

- Lasciamolo pure a digerire il suo vino e facciamo quattro chiacchiere fra noi. Ti dobbiamo delle spiegazioni, don Barrejo.

- Le sospiro da tre ore, - rispose il taverniere.

- Te le avremmo già date, senza la comparsa di questa mignatta.

- Una parola, prima, Mendoza, - disse Buttafuoco. - Come avevi fatto a sapere che questo fiammingo era una spia del marchese di Montelimar?

- Io ne sapevo quanto voi, signor Buttafuoco. Avevo avuto semplicemente un vago sospetto ed ho pronunciato il nome del marchese, cosí a caso.

- Ed hai indovinato subito! - esclamò don Barrejo. - L'ho sempre detto io che tu eri un uomo meraviglioso.

“Ora dammi le spiegazioni promessemi. Sono curioso di sapere il perché siete venuti a trovarmi e vi siete ricordati che in America esisteva un bravo guascone e fedelissimo amico.

“In questa faccenda deve entrarci il figlio del Corsaro Rosso.”

- O meglio sua sorella, - disse Mendoza.

- Chi? La figlia del Gran Cacico del Darien!...

- L'abbiamo condotta qui, noi.

- È qui la señorita!... Quale imprudenza! Se il marchese di Montelimar riuscisse a scoprirla, non la lascerebbe piú libera.

- Oh!... Abbiamo prese le nostre precauzioni, amico, L'abbiamo nascosta in una posada tenuta da un amico del signor Buttafuoco, un vecchio bucaniere anche lui, che trova piú utile ora fare l'albergatore anziché uccidere buoi selvaggi a Sandomingo od a Cuba.

- E perché è venuta qui, mentre doveva trovarsi presso il conte di Ventimiglia, suo fratello e la Marchesa di Montelimar sua cognata?

- Non si sa dunque nulla a Panama che il vecchio Cacico è morto quattro o cinque mesi fa e che ha lasciato erede delle sue favolose ricchezze la figlia del Corsaro Rosso?

- Il Gran Cacico è morto!... - esclamò don Barrejo, picchiando un pugno sulla tavola. - Allora il marchese di Montelimar, che ha sempre aspirato d'impadronirsi di quei tesori deve essersi già messo in campagna.

- Invece non pare, - rispose Mendoza. - Tre giorni fa era ancora qui.

- Infatti quel Pfiffero l'ha detto. E come ha fatto a saperlo il conte di Ventimiglia?

Abita sempre in Italia, mi pare.

- Lo seppe da un vecchio bucaniere che aveva trovato asilo presso il Gran Cacico e che si recò appositamente al castello del conte per avvertire sua sorella che la tribú l'aspettava per proclamarla regina, non essendovi altri eredi.

- Fu quel bucaniere che vi condusse la señorita?

- Si, - rispose Mendoza.

- E dov'è quell'uomo?

- Veglia sulla señorita nella posada dell'amico del signor Buttafuoco.

- E che cosa volete dunque da me? - chiese don Barrejo.

- Sei sempre in relazione coi filibustieri del Pacifico?

- Ne giungono spesso da me.

- Si trovano sempre all'isola Taroga?

- Sempre, malgrado i molti tentativi fatti dagli spagnuoli per sloggiarli.

- Chi li comanda?

- Sempre Raveneau de Lussan.

- E David?

- Si è diretto verso il capo Horn e non si è piú saputo nulla di lui.

- Sono molti quei filibustieri?

- Si dice che siano circa in trecento.

- Allora, signor Buttafuoco, è necessario che noi andiamo a rivedere Raveneau de Lussan. Senza l'appoggio di quegli uomini sarebbe impossibile condurre in porto una cosí grossa impresa.

“Se non sarà oggi, domani per lo meno gli spagnuoli sapranno che il Grande Cacico è morto e, sapendolo ricchissimo, si affretteranno ad impadronirsi del paese.”

- Di questo puoi essere certo, - rispose Buttafuoco. - Il marchese di Montelimar da anni ed anni sospira il momento di mettere le mani su quei tesori, tanto piú che si dice che il re di Spagna abbia affidato a lui la conquista di quel paese.

In quel momento, fra lo scrosciare della pioggia ed il rombare dei tuoni, udirono picchiare fortemente alla porta.

Don Barrejo, il quale da qualche momento si era seduto, era subito balzato in piedi, dicendo a Panchita, la quale agucchiava dietro l'immenso banco:

- Abbassa la lampada, amica.

- Chi può essere? - chiese Buttafuoco. - Sono quasi le dieci e la notte è pessima.

- Se fosse la ronda? - disse il guascone.

- Viene qualche volta?

- Si, signor Buttafuoco.

- Eccoci in un bell'impiccio.

- Niente affatto, - disse Mendoza, il quale da vero basco sapeva sempre trovare un pronto rimedio a tutto. - Prendiamo compare Arnoldo Pfiffer e portiamolo in cantina.

- Ed in caso di pericolo annegatelo dentro la grossa botte di Xeres, - aggiunse il feroce guascone.

Un secondo colpo, piú formidabile del primo, che per poco non mandò in frantumi i vetri della contro-porta, si fece udire.

- Presto, andate e spengete il lume che illumina la cantina, - disse don Barrejo.

Poi, voltandosi verso la moglie, aggiunse subito:

- Porta sopra un paniere pieno di bottiglie, le piú vecchie che noi possediamo.

Mendoza e Buttafuoco presero il fiammingo, lo avvolsero nel suo mantellone ancora bagnato e scesero a precipizio nella cantina, preceduti dalla bella castigliana, mentre don Barrejo si avvicinava alla porta, chiedendo con voce formidabile:

- Chi vive? È tardi, corpo del diavolo, e la taverna d'El Moro non è un asilo notturno.

- La ronda, - rispose una voce imperiosa.

- Che cosa venite a fare qui, a quest'ora? Ho chiuso a tempo.

- Aprite.

- Aspettate che mi metta i calzoni e che mia moglie indossi la sottana. Che diavolo! Non si può dormire dunque a Panama?

Panchita era ritornata, portando un'altra cesta piena di bottiglie coperte di venerande ragnatele e l'aveva deposta sul banco.

Il guascone attese un momento ancora per prendersi il gusto di far ben bagnare la ronda, poi si decise finalmente ad aprire, non senza aver prima nascosta dietro il banco la sua formidabile draghinassa.

Aperta la porta, tre uomini comparvero. Erano un ufficiale della polizia e due alabardieri delle guardie notturne.

- Buena noche, caballeros, - disse il guascone, facendo buon viso a cattiva fortuna. - Stavo per andarmene a letto. La notte è pessima è vero?

- Siete solo? - disse l'ufficiale, facendo un gesto di stupore.

- No, signor ufficiale, stavo dicendo delle galanterie a mia moglie. È castigliana, sapete.

- E voi? - chiese l'ufficiale.

- Dei Pirenei.

- Il paese dei contrabbandieri.

- Signore, sono sempre stato un galantuomo e la mia rispettabile famiglia da trecent'anni vende vino in Spagna ed in America, - disse il guascone, fingendosi offeso.

L'ufficiale gli volse le spalle e scambiò alcune parole a voce bassa con i suoi due alabardieri, poi, volgendosi verso don Barrejo, il quale cominciava a mostrarsi inquieto di quella visita inaspettata, gli chiese:

- Oggi in questa taverna è entrato un signore, che poi non è piú uscito.

- Dalla mia taverna!... - Esclamò il guascone, fingendo di cadere dalle nuvole. - Che sia rotolato sotto qualche tavolino e si sia addormentato?... Panchita, hai guardato bene se non vi sono ubbriachi accucciati in qualche angolo?

- Io non ho veduto nessuno, - rispose la bella castigliana.

- Eppure quel signore non è piú uscito di qui, - insistette l'ufficiale.

- Misericordia!... - esclamò don Barrejo. - Che si sia ammazzato nelle stanze di sopra?

- Ma no, marito mio, sono scesa or ora, dopo aver preparato il nostro letto.

- Carrai!... - esclamò l'ufficiale un po' impazientito. - Come va questa faccenda?

- Sí, come va questa faccenda? - ripeté don Barrejo.

L'ufficiale scambiò ancora due parole coi suoi alabardieri, accompagnandole con dei larghi gesti, poi prese il partito di sedersi ad un tavolo, dicendo:

- Portaci qualche cosa da bere, taverniere. Siamo inzuppati fino alla camicia e non si starebbe male, questa sera, dinanzi ad un buon fuoco.

“Poi riprenderemo il nostro discorso, poiché io devo assolutamente sapere dov'è andato a finire quel signore.”

- Se non era uno spirito, io sono sicuro che voi, signor ufficiale, lo scoverete fuori in qualche luogo.

“Non si sarà cacciato, a mia insaputa, dentro qualche botte o una bottiglia... Ah! Panchita mia, noi volevamo assaggiare quella cassa di bottiglie che mio zio mi ha spedito da Alicante.

“Approfittiamo per berne qualcuna insieme alla ronda.”

- Ve n'è un paniere pieno, - disse la castigliana.

- Stura, stura, amica mia: offro al signor ufficiale ed alle sue brave guardie.

Fare una bevuta senza sborsare un quattrino, specialmente per un soldato, non era cosa che toccava tutti i giorni, perciò la ronda fece buona accoglienza alla proposta del furbo guascone.

Cinque o sei bottiglie di diversa qualità furono portate e le tazze furono riempite a vuotate parecchie volte di seguito, facendo i piú vivi elogi di quello zio lontano, che non si scordava del nipote taverniere.

- Un magnifico regalo, povero zio! - diceva il guascone. - Sessanta bottiglie, una migliore dell'altra e regalate veh, perché mio zio ama suo nipote.

“Bevete liberamente, signori miei, già non costa nulla a me.”

- Beviamo pure, taverniere, però non dimentichiamo quel signore che non è piú uscito dalla vostra taverna.

- Mi supporreste capace di assassinare le persone che vengono a bere nella mia taverna! - chiese don Barrejo, con accento piccato.

- Non vi credo capace di commettere cosí orrendi delitti, - rispose l'ufficiale. - Io però devo trovare qual gentiluomo.

- Ah!... Era un gentiluomo?...

- Credo. Sentiamo un po' taverniere: chi è venuto a bere oggi qui?

- Quindici o venti persone, fra europei e meticci, poiché io tengo anche dell'eccellente mezcal, che vi farò assaggiare se lo desiderate.

- Lasciate il mezcal, per ora. Fra quelle persone non avete notato un signore alto, vestito interamente di nero, colla pelle molto bianca ed i capelli biondissimi, anzi quasi bianchi?

Don Barrejo si mise ad accarezzarsi il mento e guardare in alto come se chiedesse alle travi annerite del soffitto qualche ispirazione.

- Alto... magro... coi capelli quasi bianchi... tutto vestito di nero... certo... deve essere quel signore che ha bevuto insieme con quei due sconosciuti.

- L'avevate veduto dunque? - chiese l'ufficiale.

- Me lo ricordo benissimo, perché l'ho servito io. Era in compagnia di due uomini entrati un po' prima di lui e che io non ho mai veduti prima d'oggi.

- Uno di mezza età e l'altro piú attempato, colla barba brizzolata?

- Precisamente, - rispose don Barrejo. - Hanno vuotato in buona compagnia un bel numero di bottiglie a quel tavolino là, che è ancora ingombro di vetri, poi, approfittando del momento in cui la pioggia accennava a diminuire, se ne sono andati.

- Tutti insieme?

- Si reggevano tra loro, perché le loro gambe non erano troppo ferme. Diavolo!... Si beve vino squisito nella mia taverna.

L'ufficiale si era voltato verso uno dei due alabardieri, dicendogli:

- Hai udito, José?

- Sí, signore.

- Allora tu non eri al tuo posto in quel momento.

- Eppure, signore, vi giuro che io non mi sono mai allontanato da quel portone, il quale o bene o male mi riparava dalla pioggia.

- Forse in un momento di distrazione.

- Lo escludo assolutamente, - rispose l'alabardiere, con voce recisa.

- Eh!... Qualche volta, quando si scambia un'occhiata con qualche bella fanciulla, non si vede piú nulla, - insinuò il taverniere.

- Non ho veduto altro che dell'acqua.

- Ed allora, taverniere? - chiese l'ufficiale.

- Panchita, - chiamò don Barrejo.

La bella taverniera fu pronta ad accorrere.

- Hai veduto anche tu quei tre signori che hanno vuotato a quel tavolino almeno sette od otto bottiglie?

- Sí, Pepito mio.

- Sono usciti di qui, sí o no?

- Se non ci sono piú seduti intorno al tavolino, vuol dire che se ne sono andati.

- Avete capito, signor ufficiale? - chiese il guascone. - Erano in tre e io non son uomo da ammazzare come cani tre cristiani, per poi gettare i loro cadaveri... dove? Non abbiamo nemmeno il pozzo in questa casaccia. Mi pare quindi impossibile che tre uomini di carne ed ossa siano scomparsi senza lasciare traccia di sé. Che fossero dei diavoletti? Si dice che se ne trovino fra quei cani dei filibustieri, almeno cosí affermano i frati della cattedrale.

- L'uomo biondo non era di certo un diavolo, poiché era troppo buono cattolico, - rispose l'ufficiale, il quale pareva preoccupato.

- Vuotiamo alcuni bicchieri ancora, poi procederemo ad una visita rigorosa alla mia casa. Oh!... Aspettate!... Ho in cantina una bottiglia che conta venticinque anni e quattordici giorni, lo so ci certo, perché l'ho presa in mano quest'oggi.

“Volete che l'assaggiamo, signor ufficiale?”

- Vada pure la bottiglia vecchia, - rispose il capo della ronda. - Avremo sempre tempo di visitare la vostra casa.

- Panchita, un lume!... - gridò il guascone. - Dammi anche la mia draghinassa, perché questa istoria di uomini scomparsi mi ha un po' guastato il sangue.

Prese l'uno e l'altra e, mentre l'ufficiale, approfittando della sua assenza, faceva gli occhietti dolci alla bella taverniera, scese la scala che conduceva in una profonda e molto spaziosa cantina, occupata in buona parte da botti e da barilotti.

Nel passare dietro il banco però, il furbo compare si era impadronito di un fascio di tovaglie.

Aveva appena messo i piedi sull'ultimo gradino, quando si vide precipitare addosso Buttafuoco e Mendoza.

- Dunque?... - chiesero ad una voce alta i due avventurieri.

- La va male, amici. Quel Pfiffero era sorvegliato e la ronda è venuta a chiedermi che cosa ne ho fatto.

- Bisogna farlo sparire, - disse Mendoza.

- Cacciarlo dentro la botte di Xeres?

- Almeno là non andranno a cercarlo.

- Io ho trovato di meglio, - rispose il guascone.

- Di' su.

- Voglio farvi fare la parte dei fantasmi.

- Sei pazzo, don Barrejo?

- Vi dico che se non riusciamo a spaventare quei tre poliziotti, le nostre faccende finiranno male, poiché intendono di fare una visita minuziosa alla mia casa ed alla cantina, per cercare quel maledetto Pfiffero.

- Che cosa vuoi che facciamo? - chiese Mendoza, a cui sorrideva l'idea di far la parte dello spauracchio.

- Vi ho portato qui delle tovaglie che indosserete quando l'ufficiale e gli alabardieri scenderanno. All'estremità della cantina poi vi sono dei ferrivecchi e vi troverete anche delle catene.

“Fingetevi spettri o diavoli e vedrete che corsa prenderà la ronda!”

- Risali? - chiese Mendoza.

- Devo portare sopra un paio di bottiglie ancora, che faranno girare completamente la testa a quei brav'uomini.

“Fra un quarto d'ora cominciate a rumoreggiare. Io rispondo di tutto.”

- E se quei tre poliziotti non credessero affatto ai fantasmi? - chiese Buttafuoco.

- Tonnerre!... Allora impegneremo risolutamente la lotta e nessuno di loro uscirà vivo dalla cantina, - rispose il guascone. - Vi lascio il lume che vi raccomando di spegnere dopo che avrete ben nascosto dietro le botti quel Pfiffero ubbriacone.

Il bravo taverniere passò in rivista la sua biblioteca, formata di bottiglie di prima marca, almeno cosí assicurava lui, ne prese due che sembravano molto venerande e risalí la scala, impugnando la draghinassa.

L'ufficiale stava in quel momento accarezzando il mento della bella castigliana. Don Barrejo finse di non vedere nulla e si precipitò verso il tavolo, sbuffando come una foca.

- Pepito mio! - gridò Panchita, fingendosi spaventata. - Che cos'hai?

- Io non so, - rispose il guascone, deponendo sul tavolo le due bottiglie, - ma dopo la comparsa di quell'uomo vestito di nero e dai capelli biondi e la sua scomparsa misteriosa, succedono qui certe cose che mi impressionano profondamente, moglie mia.

I tre soldati erano diventati un po' pallidi, cosa d'altronde non sorprendente in quei tempi, in cui tutti credevano alle apparizioni dei diavoli, dei folletti, delle streghe e degli spettri.

- Che cosa avete veduto? - chiese l'ufficiale.

- Posso essermi ingannato, eppure giurerei di aver scorto, all'estremità della cantina, una figura bianca che danzava intorno alla mie botti.

- Volete spaventarci, taverniere?

- Niente affatto, signor ufficiale. Non vi pare che io sia pallidissimo?

- Veramente lo eravate anche prima.

- No, perché la mia pelle è sempre abbronzata, è vero, Panchita?

- Verissimo, - rispose la castigliana, la quale si studiava di secondare il marito, senza sapere che cosa stava per succedere.

- Mi viene un sospetto, signor ufficiale, - riprese il guascone, il quale stava sturando le due bottiglie.

- Quale?

- Che quell'uomo vestito di nero non fosse affatto un buon cristiano e che invece di uscire dalla porta si sia tramutato in uno spirito per succhiarmi tutto il vino della mia cantina.

- Che storie ci narrate, taverniere? - chiese l'ufficiale. - Io ho conosciuto quel signore e vi posso garantire che è un buon cattolico, poiché il marchese di Montelimar non prende ai suoi servigi degli eretici.

- Il marchese di Montelimar! - esclamò don Barrejo. - Chi è?

- Alto là, taverniere, - rispose l'ufficiale. - Voi non avete il diritto di conoscere i segreti della polizia di Panama.

- Allora beviamo.

Il guascone stava per empire i bicchieri, quando sotto terra si udirono dei rumori indistinti e tuttavia non meno impressionanti. Pareva che delle persone martellassero delle lastre di ferro, mentre altre si divertivano a trascinare catene o ferravecchi.

L'ufficiale, i due alabardieri e Panchita erano balzati in piedi, mentre don Barrejo si lasciava cadere su una sedia, mandando un sospirone che avrebbe intenerito perfino i sassi.

- Chi produce questo baccano? - chiese l'ufficiale, sfoderando la sua spada.

- È l'anima dell'uomo che voi cercate, ve l'assicuro io, - disse don Barrejo. - L'ho scorto nella mia cantina.

- Volete burlarvi di noi, taverniere?

- Burlarvi!... Andiamo dunque a vedere!... Siamo in quattro e bene armati e anche mia moglie, se vuole, sa maneggiare benino il spiedo.

Il guascone aveva pronunciate quelle parole con tanta gravità che le guardie della ronda erano rimaste non poco impressionate. Quella storia di diavoletti nella cantina e la scomparsa misteriosa, assolutamente inesplicabile per loro che ignoravano come fossero andate le cose, cominciava a seccarli moltissimo.

L'ufficiale vuotò un bicchiere pieno di vecchia Malaga, che doveva fargli girare non poco la testa, poi, asciugandosi i baffi col dorso della mano, disse con voce grave, volgendosi verso i due alabardieri:

- Noi dobbiamo compiere il nostro dovere, camerati, e riportare al signor marchese il corpo o l'anima di quel signore che è venuto qui a bere.

“Vuotate anche voi un altro bicchiere per farvi animo e andiamo a vedere che cosa succede nella cantina di questa taverna.

Por Dios!... Siamo uomini d'armi!...”

- Panchita!... - gridò don Barrejo. - Prendi lo spiedo tu e porta un altro lume.

- Ne avevi già uno quando sei sceso nella cantina, - rispose la castigliana.

- L'ho lasciato cadere quando mi è sembrato di vedere lo spettro dell'uomo biondo.

- Tu finirai per diventare un don Fracassa, marito mio.

- I miei malanni li pagano i meticci che vengono qui a bere il mezcal, tu già lo sai.

“Siamo pronti? A me il lume e, corpo d'un cannone!... voglio battagliare cogli spettri se realmente si sono rifugiati nella mia cantina.

“Signor ufficiale, vi prego di starmi molto vicino. Sapete... io non sono un uomo d'armi e non ho maneggiato fino ad oggi altro che bottiglie.”

- Ci siamo noi, - rispose il capo della ronda, a cui pareva che la vecchia Malaga avesse dato un gran colpo alle gambe. - Siete pronti, alabardieri?

- Sí, signore, - risposero i due soldati, i quali non si trovavano in migliori condizioni.

- Partiamo e non diamo quartiere né ai diavoli, né ai folletti, né ai fantasmi. Caramba!... Metteremo a soqquadro la cantina della taverna d'El Moro.

Ed i tre poliziotti, pieni di ardore pel troppo vino bevuto, si mossero, preceduti da don Barrejo il quale reggeva la lampada ed impugnava fieramente la sua fida draghinassa e seguiti dalla bella castigliana armata d'un formidabile spiedo.

 

 

Capitolo III

LA CACCIA AI FANTASMI

 

I quattro uomini, ben decisi a liberare la cantina della taverna d'El Moro dall'anima dell'uomo biondo e scialbo, poiché ormai anche nell'animo delle guardie era nato il convincimento che fosse qualche demonio, s'impegnarono nella lunghissima scala, la quale contava non meno di una cinquantina di giardini.

Scesi però i dieci primi gradini, don Barrejo credette opportuno di fare una breve sosta e di trinciare, colla sua draghinassa, una gran croce.

Come se i fantasmi si fossero subito accorti di quel segno cristiano, ripresero a martellare ferramenta ed a trascinare catene, sbattendole contro le botti, e producendo cosí un fracasso veramente infernale.

L'ufficiale e le due guardie avevano rimontato sollecitamente qualche gradino, urtando la bella castigliana, la quale teneva ben alto lo spiedo.

- Signor ufficiale, - disse il guascone, simulando un grande spavento. - Volete lasciarmi solo alle prese coll'anima di quell'uomo misterioso?

- No, no, prendo solamente un po' di fiato, - rispose l'altro, il quale era pallidissimo.

- Dovevate bere qualche gocciolo ancora, prima di avventurarvi in queste catacombe.

- È vasta dunque la vostra cantina?

- Io non sono mai riuscito a percorrerla tutta. Si dice che finisca nell'ossario del cimitero di città.

- Brrr!... - fece l'ufficiale. - Non potevate trovare di peggio.

- Si dice, però io non ho mai potuto verificare questo.

- Io non vorrei possedere una simile cantina, mio caro taverniere, rispose l'ufficiale.

Le guardie doppiamente impressionate da quella rivelazione che non s'aspettavano, esitarono un poco prima di riprendere la discesa.

Se si fosse trattato di misurarsi con degli indios bravos o con dei filibustieri, senza dubbio avrebbero fatto bravamente il loro dovere, senza farsi pregare, ma quella storia di spettri che già si facevano udire e di ossari, metteva nel loro animo uno sgomento d'altronde perdonabile in quei tempi.

- Andiamo, dunque? - Chiese don Barrejo, il quale faceva tremolare la lampada per simulare un crescente spavento. - Qui bisogna prendere il coraggio a due mani, caramba.

- Fate lume, - rispose l'ufficiale. - Mi pare che la vostra mano oscilli troppo.

- Canarios!... Sono dinanzi a tutti e sarò il primo a venire acciuffato e portato all'inferno o nell'ossario. Pensate che io ho una moglie e bellina per di piú.

- Mostrate dunque il vostro coraggio dinanzi a lei.

- Se è per Panchita, scendo subito ed accoppo tutti gli spiriti che infestano la mia cantina, - rispose il guascone, il quale frenava a gran pena le risa.

Rialzò la lampada, tracciò in aria un altro segno della croce e, quantunque nella cantina si udissero sempre sbatacchiare catene contro le botti e di quando in quando degli ululati che parevano uscire dalle gole di lupi arrabbiati, riprese animosamente la discesa, non senza biascicare delle ave marie. Giunto al venticinquesimo gradino, ossia quasi alla metà, il guascone tornò a fermarsi.

- Signor ufficiale, - disse con voce alterata. - Le mie gambe non mi reggono piú.

- Non vi mostrate un poltrone dinanzi a vostra moglie, - rispose il capo della ronda. - Qualcuno bisogna bene che vada innanzi e voi solo siete pratico di questa cantina.

“E poi non siamo noi qui, pronti ad appoggiarvi?”

- E non udite questi rumori?

- Non sono sordo.

- Da che cosa credete che provengano?

- Lo sapremo quando saremo giunti abbasso. Orsú, taverniere, un po' di coraggio ed impugna ben salda la tua draghinassa.

- E se ci fossero veramente dei fantasmi? - disse una delle due guardie, con un certo tremolío nella voce. - Sapete bene, capo, che non si uccidono.

- E che le alabarde passerebbero attraverso ai loro corpi, come in mezzo ad una nube di fumo, - aggiunse l'altra.

- Noi non li abbiamo ancora veduti, - rispose l'ufficiale. - Se compariranno davvero... vedremo che cosa converrà fare.

- Sí darcela a gambe al piú presto, - disse don Barrejo.

L'ufficiale non rispose. Si trovava troppo imbarazzato a dare una risposta contraria.

Tirato il fiato, il guascone si decise finalmente a scendere gli altri venti o venticinque gradini ed a raggiungere il fondo.

La cantina s'apriva dinanzi a loro, ampia, altissima e, come abbiamo detto, ben fornita di botti piú o meno piene.

Uno spettacolo terrificante, tale da far gelare il sangue anche ad un filibustiere s'offerse allora agli occhi delle tre guardie e del cantiniere.

I gemiti, le urla, i fragori di ferramenta erano cessati ed invece erano comparsi improvvisamente due spettri, i quali erano saltati giú dalle ultime botti delle due file, mettendosi subito a girare su se stessi e facendo vivamente agitare i loro drappi bianchi.

Don Barrejo aveva cacciato un urlo ed aveva subito lasciata cadere a terra la lampada.

- Scappiamo!...Scappiamo!... - aveva gridato con voce strozzata.

Le tre guardie avevano già voltate le spalle e stavano arrampicandosi affannosamente su per la scala, spingendosi innanzi Panchita la quale strillava come se la scorticassero.

In pochi istanti si trovarono tutti nella taverna. Le guardie erano pallide ed affannate e pareva che non avessero piú voce.

Fortunatamente vi era ancora del vino sul tavolo ed un paio di bicchieri di vecchio Xeres, cacciati un dietro all'altro, diedero un po' di animo ai disgraziati.

- La tua cantina è maledetta, - disse l'ufficiale, appena poté tirare il fiato. - Erano ben dei fantasmi quelli?

- Se lo erano!... - esclamò Don Barrejo. - Chiedetelo alle vostre guardie ed a mia moglie.

- Sí, sí, capo, - si affrettarono a confermare i due alabardieri.

- Erano dei veri spettri.

- Allora mio caro, cavatela come puoi, - disse l'ufficiale. - Io non mi occupo di questi affari.

“Aprici.”

- Come!... Ve ne andate, signore ufficiale? - strillò Panchita, la quale si era abbandonata su una sedia, simulando uno spavento impossibile a descriversi.

- I soldati non hanno mai battagliato contro le ombre, bella mia, - rispose il capo della ronda, il quale non vedeva il momento di trovarsi all'aperto. - Le nostre spade e le nostre alabarde non ci servirebbero a nulla.

- E dove volete che andiamo a dormire? Sotto la pioggia? - disse don Barrejo, il quale fingeva di strapparsi i capelli.

- Andate a bussare alla porta di qualche vicino.

- Dovrò allora raccontargli il motivo per cui io e mia moglie siamo fuggiti e domani tutto il quartiere saprà che la mia cantina è frequentata dagli spiriti dell'ossario.

- E saremo completamente rovinati, - sospirò la bella castigliana.

- Io non so che cosa farvi, miei cari, - rispose l'ufficiale, il quale fissava la porta della cantina rimasta aperta, come se temesse di veder comparire, da un momento all'altro, uno di quei due spettri giganti. - Io non posso darvi che un consiglio.

- Dite su, signor ufficiale, - piagnucolò don Barrejo.

- Di recarvi domani mattina dal Padre Superiore del convento piú vicino e di pregarlo di mandarvi una mezza dozzina di frati con delle croci e con molta acqua santa.

- Rimanete qui fino a domani?

- No, mio caro taverniere, ne abbiamo abbastanza dei misteri che si succedono qui. Domani in pieno giorno, verremo forse a ritrovarvi per sapere qualche cosa. Aprite ora e lasciateci andare.

- Piove ancora al di fuori.

- Preferisco prendermi dell'acqua, piuttosto di scendere ancora nella tua cantina. Andiamo camerati.

Don Barrejo, fingendosi disperato, aprí la porta della taverna e tutti, compresa Panchita, uscirono sulla via.

- In quel momento passavano alcuni nottambuli, non curanti della pioggia che continuava a cadere a catinelle.

Vedendo aprirsi la taverna ed uscire delle persone che subito non avevano potuto scorgere, poiché le guardie si erano bene avviluppate nei loro ampi mantelli, si accostarono, ed uno della comitiva, quantunque sembrasse abbastanza alticcio, chiese:

- Si può bere una bottiglia?

- Eccovi in buona compagnia, - disse l'ufficiale a Don Barrejo. - Queste brave persone non se ne andranno finché offrirete da bere.

- E chi è che andrà in cantina a prendere le bottiglie se vi sono i fantasmi?

- Come, vi sono i fantasmi nella vostra casa? - chiese un altro della comitiva, facendosi precipitosamente il segno della croce.

- Si caballeros, e cosí terribili che hanno fatto scappare perfino le signore guardie.

I nottambuli non ne vollero sapere di piú s'allontanarono correndo, mentre le guardie se ne andavano pure dall'altra parte rasentando i muri delle case.

Don Barrejo attese che il rumore dei passi fosse completamente cessato, poi rientrò nella taverna e, mentre sua moglie si affrettava a chiudere, si gettò su una sedia ridendo a crepapelle e con tale fragore da attirare perfino l'attenzione dei due fantasmi, i quali non tardarono a comparire sulla porta della cantina, facendo svolazzare le candide tovaglie che li coprivano.

- Vade retro Satana!... - gridò il guascone, impugnando una bottiglia. - Tu puzzi troppo di zolfo.

Mendoza che era dinanzi, si sbarazzò delle tovaglie e si precipitò verso il tavolino, seguito da Buttafuoco, il quale, forse per la prima volta dopo tanti anni, si permetteva pure di ridere allegramente.

- Rajo de Sol!... - esclamò il basco, afferrando pure lui una bottiglia che non era stata ancora interamente vuotata. - Ti proclamo, don Barrejo, il piú grande ed il piú furbo guascone che la terra degli spadaccini e degli avventurieri abbia allattato.

- Sí, un brav'uomo, - confermò Buttafuoco, il quale cercava pure di bagnarsi la gola.

- Sono scappati come lepri, - rispose don Barrejo. - Ah!... Che commedia, amici!... Io non so come abbia fatto a trattenere fino a questo momento le risa. Non ne potevo proprio piú.

- Che ritornino? - chiese Mendoza.

- Ecco quello che temo. Sono capaci di venire ancora qui accompagnati forse da una mezza dozzina di frati. Ecco quello che io temo, amici.

“L'avventura non finirà certamente qui, anche perché il marchese di Montelimar vorrà sapere che cosa è successo del corpo o dell'anima di compare Pfiffero.

“Questo fiammingo comincia a diventare pericolosissimo, anche se è ubbriaco morto. Vi pare signor Buttafuoco?”

- Purtroppo prevedo dei grossi guai ora che il marchese ha dei sospetti su di noi e che ci fa pedinare dovunque dalle sue spie, - rispose il bucaniere.

- Allora io ritorno sulla mia prima idea, disse il guascone. - Scendo in cantina, scoperchio la botte e ve lo getto dentro.

“Per un ubbriaco deve essere una morte dolcissima quella di finire affogato dentro dieci ettolitri di Xeres.”

Che poi dovresti gettar via, - disse Mendoza.

- Ma che!... Domani lo ripesco, scavo una buca e lo seppellisco in qualche angolo della cantina. In quanto al vino vedrai che saprò venderlo egualmente, anche se ha conservato un morto per dodici ore.

- Ah!... Canaglia!...

- Oh!... I meticci e gl'indiani non hanno il palato raffinato.

- No, - ripeté per la seconda volta Buttafuoco. - Io penso che quell'uomo potrebbe diventare per noi preziosissimo.

“Se è, come sembra, il confidente del marchese di Montelimar, noi potremo sapere da lui molte cose preziosissime.”

- E se domani il marchese manda altre persone a cercarlo? Se lo scoprono, mi appiccano, signor Buttafuoco.

- Che non vi sia qualche nascondiglio nella tua cantina? - chiese Mendoza. - In casa non hai qualche granaio?

Don Barrejo stette un momento silenzioso, poi picchiò un pugno sulla tavola, esclamando:

- Ho trovato!... Anch'io ho scoperto l'America!...

- Ehi, guascone, hai il cervello guasto? - chiese Mendoza. - Che i fantasmi abbiano fatta anche a te troppa impressione?

- I cervelli dei guasconi sono chiusi dentro il cranio con due file di viti, amico, e non si rovinano cosí facilmente. Io ti dico che ho trovato un magnifico nascondiglio.

- Udiamo, disse Buttafuoco.

- Giorni fa ho acquistata una botte nuovissima, cosí ampia da contenerci tutti insieme e che io contavo di empire di mezcal. Prendo compare Pfiffero e lo caccio là dentro, cosí almeno non correrà piú il pericolo di morire gonfio di Xeres come un otre.

- L'hai proprio colle botti tu! - esclamò Mendoza.

- Non sono forse diventato un taverniere?

- E se le guardie tornano non vi sarà pericolo che compare Pfiffero, come lo chiami tu, si metta ad urlare anche dentro la sua botte e ti tradisca?

- Mai piú!...

- E perché?

- Perché appena mi accorgo che si sveglia, invece di dargli un bicchiere d'acqua zuccherata gli vuoto in gola una bottiglia intera di aguardiente e torno ad ubbriacarlo.

Tu sei diventato piú feroce d'un caimano, dopo il tuo matrimonio, - disse Mendoza.

- Ma no, signor mio, - protestò la bella castigliana, - anzi è diventato piú mansueto d'un agnello, il mio Pepito, dopo che si è sposato.

- Lasciamo stare Pepito, che qui non c'entra affatto, ed occupiamoci subito di quel Pfiffero.

“Approvate la mia idea?”

- Se non c'è di meglio, cacciamolo pur dentro la botte per ora, - disse Buttafuoco. - Ve lo faremo rimanere d'altronde il meno che sarà possibile, poiché avremo noleggiata una scialuppa e fileremo in cerca di Raveneau de Lussan.

- Bada di non ubbriacarlo troppo, quel povero diavolo, desse Mendoza. - Non vogliamo che muoia.

- Per chi mi prendi? - rispose il guascone, - per l'ultimo taverniere che esiste in tutte e due le Americhe? Gli darò da bere solamente dell'aguardiente finissimo, che costa a me non meno di quattro piastre la bottiglia.

- Sbrighiamo allora questo affare e poi andiamocene, - disse Buttafuoco. - La señorita Ines di Ventimiglia sarà molto inquieta e non si sarà certamente ancora coricata.

- Come!... Vi riceve di notte? - chiese don Barrejo.

- Non osiamo farci vedere di giorno. Le precauzioni non sono mai troppe quando si è impegnata una partita con un Montelimar.

Presero i lumi e scesero nella cantina, giungendo ben presto all'estremità delle due file di botti.

Colà si trovava un enorme recipiente che pareva una piccola torre messa a guardia dei Xeres, degli Alicanti e dei Malaga, capace di contenere nel suo interno, e senza alcuna difficoltà, almeno quattro uomini.

- Come vedete la botte è proprio nuova, - disse don Barrejo, - quindi il Pfiffero non correrà alcun pericolo di asfissiarsi.

Prese un martello e assalí i cerchi superiori, per smuovere le doghe e levare il coperchio. Mendoza e Buttafuoco lo aiutavano alla meglio, non essendo pratici in quel mestiere che il guascone invece conosceva ormai a fondo, forse meglio d'un bottaio.

- Il nido è pronto a ricevere il merlotto, - disse don Barrejo, dopo alcuni minuti. - Andatemi a cercare il Pfiffero mentre levo il coperchio.

Il disgraziato fiammingo russava beatamente sotto le botti come se si trovasse nel suo letto.

Buttafuoco e Mendoza presero quel corpo inerte e lo passarono al guascone, il quale lo lasciò cadere, senza troppi riguardi, in fondo al monumentale recipiente, mettendo poi subito a posto il coperchio in modo però che non combaciasse perfettamente, onde l'aria potesse liberamente circolare.

- Sfido chiunque ad andarlo a scovare, - disse don Barrejo, quand'ebbe finito.

- Si ode però che qualche cosa respira o russa li dentro, - disse Mendoza, il quale aveva appoggiato un orecchio alle doghe.

- T'inganni, amico, - rispose il guascone. - È il vino buono che bolle. Forse che non borbotta quando comincia a fermentare?

- Sei meraviglioso, don Barrejo, - disse Buttafuoco. - Io sono certo che con l'aiuto di voi due non sarà cosa difficile a me di condurre la señorita di Ventimiglia nel paese di sua madre a raccogliere l'eredità lasciatale dal Gran Cacico.

- Volete dire, signor Buttafuoco, che voi contate fin d'ora sulla mia draghinassa, - disse don Barrejo.

- Siamo venuti qui per portarvi via con noi. Non ne avete abbastanza di fare il taverniere, voi che siete un gentiluomo piú atto a maneggiare le armi che le bottiglie?

- Cominciavo infatti ad annoiarmi mortalmente ed a rimpiangere i bei tempi passati, quando sotto il figlio del Corsaro Rosso si montava all'assalto di qualche nave o di qualche casa almeno una volta alla settimana.

“E mia moglie?”

- Lasciala qui a condurre la taverna, - disse Mendoza. - Quando noi torneremo non avrai piú bisogno di vendere vino e Panchita potrà sfoggiare gioielli e bei vestiti finché vorrà.

“Signor Buttafuoco, andiamo.”

Risalirono in fretta, si gettarono addosso i loro mantelloni, provarono a far scorrere le spade ed i pugnali, e dopo d'aver accarezzato il mento alla bella castigliana senza che don Barrejo trovasse di che dire, il filibustiere ed il bucaniere uscirono cautamente in istrada.

Pioveva sempre a dirotto ed un ventaccio impetuoso e quasi freddo sbatacchiava le finestre delle case e le monumentali insegne dei negozi.

In lontananza si udiva l'oceano Pacifico muggire sinistramente e rompersi contro le calate del porto.

- Quando ci rivedremo? - chiese don Barrejo.

- Se domani avremo bisogno di te, segui il ragazzetto indiano che ti ha portata la nostra lettera, - rispose Buttafuoco. - Intanto noi cercheremo il modo di sbarazzarti al piú presto del fiammingo per non comprometterti e...

Il bucaniere si era bruscamente interrotto, mettendo mano alla spada.

- Chi si avanza? - si chiese con inquietudine.

Degli uomini, cinque o sei, tutti chiusi in cappe grigie e che tenevano in mano delle lanterne, s'avanzavano verso la taverna, borbottando delle preghiere.

- Un funerale a quest'ora? - si domandò Mendoza.

Subito però ruppe in uno scroscio di risa. Aveva capito di che cosa si trattava.

- La polizia ha avvertito il Padre Superiore del vicino convento che la tua cantina è infestata dagli spiriti ed ecco i frati che giungono solleciti per benedire le tue botti d'acqua santa.

“Fa' loro buona accoglienza e cavatela come puoi. Signor Buttafuoco, filiamo!...”

I due avventurieri si allontanarono velocemente, mentre i sei frati, preceduti da un sagrestano zoppo, che reggeva un grosso recipiente di acqua santa, si fermavano dinanzi alla taverna.

Avevano appena svoltato l'angolo della via, quando un uomo, che fino allora era rimasto confuso colla fitta ombra proiettata da un vecchio porticato, si slanciò sulle loro tracce.

 

 

Capitolo IV

LA SCOMPARSA DELLA CONTESSA DI VENTIMIGLIA

 

Il bucaniere ed il filibustiere, messi in buono umore dai vini tracannati alla cantina d'El Moro, se ne andavano tranquillamente per la loro via, prendendosi filosoficamente la pioggia torrenziale, la quale si ostinava a non cessare.

Né l'uno né l'altro si erano accorti dell'uomo che si era lanciato sulle loro tracce e che, passando attraverso a delle viuzze note a lui solo, cercava di sopravanzarli.

Il ventaccio rumoreggiava sui tetti delle case, facendo, di quando in quando, volare delle tegole e rovinare il comignolo di qualche camino. I tuoni ed i lampi si univano alle raffiche che l'oceano Pacifico, diventato oceano rabbioso, scaraventava con inaudita violenza sulla città addormentata.

Avevano percorse già una decina di vie fangose e sfondate, poiché in quell'epoca gli spagnuoli non si curavano gran che della viabilità, occupati come erano a difendersi dai continui attacchi dei filibustieri, che interrompevano i loro fiorenti commerci, quando giunsero dinanzi ad una casetta a due piani, di bell'aspetto, sulla cui porta si leggeva, su una insegna monumentale, il seguente titolo:

 

Posada del Rio Verde

 

- Ci siamo, - disse Mendoza. - Che la señorita Ines di Ventimiglia ci aspetti ancora?

- Ha nelle sue vene sangue indiano, - rispose Buttafuoco. - Abbiamo fatto però tardi.

- Vedo brillare un lume attraverso le persiane d'una finestra. O la señorita o il mio fido bucaniere Wandoe, vegliano:

Stavano per avvicinarsi alla porta dell'albergo, quando un uomo tutto avvolto in un ampio ferraiolo, sbucò da una via laterale e con tanta furia da urtare malamente Mendoza.

- Ehi, amico, avete bevuto? - esclamò il basco. - Girate al largo perché io ho l'abitudine di non farmi urtare due volte dal primo mascalzone che incontro di notte.

Lo sconosciuto aveva fatto tre o quattro passi indietro e si era aperto il mantellone, dicendo:

- Mi pare, caballero, che mi abbiate chiamato mascalzone, se non sono diventato sordo.

- Ciò che vi auguro, di tutto cuore, - rispose il basco, ironicamente.

- Giacché dunque non sono sordo, - riprese lo sconosciuto, - ho potuto raccogliere benissimo la vostra offesa.

- E cosí?

- Vorrei sapere con chi potrei incrociare la mia spada per vedere se sarà degno di me.

- Chi siete voi dunque?

- Don Ramon de los Montes, figlio d'un grande di Spagna.

- Ah!... Figlio di papà!...

- Scherzate meno e ditemi chi siete.

- Io non sarò indegno di voi, don Ramon de los Montes, poiché io sono il conte don Diego de Alcalà y Veragrua e duca di Sabalioz.

- E... l'altro? - chiese il figlio del grande di Spagna, o almeno quello che si spacciava per tale.

- Non avendovi dato del mascalzone, signor de los Montes, preferisco per ora serbare l'incognito. Vorrei invece pregarvi se non sarebbe meglio rimettere a domani questa questione, che mi pare molto sospetta, poiché io credo voi figlio d'un grande di Spagna, quanto io sono figlio di Montezuma, il disgraziato imperatore del Messico.

- Come!... - gridò lo sconosciuto, gettando a terra il mantellone e snudando rapidamente la spada. - Mi si dà del mascalzone, e poi si pongono anche in dubbio i miei titoli? ah!... Caramba!... Questo è troppo!...

- Si direbbe che voi andate in cerca di questioni, - disse Buttafuoco, a cui era sorto un sospetto.

- Canarios!... io sono l'uomo piú tranquillo del mondo, ma quando mi s'importuna allora divento anche uno dei piú terribili.

“Qui si è insultato il figlio d'un grande di Spagna e qui il sangue scorrerà, signori miei, perché io sono ben risoluto a non lasciarvi andare indisturbati.

“Se non volete battervi, seguitemi al piú vicino posto di polizia.”

- Tu non sei altro che un miserabile avventuriero in cerca di colpi di spada, pessima canaglia, - disse Mendoza, estraendo a sua volta la spada.

- O meglio pagato da qualcuno per darci delle noie, - aggiunse Buttafuoco. - Quante piastre ti hanno fissato per ognuna delle nostre pelli?

- Canarios!... Questo è troppo!... - gridò lo sconosciuto, facendo un salto contro il muro della posada per non farsi sorprendere alle spalle.

- Allora finiamola alla lesta, - disse Mendoza. - Voi state a guardarmi, per ora; se cadrò mi vendicherete.

- Lo inchioderò contro la parete come una lucertola, - rispose Buttafuoco, mettendo pur mano alla spada.

Mendoza, come già sappiamo, era uno spadaccino di primo ordine, che valeva non meno del terribile guascone don Barrejo.

Desideroso di sbrigare presto la faccenda, pel timore che sopraggiungesse qualche ronda, attaccò risolutamente l'avversario vibrandogli una dietro l'altra tre o quattro fulminee stoccate, parate appena in tempo.

- Canarios!... - esclamò lo sconosciuto, un po' sconcertato. - Chi è stato il vostro maestro?

- È inutile che ve lo dica, - rispose Mendoza, il quale non gli lasciava quasi nemmeno il tempo di rimettersi in guardia. - Quando vi avrò vibrata la stoccata dei Tre Corsari, voi rimarrete inchiodato contro la parete, quindi non avrete piú il bisogno dell'indirizzo del mio maestro, bensí di un passaporto per l'altro mondo.

- Ehi, correte troppo, mio signore.

- Aspettate un po' e vedrete un colpo meraviglioso, l'ultimo però per voi.

I due spadaccini, non curanti della pioggia che non cessava di cadere, si scambiavano stoccate con grande accanimento. Il fragore delle spade non si udiva, poiché il tuono continuava a rumoreggiare ed il vento ad ululare fra i comignoli delle case.

Lo sconosciuto, dopo qualche minuto, si trovò obbligato a rompere ed appoggiarsi quasi alla parete. Sembrava molto sorpreso di aver trovato un avversario cosí formidabile, mentre forse aveva sperato di sbarazzarsi di entrambi con pochi colpi di spada.

- Signor figlio d'un grande di Spagna, - disse Mendoza, mentre una folgore attraversava la piazza, seguita da uno schianto terribile. - Preparatevi alla partenza che non ha ritorno.

Stava per tornare all'attacco, quando una finestra della posada si aprí ed una voce d'un uomo chiese:

- Chi si ammazza davanti al mio albergo?

- È l'amico Mendoza che si diverte un po', - disse Buttafuoco, alzando la testa. - Lascia fare, Wandoe, fra poco tutto sarà finito.

“Porta invece una torcia ed un archibugio.”

- Canaglie!... - gridò lo sconosciuto, facendo una rapida mossa di fianco per prendere piú campo. - Avete degli amici qui ed ora mi farete assassinare a colpi d'arma da fuoco.

“Non è agire da gentiluomini questo.”

- Basterà il colpo dei Tre Corsari, - rispose Mendoza, chiudendogli prontamente il passo e costringendolo ad appoggiarsi alla parete. - A te, bandito, prendi questo per ora!...

- Ed anche tu questa - rispose lo sconosciuto, il quale si difendeva disperatamente, chiamando in suo soccorso tutte le risorse della terribile arte della scherma.

Mendoza parò la botta, poi tutto d'un tratto si abbassò verso terra, appoggiandosi sulla mano sinistra e andò a fondo.

Lo sconosciuto aveva mandato un grido, poi aveva lasciata cadere la spada, appoggiandosi contro il muro.

Aveva ricevuta una magnifica stoccata nella spalla sinistra, dal basso in alto.

Mendoza ritirò lentamente la lama, la cui punta si era arrossata contro la scapola dell'avversario e fece un gesto di malumore.

- Troppo alto - disse. - Avrei dovuto attraversargli il cuore.

In quel momento il preteso figlio del grande di Spagna, vinto dal dolore intenso causatogli da quel terribile colpo, rovinò al suolo, rimanendo inerte.

- Morto? - chiese Buttafuoco.

- Oh, no, - rispose Mendoza. - La ferita però deve essere dolorosissima.

In quell'istante la porta della posada ed un uomo di alta statura, che rassomigliava stranamente a Buttafuoco, pure molto barbuto e molto abbronzato, comparve, portando in una mano una lanterna e nell'altra un lungo archibugio.

- Che cosa succede qui, amici? - chiese, avvicinando premurosamente al bucaniere ed al filibustiere, il quale stava asciugando tranquillamente la punta della lama.

- Non ne sappiamo piú di te, Wandoe, - rispose Buttafuoco. - Questo mascalzone ci ha provocati e Mendoza ha approfittato dell'occasione per dargli una buona lezione di scherma.

- Non ci vedo chiaro in tutto questo, - rispose il proprietario della posada. - Questo furfante deve essere stato pagato dal marchese per assassinarvi. Vediamo un po': ne conosco molti di questi sicari. Si avvicinò al ferito, il quale pareva che fosse svenuto e gli proiettò in pieno viso i raggi della lanterna.

Ad un tratto un grido gli sfuggí e fece due o tre passi indietro, esclamando:

- Ah!... Disgraziato!... Disgraziato!... L'avevo sospettato.

- Che cosa? - chiesero ad una voce Mendoza e Buttafuoco.

- Aiutatemi a portare a coperto quest'uomo, - rispose Wandoe. - Non bisogna lasciarlo morire.

- Questi birbanti hanno la pelle dura e poi la sua ferita è piú dolorosa che pericolosa. Ah!... Se l'avessi côlto un po' piú sotto, allora non risponderei piú di lui.

I tre uomini sollevarono il ferito ed entrarono nella posada, arrestandosi in una vasta camera a pianterreno che era ancora illuminata, la quale conteneva solamente sei amache che in quel momento erano vuote.

Il ferito fu sollevato con molte precauzioni e deposto su uno di quei comodi e freschi giacigli.

Subito Mendoza, con una navaja datagli da Wandoe, gli tagliò la casacca, il giustacuore e la camicia e mise allo scoperto la ferita.

- Niente di grave, - disse, arrestando con un fazzoletto il sangue che sgorgava in abbondanza.

La fasciò alla meglio, aggiungendo:

- Ci occuperemo poi meglio di quest'uomo. Spiegaci ora, Wandoe, il tuo sgomento che per noi è inesplicabile.

“L'hai veduto altre volte questo avventuriero?”

Wandoe, il quale aveva un viso assolutamente sconvolto, guardò il bucaniere ed il filibustiere quasi con terrore, poi chiese con voce strozzata:

- Non ve l'ha condotta?

- Chi? - domandarono ad un tempo Buttafuoco e Mendoza.

- La señorita.

- La señorita Ines di Ventimiglia?...

- Sí!... Sí!... - balbettò Wandoe.

- Tu sei impazzito? - gridò Buttafuoco. - Che cosa vuoi dire?

- Non ho il coraggio di dirvelo. Ora comprendo che noi siamo stati giuocati.

- Suvvia, - disse il bucaniere, il quale cominciava a perdere la pazienza. - Spiegati una buona volta.

- Vi chiedo se ve l'ha condotta.

- Ma chi?

- La señorita di Ventimiglia, - ripeté Wandoe, con angoscia.

- Quell'uomo lí è venuto oggi, dopo il mezzodí, con un biglietto firmato “Buttafuoco” con cui la si avvertiva di lasciare immediatamente la mia posada, essendo ormai stato scoperto il mio rifugio dal marchese di Montelimar.

Buttafuoco e Mendoza, udendo quelle parole, erano rimasti come fulminati.

- La señorita scomparsa!... - esclamò finalmente Buttafuoco, mentre Mendoza si strappava un ciuffo di capelli. - L'hai veduta tu questa lettera?

- La señorita me l'ha fatta leggere, prima di decidersi a lasciare la mia posada.

- Ah!... Cane d'un marchese!... - urlò Mendoza, con accento feroce. - Ce l'ha fatta!...

- Dimmi, Wandoe, - disse Buttafuoco, il quale aveva riacquistato prontamente il suo sangue freddo. - La señorita non ha avuto alcun sospetto?

- Nessuno, perché quel biglietto portava la tua firma e già sapeva che qualche cosa c'era in aria. Glielo avevi già detto tu che il marchese era ormai sulle vostre tracce.

- A che ora ha lasciato la posada?

- Verso le tre pomeridiane.

- Ed è uscita con quell'uomo lí?

- Si.

- Ne sei ben certo?

- Non posso ingannarmi, perché avevo già oggi osservato sul viso di quell'avventuriero una profonda cicatrice che pare prodotta da un colpo di draghinassa.

- Mi stupisce però come la señorita non avesse intuito che si trattava d'un tradimento.

- Nessuno poteva sapere in Panama che Buttafuoco era qui, - rispose Wandoe.

- È vero anche questo. Che polizia ammirabile ha quel marchese! Ci ha portato un colpo mortale, tuttavia noi non siamo uomini da perderci di coraggio.

“Occupati del ferito e curalo piú che puoi. Da lui sapremo dove ha condotto la contessina di Ventimiglia.

“C'è il lume nel tuo gabinetto?”

- Sí, amico.

- Vieni Mendoza, - disse Buttafuoco.

Aprirono una porta ed entrarono in una stanzina attigua, che serviva come di segreteria della posada, e come la prima camera era pure illuminata.

Buttafuoco gettò via con dispetto il feltro ed il mantello e si sedette dinanzi ad un tavolo, prendendosi il capo fra le mani.

Mendoza, che aveva scoperta sullo scrittoio una bottiglia, si era affrettato ad impadronirsene, per rimettersi meglio da tante emozioni passate.

- Orsú, signor Buttafuoco, - disse il filibustiere empiendo due bicchieri. - Schiarite un po' le idee con questo Porto, che Wandoe ha certamente serbato per noi. Verranno subito a galla come le sardine del mare dell'Olanda.

- Io credo, mio caro, - rispose il bucaniere, - che noi abbiamo trovato un avversario degno di noi.

“È vero che aveva dato molto da fare al figlio del Corsaro Rosso.

“Se noi non riusciremo a riavere nelle nostre mani la señorita, potremo rinunciare all'eredità del Gran Cacico del Darien, poiché la presenza della figlia del Corsaro è assolutamente necessaria.”

- Lo so, - rispose Mendoza. - I capi delle tribú non consegnerebbero il tesoro ai primi arrivati. Il difficile sta ora nello strapparla nuovamente al marchese di Montelimar.

“Egli certamente aspettava pazientemente, da anni ed anni, il suo arrivo in Panama, per averla ancora una volta sottomano.”

- Che il nostro passaggio attraverso l'istmo sia stato notato? Io mi sono rivolto piú di cento volte questa domanda.

- E da chi? Chi poteva riconoscerci dopo sei anni d'assenza?

- Eppure, come vedi, appena abbiamo messo i piedi in Panama abbiamo avuto intorno delle spie. Io non credo affatto che il marchese ti abbia riconosciuto mentre passeggiavamo sulle calate del porto.

- Vi deve essere qui sotto un mistero, signor Buttafuoco. Io vorrei sapere innanzitutto il perché quel bucaniere inviato al conte di Ventimiglia dal Gran Cacico prima di esalare l'ultimo suo sospiro, ci abbia lasciati sbarcando sul continente, colla scusa di recarsi ad avvertire le tribú del Darien dell'imminente arrivo della principessa.

“Non avete mai notato qualche cosa di doppio in quell'uomo?”

- Piú di quanto tu credi, - rispose Buttafuoco.

- Che sia stato lui a tradirci per impadronirsi da solo del tesoro?

- Può darsi, Mendoza; però io conosco gl'indiani, so quanto sono cocciuti e non rimetteranno l'eredità del Gran Cacico che nelle mani della señorita.

- E come faranno a riconoscerla?

- Da un tatuaggio misterioso che la contessina porta su una spalla e che sarebbe come una specie di timbro reale.

- Allora siamo al sicuro contro qualunque mistificazione.

- Oh!... Per questo sí, - rispose il bucaniere. - A noi ora non resta che far perdere nuovamente le nostre tracce alle spie del marchese ed ai suoi sicari, e cercare di metterci al piú presto in relazione con Raveneau de Lussan, poiché senza l'aiuto dei filibustieri non potremmo raggiungere le grandi selve del Darien.

In quel momento entrò Wandoe portando un'altra bottiglia e dei bicchieri.

- Come va dunque il ferito? - chiese Buttafuoco.

- L'uomo è robusto e la lama non ha offeso alcun organo importante. Fra dieci o dodici giorni quell'uomo sarà perfettamente ristabilito.

- La botta era troppo alta, - disse Mendoza, con un certo rammarico.

- Non dolertene, - gli disse Buttafuoco. - Quest'uomo sarà piú prezioso vivo anziché morto.

Quindi, rivolgendosi verso il padrone della posada, gli disse:

- Hai degli amici nel porto?

- I filibustieri che hanno ormai rinunciato al loro pericoloso mestiere non mancano.

- A noi occorre una casetta isolata e non sospettata, per poter agire a nostro agio. Ormai non possiamo soffermarci né qui né alla taverna di don Barrejo.

- Ho l'affar tuo, - rispose Wandoe, dopo d'aver pensato un momento. - Prima di mezzodí tu avrai una modesta casetta e, se vorrai, anche una buona barca da pesca.

“Il proprietario dell'una e dell'altra è un ex-filibustiere di David, graziato dagli spagnuoli e che ora fa il pescatore, ma in fondo è rimasto sempre un figlio della Tortue.”

- Non ti domando di piú. Questa sera noi prenderemo possesso dell'alloggio e vi trasporteremo i due prigionieri.

- E come? - chiese Mendoza.

- Lascia fare a me, mio caro basco, e vedrai che noi la faremo bella alle spie del marchese di Montelimar.

“Wandoe, hai sempre quel vispo ragazzo indiano?”

- Sempre, amico.

- Dammi una penna ed un calamaio per scrivere a don Barrejo. Scommetto che quando riceverà la mia lettera, quel pazzo di guascone riderà tanto da slogarsi le mascelle.

 

 

Capitolo V

IL VIAGGIO STRAORDINARIO D'UNA BOTTE

 

Scappati via Buttafuoco e Mendoza, il guascone era rimasto solo in mezzo alla strada, sotto la pioggia torrenziale, guardando con una certa ansietà i sei frati che indossavano delle cappe grigie e che portavano dei ceri fumosi, i quali resistevano ostinatamente all'acqua.

Il venerando drappello formato da barbe grigie, come abbiamo detto, era preceduto da un sagrestano zoppo che procedeva con delle strane mosse da ranocchio e che reggeva un secchio pieno d'acqua santa.

Il povero guascone sarebbe stato ben lieto di chiudere la porta in viso ai frati, quantunque buon cristiano, e di andarsene subito a dormire, ma a quei tempi non c'era da scherzare coi religiosi ed una qualunque offesa si poteva pagare assai cara.

Costretto a fare buona cera suo malgrado, don Barrejo, invece di chiudere la porta, spalancò i due battenti e ricevette cortesemente le sei barbe grigie, baciando ad ognuna di esse il cordone per mostrarsi buon cristiano.

- A che cosa devo l'onore della vostra visita ad un'ora cosí tarda, reverendi? - chiese. - Non vi è alcun morto qui da portare al cimitero.

- Vi sono però dei fantasmi, - disse un frate rubicondo e grosso.

- C'erano una volta.

- Come, c'erano una volta!... - esclamò il frate, inarcando le sopracciglia. - È appena mezz'ora che è venuto da noi un ufficiale delle guardie ad avvertirci che la vostra cantina era piena di satanelli.

- Ora però non ci sono piú, reverendo, poiché poco fa sono disceso e non ho piú udito nessun rumore, né veduto nessun satanello, né satanasso.

- Noi vogliamo vedere bene dentro in questa faccenda, - rispose il frate. - Le stregonerie non sono tollerate.

- Se i reverendi padri vogliono seguirmi, andiamo pure a dare la caccia ai fantasmi, - disse il guascone, prendendo un lume e mettendosi dinanzi al sagrestano-ranocchio che era piú bianco d'un cencio di bucato. Le sei barbe grigie scesero attraverso l'ampia scala, una scala quasi da palazzo, e giunsero ben presto in cantina, dove cominciarono subito a borbottare certe preci ed a trinciare una infinità di segni della croce.

Il guascone fingeva di borbottare anche lui qualcosa che non si capiva, e di quando in quando s'appoggiava contro il sagrestano-ranocchio, manifestando un grande spavento.

Quando le preghiere furono finite, il frate piú anziano cominciò a benedire le botti e le pareti per rimandare all'inferno spettri e satanelli.

Passando dinanzi alla grossa botte dove stava rinchiuso il disgraziato Pfiffero, si arrestò titubante.

- Che cos'è questo rumore che si ode lí dentro? - chiese, rivolgendosi al guascone.

- È vino nuovo che bolle, reverendo, - rispose don Barrejo, con grande serietà.

- Ne siete ben certo?

- Diamine!... Ce l'ho messo dentro tre giorni fa.

- Gorgoglia in un modo curioso.

- La cantina non è troppo fresca, quantunque sia molto profonda.

- Dove sono comparsi i fantasmi?

- Precisamente qui.

- Quanti erano?

- Due, reverendo.

- E il passaggio che conduce all'ossario del cimitero?

- Quale passaggio?

- L'ufficiale delle guardie mi ha detto che qui vi era una galleria.

- Sí, una volta, reverendo, poi è venuta una scossa di terremoto ed ha fatto crollare le vôlte.

Le sei barbe grigie fecero il giro della cantina, continuando a benedire, mentre don Barrejo cercava fra la botti un certo caratello che non sarebbe dispiaciuto nemmeno ai reverendi.

- Padri, - disse, quando stavano per risalire la scala, ormai persuasi di aver relegati per sempre tutti gli spiriti maligni all'inferno. - Io non ho dell'olio da offrirvi per le vostre lampade, perché sono un povero diavolo. Accettate però pel vostro disturbo questo caratello di vecchio Alicante.

- Grazie, buon figliuolo: servirà pei feriti che ricoveriamo al convento.

Don Barrejo lo mise sulle spalle del sagrestano-ranocchio e la comitiva ritornò nella taverna e quindi uscí nella via.

- Dieci giornate come questa, - disse il guascone, quando i frati se ne furono andati e la porta fu chiusa, - ed a te, mio povero don Barrejo, non rimarrà altra alternativa che di chiudere bottega per mancanza di vino.

“Che buco hanno fatto quest'oggi fra Mendoza, Buttafuoco, il Pfiffero, la ronda e poi i frati per sopra mercato.

“Al diavolo anche i fantasmi!

“Panchita!...”

Una voce che veniva dal di sopra rispose:

- Vieni a dormire, Pepito.

- Lascia che faccia i conti della giornata, - rispose il guascone. - Abbiamo lavorato molto quest'oggi. L'affare dell'eredità del Gran Cacico del Darien mi ricompenserà però largamente delle perdite, - aggiunse poi a mezza voce.

Stava per aprire un vecchio registro, tutto sgorbio e macchie d'inchiostro, dove nessuno avrebbe potuto certamente raccapezzarsi, fuorché il proprietario della taverna d'El Moro e sua moglie, quando si udí picchiare alla porta.

- Tonnerre!... - esclamò il guascone, il quale cominciava a perdere le staffe. - È proprio scritto che questa notte io non debba né fare i miei conti, né andare a dormire? Al diavolo tutte le ronde di Panama.

Si alzò, scaraventando lontano lo sgabello su cui stava seduto, prese per precauzione la sua draghinassa ed aprí la porta.

Due uomini d'aspetto poco rassicurante, con ampi ferraiuoli e cappellacci immensi, tentarono di entrare, mentre uno di loro chiedeva:

- È vero che la vostra taverna è piena di spettri? Noi non abbiamo paura nemmeno del diavolo e vi offriamo di tenervi compagnia fino a domani mattina.

- Chi ve lo ha detto? - gridò don Barrejo, mostrando la draghinassa.

- Abbiamo veduto i frati uscire poco fa dalla vostra taverna.

- Ebbene, giacché non avete paura nemmeno del diavolo, andate a tenere compagnia a lui. Io non ho bisogno di nessuno.

E chiuse senz'altro la porta sul viso dei due sconosciuti, accompagnando il colpo con un tonnerre dei piú formidabili che fossero usciti mai dalle sue labbra.

- Questa è una notte d'inferno, - borbottò il brav'uomo. - O questi spettri faranno la fortuna della mia taverna o rovineranno completamente le mie tasche e porteranno via anche la lunga catena d'oro di Panchita.

“Birbante di Mendoza!... Quando c'entra lui, porta ovunque la rivoluzione. È vero che anche don Barrejo, che è qui che mi ascolta, quando ci si mette fa le sue.”

Aveva appena terminato i conti della giornata, constatando un'uscita di trenta bottiglie non pagate, senza contare il caratello regalato ai frati, quando fu di nuovo picchiato alla porta.

- Cane d'un lume!... - esclamò il guascone, furioso. - È questo che mi tradisce.

Riprese la draghinassa e per la seconda volta aprí.

Si trovò di fronte a tre o quattro altri individui di dubbia cera, i quali gli chiesero tutti ad una voce:

- È qui che ci sono gli spettri? Siamo venuti per spazzarli via.

- Basta la mia scopa!... - gridò don Barrejo. - Tonnerre!... Lasciate che i galantuomini, che hanno lavorato quindici ore su ventiquattro, si prendano un po' di riposo. Filate!...

Vedendo il guascone a roteare minacciosamente la draghinassa, anche quegli ultimi nottambuli se la diedero a gambe sotto la pioggia sempre scrosciante.

- Che vengano a prendermi a gabbo? - si chiese don Barrejo, il quale perdeva la pazienza. - Il primo che viene a seccarmi ancora, lo afferro per la gola e lo mando a tenere compagnia a compare Pfiffero, parola di guascone.

“La notte è perduta, è quindi inutile guastare il sonno della mia dolcissima metà.”

Scosse tre o quattro bottiglie ed avendone trovata una semipiena la svuotò in due colpi, poi si allungò su due sedie, appoggiandosi contro il tavolino.

Il suo sonno non durò molto, poiché fu interrotto ben presto dallo squillare delle duecento campane che contava allora Panama e che tutte insieme formavano un tale baccano da scuotere anche i morti.

Quel breve sonno però lo aveva rimesso completamente in gambe, non avendo ancora dimenticato le sue vecchie abitudini d'avventuriero.

Aveva appena data la voce a Panchita perché si alzasse, quando udí bussare discretamente alla porta.

- Che sia un altro che viene a vedere i fantasmi? - si chiese. - Tonnerre!... Gli romperò la testa con un colpo di bottiglia.

Brontolando e bestemmiando, andò ad aprire e si ritrovò davanti un ragazzo indiano di dodici o quattordici anni, d'aspetto furbesco ed intelligentissimo, con occhi di fuoco e la pelle dai riflessi ramigni.

- Che cosa vuoi tu, furfante? - Gli chiese don Barrejo.

- Prendete, da parte di Buttafuoco, - rispose il ragazzo, consegnandogli il biglietto piegato in quattro.

Poi se ne fuggí, piú lesto d'un cervo, prima che il guascone avesse pensato a trattenerlo, scomparendo ben presto fra le fitte cortine di pioggia, non essendo il cattivo tempo ancora cessato.

- Qui dentro ci devono essere delle grandi novità, - borbottò il guascone, girando e rigirando la carta fra le dita. - Saprò io decifrare questi sgorbi? Quel caro Buttafuoco ama troppo la scrittura.

“Bah!... Una mania anche quella!...”

Allargò, come aveva l'abitudine, le sue lunghe e magrissime gambe, simili ad un immenso compasso, si mise una mano sul fianco destro e colla sinistra si cacciò sotto gli occhi la carta che era coperta di lettere grosse come ditali, poiché anche i gentiluomini allora si occupavano di frequentare piú le sale di scherma che la scuola.

Il guascone non era della forza del gentiluomo francese, quantunque anche lui avesse prese delle lezioni dal curato del suo villaggio, sicché dopo una mezza dozzina di tonnerre, pronunciati su tutti i tuoni davvero, dovette rinunciare e darsi del triplice asino.

Fortunatamente la bella taverniera era già scesa, e siccome ne sapeva molto piú di lui, non le riuscí difficile decifrare quegli sgorbi.

Quali terribili notizie conteneva quel bigliettino!... La contessina di Ventimiglia scomparsa e probabilmente prigioniera del marchese di Montelimar; Buttafuoco e Mendoza assaliti e con un altro prigioniero da unire al Pfiffero; la necessità quindi di mettere insieme i due uomini dentro la botte e di trasportarli altrove, per evitare delle sgradite sorprese da parte della polizia.

- In conclusione, che cosa vuole Buttafuoco? - chiese don Barrejo, il quale si grattava furiosamente la testa.

- Che questa sera tu gli conduca il fiammingo alla posada, senza levarlo dalla botte.

- Diventano pazzi questi avventurieri scatenati? Il rapimento della contessina deve aver fatto perdere loro la testa.

- Io credo il contrario, invece, Pepito mio, - disse Panchita.

- Ti sbarazzano di quell'uomo che per noi costituisce un continuo pericolo.

“Pensa che cosa succederebbe se le guardie lo scoprissero dentro la botte.”

- Tu ragioni meglio del curato del mio villaggio, che si ostinava a cacciarmi in testa, come tanti chiodi, degli a e dei b. Condurre via quella botte non sarà cosa facile.

“È bensí vero che non sarò cosí stupido da farla viaggiare in pieno giorno.

“Tra là là, ci sono!...”

- A che cosa?

- Il problema è sciolto, - disse il guascone, prendendo una bottiglia d'aguardiente e riempiendosi un bicchierino. - Ad ogni passo io scopro una nuova America.

- E con tutte queste scoperte io non vedo altro che te che ti attacchi alla bottiglia dell'aguardiente, - disse la bella castigliana.

- Questa sera, prima del tramonto, andrai a chiamare tuo fratello. Egli è forte e grosso come un toro e fra noi due la botte verrà portata fuori dalla cantina.

“Raccomandagli di noleggiare un carretto qualunque per caricare il Pfiffero e anche l'altro che si trova nella posada.

“Come vedi, non ci voleva molto studio a risolvere la questione.

Quella invece che farà sudare sarà l'altra: la scomparsa della contessina di Ventimiglia.”

- Vuoi occuparti anche di quella? - chiese la castigliana, con inquietudine.

- Quand'è che i guasconi hanno dimenticato gli amici? - chiese don Barrejo, con voce grave, mettendosi le mani sui fianchi ed allargando piú che poté le sue gambe. - Ohé, Panchita, vi permettete delle osservazioni fuori di luogo.

- Io penso alla tua vita, Pepito, che può correre, da un momento all'altro, qualche grave pericolo.

- I guasconi, quando hanno una draghinassa al fianco, sanno difendersi contro tutti gli spadaccini di questo e dell'altro mondo. Ricordatelo Panchita.

Tracannò un altro bicchierino di aguardiente e andò a sedersi presso la porta, osservando le persone che passavano.

La storia degli spettri, colla relativa visita dei frati, doveva essersi sparsa fra gli a abitanti del quartiere, poiché presso gli angoli delle case si raggruppavano delle vecchie comari le quali si additavano, dopo il segno della croce, la taverna d'El Moro.

Don Barrejo fingeva di non accorgersi di nulla e poi si occupava piú di certi tipi, che non aveva mai veduti bazzicare la sua osteria e che passavano e ripassavano, coi feltri inclinati insolentemente su un orecchio e le spade bene in vista.

- Se quei corvi credono di farmi paura, s'ingannano, - borbottò il guascone. - Devono essere tutte spie del marchese di Montelimar, perciò niente vino per loro.

E mantenne la parola. A piú riprese, alcuni di quegli individui sospetti, entrarono nella taverna chiedendo da bere, però don Barrejo, colla scusa che le botti erano state benedette troppo di recente e che i fantasmi potevano ritornare, un po' scherzando e un po' colle brusche li fece sloggiare al piú presto.

Quel giorno la taverna d'El Moro non vendette un bicchiere di vino, poiché la cera burbera del proprietario aveva fatto scappare tutti.

Verso sera, mentre l'uragano si rinnovava colla solita violenza, essendo Panama una città soggetta alle grandi siccità e anche agli interminabili acquazzoni, Panchita lasciava la taverna, mentre il marito chiudeva con fracasso le porte, per avvertire i vicini che non voleva essere disturbato.

Da un armadio aveva tratta una corazza irrugginita ed un elmetto e si era messo a strofinare vigorosamente or l'una ed or l'altro, continuando a borbottare come era sua abitudine.

Quando le credette abbastanza lucide, prese un lume ed una bottiglia di aguardiente, che aveva già prima sturata, e scese nella cantina, per vedere in quali condizioni si trovava il suo Pfiffero.

Scalò la grossa botte, alzò il coperchio e si lasciò cadere entro l'ampio recipiente, badando di non calpestare il povero fiammingo, il quale stava rannicchiato in fondo.

- Ohé, mastro Arnoldo!... - chiamò don Barrejo, scuotendolo vigorosamente. - A che punto siamo della vostra digestione?

Dapprima non ottenne per risposta che un rauco brontolio, poi le labbra del disgraziato, si agitarono come se volessero pronunciare qualche parola.

- Dite su, mastro Arnoldo, - disse il guascone, mettendogli la lampada sotto il viso. - Avete sete?

- Si... da... pere...

- Sempre ai vostri ordini, mastro Arnoldo.

Gl'introdusse in bocca il collo della bottiglia e lo tenne fermo finché gli parve conveniente.

Guardò la bottiglia attraverso la luce: era mezza vuota.

- Eccellente, è vero, mastro Arnoldo? - chiese. - Scommetto che non ne avete bevuto mai di simile da quando siete nato.

Il fiammingo non rispose. Fulminato da una seconda sbornia, si era raggomitolato su sé stesso, ricominciando a russare.

- Lasciamolo riposare tranquillo, - borbottò don Barrejo. - Sarebbe un'imprudenza se gli facessi inghiottire tutto il contenuto della bottiglia.

Risalí rimise a posto il coperchio, badando che non combaciasse, e tornò nella taverna per indossare la corazza e mettersi in testa l'elmetto.

- Eccomi tornato armigero, - disse, con sospiro. - Ah!... Quelli erano bei tempi!... Le draghinasse non avevano il tempo di arrugginirsi.

“Chissà che non ritornino.”

Un quarto d'ora dopo, Panchita, tutta inzuppata d'acqua, era di ritorno, accompagnata da un bell'uomo sui trent'anni, bruno come un indiano, con due baffoni neri che gli davano un aspetto marziale. Don Barrejo non aveva esagerato quando aveva detto a Panchita che il di lei fratello era grosso e forte come un toro, poiché infatti il nuovo venuto doveva possedere certi muscoli, da rompere a pugni le costole anche ad un bue.

- Hai condotto il carretto Rios? - Gli chiese don Barrejo.

- Sì, cognato, - rispose il bell'uomo.

- Sai che cosa dobbiamo fare?

- Mia sorella mi ha spiegato ogni cosa.

- Hai portato con te almeno una spada? L'avventura potrebbe finire maluccio.

- Tu sai che io maneggio meglio il randello e me ne sono portato uno di quei solidissimi.

- Allora sbrighiamoci: Panchita, fa' lume.

I due uomini scesero nella cantina, alzarono non senza fatica la grossa botte e la trasportarono, dopo un lavoro laborioso, su un carretto che stava fermo dinanzi la porta della taverna, collocandovela diritta per non disturbare il sonno del fiammingo.

- Chiudi subito e non aprire a nessuno, - disse don Barrejo a Panchita.

- E tu, quando tornerai? In quale avventura t'imbarchi, Pepito mio? Eravamo cosí tranquilli prima!...

- Quando si tratta d'un tesoro come quello del Gran Cacico del Darien, non vi è da esitare a mettervi le mani sopra, moglie mia, - rispose il guascone. - E poi ho nelle vene il sangue di centomila avventurieri e cominciavo ad invecchiare troppo presto nella mia taverna.

“Ti rimanderò Rios, il quale ti terrà compagnia durante la mia assenza.”

L'abbracciò, poi si mise dietro al carretto, mentre il robusto castigliano tirava piú forte d'un mulo.

La notte non era migliore della precedente. Il vento soffiava con mille ululati attraverso le vie oscure, strappando le larghe foglie delle splendide palme e devastando i giardini, e la pioggia non cessava un solo istante di cadere.

Il fratello di Panchita e don Barrejo, l'uno tirando e l'altro spingendo, erano giunti all'estremità della via, quando s'incontrarono in tre individui, i quali si divertivano a prendersi l'acquazzone, chiacchierando tranquillamente.

- Ohé, dove si va a quest'ora con quel po' po' di vino? - gridò uno dei tre, avanzandosi verso il carretto.

- Al porto, - rispose asciuttamente don Barrejo.

- Si potrebbe assaggiarlo, prima che se lo bevano tutto i peruviani od i cileni?

- È merce sigillata, - ripose il guascone, continuando a spingere.

- Carrai!... - esclamò un altro. - Si fa un buco nel ventre della botte e si succhia. Credi che noi non abbiamo abbastanza piastre per pagarti?

- Io non sono il padrone.

- Cerchi d'ingannarci, poiché abbiamo riconosciuto benissimo in te il proprietario della taverna degli spettri.

- Insomma, che volete? - chiese il guascone, cui il sangue cominciava a muoversi piú rapido.

- Bere, por dios!... - risposero i tre sconosciuti, mettendosi dinanzi a Rios per impedirgli di proseguire.

- Che cosa bere?

- Quello che sta lí dentro, caramba, - rispose una dei tre.

- Se vuoi, alzo il coperchio e ti lancio fra le gambe la bestia che vi è dentro. Vorrei vederti allora, bravaccio, che corsa prenderesti.

“Non sai che lí dentro vi è un giaguaro?”

- Ah!... Baie!... - esclamarono i tre uomini.

- Accostate dunque i vostri orecchi d'asino alla botte ed ascoltate, - disse don Barrejo.

Il fiammingo russava, in quel momento, in modo tale da far tremare perfino le doghe dell'enorme recipiente.

I tre sconosciuti, niente affatto persuasi di quanto aveva detto il padrone della taverna d'El Moro, s'accostarono al carretto ed allungarono le teste verso la botte.

Udendo quel brontolio rauco, balzarono indietro spaventati.

- Carrai!... - gridò uno. - Il padrone porta via gli spettri che infestano la sua cantina!... Gambe, amici!...

- E subito, o lancio il giaguaro, - gridò don Barrejo. - Vale meglio di tutti i satanelli dell'inferno.

I tre uomini si erano slanciati ad una corsa disperata, scomparendo ben presto fra le tenebre.

- Anche gli ubbriachi qualche volta servono a qualche cosa, è vero Rios? - disse il guascone.

- Se non la finivano però li randellavo per bene, - rispose il castigliano, riprendendo la marcia.

- Sai dove si trova la posada del Rio Verde?

- Sí, cognato.

- È là che dobbiamo fermarci per ora.

Dopo venti minuti giungevano, sempre sotto una pioggia dirotta che li bagnava fino alle ossa, dinanzi alla posada del Rio Verde.

Come don Barrejo si era immaginato, erano attesi da Mendoza, Buttafuoco e da Wandoe, i quali stavano chiacchierando sotto il piccolo patio.

Scambiarono appena poche parole, poi il bucaniere e il filibustiere portarono fuori un uomo che pareva non desse piú segno di vita.

- È quello che deve tenere compagnia al Pfiffero? - chiese il guascone, il quale si era affrettato a levare il coperchio alla botte.

- Sí, - rispose il basco.

- Mi sembra morto.

- Lo abbiamo fatto bere perché non gridi.

- Un sistema pericoloso che non consiglierei mai per un uomo ferito.

- Se anche muore, ci rimarrà sempre compare Arnoldo.

Alzarono il preteso figlio del grande di Spagna, lo calarono, colle dovute precauzioni, dentro la botte, stendendolo accanto al fiammingo.

- Al porto ed in fretta, - disse Buttafuoco. - Noi scorteremo il carretto e Wandoe ci guiderà.

- Che bella notte per far viaggiare le botti, - disse don Barrejo, ridendo. - Vorrei essere dentro anch'io col Pfiffero, almeno sarei al coperto.

Sempre sotto la pioggia torrenziale, il carretto si mise quasi in corsa, perché spingeva anche Mendoza, mentre Wandoe segnava la via e Buttafuoco stava alla retroguardia.

Le vie erano deserte ed oscure. Nemmeno le ronde si lasciavano vedere, preferendo certamente qualche vecchio porticato dove potevano almeno ripararsi da quel furioso ed ostinato acquazzone.

L'oceano Pacifico muggiva sempre rabbiosamente, con un crescendo talvolta spaventoso.

Già i cinque uomini cominciavano a scorgere i fanali delle navi ancorate nel porto, oscillanti sotto il battere e ribattere delle onde, e Wandoe aveva già annunciato che stavano per giungere alla casa affittata, quando udirono il rumore di persone lanciate a corsa disperata, che cercavano di raggiungerli.

- Ferma, Rios!... - gridò don Barrejo, levando la draghinassa.

Il robusto castigliano arrestò il carretto e s'armò d'uno di quei nodosi bastoni che usano i contadini della Manica e che valgono talvolta meglio delle spade e delle draghinasse.

- Siamo lontani dalla casa? - chiese Buttafuoco a Wandoe.

- Appena duecento passi, ma sarà meglio che quegli individui che ci danno la caccia non ci vedano entrare. Possono essere anche quelli agenti del marchese che ci hanno seguiti.

- Tonnerre!... Allora picchierò sodo, - disse don Barrejo. - È un po' che ho una voglia pazza di sfogarmi su quei mascalzoni.

- Ed io non meno di te, compare, - aggiunse Mendoza. - Questa botte non doveva giungere a posto senza qualche cattivo incontro.

“Diamine!... È visibile come un faro!...”

Otto o dieci uomini, coperti di ampi mantelli e cappellacci, si erano, dopo una lunga ed affannosa corsa, avvicinati al carro rimasto immobile in mezzo alla via sotto quel diluvio d'acqua.

- Chi siete e che cosa volete? - Chiese Mendoza, avanzandosi verso di loro colla spada in mano.

- Sapere a chi avete rubata quella magnifica botte, - disse uno di quegli sconosciuti.

- Marrano!... Ci prendi per dei ladri!...

- Non si porta via del vino a quest'ora e sotto questa pioggia.

- Che cosa vuoi concludere?

- Che noi abbiamo sete e che vi proponiamo di dare l'assaggio al contenuto.

- Sí, abbiamo sete!... - gridarono tutti gli altri, sbarazzandosi dei mantelli per mostrare che erano armati.

- Ehi, tu che vuoi assaggiare di questo vinello, - disse il guascone rivolgendosi al capo-banda, - vieni a udire qui come borbotta. Poi mi dirai se sarà bevibile.

- Se borbotta sarà vino nuovo e a noi piace molto perché è piú dolce, - rispose lo sconosciuto, avanzandosi verso il carretto ed appoggiando un orecchio alla botte, mentre i suoi compagni ridevano a crepapelle.

- Odi? - chiese il guascone.

- Carrai!... Tu mi burli!... Si direbbe che lí dentro vi sono delle bestie feroci che ringhiano.

- T'inganni, amico: vi sono degli spettri che abbiamo presi in una cantina d'una famosa taverna e che andiamo a gettare in mare.

Un grande scoppio di risa accolse quelle parole.

- Camerati!... - gridò il capo-banda. - Avete paura voi degli spiriti?

- No!... No!... - risposero gli altri ad una voce.

- Fuori le spade e diamo battaglia a quei figli di Satana. Almeno vedremo come sono fatti. Rovesciate la botte!...

- Quale? - chiese Mendoza, avanzandosi a sua volta, seguito da Buttafuoco e da Wandoe.

- Quella che sta sul tuo carretto.

- Lo scherzo è finito, mio caro, e ora si lavora a colpi di spada, se ci secchi ancora.

- Oh!... Il buffone che...

Una terribile piattonata attraverso le labbra gli ruppe la frase e qualche dente insieme.

- A te, canaglia!... - aveva gridato Mendoza.

I compagni del colpito, i quali parevano molto allegri, avevano estratte le spade e si erano gettati confusamente contro i quattro uomini, i quali li aspettavano a piè fermo, appoggiati al carretto. Rios aspettava il momento opportuno per far suonare il suo terribile bastone murcese sulle spalle degli assalitori, i quali vociavano in coro:

- Prendiamo d'assalto le botte!...

Abituati però piú a vuotare boccali di vino che a maneggiare le spade, fino dal primo attacco si trovarono a mal partito. Ci voleva ben altro per tenere testa al guascone, a Mendoza ed al gentiluomo francese diventato bucaniere.

Fra un grandinare di colpi si udirono due o tre grida di dolore, poi due uomini abbandonarono precipitosamente il campo di battaglia, lasciando a terra mantelli e cappelli, segno evidente che se l'erano già prese.

Gli altri però, incolleriti di essere tenuti in iscacco da quei quattro uomini che credevano dei semplici tavernieri, stavano per ritornare all'attacco, quando il forte castigliano entrò in linea.

La faccenda fu breve. Gli aggressori, martellati sonoramente dal randello murcese, dopo una breve resistenza scapparono a gambe levate, lasciando sul terreno perfino delle spade spezzate.

Mentre l'ercole castigliano, aiutato da Buttafuoco, li inseguiva per qualche tratto per impedire un ritorno offensivo, don Barrejo, Mendoza e Wandoe spingevano il carretto a tutta corsa verso il porto, mettendolo al sicuro sotto un oscuro porticato che riparava una modesta casetta da pescatori, situata di fronte ad una delle calate.

 

 

Capitolo VI

LE IMPRESE DEL GUASCONE

 

L'abitazione affittata da Wandoe, perché i suoi amici in caso di pericolo fossero piú pronti ad imbarcarsi, come abbiamo detto, era una modestissima casetta ad un solo piano, composta di tre sole stanze e di un porticato necessario a stendervi le reti.

L'interno era illuminato, la porta aperta, sicché Wandoe, il guascone ed il basco non ebbero da aspettare per entrare.

Un ruvido tipo d'uomo di mare, piuttosto attempato, li aspettava in una stanza che doveva servire ad un tempo da cucina e da tinello. Vedendoli entrare, si tolse dalla bocca la pipa, poi il berretto, dicendo:

- Buena noche, caballeros: siete in casa vostra.

Strinse la mano a Wandoe e se ne andò senz'altro aggiungere, come per far meglio comprendere loro che erano realmente in casa propria.

Mendoza diede uno sguardo all'intorno, visitò le altre due stanze occupate da quattro amache e da molti arnesi da pesca, e tornò verso i compagni, dicendo:

- Ci staremo benissimo qui, finché le spie del marchese non verranno a scovarci. Quel gentiluomo tiene sotto di sé degli uomini che devono possedere un fiuto straordinario.

“Lesti, amici, portiamo dentro il ferito ed il fiammingo. La botte la getteremo piú tardi in mare, perché non possa servire come di traccia.”

Tornarono nel porticato portando un lume, levarono il coperchio e tirarono fuori, con precauzione, il Pfiffero ed il preteso figlio del grande di Spagna, mettendoli su due amache che occupavano la stanza vicina.

In quel momento Rios e Buttafuoco entrarono, l'uno armato del suo formidabile bastone e l'altro sempre impugnando la spada.

- Sono scappati? - chiese Mendoza.

- Io credo che corrano ancora, - rispose Buttafuoco. - La lezione è stata dura, ma l'hanno cercata loro.

“Mio caro don Barrejo, le vostre botti sono troppo pericolose, siano piene di buon vino o vuote.”

- Sono stregate, signor Buttafuoco, - rispose il guascone, ridendo, - e tali sono rimaste anche dopo tutte le benedizioni dei frati.

- Come stanno i nostri prigionieri?

- Russano come canne d'organo, - rispose il basco.

- Sarà meglio rimandare a domani l'interrogatorio. Lasciamoli riposare e cerchiamo anche noi di schiacciare alla meglio un sonnellino.

“Ne abbiamo bisogno.”

Chiusero e sprangarono la porta, fecero una nuova visita alla casetta, poi Buttafuoco e Wandoe si gettarono sulle due altre amache, mentre Mendoza, il guascone e Rios si sdraiavano su un mucchio di vecchie reti.

Al di fuori intanto l'uragano continuava ad infuriare ed il Pacifico scaraventava, dentro il porto di Panama, le sue formidabili ondate, mettendo a dura prova le âncore e le catene dei numerosi velieri che lo ingombravano.

Per Buttafuoco ed il basco fu forse quella la prima notte veramente tranquilla che trascorsero da quando erano giunti nella grande città spagnuola, che allora godeva la fama, come oggi S. Francisco di California, di essere la regina del Pacifico.

Il guascone, abituato ad alzarsi molto per tempo nella sua qualità di taverniere, fu il primo ad aprire gli occhi.

Suo primo pensiero fu quello di fare una visita ai due prigionieri.

Il preteso figlio del grande di Spagna russava ancora; il fiammingo invece si dibatteva come un disperato dentro l'amaca che gli era stata chiusa addosso perché non scappasse, brontolando e facendo delle smorfie cosí ridicole da far scoppiare dalle risa il feroce guascone.

- Compare Arnoldo, mi sembrate un bel pesce dentro la rete, - disse don Barrejo, allentando subito le corde. - Come va dunque la salute, dopo una cosí lunga dormita? Che pessimo soldato sareste voi in guerra!...

- Da pere, - chiese il disgraziato, dopo d'aver dimenata dieci volte la lingua, che doveva essere stata arrostita da quell'abbondante bevuta d'aguardiente.

- Pere qui non ne abbiamo, compare Arnoldo, però vi darò qualche cosa di meglio.

Prese una ciotola di terra, della capacità di un litro, la riempí in un grande vaso poroso che si trovava in un angolo e la porse al povero diavolo, il quale la vuotò senza staccarla un solo istante dalle labbra.

- La va un po' meglio ora, compare Arnoldo? - Chiese ironicamente il feroce guascone.

- Testa malata, - rispose il fiammingo.

- Bevete e dormite troppo voi, mio caro. Avete delle pessime abitudini e io, se fossi il marchese di Montelimar, non vi perdonerei.

- Montelimar... - borbottò il fiammingo, passandosi una mano sulla fronte.

In quel momento, svegliati da quel chiacchierio, entrarono Mendoza, Buttafuoco, Wandoe e Rios.

- L'avete spedita al Perú la sbornia, signor Arnoldo Pfiffer ecc.? - Chiese Mendoza. - Sono ben lieto di vedervi finalmente in ottima salute.

Il fiammingo, vedendo tutte quelle persone, aggrottò la fronte e divenne pallidissimo.

- Svegliate l'altro, don Barrejo, - disse Buttafuoco.

- Perché? - chiese sotto voce Mendoza.

- Per accertarmi se si conoscono.

- Lo sospettate?

- Scommetterei il mio vecchio e fedele archibugio, che mi ha salvato cento volte la vita, contro una navaja da due piastre.

- Lasciate fare a me, allora, signor Buttafuoco.

Si avvicinò al ferito e cominciò a fargli il solletico sotto la gola, provocandogli subito il singhiozzo.

Il preteso figlio del grande di Spagna era stato un po' ubbriacato, affinché si mantenesse tranquillo dentro la botte, però non aveva preso la solenne sbornia del fiammingo, sicché dopo tre o quattro sbadigli e molti singhiozzi, si decise finalmente ad aprire gli occhi.

Mendoza, che lo spiava attentamente, lo sollevò, perché potesse vedere il fiammingo che stava seduto nell'amaca vicina.

I due spioni del marchese di Montelimar si guardarono un momento, stupiti di trovarsi insieme; poi dopo d'aver fatta una brutta smorfia, non poterono frenare due imprudenti esclamazioni:

- Aramejo!...

- Stiffel!...

- Datevi il buon giorno, dunque, - disse Buttafuoco. - Siete vecchie conoscenze, a quanto pare.

Il fiammingo e il preteso figlio del grande di Spagna masticarono fra le labbra qualche cosa. Certo non dovevano essere contenti di essere caduti nella trappola cosí abilmente tesa da Buttafuoco.

- Chi è che si chiama Aramejo? - chiese il bucaniere, ridendo.

Il ferito si guardò bene dal rispondere e fissò gli sguardi sul soffitto, per contare forse le ragnatele che vi si trovarono.

Il fiammingo invece preferí sbadigliare, mostrando certi denti degni di non sfigurare in bocca ad un giovane squalo.

- Orsú, - disse Buttafuoco, ironicamente. - Vedo che vi siete riconosciuti. Sarebbe ormai troppo tardi per negarlo.

“Mastro Arnoldo, date dunque la mano a questo figlio d'un grande di Spagna. Sono ben lieto che voi abbiate delle buone relazioni fra l'alta società panamese.”

Il fiammingo sgranò gli occhi, guardando due o tre volte il suo compagno di sventura, poi proruppe in una fragorosa risata.

- Un crande di Spagna!... - esclamò.

- Ohé, mastro Pfiffero, siete allegro stamane, - disse il guascone. - Vi preferisco però cosí. Il mio vecchio aguardiente fa talvolta di questi miracoli.

Il ferito aveva guardato il fiammingo ferocemente, seccato di essere stato tradito cosí presto, però non pronunciò alcuna parola.

- Signori, - disse Buttafuoco, rivolgendosi verso i due prigionieri, - vi avverto che il Consiglio si raduna e che sarà per voi un terribile Consiglio di guerra, perché noi siamo uomini risoluti ad affogarvi in mare con una pietra al collo se vi ostinerete a non parlare.

“La parola a voi, innanzi tutto, don Aramejo, siate o no il figlio d'un crande di Spagna, come ha detto mastro Arnoldo.

“Non dimenticate che giuocate la vostra pelle.

“Che cosa avete fatto della señorita che siete andato a prendere alla posada del Rio Verde adoperando un biglietto che portava la mia firma?”

- Señor... - balbettò il ferito, - che cosa dite voi? Io non so di quale señorita intendete parlare.

- Ehi, furfante, - disse Wandoe, facendosi innanzi. - Vorresti negare di riconoscermi? Guardami bene in viso!

- Mio pofero crande di Spagna, siamo presi, - disse mastro Arnoldo, rivolgendosi al ferito. - Gettate fuori tutto o perdere tutta la pelle, amico.

Il ferito masticò a mezza voce una bestemmia, poi, rivolgendosi risolutamente verso Buttafuoco, gli chiese:

- Che cosa volete sapere, voi?

- Voglio sapere, mio caro ladro di signorine, dove avete condotto la señorita che siete andato a prendere a nome mio, capite bene, alla posada del Rio Verde, - rispose il bucaniere piccato dall'insolenza del prigioniero.

- E quando vi avrò detto che l'ho condotta dal marchese di Montelimar, il quale vantava su di lei dei diritti, avendola allevata, che cosa vorreste concludere?

- Che tu sei il piú grande furfante che io abbia incontrato fino ad oggi, e che io sono un uomo da non lasciarmi intimorire da te, spavaldo.

- Volete ammazzarmi? Fatelo pure!

- La morte talvolta è troppo dolce, - rispose Buttafuoco, con voce minacciosa. - Qui siamo isolati e potrei farti subire tali tormenti, da rimpiangere il giorno che sei nato.

“Sai già di che cosa sono capaci i bucanieri ed i filibustieri, e noi tutti apparteniamo ai terribili Fratelli della Costa, che tanto male hanno fatto ai tuoi compatrioti al di qua e al di là dell'istmo.

“Se vuoi provare la nostra ferocia, noi siamo pronti.”

Il ferito, udendo quelle parole, aveva provato un sussulto ed era diventato livido. Solamente il nome dei filibustieri provocava su tutti gli spagnuoli per quanto coraggiosi fossero, un disastroso scoraggiamento.

- Mi hai capito? - chiese Buttafuoco, dopo qualche istante di silenzio.

- Sí, señor, - rispose il prigioniero, con meno superbia.

- Allora risponderai alle domande che ti farò. Chi ti ha dato il mio nome?

- Il marchese di Montelimar.

- Da chi aveva saputo che io ero giunto a Panama colla contessina di Ventimiglia?

- Questo potreste domandarlo a Stiffel.

- Ah!... Io non so nulla affatto, - si affretto a dire il fiammingo.

- Il silenzio è d'oro, - sentenziò gravemente Mendoza.

- Compare Pfiffero è prudente, - aggiunse don Barrejo.

Il fiammingo approvò con un grazioso sorriso che aveva però molta ironia insieme.

- Voi, bricconi, non direte mai nulla, o per lo meno direte soltanto ciò che vi potremo strappare dalle labbra, - disse Buttafuoco. - Non giuocate a scarica-barile, perché la pazienza non è mai stata il forte dei bucanieri.

- Lo sappiamo, - disse il fiammingo.

- Allora parlate, prima di farvi gettare in mare dopo d'avervi arrostite le piante dei piedi.

- Aramejo, siamo presi, - ripeté il Pfiffero. - Canta!... Canta!...

Il preteso figlio del Grande di Spagna assunse un'aria da bravaccio, non ostante la sua ferita che gli doveva dare non pochi dolori, poi, dopo essersi alzati i baffi, chiese:

- Ebbene, che cosa volete sapere ancora da me? Non ve l'ho già detto che la señorita l'ho condotta dal marchese di Montelimar? Mi pare che basti.

- E dove? - chiese Buttafuoco.

- Diavolo!... Nel suo palazzo!...

- A quale scopo?

- Ah!... Io non posso conoscere i segreti del mio padrone, - rispose Aramejo. - Mi si danno degli ordini ed io obbedisco senza discuterli.

“Potrà saperne di piú il mio compagno.”

- Verrà la sua volta. Dammi ora un'altra spiegazione.

- Non ne ho altre.

- Perché ci hai provocati ed assaliti presso la posada del Rio Verde?

- Perché avevo ricevuto l'ordine di tentare di stoccarvi.

- Ci conoscevi dunque?

- Vi avevo seguiti dopo la vostra uscita dalla taverna d'El Moro - rispose lo spadaccino.

- E tu ti credevi tanto forte da spedirci all'altro mondo, senza lasciarci il tempo di farci firmare il passaporto da compare Belzebú? - disse Mendoza.

- Speravo e, come avete veduto, mi sono ingannato, perché mi sono presa una magnifica stoccata che per un pelo non ha mandato invece me all'altro mondo.

- Passiamo ad interrogare messer Pfiffero, - disse il guascone. - Quell'uomo lí deve sapere qualche cosa di piú di questo imprudente bravaccio.

Il fiammingo sorrise ironicamente, senza darsi la cura di dissimularlo.

Il terribile guascone, che lo teneva d'occhio, scoppiò come una granata.

- Ehi, compare Pfiffero! - gridò. - Non ridete sotto i baffi in presenza nostra, corpo di tutti i tuoni della Francia e della Spagna!... Se credete di preparavi a prenderci a gabbo, vi dico subito che il vostro giuoco potrebbe finire malissimo.

“Rios, accendi il fuoco e scalda un pentolone d'acqua e bada che sia ben calda. Giacché questo Pfiffero m'ha bevuto, senza pagare una piastra, Xeres, Alicante e aguardiente finissimo, se non parlerà chiaro, gli faremo ora trangugiare una bottiglia piena d'acqua bollente e gli cucineremo gl'intestini.”

- Misericordia!... - mormorò Mendoza, frenando a stento uno scoppio di risa. - Questo don Barrejo è diventato piú feroce d'un cannibale!...

- Va', Rios! - comandò il guascone, con un gesto tragico. - Ed ora, signor Buttafuoco, interrogate pure.

“Lo sorveglio io questo Pfiffero, e guai se s'imbroglia.”

Il viso del fiammingo era diventato oscuro. Gettò su Buttafuoco una sguardo inquieto, chiedendogli con voce tremolante:

- Che cos'è dunque che si vuol sapere ora da me? Io non ho avuto alcuna parte nel rapimento della señorita.

“Prendetevela con Aramejo.”

- Tu devi saperla piú lunga del tuo compagno, - disse Buttafuoco, - e spero strapparti delle informazioni che ci saranno preziosissime.

“Il marchese di Montelimar era stato avvertito del nostro arrivo a Panama?”

- Sí, - rispose il fiammingo, terrorizzato dagli occhi terribili del guascone fissi su di lui.

- E come?

- Voi non avevate un compagno?

- Sí, un uomo che era stato molti anni ai servigi del Gran Cacico del Darien, e che ci lasciò prima di sbarcare sul continente.

- Per andare dove? - chiese il fiammingo, un po' ironicamente.

- Per recarsi al Darien ad avvertire quelle tribú dell'imminente arrivo della señorita.

- O per venire invece di nascosto a Panama per tradirvi?

- Che cosa dici tu? - chiesero, ad una voce, Buttafuoco e Mendoza, colpiti in pieno petto da quell'inattesa rivelazione.

- La verità, - rispose mastro Arnoldo, con voce grave. - Quell'uomo doveva aver saputo che il marchese di Montelimar da anni mirava ad impadronirsi del tesoro del Gran Cacico e vi ha traditi, dietro la promessa di avere un terzo del tesoro.

- Ah!... Cane dannato!... - esclamò Mendoza, furibondo. - Ed io l'avevo creduto un onesto bucaniere!... Ora comprendo tutto.

- Ed io comprendo che l'eredità del Cacico è in pericolo, - aggiunse don Barrejo. - Ah!... Quel Montelimar sa condurre a meraviglia i suoi affari!

- Non mi aspettavo un colpo simile, - disse Buttafuoco, Il quale pareva scombussolato, - e non avrei mai supposto che un vecchio bucaniere fosse capace di compiere un simile tradimento. È vero che la canaglia abbonda fra le nostre file!...

- Che cosa faremo ora, signor Buttafuoco? - chiese il basco.

- Non perdiamo la testa per cosí poco, - rispose il bucaniere. - Quell'uomo può essere pericolosissimo, però io credo che non sia ancora giunto al Darien. E poi, senza la contessina di Ventimiglia non si potrà far nulla da parte di chicchessia.

- L'ha in mano il marchese, signor Buttafuoco, - disse il guascone.

- Non sono però ancora partiti.

- Chi lo sa?

- Oh!... Signor Arnoldo, - disse Buttafuoco, con feroce cipiglio, - avete da narrarci delle altre cose molto interessanti. Don Barrejo, tenete pronta qualche bottiglia d'acqua bollente.

- Ve ne sono dieci in cucina, - rispose il guascone. - Rios non perde il suo tempo.

- Allora a noi due, messer Arnoldo.

Il disgraziato fiammingo era diventato terreo, mentre invece il suo compagno sogghignava sotto i baffi.

- In che cosa posso esservi ancora utile? - balbettò.

- Il marchese quando partirà pel Darien? Voi dovete saperlo.

- Appena le truppe spagnuole si saranno ammassate in buon numero attraverso l'istmo, - rispose il fiammingo. - Il Darien deve finire la sua indipendenza.

- E la contessina?

- So che il signor marchese ha dato gli ordini opportuni perché un galeone la trasporti, fra qualche settimana, alla baia di David, per risparmiarle un lungo e faticoso viaggio in terra.

- Il nome di quel galeone? Tu devi certamente saperlo, se sei dentro gli affari del tuo padrone.

- Il San Juan.

- È giunto già in porto?

- Non ancora; si aspetta dal Perú con un carico di verghe d'oro.

- Buonissime per i filibustieri di Raveneau, - borbottò Mendoza. - Ah!... Se potessero metterci sopra le mani, che magnifico colpetto! Terremo nota di questo affare.

- Don Barrejo, - disse Buttafuoco, - tenete a mente il nome di quel galeone.

- Me lo pianto nel cervello con un chiodo lungo quanto la mia draghinassa, - rispose il guascone.

- Ora lasciamo in pace questi uomini, pel momento, - riprese il bucaniere. - Ne sappiamo piú di quanto speravo.

“Venite, amici.”

Si erano radunati in cucina, dove il bravo Rios, credendo in buona fede che il suo terribile cognato volesse cucinare le budella dei due prigionieri, si affannava a soffiare sul fuoco per far bollire un pentolone monumentale pieno d'acqua.

- Il Consiglio di guerra apre l'udienza, - disse don Barrejo, con quel suo fare fra il comico ed il serio. - Il signor Buttafuoco, nominato ad unanimità presidente, ha la parola.

- Sarò breve, - rispose il bucaniere. - Qui si tratta di non perdere tempo e di raggiungere a Taroga Raveneau de Lussan ed i suoi filibustieri, per arrestare la nave che dovrà portare la contessina di Ventimiglia alla baia di David.

“Senza la señorita noi non potremmo fare assolutamente nulla e tanto varrebbe allora rinunciare alla spedizione.”

- Noi siamo tutti pronti a partire, - disse Mendoza. - Verrai anche tu, è vero, don Barrejo?

- Dove ci sono da menare colpi di draghinassa accorro sempre, - rispose il terribile guascone.

- E Panchita?

- Mi aspetterà sotto la sorveglianza di mio cognato Rios.

“Sono o non sono padrone della mia libertà, io, tonnerre!...”

- Bisognerebbe però trovare il modo di avvertire la señorita, - disse Buttafuoco.

- Oh!... Me ne incarico io, - disse don Barrejo.

- Cosí presto? - chiese Mendoza.

- Tu sai, basco, che io ho una fantasia fervidissima.

- Bada di non farti prendere.

- Colle mie gambe!... Sfido tutte quelle degli armigeri del marchese. Lasciate fare a me e vi garantisco che prima di questa sera la contessina avrà nostre notizie e che noi avremo anche le sua.

“Signor Buttafuoco, volete prepararmi qualche bigliettino? Ho una matita a vostra disposizione.”

- Ed io non manco di carta, - rispose il bucaniere. - Mi aspetto però da voi un vero colpo di testa, degno di un guascone.

- Quando ci va di mezzo l'onore della grande Guascogna si possono affrontare mille pericoli e compiere mille miracoli.

- Noi intanto ci occuperemo per noleggiare qualche caravella per raggiungere i filibustieri di Taroga. Tu, Wandoe, conosci molti marinai.

- L'affare non sarà difficile, - rispose il padrone della posada, - non so però come farete a lasciare il porto. Gli spagnuoli sono diventati eccessivamente curiosi, dopo che Raveneau de Lussan li guarda dal Pacifico, e nessun veliero può uscire senza uno speciale permesso od un'alta raccomandazione.

- Tonnerre!... - esclamò il guascone. - Non abbiamo forse con noi il Pfiffero ed il figlio del grande di Spagna? Avranno delle carte, suppongo, che accorderanno loro ampia libertà di agire in nome del marchese di Montelimar.

“Assoldiamo quelle due canaglie promettendo loro una parte dell'eredità del Grande Cacico del Darien. Piú tardi penseremo noi a gettarli in bocca ai pesci-cani del Pacifico.”

- Decisamente questo guascone è diventato un antropofago, - disse Mendoza. - Ed io che avevo creduto che dopo il suo matrimonio fosse diventato uno zuccherino candito!

- Approvate le mie idee? - chiese don Barrejo, il quale non aveva fatto attenzione alle parole del basco.

- Pienamente, - rispose Buttafuoco, il quale aveva scritto rapidamente alcune righe su un pezzo di carta strappato da un libriccino. - Contiamo di lasciare Panama questa sera: pensateci voi a cavarvela come meglio potrete.

- Ed io vi prometto di darvi una prova di quanto sanno fare i guasconi, quando vogliono, - rispose don Barrejo. - Rios, attaccati al carretto e riconduci la botte alla taverna.

“Ora è giorno e non avremo piú da fare con degli ubriachi insolenti. Amici, a questa sera, prima del tramonto.”

Si gettò sopra la corazza il mantellone di panno oscuro, si fissò bene al fianco la draghinassa, e lasciò la catapecchia, insieme al robusto castigliano, il quale non si era dimenticato di armarsi del suo formidabile randello. Il meraviglioso porto di Panama, il piú bello ed il piú ampio che gli spagnuoli possedessero nell'America centrale, e centro d'un attivissimo commercio col Messico, col Perú e col Chilí, i quali inviavano al Presidente dell'Udienza Reale i loro galeoni carichi di verghe d'oro, era tutto in movimento.

I velieri, sempre numerosissimi, non ostante la vicinanza dei filibustieri, spiegavano le loro ampie vele per asciugarle al sole o per prendere il largo, mentre sulle comode calate, turbe di meticci e d'indiani s'affaccendavano intorno a vere montagne di merci pronte ad essere imbarcate pei porti del Perú.

Sull'avamporto, due grosse fregate, armate di una quarantina di cannoni ciascuna, bordeggiavano, facendo di quando in quando, delle punte al largo, per prevenire una qualche non improbabile sorpresa da parte dei filibustieri annidati solidamente a Taroga, ma sempre pronti a piombare sui velieri isolati ed espugnarli colla loro solita bravura.

La filibusteria, che tanti mali aveva recato agli spagnuoli, si spengeva lentamente, però i suoi ultimi campioni non valevano meno di Montbars, di Pietro l'Olandese, di terribile fama, di Wan Horn, di Laurent e di Morgan, che per circa un secolo avevano fatto tremare e piangere l'orgogliosa Spagna.

Rios ed il guascone, dopo essersi aperto un varco fra la folla dei mercanti e degli armatori che affluiva verso il porto, risalirono verso il centro della città, dove sorgevano i piú grandiosi palazzi dei signori di Panama, fra cui quello del marchese di Montelimar, che don Barrejo conosceva benissimo.

Giunti a questo punto si separarono.

- Dirai a tua sorella che questa sera ci rivedremo e che si prepari per un po' di tempo a non vedermi piú, - aveva detto il guascone. - Bisogna curarli i propri affari, tonnerre!...

- Va bene - aveva risposto semplicemente il robusto castigliano, e se n'era andato col suo carretto e colla sua botte monumentale, la quale non mancava, per la sua mole, di attirare gli sguardi di tutti i passanti.

Don Barrejo percorse diverse vie, finché sbucò su una vasta piazza, fiancheggiata da bellissimi palazzi.

Da tutte le porte uscivano, in gran numero, cuochi, domestici, garzoni, e delle belle meticce per fare le spese mattutine.

Don Barrejo si rialzò i baffi un po' grigiastri, si mise il feltro piumato sulle ventiquattro, aprí il mantellone per mettere ben in vista la sua corazza, diventata press'a poco lucente, e l'impugnatura della sua formidabile draghinassa, e si mise a passeggiare, con sussiego, dinanzi ad un palazzone sul cui frontone campeggiava lo stemma dei marchesi di Montelimar, formato da un monte verde come un ramarro, sorgente da un mare bluastro su fondo dorato.

- Aspettiamo qualche gallinella, - disse. - Tonnerre!... Sono ancora un bell'uomo!... Se ho guadagnato il cuore della piú splendida taverniera di Panama, potrò fare ancora una breccia nel cuore di qualche cuoca o di qualche servetta.

Passeggiava da un quarto d'ora dinanzi al palazzo, sbirciando un po' insolentemente gli alabardieri che vegliavano dinanzi alla grandiosa gradinata di marmo, quando vide uscire, agile come un uccello, una bellissima mulatta, dagli occhi ardenti ed i capelli crespi e nerissimi, portando infilato in un braccio nudo e rotondo un grosso paniere.

- Ecco l'affar mio, - disse il guascone. - Ora pesco il mio pesciolino.

 

 

Capitolo VII

SULL'OCEANO PACIFICO

 

Don Barrejo ai suoi tempi, malgrado le sue lunghissime gambe, era stato, nella sua qualità di armigero, un gran conquistatore di donne, quindi non disperava affatto di condurre a buon porto i suoi disegni.

Adocchiata la bella mulatta, allungò il passo ed in pochi momenti le fu alle spalle, dicendole:

- Eh!... Eh!... Dove correte, mia bella?

La mulatta si voltò, guardò il guascone, poi, come affascinata dall'aria marziale di lui o dallo splendore della corazza, gli rispose:

- Al mercato, caballero.

- Chiamatemi conte, perché mio padre è un grande di Spagna.

- Sí, signor conte.

- Sei ai servigi del marchese di Montelimar? - le chiese don Barrejo, mettendosele a fianco.

- Sí, signor conte.

- Posso offrirti qualche cosa? La mattina è fresca, e un buon bicchiere di mezcal non farà male né a me, né a te.

- Oh!... Signor conte!... - esclamò la mulatta.

- Insieme ad un gruzzolo di piastre luccicanti, - proseguí il furbo guascone.

- Che cosa volete da me, signor conte? - chiese la mulatta, stupita di trovarsi a fianco d'un cosí grande gentiluomo.

- Signor conte, - disse poi, - io non sono che una povera serva mulatta, che non ha mai avvicinato persone di cosí alto grado.

- Ebbene sono io che ti avvicino a me, - rispose don Barrejo, posando fieramente la sinistra sull'impugnatura della draghinassa, perché gli era parso che qualche passante lo avesse guardato sorridendo ironicamente. - Pelli bianche dal sangue azzurro o pelli dorate dal sangue multicolore, per me fanno lo stesso, perché nelle mie vene non ho una goccia di sangue castigliano.

“Come ti chiami?”

- Carmencita.

- Bel nome, tonnerre!...

Passavano in quel momento dinanzi ad un negozio mezzo albergo e mezzo bottiglieria. Il guascone prese per una spalla la bella mulatta e, senza tanti complimenti, la cacciò dentro, comandando un boccale di mezcal e delle focacce dolci.

- Signor conte, - si provò a dire la cuciniera del marchese.

- Qui dentro chiamami semplicemente Diego, - rispose don Barrejo. - I figli dei grandi di Spagna bisogna che qualche volta conservino l'incognito.

Prese il boccale colmo di quel vino dolciastro e piccante, ricavato dall'alcool, empí le tazze, poi offrí galantemente alla mulatta i pasticcini inzuccherati.

- Odimi mia cara, - disse poi, abbassando la voce. - vuoi guadagnare dieci piastre?

- Non ne prendo tante in un mese di lavoro, signor...

- Diego, ti ho detto. Allora ne aggiungeremo altre dieci cosí faranno venti. Spero che saprai contare.

- Voi gettate i denari dalla finestra, signor... Diego.

- Che cosa sono venti piastre pel il figlio d'un grande di Spagna? Mio padre deve possederne un numero sterminato che un giorno passeranno attraverso le mie mani.

- Che cosa devo fare per guadagnare la somma che mi promettete, mio gentiluomo? - chiese la mulatta, la quale, pur chiacchierando, sgretolava coi suoi magnifici denti i pasticcini zuccherati, innaffiandoli con dei buoni bicchieri di mezcal.

- Rispondere semplicemente alle mie domande, - rispose il guascone.

- Allora potete interrogarmi anche fino a questa sera.

- Non voglio privare il marchese delle sue belle cuoche. Stammi bene attenta ora, Carmencita.

- Parlate, signor Diego.

- Sai tu che sia stata condotta al palazzo, due giorni or sono, una bellissima señorita che ha la pelle leggermente abbronzata?

- Sí, signor Diego. Sono io che le fornisco i pasti.

- Tonnerre!... Questo si chiama aver fortuna!... È ben guardata?

- Ha sempre due alabardieri dinanzi alla sua porta.

- Tu però puoi entrare liberamente quando vuoi?

- Sí, signor Diego.

- Vedi, mia cara Carmencita, io sono pazzamente innamorato di quella señorita e anche lei mi vuole un gran bene, ma mio padre si è messo di mezzo e me l'ha fatta portar via dal Marchese di Montelimar.

- Oh!...

- Non la vedi mai piangere il suo perduto amore?

- Veramente no, - rispose la mulatta.

- È orgogliosa la señorita, e non vorrà farsi vedere dinanzi agli altri.

- Sarà come dite voi, signor Diego.

- Ho da darti un incarico che costerà a me le venti piastre ed a te nessuna fatica, - disse il guascone, levando da un tasca il biglietto datogli da Buttafuoco. - Non hai da fare altro che consegnarglielo, senza che nessuno ti veda.

- È una cosa semplicissima.

- La señorita ti darà un altro biglietto che tu mi porterai qui prima che il sole tramonti. Ora eccoti le prime dieci piastre; le altre ad affare finito.

“Sei contenta, mia bella Carmencita?”

- Siete generoso, signor conte.

- Eh!... Come un conte, - rispose il guascone, sorridendo. - Suvvia, da' un ultimo colpo di denti a questi pasticcini che fanno piú bene a te che a me, poi vattene subito perché il marchese non sospetti qualche cosa.

- Non si occupa delle sue serve.

- Non si sa mai!

La bella mulatta diede fondo ai dolci, bevette qualche altro bicchiere di mezcal, poi, dopo aver promesso di trovarsi all'appuntamento, se ne andò col suo gran paniere infilato nel braccio.

- Tonnerre!... - mormorò il guascone, quando fu solo, stropicciandosi allegramente le mani. - Anche fra le serve si trovano delle brave persone.

“Orsú, andiamo a passare la mia ultima giornata insieme a Panchita, poiché domani noi non saremo piú certamente a Panama.

Tonnerre!... Era tempo che don Barrejo si svegliasse dal suo lungo sonno matrimoniale, e che riprendesse la sua vita di avventuriero.

“Non ero già nato per fare il cantiniere.”

Gettò sul tavolo una piastra ed uscí senza attendere il cambio, fra gli inchini dei garzoni, stupiti di tanta generosità. Già, si capisce, essi ignoravano la storia dell'eredità del Gran Cacico del Darien sulla quale il guascone contava di rifarsi ampiamente.

Soltanto verso il mezzodí don Barrejo fece la sua entrata nella sua taverna, proprio nel momento in cui Panchita e Rios stavano per mettersi a tavola.

- Salute e buon appetito alla compagnia, - disse, sbarazzandosi del ferraiolo. - Com'è che non vi è alcun bevitore, moglie?

- Ah!... Sei tu, finalmente!...

- Credevi che fossi un altro, moglie? Vanno male gli affari? La mia taverna è diventata un deserto.

- Quella maledetta botte ha spaventato tutti, - rispose Panchita. - L'hanno veduta uscire ieri sera e rientrare stamane e nel quartiere si sussurra che tu alla notte vai ad affogar gli spettri che accalappi nella cantina.

Il guascone proruppe in una risata.

- Non mi ero mai creduto capace di tanto, - disse. - Vuoi un consiglio, Rios? Va' a gettare in mare quella dannata botte che minaccia di diventare la nostra rovina.

“Quando non la vedranno piú ritornare si persuaderanno che i satanelli, i diavoletti, i fantasmi ed i folletti se ne sono andati e verranno ancora a bere il buon Xeres d'El Moro.

“Orsú, facciamo il nostro ultimo pranzo in compagnia, moglie.”

- Come, parti?

- Sono tre giorni che continuo a dirtelo. Siete un po' duri d'orecchio, voialtri castigliani?

- E dove vai?

- Fra gl'indiani, a raccogliere l'eredità del Gran Cacico del Darien. Mia cara, ritornerò con una montagna d'oro ed apriremo un magnifico albergo come non se ne sono mai veduti in Panama.

- E se ti uccidono?

- Chi? Uccidere don Barrejo? I guasconi non si lasciano ammazzare come polli, mia cara, ricordatelo. E poi quando ci sono con me Mendoza e Buttafuoco si può star tranquilli.

“Scommetto che verrebbe volentieri con me anche Rios.”

- Certo, se si trattasse di combattere solamente contro gli indiani, - rispose l'ercole castigliano.

- Ah!... Questo non si sa, e perciò ti lascio a far la guardia a mia moglie. Bevi, mangia ed intasca, senza contare, ché l'eredità del Cacico pagherà tutto.

“Pranziamo e basta colle chiacchiere, per ora. Ho la lingua quasi secca.”

Pranzò allegramente, senza piú accennare alle sue future conquiste, occupò il pomeriggio a rimettere in ordine la cantina insieme a Rios, poi verso il tramonto prese le sue pistole e disse a Panchita che lo guardava con sorpresa:

- Addio, mogliettina: ritorno il guascone dei bei tempi.

- E quando rimarrai assente?

- Chi lo sa? Potrebbe dirtelo solamente l'anima del Gran Cacicco del Darien.

- E se tu non ritornassi piú?

- Ti rimariterai, - rispose semplicemente don Barrejo.

L'abbracciò affettuosamente, strinse la mano al cognato e se ne andò tranquillamente, canticchiando fra i denti:

 

Las doncellas son de oro

Las casadas son de plata

Y las viudad son de cobre

Y las viejas de hora de lata.

 

(Le donzelle sono d'oro

Le donne maritate d'argento

Le vedove son di rame

E le vecchie di latta)

 

Affrettò il passo e giunse ben presto nella posada dove l'aspettava la mulatta.

La giovane vi era di già e stava sgretolando altri pasticcini e bevendo dell'altro mezcal, certo che il suo generoso amico non si sarebbe fatto pregare per pagare il conto.

- Dunque, Carmencita? - chiese il guascone, abbracciandola.

- Tutto fatto, signor conte.

- Corpo di Giove Pluvio!... Tu sei una perla!... Il biglietto?

- Consegnato alla señorita.

- E non ti ha dato nulla per me?

- Un altro biglietto, - rispose la mulatta, levandosi dal corsetto di percallo variegato un piccolo piego.

Il guascone l'afferrò, l'aprí, vi gettò sopra gli occhi, borbottò delle parole incomprensibili, per non farsi credere un ignorante, poi se lo mise in tasca, mormorando:

- Qui ci vogliono gli occhi di Buttafuoco o quelli del curato del mio villaggio, se risplenderanno ancora, cosa di cui dubito assai, poiché il sant'uomo era già vecchio ed anche in Guascogna purtroppo si prendono dei passaporti per l'altro mondo.

Mise dinanzi alla mulatta le altre dieci piastre, vuotò un paio di bicchieri di mezcal, pagò il conto e si alzò, dicendo:

- Noi ci rivedremo ancora, mia bella. Dirai alla señorita che tutto va bene.

“Addio, e non commettere imprudenze.”

E, come aveva lasciato sua moglie, piantò in asso la mulatta e se ne andò sempre canticchiando fra i denti:

 

Las doncellas son de oro...

 

Quando giunse al porto la notte era già calata ed il cannone aveva tuonato per segnalare la sospensione delle partenze.

Trovò Buttafuoco e Mendoza in grandi faccende. Avevano fatto acquisto di archibugi, di pistole e di munizioni e stavano impaccandole.

- Ecco la risposta della señorita, signor Buttafuoco, - disse il guascone, piombando nella casetta come una bomba. - Come vedete, io ho mantenuta la mia promessa.

- Comincio a sospettare che siate parente del diavolo, - rispose il bucaniere.

- Un po' piú, un po' meno tutti i guasconi sono imparentati con compare Berlicche, - rispose don Barrejo. - È una cosa che si sa anche in Biscaglia, è vero, Mendoza?

Buttafuoco aveva aperto rapidamente il biglietto della contessina di Ventimiglia, e d'un colpo d'occhio l'aveva scorso.

- I nostri prigionieri hanno detto la verità, - disse. - Fra otto o dieci giorni il marchese la farà imbarcare sul San Juan per condurla alla baia di David insieme all'avanguardia della spedizione.

- Fulmini di Biscaglia!... - esclamò Mendoza. - Abbiamo appena il tempo di raccogliere i filibustieri di Raveneau de Lussan.

- Non ci manca che d'imbarcarci poiché tutto è pronto, - rispose Buttafuoco. - Domani mattina saremo ben lontani da Panama.

- Si parte? - esclamò il guascone.

- Wandoe insieme al fiammingo hanno noleggiato oggi una piccola caravella che si dice dovrà trasportarci in California, mentre quando saremo in mare andremo dove vorremo, se l'equipaggio non vorrà servire da colazione o da cena ai pesci-cani.

- Quanti sono a bordo?

- In sei, compreso il capitano.

- Se faranno i prepotenti con quattro colpi di draghinassa pareggeremo il numero, - disse il guascone. - Chi viene con noi?

- Il tuo amico Pfiffero e il figlio del grande di Spagna, - disse Mendoza. - Ormai si sono decisi ad abbandonare il marchese di Montelimar e ad associarsi a noi.

“Uno è fiammingo e l'altro portoghese, quindi potranno menare stoccate sugli spagnuoli, se si presenterà l'occasione, senza che la loro coscienza abbia nulla che dire.”

- Sono già a bordo?

- Sí.

- Con Wandoe?

- Quello ha la sua posada, mio caro don Barrejo, e di avventure non ne vuole piú sapere.

- Quello non è né un basco né un guascone, - rispose il taverniere, con disprezzo. - Forse che io non ho lasciato mia moglie per correre attraverso il mondo in cerca di gloria e di stoccate?

- Forse eri stanco della castigliana, - disse il basco, ridendo.

- Oh no!... - protestò il guascone. - Io amo la mia donna, ma preferisco le avventure.

- Partiamo, - disse in quel momento Buttafuoco, il quale aveva terminato di fare i suoi pacchi.

- Eh, signor mio, non avete pensato ad una cosa però!

- A quale, don Barrejo?

- Il cannone ha già tuonato e l'uscita dal porto è chiusa per tutti i velieri.

- Non per quelli però che portano a bordo un agente segreto del marchese di Montelimar, - rispose Buttafuoco. - Abbiamo pensato a tutto noi, e questa notte lasceremo Panama.

- Quand'è cosí possiamo cominciare la nostra vita avventurosa, - rispose don Barrejo. - Sono sei anni che non mi ritrovo fra i filibustieri e che non provo il mare.

- Allora prenditi degli aranci, amico, - disse Mendoza. - Sai che le onde giuocano talvolta dei brutti scherzi allo stomaco.

- Il mio è di ferro, - rispose don Barrejo.

Presero i pacchi contenenti le armi e le munizioni, chiusero la porta e si diressero verso la gettata, dinanzi alla quale ondeggiava agilmente una piccola caravella di ottanta o cento tonnellate, colle due vele latine e le quadre del trinchetto già sciolte.

Ricominciava a piovere, però l'oceano non muggiva piú rabbiosamente, ed una fresca brezza soffiava dalla parte di terra.

Mastro Arnoldo fu il primo che ricevette i tre formidabili avventurieri con un “pona sera” dolcissimo.

Un uomo barbuto e molto abbronzato, gli stava dietro: era il comandante.

- Tutto fatto, compare? - chiese Buttafuoco, al fiammingo.

- Fia libera per foi, - rispose il fiammingo. - Fanale ferde segnare permesso.

- Dov'è il tuo compagno?

- In una cabina: molto malato Aramejo.

- Se non guarirà, offriremo una colazione agli squali dell'oceano Pacifico, - disse don Barrejo. - Il tuo amico, compare Pfiffero, non ha nemmeno una goccia di sangue dei grandi di Spagna.

- Aho!... - fece il fiammingo, il quale credette opportuno di non aggiungere nessun'altra parola.

I cinque marinai, tutti meticci della costa del Pacifico e che anche in quei tempi godevano fama di essere bravi uomini di mare, salparono l'âncora, mentre il capitano issava sulla cima del trinchetto un fanale a luce verde, ciò che indicava che il veliero aveva libera uscita a suo rischio e pericolo.

Con un'abile manovra la caravella si staccò dalla banchina, sfilando tra una moltitudine di navi disperse pel porto, e si diresse sollecitamente verso l'uscita, spinta dalla brezza che soffiava abbastanza forte da terra.

Buttafuoco, Mendoza ed il guascone, dopo d'aver fatta una rapida visita alla stiva, la quale era ingombra di botti che sembravano vuote e che perciò potevano nascondere degli avventurieri del marchese, erano risaliti in coperta radunandosi a prora.

- Avete notato nulla di sospetto, signor Buttafuoco? - chiese sotto voce, il guascone. - Io non mi fido molto, sapete, di quel Pfiffero.

- Assolutamente nulla, - rispose il bucaniere.

- Allora siamo padroni noi.

- Ossia le nostre spade.

- Le quali, al momento opportuno, sapranno fare terribilmente il loro dovere.

- Prendiamo però le nostre precauzioni. Che uno di noi vegli sempre e faccia scrupolosamente il suo quarto.

“Noi non ci troviamo certo fra buoni amici.”

- E tu, Mendoza, che sei stato marinaio, - disse il guascone, - bada alla rotta di questa carcassa. Invece di farci andare in California questi uomini sono capaci si condurci al Perú o al Chilí.

- Tengo d'occhio la bussola, amico, - rispose il basco. - Al primo quarto che fanno saltare agguanto il timoniere e lo getto in mare.

- Insieme al Pfiffero.

- Se sarà possibile manderò a bere anche lui, nel caso che tradisca la fede giurata.

- Ha troppa paura di noi per tentare qualche cosa ai nostri danni, quantunque abbia due occhi cosí azzurri che non mi persuadono affatto.

- Strage generale, - disse Buttafuoco, accendendo la sua pipa.

La caravella con poche bordate aveva raggiunta la bocca del porto, dinanzi a cui incrociavano le due grosse fregate per impedire qualche sorpresa da parte dei filibustieri che si aggiravano ancora sulle acque del Pacifico.

Al di fuori l'onda era un po' forte, nondimeno il piccolo veliero, quantunque dovesse contare un bel numero d'anni e dovesse avere la colomba spezzata, si comportava discretamente bene.

Il capitano, dopo un breve consulto coi suoi cinque marinai e dopo aver interrogato a lungo l'orizzonte con un cannocchiale, aveva messo la prora a nord ovest, per evitare le numerose scogliere che coprivano la costa.

- Tutto va bene per ora, - disse Mendoza, il quale aveva fatto una scappata a poppa per accertarsi della rotta sulla bussola. - Domani costringeremo questi uomini a filare su Taroga e se si opporranno daremo loro addosso.

- M'incarico io di tagliare la barba al capitano, - disse don Barrejo.

- Se volete andarvi a riposare rimango io di guardia.

- No, Mendoza, - rispose Buttafuoco. - I nostri quarti li cominceremo domani, quando avremo la certezza che l'equipaggio ci tiene in conto di pacifici passeggeri.

“Compare Arnoldo potrebbe aver soffiato qualche cosa negli orecchi del capitano e non commetterò mai l'imprudenza di lasciare il ponte, almeno per ora.”

I suoi due compagni approvarono con un cenno del capo, e dopo di aver accese a loro volta le pipe, ripresero il loro posto a prora.

Al largo mareggiava sempre forte l'ondata, tribolando non poco la corsa della piccola caravella, però la notte era magnificamente stellata ed un quarto di luna molto pallido brillava all'orizzonte specchiandosi nelle acque. I cinque marinai ed il loro capitano, preoccupati forse dalla vicinanza dei terribili scorridori del Pacifico, non lasciarono la coperta un solo momento, e compare Arnoldo tenne loro compagnia.

Quando l'alba spuntò, le coste americane non erano piú visibili all'orizzonte. La caravella, durante la notte, aveva derivato fortemente al largo in causa forse di qualche corrente.

- Siamo già ben lontani, - disse Mendoza. - Se questa corsa continua fra un paio di giorni poi potremmo giungere a Taroga.

“Mi pare però che l'amico barbuto non abbia l'intenzione di farci vedere i nostri amici filibustieri.”

Infatti i marinai, a un colpo di fischietto del capitano, avevano virato di bordo, cercando di tornare almeno in vista della costa per gettarvisi sopra nel caso che i filibustieri facessero la loro comparsa.

Non era però cosí che la intendevano i tre avventurieri, i quali non tardavano a mettersi in tasca le pipe e ad affrontare il comandante.

- Che cosa fate? - gli chiese Buttafuoco, con un certo cipiglio poco rassicurante.

- Cambio rotta, - rispose l'uomo barbuto. - Siamo troppo al largo ed io non ho alcun desiderio di dare dentro a qualche nave corsara.

- Vi ordino di riprendere la rotta di prima e di non occuparvi dei filibustieri.

- Voi!... - esclamò il capitano, stupito.

- Io, - rispose tranquillamente Buttafuoco.

- E per andare dove?

- Vogliamo accertarci se a Taroga ci sono ancora, sí o no, quei bravi uomini.

- Io vi ho imbarcati per condurvi in California.

- Abbiamo ora cambiato pensiero.

- È forse vostra la caravella?

- L'abbiamo noleggiata per nostro conto e noi vogliamo andare dove ci piace.

- Eh!...Eh!...Comandate un po' troppo, signor mio, in casa mia!... - gridò il capitano. - Se volete farvi ammazzare dai filibustieri, imbarcatevi sulla scialuppa che la mia caravella rimorchia e andatevene al diavolo.

“In quanto a me ritorno alla costa il piú presto possibile.”

- Non avendo però noi nessun desiderio di farci divorare dai pesci-cani, ed avendo noleggiata la vostra caravella e non già la scialuppa, per la seconda volta vi ordino di rimettere la prora a ponente poiché la nostra rotta è quella.

“In California ci andrete piú tardi.”

- E basta, messer barbuto, - aggiunse il guascone, battendo la mano sulla sua draghinassa. - O obbedire o provare il filo dei nostri gingilli; e tagliano, sapete.

Il capitano era diventato livido.

- Chi siete dunque, voi? - chiese balbettando.

- Non vi occupate di sapere chi siamo e che cosa intendiamo di fare, - rispose Buttafuoco. - Vi dico solo dai filibustieri non avrete nulla da temere, finché noi saremo a bordo della vostra caravella.

Il capitano stava per ribattere la parola, quando mastro Arnoldo, il quale aveva assistito impassibile a quella disputa che minacciava di farsi grave, poiché i meticci non sembravano disposti a lasciar solo il loro capo, intervenne.

- Obbedite a questi signori, - disse. - Ordine del marchese di Montelimar.

“Io rispondo di tutto.”

- Quand'è cosí, si vada allora verso l'inferno. Vedremo se il signor marchese sarà là a proteggerci quando i filibustieri monteranno all'abbordaggio.

- Basta cosí, - disse Arnoldo.

- Ehi, compare Pfiffero, potevi intervenire un po' prima e risparmiarci un sacco di chiacchiere inutili, - disse il guascone.

Il fiammingo alzò le spalle senza rispondere e riprese il suo posto dietro l'abitacolo di poppa.

Il capitano, dopo essersi consigliato coi suoi uomini, i quali cominciarono a guardare in cagnesco i tre avventurieri, senza però osare di manifestare apertamente il loro malumore, fece rimettere la prora verso ponente.

Nessun pericolo pareva d'altronde che minacciasse la caravella, poiché l'oceano appariva assolutamente deserto. Solamente degli uccellacci marini e dei branchi di pesci-volanti lo percorrevano, e quelli non potevano dare certamente noia ai naviganti.

Il vento però era diventato cosí debole coll'alzarsi del sole che la caravella non riusciva a guadagnare piú di un paio di nodi all’ora. C'era però del malvolere anche da parte dei marinai i quali lasciavano troppo le scotte.

A mezzodí i tre avventurieri, che si consideravano ormai come i padroni della navicella, reclamarono imperiosamente la colazione e anche abbondante, dichiarando di avere un appetito da pesci-cani.

Il capitano ed i marinai, i quali incominciarono ad aver paura di quei tre spavaldi che già supponevano dei filibustieri, si guardarono dal negarla.

Durante la giornata la caravella continuò a navigare pesantemente verso ponente, guadagnando appena una ventina di miglia, però appena il sole scomparve, la brezza si rialzò piú viva accelerando la corsa della carcassa.

I tre avventurieri si digerirono tranquillamente anche la cena, poi Buttafuoco ed il guascone si ritirarono nella cabina loro assegnata, mentre il basco montava il suo quarto di guardia con un paio di pistoloni alla cintura e la sua fida spada che tante meraviglie aveva compito sotto il figlio del Corsaro Rosso.

 

 

Capitolo VIII

IL TRADIMENTO

 

La notte non accennava di essere cosí limpida e cosí tranquilla come quella precedente.

Era scesa sull'oceano una nuvolaglia piuttosto fitta, la quale, subito dopo il tramonto del sole, si era dispersa pel cielo oscurando gli astri e coprendo il quarto di luna.

Ma pel momento nessun indizio vi era che avesse a scoppiare qualche tempesta.

Mendoza, accesa la sua pipa, si era seduto dietro l'abitacolo, nel posto occupato durante il giorno dal fiammingo, e che gli permetteva di sorvegliare attentamente la bussola.

Temeva che i marinai approfittassero di quell'oscurità per fare rotta falsa e ritornare verso la costa americana e forse non aveva torto di sospettare, poiché si era già accorto che i due uomini rimasti a guardia della velatura, avevano già piú volte tentato un colpo di sorpresa per virare di bordo.

Erano trascorse un paio d'ore senza che il basco, il quale raddoppiava la sua vigilanza, avesse notato nulla di straordinario, quando guardando verso prora, gli apparve di scorgere il fiammingo in segreto colloquio col capitano che da poco era salito in coperta.

Sospettoso per carattere, il basco intuí subito che qualche cosa si doveva combinare fra quei due, e se ne convinse sempre piú quando li vide sparire entro il boccaporto di prora.

- Amico Mendoza, apri quattro invece di due occhi, - si disse. - Qui gatta ci cova.

Si alzò, vuotò la pipa, diede un ultimo sguardo all'oceano, poi disse forte:

- Buona notte, timoniere: vado anch'io ad allungare un po' le gambe.

Poi si lasciò cader giú dal boccaporto di poppa, ma invece di entrare nel quadro dove russavano il guascone, Buttafuoco ed il preteso figlio del grande di Spagna, aprí silenziosamente la porta che comunicava colla stiva, la quale, come abbiamo detto, era ingombra di botti vuote.

Fu subito colpito dalla luce proiettata da una lanterna la quale si avanzava lentamente seguendo la corsia di babordo.

- Che cosa si viene a fare qui a quest'ora? - si chiese con inquietudine.

Si gettò verso la corsia opposta confondendosi fra le botti, e scorse ben presto le due persone che seguivano la lanterna: erano il capitano ed il fiammingo.

- Che abbiano nascosto qui qualche caratello di vino e che vengano a berselo senza invitarci? - mormorò il basco. - Simili bricconate noi non le permetteremo, e se c'è da bere si berrà in compagnia.

Si rannicchiò in un angolo oscuro e stette ad osservare.

I due uomini si avanzarono fino quasi verso il centro della stiva, poi sollevarono due grossi botti gettandole sopra le vicine e si cacciarono dentro il vano rimasto.

- È qui, - disse il capitano, la cui voce giungeva distintamente fino a Mendoza, data la sonorità della stiva.

- Molta polfere? - aveva chiesto subito mastro Arnoldo.

- Cinquanta libbre.

- Basteranno?

- Non rimarrà intatta una tavola.

- E nemmeno uno di quei pirpanti?

- Spero di no.

- Afete la miccia?

- È già a posto.

- Quanto durare?

- Dieci minuti almeno.

- Afremo tempo di scappare colla scialuppa?

- Non avremo che da ritirare la fune poiché è sempre a rimorchio della caravella. Vi ho fatto mettere già dentro dei viveri e dei remi.

- Date fuoco.

Mendoza ne sapeva piú del bisogno. Spaventato, colla fronte madida di freddo sudore, retrocesse sollecitamente verso il quadro e si precipitò dentro la cabina occupata dal guascone e da Buttafuoco.

- Su, su, in piedi subito, senza perdere un istante, - disse, scuotendoli vigorosamente.

- Ci si abborda? - chiese il guascone, balzando lestamente giú dal lettuccio.

- Seguitemi senza far rumore e non mi chiedete spiegazioni, - rispose Mendoza. - Venite, signor Buttafuoco, se vi preme la pelle.

A poppa, come in tutte le caravelle e anche nei galeoni, s'apriva un ampio sabordo, il quale serviva anche talvolta a piazzarvi della piccola artiglieria.

Mendoza spinse i suoi amici verso quello, poi disse:

- Calatevi in mare senza esitare.

Buttafuoco ed il guascone, impressionati dalla voce alterata del basco, non chiesero nessuna spiegazione. Si assicurarono le spade, scavalcarono il sabordo e si lasciarono cadere in mezzo alla scia spumeggiante.

Un secondo dopo anche Mendoza era in acqua.

In quel momento la scialuppa, la quale seguiva la caravella attaccata con una funicella d'una trentina di metri, giungeva.

Mendoza e don Barrejo l'abbordarono da una parte e Buttafuoco, che era piú alto e piú pesante, dall'altra parte, poi non senza sforzo vi si issarono.

- Taglia la fune!... - comandò il basco, volgendosi a don Barrejo.

Il guascone, comprendendo che stava per accadere qualche cosa di terribile, obbedí subito.

- Ai remi ora!...Arrancate forte se vi preme salvarvi!...

La scialuppa si mise in corsa in senso inverso della rotta tenuta dalla caravella. Aveva appena percorsi cinquanta o sessanta metri, quando un urlo echeggiò sul piccolo veliero.

- Maledizione!... La scialuppa è scomparsa!... Siamo perduti!...

Si udirono delle urla, delle bestemmie, poi un gran lampo squarciò l'oscurità, seguito da un rombo formidabile e da una tempesta di rottami.

La caravella era saltata in aria col suo disgraziato equipaggio, con compare Pfiffero ed il pretesto figlio del grande di Spagna.

Per alcuni istanti sopra il gorgo aperto dallo scafo sventrato dall'esplosione, si distese una nuvolaglia di fumo rossastro, poi la brezza notturna lo disperse.

- Amici, - disse Mendoza, con voce commossa, asciugandosi il sudore che gli copriva la fronte, malgrado il bagno, - ringraziate Iddio, se siete ancora cristiani, poiché a lui solo dovete la vostra salvezza.

- Io mi domando ancora che cosa sia successo, - disse don Barrejo, il quale pareva istupidito. - Che cos'è che è saltato?

- La caravella, e se tardavamo due o tre minuti saltavamo anche noi.

- Aveva preso fuoco? - chiese il bucaniere, il quale non riusciva ancora a raccapezzarsi di quel terribile colpo di scena.

- Cioè, avevano dato fuoco ad un barile di cinquanta libbre di polvere per mandare noi in aria, - rispose il basco. - Per una fortunata combinazione me ne sono accorto a tempo e la scialuppa, che doveva servire a loro, è rimasta invece nelle nostri mani.

- Avevano giurata la nostra perdita?

- Il capitano insieme a compare Pfiffero e probabilmente d'accordo coll'equipaggio, - rispose Mendoza.

- Amici, - disse Buttafuoco, - ritorniamo laggiú. Vi può essere qualche uomo da raccogliere.

- Lasciate che i pesci-cani se lo mangino, - disse il feroce guascone.

- No, - rispose Buttafuoco, afferrando un remo. - Queste inumanità non le permetterò mai.

“Sono stati abbastanza puniti del loro infame tradimento.”

- È giusto, - disse Mendoza.

Presero i remi e si diressero rapidamente verso il luogo ove era scomparsa la caravella, sormontando, non senza difficoltà, l'onda prodotta dal gorgo che stava distendendosi all'intorno con un orribile rumoreggiare.

Lo scafo, aperto dall'esplosione, era affondato. Alla superficie rimanevano invece moltissimi rottami: pezzi d'alberi, pennoni che reggevano ancora le loro vele latine distese sull'acqua, casse, botti, pezzi di murata ed avanzi del quadro e del castello di prora.

L'esplosione doveva essere stata formidabile, poiché non vi era nessun attrezzo intero.

La scialuppa passò in mezzo ai rottami, soffermandosi qua e là con la speranza di raccogliere ancora qualche superstite.

Nessun essere vivente galleggiava. Scorsero invece un troncone umano appartenente ad un meticcio, il quale si teneva ancora col le braccia disperatamente aggrappato ad un'antenna. Il disgraziato era stato tagliato a metà e non aspettava che un pescecane per perdere anche quanto rimaneva del suo corpo.

- Sono scomparsi tutti, - disse il guascone. - Anche compare Pfiffero, quantunque io in fondo fossi convinto che avesse qualche legame di parentela con messer Berlicche, se n'è andato in un mondo migliore.

- Era però il piú colpevole, poiché deve essere stato lui a preparare il tradimento che doveva mandarci a cercare il tesoro del Gran Cacico nel regno delle tenebre eterne.

- Qui non vi è piú da far nulla, - disse Buttafuoco. - Non ci rimane che di puntare su Taroga, se potremo giungervi.

- E perché no, signore? - chiese il basco. - La scialuppa è solida, abbiamo dei viveri e nulla dobbiamo temere da parte dei nostri amici filibustieri.

- Siamo lontani ancora? - chiese il guascone.

- Non vi potremo giungere prima di quarant'otto ore, - rispose Mendoza. - Dobbiamo contare solamente sui remi ed avremo da faticare un poco a compiere la traversata.

“Fortunatamente il tempo finora si mantiene buono.”

- Guarda che cosa hanno messo qui dietro i marinai della caravella, - disse Buttafuoco.

- Vedo dei pacchi ed un barile.

Mendoza ed il guascone fecero rapidamente l'inventario di quanto era stato imbarcato, e constatarono che il capitano barbuto aveva fatto le cose per bene, poiché il barile era pieno d'acqua, una cassa era colma di biscotti ed i pacchi contenevano dei formaggi e dei prosciutti salati. Non vi era certamente l'abbondanza, ma non vi era nemmeno il pericolo di morire di fame, poiché le provviste erano state fatte per sette uomini, mentre gli avventurieri non erano che tre.

- Orsú, non possiamo lagnarci, - disse Mendoza. - Quei poveri diavoli avevano certamente contato di riguadagnare la costa americana in un paio di giorni.

“Noi avremo provviste sufficienti per una settimana, anche senza metterci a razione. Si parte?”

- Partiamo, - disse Buttafuoco sedendosi a poppa.

Il guascone si mise a mezza barca, il basco si sedette sulla panca di prora e la scialuppa abbandonò lentamente quel tratto di mare cosparso di rottami, dirigendosi verso ponente.

Fra i viveri il basco aveva trovato, ben avvolta in uno straccio, una bussola, e se l'era subito appropriata per mantenere la direzione, almeno approssimativa. Per tre o quattro ore la scialuppa si avanzò sotto i colpi vigorosi del guascone e del basco, sormontando abbastanza facilmente le ondate che di quando in quando giungevano dal largo; poi i due uomini dovettero cedere.

- Preferisco dare dei colpi di draghinassa, - disse il guascone, sbarazzandosi della giubba ed anche del giustacuore.

- Ed io colpi di spada, - disse il basco. - Sono diventato un pessimo marinaio.

- T'inganni, compare: sei solamente invecchiato.

- Vorrei però che tu ti gettassi davanti alla mia spada.

- Tonnerre!... La draghinassa d'un guascone non attraverserà mai il mare di Biscaglia per ferire i fratelli piú o meno prossimi, - disse con voce grave.

- O per non prenderle? - disse il basco, scherzando.

- I guasconi cadono sul campo dell'onore, senza prenderle.

- Sicché nemmeno quando sono stati accoppati non le hanno toccate secche, - disse Buttafuoco.

- No, signore, perché quando un uomo è morto non confesserà mai di essersi fatto ammazzare da un altro spadaccino piú abile di lui.

“Almeno cosí si pensa nella grande Guascogna.”

- Un paese che non vale nemmeno la Biscaglia e che è solamente un piccolo dipartimento francese!

- Che cosa importa il paese se siamo grandi noi? E poi, vedi, mio caro basco...

Un urto violentissimo, che fece cappeggiare la scialuppa da babordo a tribordo, fino quasi ad imbarcare dell'acqua, lo interruppe.

- Abbiamo urtato? - disse Buttafuoco, balzando in piedi.

- E contro chi, signore? - chiese il basco. - Non vi sono scoglietti da queste parti.

- Contro qualche rottame della caravella, amico Mendoza.

- Eh, siamo ben lontani.

Un altro urto avvenne in quel momento, e fu cosí improvviso, da mandare a gambe levate il guascone.

- Tonnerre!... - gridò, aggrappandosi al banco per non cadere in acqua. - È il diavolo del Pacifico che giuoca con noi?

Mendoza si era curvato sull'acqua ed osservava attentamente.

Dapprima non vide nulla, ma dopo qualche istante scorse delle grosse strisce fosforescenti che correvano in tutte le direzioni, descrivendo dei fulmini zig-zag.

- Capperi!... - esclamò. - Ora so chi sono i disturbatori della nostra quiete.

Poi volgendosi verso il guascone, il quale si era rimesso già in equilibrio, gli disse:

- Ecco una bella occasione per provare il filo della tua draghinassa e la robustezza del tuo braccio.

- Si tratta di menare colpi? - gridò don Barrejo, levando subito lo spadone. - Non

chiedo di meglio.

- Contro chi? - domandò Buttafuoco.

Siamo caduti in mezzo ad una banda di pesci-martello, signore, - rispose il basco.

- Che riescano a rovesciare la scialuppa?

- Non sono grossi come i charcharias, tuttavia misurano anche essi quattro o cinque metri ed hanno certe bocche da far venir la pelle d'oca solamente a vederle.

- L'affare è dunque serio, - disse don Barrejo.

- Forse piú grave di quello che tu credi, poiché la nostra scialuppa non è niente affatto pesante ed il suo fasciame è cosí avariato che potrebbe cedere sotto un poderoso colpo di coda.

- Scommetterei qualunque cosa che è l'anima di compare Pfiffero che ce li ha mandati per prendersi la sua rivincita.

Malgrado la gravità della situazione, Buttafuoco e Mendoza non poterono frenare un risata.

- Non c'è da ridere, - disse il burlone. - Ve l'avevo sempre detto che quel Pfiffero doveva essere qualche parente del diavolo.

Ohé!...Volete buttarci all'aria? Pensate che io ho le gambe troppo lunghe per mantenermi in equilibrio su questa carcassa e che non sono mai stato marinaio.

Un terzo urto aveva gettata la scialuppa da un lato facendola nuovamente piegare fino al livello d’acqua. Guai se in quel momento forse giunta l'eterna ondata del pacifico, la quale per fortuna si riproduce ad intervalli abbastanza lunghi.

- Fuori le spade, amici, e diamo battaglia, se non volete servire da cena a questi dannati squali, - disse Mendoza.

- Ora li punisco io questi insolenti, - rispose il guascone.

- Bada di non cadere in acqua, poiché allora nessuno certo ti salverebbe, nemmeno la tua draghinassa.

“Dobbiamo avere intorno a noi una decina di quei mostri.”

- Dieci colpi di spada e tutto sarà finito, - disse il guascone.

Si sedettero sui banchi disponendosi in modo da equilibrare il meglio che era possibile la scialuppa e cominciarono a menar colpi all'impazzata a babordo ed a tribordo.

I pesci-martello però pareva che non avessero, almeno pel momento, alcun desiderio di provare il filo e le punte delle spade, poiché si mantenevano ostinatamente sommersi. Solamente di quando in quando qualcuno, appena segnalato da una rapidissima scia fosforescente, s'avventava contro la scialuppa, vi cozzava la grossa e robusta testa foggiata a martello e passava subito dall'altra parte della chiglia senza dar tempo ai tre spadaccini di colpirlo.

- Che battaglia è questa? - chiese don Barrejo, dopo d'aver menato inutilmente una trentina di colpi di draghinassa senza aver ottenuto altro risultato che di spruzzare i suoi compagni. - Non si combatte cosí in Guascogna.

- Manda loro un cartello di sfida e pregali di presentarsi uno per volta, - disse Mendoza.

- Non ho potuto ancora vedere una di quelle bestiacce.

- L'aurora è vicina e cosí avrai l'occasione di ammirarli.

- È vero che sono bruttissimi?

- Ma no, sono anzi carini; con quel loro martellaccio fornito alle estremità di due occhi che ti mettono indosso il malessere al solo vederli...

- E il chiami carini, birbante!... Ah!... Eccone uno che arriva!... Se ti prendo ti taglio in due!...

Una striscia fosforescente si avvicinava con una rapidità fulminea, dirigendosi verso la scialuppa.

Don Barrejo afferrò la draghinassa a due mani e tirò giú una botta capace di spaccare anche un macigno.

La larga lama questa volta non cadde nel vuoto e colpí sul dorso il pesce-martello, tagliandogli nel tempo stesso le pinne dorsali.

Lo squalo si rovesciò prontamente sul dorso e si avventò contro il bordo della scialuppa, cercando di addentarlo.

- Tonnerre!... Se è brutto!... - gridò don Barrejo. - E Mendoza li chiamava carini questi mostri!...

La draghinassa piombò sul muso del terribile squalo spaccandoglielo mentre Mendoza e Buttafuoco gli cacciavano nei fianchi le loro spade, urlando:

- Prendi, birbante!...

- Gusta questa, canaglia!...

Lo squalo fece un balzo, alzandosi quasi a metà fuori dall'acqua, poi scomparve nella profondità dell'oceano.

- Ecco uno che va a trovare l'ospedale dei pesci, ammesso che ve ne sia qualcuno in fondo al mare, - disse don Barrejo.

- Gliele abbiamo date, finalmente, - aggiunse Mendoza. - Ero stanco di forare inutilmente l'acqua.

- Questo si chiama battagliare, è vero, basco? Che colpi che danno i guasconi, eh?

- E che stoccate danno i baschi, - rispose Mendoza. - Devo avergli trapassato il cuore di colpo.

- Allora è inutile che vada all'ospedale.

- Chiacchierate troppo, voi, - disse Buttafuoco. - Non vedete che i compagni del ferito montano all'assalto?

- E noi siamo pronti a riceverli, è vero, Mendoza? - gridò il guascone.

- Sempre, - rispose il basco.

Delle linee fosforescenti s'incrociavano attorno alla scialuppa, stringendosi sempre piú. I pesci-martello accoverano a vendicare il compagno.

- Aprite gli occhi!... - gridò Mendoza, - e saldi in gambe!...

La scialuppa, urtata da tutte le parti, trabalzava disordinatamente come se l'oceano, tutto d'un tratto, fosse diventato tempestoso.

I mostri la investivano con furore, avventando dei colpi di coda che potevano sfondare il vecchio fasciame, come aveva detto il basco, poi passavano sotto la chiglia e cercavano di alzarla spingendosi a galla.

Fortunatamente il peso costituito dai tre avventurieri, dal barile pieno d'acqua e dalle provviste, era abbastanza considerevole, quindi vi era ben poca probabilità che riuscissero nel loro intento di gettarla colla chiglia in aria.

Buttafuoco, Mendoza ed il guascone, non poco impressionati dal simultaneo attacco di tutti quei mostri, si facevano in dodici per menare botte furiose, le quali non cadevano sempre nel vuoto. Era la draghinassa specialmente che faceva i piú bei colpi, spaccando quei brutti martellacci.

Quell’assalto durò dieci buoni minuti, poi gli squali parvero averne abbastanza di quella grandine di stoccate che apriva dei larghi buchi sui loro dorsi, poiché finalmente si decisero ad allontanarsi, pur mantenendosi sempre in vista.

- Non sono battaglie, queste, guascone? - chiese il basco, asciugando, su uno straccio, la sua spada grondante di sangue.

- Non dico di no, - rispose don Barrejo, tergendosi il sudore che gli colava dalla fronte. - Però preferisco sempre quelle che si combattono in terra.

“Almeno si guardano i nemici in viso e poi si hanno i piedi piú fermi.

“Che siano persuasi che coi guasconi e coi i baschi non c’è da guadagnare nessuna cena?”

- Si dice che quei mostri siano molti testardi, amico, e non sarei sorpreso se alla prima luce del giorno ritornassero all’attacco.

- Se provassimo ad allontanarci? disse Buttafuoco.

- Era quello che volevo proporvi, signore. Lasciamo che Barrejo si riposi un po' e facciamo lavorare noi i remi.

- Anzi io vi guarderò, corpo d'un satanello, - rispose il guascone. - Ho incominciato a provarci un po' di gusto anche alle battaglie marittime.

Buttafuoco ed il basco presero i remi e si misero ad arrancare, colla prora sempre volta a ponente, cercando di passare di fianco alla torma famelica.

Infatti per un po' vi riuscirono, ma poi dovettero constatare, con loro poco piacere, che gli squali organizzavano la caccia, decisi, a quanto pareva, a guadagnarsi la prima colazione giacché avevano perduta la cena.

Quando il sole, dopo una brevissima aurora, s’alzò risplendente sull’oceano, facendo scintillare le acque di miriadi di pagliuzze d’oro, i pesci-martello, che durante la notte si erano limitati a scortare la scialuppa, tenendosi ad una certa distanza, tornarono a mostrare delle intenzioni estremamente bellicose che non garbavano piú nemmeno al battagliero don Barrejo.

Mendoza non si era sbagliato sul loro numero. Erano proprio nove o dieci, tutti lunghi dai quattro ai cinque metri, i quali si avanzavano con dei ridicoli movimenti, che in altre occasioni avrebbero strappate delle rise, poiché martellavano l’acqua a destra ed a sinistra, sollevando alti sprazzi di candidissima schiuma.

Di quando in quando si arrestavano come per prendere lena, rimontavano alla superficie per un buon terzo della loro lunghezza e mostravano le loro enormi bocche semi-circolari, irte di denti e situate là dove avrebbe dovuto trovarsi il collo, ciò che doveva rendere un po' difficile, a quei mostri, l’afferrare di colpo la preda.

- È un piccolo esercito che si prepara a darci valorosamente un nuovo attacco, - disse don Barrejo, il quale li osservava piú con curiosità che con vera apprensione. - Da buon guascone io francamente li ammiro.

- Perché desiderano mangiare le tue magre gambe? Bella colazione che offriresti tu! - esclamò Mendoza. - Fossero quelle del signor Buttafuoco!...

- Io spero che rimarranno col desiderio in gola, - rispose don Barrejo - Tonnerre!... La mia draghinassa è sempre pronta, e poi sai che cosa si dice?

- Se non ti spieghi non posso indovinare.

- Che la carne dei guasconi è piú amara di quella degli altri.

- Perché siete piú biliosi, diavolo!...

- Allora daranno la preferenza alla tue bistecche ed a quelle del Signor Buttafuoco e risparmieranno le mie gambe, intorno alle quali d’altronde, troverebbero delle ben magre polpe.

“Ah!... Eccoli!... Mano alle spade, signori miei, e cerchiamo di far onore alla Guascogna, alla Bassa Loira ed alla Biscaglia.”

- Coi pesci!... - esclamò Buttafuoco.

- Non sono meno pericolosi degli uomini, signore.

- Questo è vero, però sono certo che non apprezzeranno affatto il nostro valore.

La torma furibonda si scagliava allora all’attacco in linea serrata, non cercando piú di tenersi sott’acqua.

Reclamava imperiosamente la sua colazione con certi rauchi gorgoglii, che certi momenti rassomigliavano al tuono udito ad una grandissima distanza.

I tre avventurieri, dopo d’aver trasportato rapidamente a prora il barile, la cassa ed i viveri, per non squilibrare la scialuppa, si radunarono intorno alla poppa e cominciarono animosamente la lotta, incoraggiandosi a vicenda con altissime grida.

- Avanti la Guascogna!...

- Sotto la Bassa Loira!...

- Picchia, Biscaglia!...

Il primo pesce martello che giunse sotto la poppa e che tentò di addentare l’orlo del fasciame coi suoi denti duri come l’acciaio, non ebbe fortuna, poiché il bucaniere fu pronto ad immergergli nella bocca spalancata la sua spada inchiodandogli la lingua contro il palato.

Il povero squalo fece un capitombolo e si lasciò andare a picco fra un cerchio di sangue.

Anche al secondo, che si slanciò all'assalto con grande impeto, tentando di cozzare contro la scialuppa colla sua testaccia, non andò meglio.

Aveva avuto il torto di presentarsi al guascone, e vi potete immaginare come il terribile spadaccino picchiasse sodo.

Vlan!... Vlan!... Due colpi di draghinassa ben assestati e le due estremità del martello cadono interamente tagliate.

Il povero squalo, cosí spaventosamente mutilato, si arrestò un momento versando due torrenti di sangue dalle ferite, poi anche quello si lasciò andare.

La lotta era appena cominciata. Gli altri, resi furiosi per le perdite subite e per tanta ostinata resistenza, circondarono la scialuppa scrollandola poderosamente e tentando di rovesciarla.

I colpi di spada e di draghinassa grandinavano fitti su quei corpacci, tagliando e bucando; però i mostri marini tenevano duro quantunque in mare, tutto intorno a loro, si tingesse di sangue.

I tre avventurieri erano costretti a precipitarsi ora verso prora ed ora verso poppa, a seconda che l'attacco diventava piú violento.

Un profondo terrore cominciava ad impadronirsi anche di quei saldi cuori che avevano sfidato tante volte la morte in tanti combattimenti. L'idea di dover ben presto finire nelle gole di quelle affamate bestiacce paralizzava non poco la loro energia.

Battagliavano ferocemente da un quarto d'ora, sempre minacciati di trovarsi da un momento all'altro in acqua, quando un colpo di fucile rimbombò, ed uno squalo, colpito dalla palla di un bersagliere infallibile, balzò piú che mezzo fuori dalla spuma sanguigna riversandosi all'indietro.

Quasi subito altre due detonazioni si seguirono e altri due pesci-martello subirono l'egual sorte.

Buttafuoco aveva gettato un rapido sguardo verso il largo.

Una grossa piroga, che pareva fosse sorta improvvisamente dal mare, montata da una dozzina di uomini che portavano dei giganteschi cappellacci di foglie di palma intrecciate, accorreva a gran forza di remi in loro aiuto.

Quattro di quei salvatori sconosciuti, che dovevano essere dei meravigliosi tiratori, facevano fuoco contro gli squali senza mai mancare al bersaglio.

Buttafuoco aveva mandato un grido altissimo:

- I filibustieri!...

- Tonnerre!... Finalmente e proprio a tempo, - disse il guascone, menando un ultimo colpo.

Cinque minuti dopo i tre avventurieri, sfuggiti miracolosamente e per ben due volte ad una morte spaventevole, salivano a bordo della piroga filibustiera e cadevano fra le braccia di Raveneau de Lussan.

 

 

Capitolo IX

GLI ULTIMI FILIBUSTIERI

 

La filibusteria, quella formidabile repubblica di masnadieri che non sentendo né amor di patria, né sete di gloria, né ambizioni di stato, s'era rovesciata sull'America centrale, animata dal solo scopo di saccheggiare e godere, nell'epoca in cui si svolge il nostro racconto non era piú la tremenda né mobile quanto i cavalloni del mare, come veniva chiamata.

Golfo del Messico la filibusteria era morta colle ultime imprese di Montauban, con Sardau, un altro gentiluomo francese, con un biscaglino conosciuto sotto il nome di Basco e con Jonqué.

Essendoci noi prefissi di raccontare le gesta di questi ultimi corsari che diedero ancora, colle loro imprese meravigliose, un ultimo lampo di lustro alla loro società, ci occuperemo prima di questi uomini per poi passare a quelli che nell'oceano Pacifico tenevano ancora alta la fama dei Fratelli della Costa.

Le imprese di questi quattro uomini si possono considerare come le ultime, poiché dopo di loro la filibusteria scomparve dal Golfo del Messico e la Tortue che rimase pressoché deserta, in balia del primo occupante.

Montauban era salito in grandissima rinomanza colle sue audaci scorrerie

Narrasi di costui un tratto che non si aspetterebbe da parte di uomini dati con tanto furore al pubblico ladroneggio.

Una schiera di filibustieri si era impegnata, dietro un certo compenso, di condurre in salvo un bastimento spagnuolo portante un ricchissimo carico.

Durante il viaggio uno di quei corsari fa la proposta ai compagni di abbordarlo di sorpresa e d'impadronirsene.

Montauban che guidava quegli avventurieri, udendo tale proposta, ordinò di mettere una scialuppa in mare e di lasciarlo guadagnare la terra piú vicina.

I filibustieri rifiutarono energicamente, dicendo che nessuno di loro aveva approvata la proposta che gli faceva tanto orrore.

Il colpevole fu abbandonato sulla prima isola deserta che s'incontrò e tutti giurarono che un tal uomo senza fede e senza onore non avrebbe mai piú fatto parte dei Fratelli della Costa.

Il naviglio spagnuolo fu condotto in salvo e Montauban si mise a corseggiare pel golfo recando non pochi fastidi agli spagnuoli e facendo non poche prede.

I tempi però erano cambiati e l'esistenza dei filibustieri diventava giorno per giorno piú dura, non avendo ormai piú un sicuro punto d'appoggio nella Tortue diventava quasi spopolata.

Per di piú le nazioni europee che avevano interessi in America, specialmente la Francia, l'Inghilterra, la Spagna e l'Olanda, dopo un lungo guerreggiare, avevano concluso la pace, sicché i filibustieri non potevano piú ottenere patenti di corso che li facessero considerate come belligeranti.

Tutte, dopo essersi servite di quei formidabili scorridori del mare, li avevano abbandonati alla loro sorte, considerandoli come un branco di pirati degni di essere appiccati ai piú alti pennoni delle fregate.

Montauban vedendo che nelle Indie Occidentali ormai i filibustieri non godevano né protezione, né indipendenza, attraversa pel primo l'Atlantico e va a corseggiare sulle coste africane, in attesa di qualche vascello della celebre Compagnia delle Indie.

Dopo varie prede ne incontra finalmente uno di nazionalità inglese e poderosamente armato.

I filibustieri lo assaltano con grande fidanza, essendo ormai abituati alle vittorie, ed invece si accorgono di avere da fare con della gente risoluta al pari di loro.

Montauban però inspira ai suoi uomini titubanti un tale coraggio, che sebbene assai inferiori di numero, riescono finalmente ad abbordare il vascello nemico e mettere piedi sul ponte.

Il capitano inglese, vedendosi ormai perduto e non sostenendo una tale umiliazione, dà fuoco al deposito delle polveri e manda in aria tutti.

Una buona stella proteggeva certamente i filibustieri, poiché mentre tutti gl'inglesi perivano, quindici di costoro si salvavano insieme a Montauban.

Per loro mala sorte, insieme al vascello inglese era pure saltato il legno corsaro, nondimeno quei terribili uomini, dopo d'aver vagato a lungo fra i rottami delle due navi, scoprono uno schifo ancora galleggiante e si avviano verso l'Africa.

Errano sull’Atlantico per settimane e settimane, esposti ad ogni genere di patimenti, obbligati, di quando in quando, a cibarsi delle carni dei loro compagni che la fame e la miseria aveva spenti, finché toccano terra, e per un caso strano, vengono accolti amichevolmente da un principe negro che Montauban aveva conosciuto in altri tempi.

Era quel principe, famoso sulle coste della Guinea, dove aveva compiute molte arditissime imprese, ed era in quel tempo specialmente occupato a molestare i forti inglesi.

Montauban unisce le sue poche forze a quelle del principe ed espugna un forte difeso da ventiquattro cannoni, ma poi, stanco di tante scorrerie, si ritrasse in patria portando con sé una discreta fortuna, ed occupò il resto dei suoi giorni a scrivere le sue memorie.

Un altro filibustiere francese che godette in quei tempi un gran nome, fu Sardau, e facciamo specialmente menzione di lui per un singolare caso.

Dopo d'aver compiute moltissime e fortunate scorrerie, questo ardito marinaio si getta sulla Giamaica alla testa di duecentonovanta compagni per saccheggiarla.

Il caso volle che centotrentacinque dei suoi uomini rimanessero separati dalla loro nave, che un colpo improvviso di vento aveva sbalzata lungi dalle coste.

La Giamaica allora era uno stabilimento di primo ordine e munito di forte guarnigione.

I disgraziati filibustieri, abbandonati al loro destino, errano nell'interno dell'isola combattendo giorno e notte contro gli abitanti e contro le truppe.

Non avrebbero certamente potuto a lungo sostenersi contro tanti continui attacchi che giungevano da ogni parte, poiché molti di loro erano già caduti nei combattimenti, quando trovarono meravigliosamente la salvezza in uno dei piú tremendi disastri che la storia registri.

Un tremendo terremoto devasta da capo a fondo l'isola opulenta, ed in mezzo alla generale costernazione i filibustieri, che hanno le fibre piú salde, si impadroniscono di alcuni battelli e riescono a raggiungere i compagni corseggianti al largo.

Il Basco e Jonqué furono pure in grande rinomanza per certe loro straordinarie imprese.

Incrociavano un giorno dinanzi a Cartagena con tre piccoli legni, in attesa di fare un buon colpo, quando videro uscire dal porto due vascelli da guerra, i cui comandanti avevano ricevuto l'ordine di sterminare quella razza di ladri e di ricondurli in città vivi o morti.

I filibustieri del Basco e di Jonqué non si perdono per questo d'animo, e quantunque immensamente inferiori per numero d'uomini e per bocche da fuoco, assaltano arditamente le due fregate e, cosa incredibile, se ne impadroniscono dopo un combattimento durato solamente poche ore.

Presi poi quanti spagnuoli vi erano, li sbarcarono a terra con una lettera, colla quale ringraziavano il governo di Cartagena di aver mandato loro due buoni vascelli dei quali avevano estremo bisogno, avvertendolo che se ne avesse qualche altro di troppo lo avrebbero aspettato per quindici giorni, ed aggiungendo che se non lo fornisse anche d'una buona somma di denaro l'equipaggio non avrebbe avuto quartiere. E manterranno la parola; però nessun vascello si mosse ad assalirli.

I capitani Michel Brouage furono gli ultimi filibustieri che diedero ancora un po' di splendore ai Fratelli della Costa.

Si narra di costoro che essendo un giorno in crociera dinanzi a Cartagena, s'imbatterono in due vascelli olandesi, i quali avevano caricato grandi ricchezze in quel porto.

Michel e Brouage che avevano pure due navi, ma inferiori di forze, muovono animosamente all'attacco e se ne rendono ben presto padroni.

Gli olandesi, vergognosi di aver dovuto cedere dinanzi a forze tanto inferiori alle loro, ardiscono dire a Michel che se fosse stato solo non sarebbe riuscito nell'impresa.

- Ebbene, - rispose fieramente il valoroso corsaro, - ricominciamo il combattimento mentre il mio compagno starà a guardarci.

“Se vinco, io non avrò una sola piastra, ma rimarrò padrone delle due navi.”

Gli olandesi si guardarono bene però dall'accettare la proposta, e furono solleciti a ritirarsi, per tema che tardando non venissero forzati alla prova.

Dopo questi la storia non ricorda piú famosi filibustieri nel golfo del Messico.

Rimasero però ancora, per molti anni, delle accozzaglie di disperati, impotenti a compiere le grandi imprese dell'Olonese, di Montbars, di Wan-Horn, di Michele il Basco, di Morgan e di tanti altri famosissimi.

Cessata la filibusteria nel golfo del Messico, eccola però sorgere, abbastanza potente, sull'oceano Pacifico, il quale si prestava meglio alle lunghe corse ed alle grosse catture, essendovi quei formidabili uomini quasi sconosciuti.

Nel 1684 un primo nucleo di filibustieri, guidati da un inglese chiamato David, compiono l'allora arditissimo viaggio intorno all'America del Sud, e dopo di aver girato felicemente lo stretto di Magellano, compariscono improvvisamente nell'oceano Pacifico.

Erano in ottocento, e ben risoluti di mettere a ferro e a fuoco le opulenti città del Chilí, del Perú e dell'America centrale.

Un altro corpo di duecento francesi tiene dietro a quel primo nucleo e lo raggiunge per rinforzarli.

Quando leggiamo nelle storie dei moderni navigatori, Cook, Bouganville, La Perouse, Krasenstern, e tanti altri, le grandi difficoltà che essi hanno incontrato nell'oceano Pacifico, quantunque forniti di tanti sussidii, poiché la geografia, l'astronomia e la nautica erano salite ai loro tempi ad altissimo grado di perfezione, non si può non rimanere stupiti dell'audacia incredibile di quegli avventurieri che con scarsi mezzi, con vascelli cosí sgangherati compivano imprese audacissime.

Eppure, quantunque non conoscessero affatto l'estrema America del Sud, la superarono felicemente, sfidando tempeste e scogliere ed eccoli comparire improvvisamente, quando meno gli spagnuoli se l'aspettavano, nel grande oceano.

Un altro corpo d'inglesi, composto solamente di centoventi uomini, ardí frattanto concepire il disegno di scendere verso l'oceano Pacifico attraversando per terra l'America centrale dal Golfo d'Uraba al fiume Chica, e poco dopo quattrocento francesi li seguono, risoluti a vedere almeno da lontano le torri merlate dell'opulenta Panama.

Alcune altre piú piccole schiere osarono altrettanto, ma noi non seguiremo le tracce di tutti costoro, che troppo lungo sarebbe narrare le ardite imprese che tentarono ed i disastri ai quali dovettero per la maggior parte andare incontro, poiché gli spagnuoli vegliavano dovunque.

Ci limiteremo a parlare del grosso dei filibustieri che aveva passato lo stretto di Magellano con una flottiglia di dieci bastimenti, cioè di due fregate, una di trentatré e l'altra di sedici cannoni, di cinque legni minori senza grossa artiglieria e di tre barcaccie che tenevano appena il mare.

Erano inglesi, francesi ed olandesi, e fra tutti sommavano a mille cento uomini, ai quali piú tardi si aggiunsero quei piccoli gruppi che avevano attraversato l'America centrale per via di terra.

Un inglese, di nome David, fu il capo di quella grossa spedizione.

Il primo incontro di quella flottiglia, navigante ormai liberamente verso settentrione, fu di un bastimento spagnuolo che tosto predarono.

Avendo inteso dagli uomini caduti nelle loro mani che dei legni mercantili avevano avuto l'ordine dal viceré del Perú di non abbandonare i porti della costa fino a tanto che una squadra non avesse purgato l'oceano Pacifico dai filibustieri, David ed i suoi tirarono egualmente innanzi, risoluti a dare la caccia ai famosi galeoni che lo spento impero degli Incas mandava sempre numerosissimi a Panama.

La loro improvvisa comparsa dinanzi alla regina dell'oceano Pacifico mette in grande ansia gli spagnuoli, memori dei disastri in addietro subiti da parte di quella terribile razza di ladroni.

Se David avesse osato, un'altra volta Panama avrebbe subito un orribile saccheggio, ma il coraggio gli mancò e dopo d'aver incrociato per quattro settimane in vista delle città, condusse la sua flotta all'isola di Taroga, allora quasi deserta.

Ecco però che quasi subito compariscono sette navi da guerra, due delle quali portavano nientemeno che settanta cannoni ciascuna.

Il Mare era tempestoso e niuna proporzione vi era fra le forze spagnuole e quelle del filibustiere, essendo queste immensamente inferiori.

Inoltre questi ultimi non conoscevano i bassifondi dell'isola, né avevano tanta artiglieria da opporre a quella nemica.

I filibustieri, come sempre non si perdono d'animo ed impegnano furiosamente la lotta, quantunque quasi certi di una sicura distruzione, e liberano prontamente le loro due fregate in procinto di essere catturate, riportando in poche ore una vittoria inaspettata.

Sfortunatamente dopo il fuoco delle artiglierie il mare entra in scena, disperde i legni vittoriosi e molti sono trascinati lontani su terre poco note e naufragano.

Quella flottiglia che avrebbe potuto far tremare Panama, si sciolse. I francesi, con a capo un certo Grognier, vanno a stabilirsi sull'isola di San Giovanni di Pueblo, mentre David continua le sue scorrerie sul mare con crescente fortuna.

Le imprese di queste due schiere di filibustieri sono incredibili.

Prendono d'assalto Leon ed Esparso, abbruciano Ralejo dopo d'averla saccheggiata, s'impadroniscono di Puelbo-Viejo, di Granata, città grandiosa ed opulenta, di Villia, lontana ben trenta leghe da Panama, poi di Guayaquil, l'opulenta città Nicaragua.

Malgrado tante fortunate spedizioni, molti anelavano di ritornare nel Golfo del Messico, dove si trovava la culla della filibusteria.

David, che possiede sempre la sua fregata, è il primo che si decide, indebolendo cosí fortemente quelli che ancora rimanevano nell'oceano Pacifico.

Aveva costui svaligiati parecchi vascelli spagnuoli e fatti vari sbarchi a Pisco, ad Arica, a Sagra ed in altri luoghi, quindi si trovava ormai abbastanza ricco per lasciare quel pericoloso mestiere.

Egli prende risolutamente la via del sud per riattraversare lo stretto di Magellano.

Già stava per toccarlo, quando i suoi uomini lo obbligano a tornare indietro. Durante la lunga navigazione avevano giuocato, malgrado che leggi dei Fratelli della Costa proibissero il giuoco a bordo delle navi, e non volevano tornare in patria spogli di tutto.

Incontrato però un vascello condotto da un certo Wilnet, tutti quelli che avevano guadagnato vi si imbarcarono, sicché a David non erano piú rimasti che settanta inglesi e venti francesi.

Tuttavia ritornò nelle acque di Panama accolto con gioia da coloro che erano rimasti sulle coste del Pacifico.

Frattanto un altro gruppo di cinquantacinque uomini tenta pure il ritorno al Golfo del Messico, e si narrano di costoro delle avventure meravigliose.

Possedendo un piccolo vascello e per di piú assai sdruscito, avevano concepito l'idea di spingersi fino sulle coste della California e di là tentare la traversata per terra attraverso l'impero Messicano.

Un uragano li scaraventa su un gruppetto d'isolette deserte chiamate le Tre Marie, non molto lontane dalla Costa Californiana.

Quei miserabili non possedevano piú nulla e le terre non avevano di che nutrirli, eppure vi si mantennero quattro anni sfidando tutti gli orrori dell'estrema miseria.

Finalmente la disperazione li trae da quel miserabile rifugio, su cui non avevano trovato per tutto pasto che qualche radice e delle conchiglie. Avevano accomodata alla meglio la nave, ma non possedevano per viveri altro che un certo pane formato con la polvere dei gusci di conchiglie!

Fidenti nella loro sorte, scendono verso il sud e raggiungono le coste di Guayaquil dove speravano di trovare i loro antichi compagni.

Essendo questi partiti per altre spedizioni, quei disgraziati che si vedono dovunque minacciati dagli spagnuoli e dagl'indiani che impediscono loro di scendere a terra per provvedersi di viveri, concepiscono l'incredibile disegno di raggiungere lo stretto.

Per duemila miglia spingono innanzi il loro misero legno, continuamente lottando coi venti contrari e soffrendo fame e sete quanto uomo possa mai immaginare.

Ma sopra ogni altra cosa era per essi intollerabile affanno il pensare che dopo tanti patimenti e pericoli ritornavano senza una verga d'argento, poiché tutto avevano perduto.

Avevano già raggiunto dopo tante fatiche e tante lotte, lo stretto, quando deliberarono di tornare indietro e di raggiungere le Coste del Perú, colla speranza di fare qualche preda.

La fortuna è con loro, poiché avendo per caso saputo che ad Arica stava all'âncora un vascello carico di verghe d'argento del Potosí, entrano furiosamente nel porto, lo prendono d'assalto sotto gli occhi della popolazione terrorizzata, e se lo portano via.

Il carico era di due milioni di piastre.

Diventati di colpo ricchi, e credendosi ormai largamente ricompensati dalle tante miserie passate, riprendono la via dello stretto col loro nuovo vascello e vi fanno naufragio, però riescono a salvare l'intero carico.

Ricostruitosi un legno cogli avanzi di quello naufragato, quegli uomini infaticabili attraversano finalmente lo stretto, e dopo una lunga e penosa navigazione salutano le superbe isole del golfo del Messico e vi si stabiliscono, chi a San Domingo, chi alla Giamaica.

Erano però rimasti ancora nell'oceano Pacifico duecento e ottantacinque filibustieri, parte annidati a Taroga e parte presso Guayaquil, e che altro non chiedevano che di andarsene a loro volta e di disperdersi, essendo ormai diventato il corseggiare quasi impossibile in causa delle numerose squadre spagnuole sempre sull'allerta.

Di questo nucleo, l'ultimo, poiché dopo non si parlò piú né sulle coste del Pacifico né nelle acque del golfo del Messico di filibustieri propriamente detti, ci occuperemo fra breve.

 

 

Capitolo X

ALL'ARREMBAGGIO DEL GALEONE

 

Raveneau de Lussan, malgrado i sei anni passati alle isole fra continui combattimenti, continue ansie e miserie senza fine, aveva conservato il suo inalterabile buon umore del gentiluomo francese, sicché l'accoglienza fatta a Buttafuoco, a Medonza ed al guascone fu una delle piú cordiali.

- Il cuore mi diceva, - disse loro, dopo di averli fatti passare sulla sua piroga e di averli abbracciati, - che un giorno in qualche angolo del mondo vi avrei riveduti. Peccato che con voi non vi sia anche quel bravo conte di Ventimiglia.

“Ah!... Come l'avrei riveduto volentieri!...”

- Mio caro, - rispose Buttafuoco, - egli è troppo felice colla marchesa di Montelimar e non lascerà certamente il suo magnifico castello di Ventimiglia.

“Se però non è venuto lui abbiamo condotto qui sua sorella.”

- Chi? - chiese Raveneau, con stupore. - La nipote del Gran Cacico del Darien?

- Sí, amico.

- E dove si trova? Io non la vedo fra voi.

- Se fosse ancora con noi, forse non ci avresti riveduti cosí presto.

- Spiegati meglio, Buttafuoco.

- Noi siamo qui venuti a chiedere l'appoggio dei filibustieri del Pacifico per liberare ancora una volta la señorita Ines di Ventimiglia.

- Ben detto, - disse il guascone.

- Per Dio!... Ve l'hanno presa?

- Il marchese di Montelimar ce l'ha ritolta.

- È dunque innamorato pazzamente di quella fanciulla?

- Delle sue immense ricchezze, mio caro Raveneau. Non hai saputo dunque che il Gran Cacico del Darien è morto?

- Come vuoi che gli avvenimenti che succedono dall'altra parte dell'istmo giungano fino a noi che siamo come isolati in mezzo al mondo? Sicché la señorita è sbarcata in America per recarsi al Darien a raccogliere le favolose ricchezze di suo nonno?

- E come vedi non ha avuto fortuna, perché appena giunta in Panama è rimasta nelle mani del suo nemico, il quale aspira da anni ed anni, con una pazienza incredibile, di mettere le mani lui su quei tesori, colla scusa che è stato lui ad allevare la contessina ed a mantenerla in casa sua per sedici anni.

- E si trova a Panama?

- Sí, amico.

- Ebbene tu giungi in un cattivo momento, mio caro Buttafuoco.

“Tutte le altre partite di filibustieri che possedevano qualche nave hanno preso la via del sud e non siano rimasti che in duecento e ottantacinque fra i quali non pochi malati che saremo costretti ad abbandonare, e quello che è peggio non possediamo che delle piroghe sgangherate.

“Come vorresti tu che io lanciassi quest'orda di disperati contro Panama che oggi è quasi imprendibile?

“I bei tempi di Morgan sono ormai passati.”

- Noi non domandiamo tanto, mio caro Raveneau. Tu mi hai detto che se non possedete dei vascelli non vi mancano gli schifi e le piroghe.

“Gli ultimi filibustieri non sarebbero piú capaci, con tali mezzi, di abbordare un galeone?”

- Che cosa dici, Buttafuoco? Noi, appunto perché siamo gli ultimi, saremo i piú terribili e non avremo certamente paura di abbordare una nave, per quanto grossa sia.

“Spiegati però meglio, perché di tutto questo affare non ho capito che una cosa sola: che si tratta di liberare la señorita di Ventimiglia.”

- Ed è per questo che noi siamo venuti ad invocare l'aiuto dei Fratelli della Costa che tanto hanno dovuto ai corsari italiani.

“Fra cinque o sei giorni, salvo errore, una nave salperà da Panama per trasportare la señorita alla baia di David.”

- E cosí? - chiese Raveneau.

- Non si tratta che di assalirla e di togliere agli spagnuoli la fanciulla.

- È tutto qui?

- No, - riprese Buttafuoco. - Che cosa fate voi altri nell'oceano Pacifico ora che tutti gli altri vostri compagni sono partiti? Che cosa aspettate? Che qualche poderosa squadra spagnuola venga a snidarvi e a cacciarvi tutti in mare?

Raveneau de Lussan guardò a lungo il gentiluomo francese, socchiudendo a piú riprese gli occhi, poi disse:

- Sai dove andavamo ora con la nostra piroga?

- No, davvero.

- Verso la costa per cercare delle informazioni che ci sarebbero necessarie per passare definitivamente sul continente.

“Sono sei anni che viviamo sulle isole sempre in lotta colla fame e cogli spagnuoli ed abbiamo ormai fermamente deciso di lasciare anche noi per sempre l'oceano Pacifico.”

- E quale via terrete?

- Quella del Darien probabilmente, - rispose Raveneau.

- Se si offrisse ai tuoi uomini qualche milione di piastre da prelevarsi sull'eredità del Gran Cacico a condizione di aiutarci nella nostra impresa?

- Io credo che si getterebbero anche sulle calate di Panama.

- Noi dunque possiamo contare assolutamente su dite?

- Non solo, ma anche ti ringrazio di essere venuto a scovarmi perché questa storia delle favolose ricchezze del Gran Cacico deciderà completamente i miei uomini a passare sulla costa.

“Tu mi hai detto che il galeone andrà a gettare le ancore alla baia di David?”

- Sí, amico, - rispose Buttafuoco.

- Ebbene noi domani lasceremo la nostra maledetta isola ed andremo ad aspettarlo in vista di quel porto.

Si volse verso i suoi uomini e disse:

- Affrettate le battute, camerati; ho molta fretta di rivedere l'isola

La piroga, una discreta imbarcazione, ancora in ottimo stato, armata d'un cannone collocato a prora, volava sulla acque dell'oceano il quale quel giorno era veramente Pacifico.

Il guascone e Mendoza avevano pure preso un remo ciascuno per accelerare la ritirata.

Due ore dopo Taroga era in vista. L'isola, quasi sterile, emergeva come un enorme cetaceo sul mare, essendo molto lunga e molto stretta.

Da sei anni gli ultimi filibustieri vi si erano annidati, trovandosi essa sulle rotte tenute dalle navi che dalla California e dal Messico si recavano a Panama a portare i ricchi tributi d'oro e d'argento strappati ai poveri indiani.

Il ritorno della piroga con Buttafuoco, Mendoza e don Barrejo, fu salutato con gioia da parte di quei terribili avventurieri, essendo quei tre nomi sempre notissimi nella filibusteria.

Raveneau de Lussan che amava le cose spicce, condusse i suoi amici nella sua capanna, una catapecchia formata di vecchie tele e di avanzi di navi, e offrí subito loro una discreta colazione a base di carne di tartaruga, essendo quell'isola molto frequentata da quei rettili, poi mentre li lasciava riposare, si recò ad informare i capi piú influenti di quella turba di disperati di quanto era stato proposto da Buttafuoco.

Come aveva previsto nessuno mosse delle obbiezioni. Tutti erano stanchi di quella vita di miserie, trascorsa sotto un sole ardente, che li arrostiva vivi, e sospiravano da lunga pezza le grandi foreste profumate del continente.

Ormai non avevano piú nulla da fare nel Pacifico. Le navi spagnuole si tenevano lontanissime e le coste erano guardate da turbe di soldati e d'indiani sempre pronti a rigettare in mare quel pugno d'uomini.

E poi la nostalgia del bel golfo del Messico, la culla delle loro glorie, da parecchio tempo li affliggeva e li consumava di desiderio.

Fu dunque deciso, seduta stante, lo sgombro dell'isola e la partenza pel continente.

Durante la giornata furono fatti i preparativi per la grande spedizione, che poteva durare mesi e mesi attraverso le alte montagne e le sconfinate foreste dell'istmo.

I filibustieri, che già da vario tempo maturavano il disegno d'andarsene, prima che qualche grossa squadra spagnuola li sorprendesse e li massacrasse tutti, come molti lustri prima era avvenuto a San Cristoforo, si erano già procurate delle preziose informazioni, strappate col terrore ai pescatori della costa, però non erano sufficienti.

La strada piú spedita sarebbe stata quella di Segovia-Nuova, città dipendente dal governo di Nicaragua, posta a settentrione del lago omonimo, a quaranta leghe dall'oceano Pacifico ed a venti da un grosso fiume, il quale si sapeva che doveva scaricarsi nel golfo del Messico verso il capo Gracias de Dios.

Quelle notizie non erano certamente molte, però per uomini risoluti come erano i filibustieri, potevano fino a un certo punto bastare.

Alla sera, Raveneau de Lussan, dopo d'aver visitate tutte le piroghe che potevano ancora tenere il mare e aver fatto gettare in acqua le artiglierie che non potevano trasportare e che non volevano cadessero nelle mani degli spagnuoli, radunò i suoi uomini per la divisione del bottino, dovendo d'ora innanzi ognuno incaricarsi di difenderlo per proprio conto.

Narra nelle sue memorie Raveneau de Lussan, che era rimasto nella cassa comune oltre mezzo milione di piastre.

L'argento fu diviso a peso, ma fu una questione molto difficile la divisione e la e la valutazione delle verghe d'oro, delle perle, degli smeraldi e d'altre gioie.

Trovarono però una pronta soluzione mettendo tutti gli oggetti preziosi all'asta, sicché si videro degli uomini che possedevano troppo argento guadagnato al giuoco, pagare un'oncia d'oro perfino cento piastre! Altrettanto fu pei gioielli, i quali, sotto un piccolo volume, conservano un gran valore facile a trasportarsi.

L'indomani, ai primi albori, i duecento ottantacinque filibustieri lasciavano Taroga su otto piroghe armate ciascuna d'un pezzo d'artiglieria e muovevano risolutamente verso il continente, coll'intenzione di incrociare prima d'innanzi alla baia di David, per attendere il galeone che doveva trasportare la contessina di Ventimiglia.

L'oceano, quasi volesse almeno una volta mostrarsi clemente contro quei disgraziati, che avevano già provato troppo le sue collere terribili, era calmo e liscio quasi come uno specchio.

Solamente verso ponente la brezza corruscava le acque, dando loro degli strani riflessi che i raggi del sole rendevano talora purpurei.

Nessuna vela appariva all'orizzonte. In alto invece strepitavano branchi di grossi uccelli marini, specialmente di rompitori d'ossa e d'albatros raglianti come asini.

- To', - disse il guascone, che da trentasei ore aveva ben poco chiacchierato. - Non trovi tu, Mendoza, in questa grande calma un segno di felice augurio per la spedizione?

- Eh, mio caro, non siamo ancora a casa e tu non sei ancora nella cantina della taverna d'El Moro ad assaggiare i vini con tua moglie.

- Mia moglie!... Parola d'onore che me l'ero scordata.

- Di già?

- Don Barrejo era nato per fare l'avventuriero e non per piantare su casa, né taverne, tonnerre!... - rispose il guascone, che manovrava un remo dietro al Basco. - Ero forse piú felice quando abitavo il mio stambugio collocato sotto il tetto, dove tu ed il conte di Ventimiglia siete venuti a svegliarmi.

- Allora non eri che un armigero al soldo della Spagna, mentre ora sei padrone di una taverna e, quello che è piú importante, ben fornita.

- Purché mio cognato non me la vuoti durante la mia assenza - disse il guascone, ridendo.

- Lascia che beva, compare. Che cosa andiamo a fare noi al Darien? A raccogliere oro a palate.

“Non sai che laggiú i ragazzi delle tribú giuocano alla palla con delle pepite che varrebbero mille lire nelle mani d'un ladro?”

- Chi te lo ha detto?

- Tutti lo sanno, - rispose Mendoza.

- Avranno d'oro anche tutti i loro utensili allora.

- Sicuro, compare. Cucinano rospi, serpenti, patate e pesci dentro pentole d'oro.

- È il paese della cuccagna, quello?

- Lo sa bene il marchese Montelimar. Non avrebbe certamente aspettato tanti anni per realizzare il suo sogno.

- Il Corsaro Rosso ha fatto un magnifico affare sposando l'unica figlia del Gran Cacico del Darien. Parola di guascone che l'avrei sposata anch'io invece di Panchita.

- Non so però se l'abbia presa per amore, quantunque si dicesse che era la piú bella fanciulla indiana dell'America centrale, - disse Mendoza.

- L'hanno costretto forse?

- Mio caro, in quell'epoca al Darien si usava mettere allo spiedo i prigionieri che l'oceano regalava.

“Pietro l'Olonese, uno dei piú famosi filibustieri che siano mai esistiti, non è stato forse mangiato da quei selvaggi, dopo essere stato cucinato dentro un'enorme pentola d'oro massiccio? Altrettanto sarebbe successo forse al Corsaro Rosso, se la figlia del Grande Cacico non lo avesse trovato bello.”

- Troveremo ancora il pentolone che ha servito a cucinare l'Olonese? Sarebbe un magnifico ricordo, - disse don Barrejo.

- È probabile, - rispose il basco, ridendo. - Che cosa vorresti farne tu?

- Tonnerre!... Tu non ci vedi dentro agli affari, mio caro. Lo metterei nella mia taverna o nel mio futuro albergo per attirare gente.

“Guarda che cosa salta fuori da queste chiacchiere! Albergo della pentola d'oro, dove è stato cucinato Pietro l'Olonese.”

- Ti ci vorrebbe la facciata intera d'una casa per scrivere tutta questa roba.

- Se sarà necessario ne comprerò due, mio caro. Alla pentola d'oro! Farò certamente affari d'oro, ti pare?

- Io non ne ho nessun dubbio, però penso, camerata, che tu corri troppo.

- Vorresti dire?

- Che il Darien è molto lontano e che prima di giungervi dovremo battagliare ferocemente cogli spagnuoli che il marchese di Montelimar getterà attraverso la nostra via.

- I guasconi muoiono colla barba bianca, mentre io l'ho solamente un po' brizzolata. Me lo diceva sempre Panchita che la mia peluria resisteva tenacemente al clima americano.

Intanto le piroghe, capitanate da quella montata da Raveneau de Lussan e da Buttafuoco, e sulla quale si trovavano pure i due inseparabili amiconi, continuavano la loro marcia verso levante, derivando un po' a settentrione. I filibustieri, lieti di aver lasciata finalmente l'isola dalla quale avevano temuto di non dover piú uscire vivi, maneggiavano i remi gagliardamente, canticchiando.

Di quando in quando un colpo d'arma da fuoco echeggiava ed un albatros od un rompitore d'ossa che avevano commessa l'imprudenza di mostrarsi troppo vicini a quegli infallibili bersaglieri, cadeva ed andava ad aumentare le scarsissime provviste della spedizione.

La notte sorprese i filibustieri in alto mare. Sicuri di non venire disturbati, avendo gli spagnuoli sospesa la navigazione in quei paraggi, si accomodarono alla meglio sotto e sopra i banchi e s'addormentarono placidamente, cullati dall'eterna ondata dell'oceano Pacifico, la quale, di quando in quando, con una certa regolarità, giungeva rumoreggiando cupamente senza essere però pericolosa.

L'indomani, dopo una notte tranquilla, le piroghe riprendevano la rotta verso la costa americana.

Già in lontananza cominciavano a profilarsi le azzurre vette della Grande Cordigliera che forma, colle montagne Rocciose, l'ossatura dei due continenti.

- Questa sera accamperemo a terra, se il diavolo non ci mette la coda, - aveva detto Raveneau de Lussan.

E cosí infatti avvenne. Il sole stava per tramontare quando le piroghe entrarono furiosamente nella baia di David, impadronendosi, senza far uso delle armi, d'un piccolo villaggio di pescatori indiani e meticci, i quali furono subito messi al sicuro per paura che fuggissero nell'interno ad avvertire le cinquantine spagnuole.

Non restava ai filibustieri che attendere il galeone e prenderlo d'assalto colla loro abituale bravura.

Tre giorni però trascorsero senza che il sospirato legno si mostrasse. Buttafuoco cominciava a temere d'essere stato ingannato, quando verso il tramonto del quarto fu segnalata una vela, che pareva puntasse decisamente verso la baia di David.

I filibustieri, prontamente avvertiti, si erano radunati sulla spiaggia, pronti ad imbarcarsi.

- Amici, - aveva detto loro Raveneau de Lussan. - Preparatevi a combattere l’ultima battaglia sull'oceano Pacifico, poiché dopo, noi non rivedremo mai piú, checché ci debba succedere, queste acque.

Alle otto di sera i filibustieri, pieni d'entusiasmo, prendevano posto nelle piroghe, avendo ormai avuta la certezza che una grossa nave, una fregata od un galeone, si dirigeva abbastanza velocemente verso la baia.

Le tenebre favorivano il colpo di mano. Già prima che il sole scomparisse, delle masse di fitti vapori si erano distese pel cielo intercettando completamente la scarsa luce degli astri.

L'oceano pareva che fosse diventato d'inchiostro.

Raveneau de Lussan, in piedi sulla prora della sua piroga, a fianco di Buttafuoco, cercava di discernere la nave immersa nelle tenebre.

- Sapremo egualmente trovarlo, - disse il bucaniere, che lo interrogava ansiosamente. - Sappiamo già qual è la sua rotta e non tarderemo ad incontrarlo.

- Era un galeone? - chiese Buttafuoco.

- Una grossa nave di certo, - rispose Raveneau.

- Lo prenderemo?

- Non dubitare dei miei uomini. E poi ho dato ai capi delle piroghe un certo ordine, che costringerà gli altri a montare all'abbordaggio anche se non ne avessero voglia.

- Vorresti dire?

- Che quando noi saremo sotto il galeone, dovranno sfondare, a colpi di scure, i fianchi delle scialuppe, cosí a tutti noi non rimarrà altra alternativa che di salvarci sul legno nemico se non vorremo morire annegati.

“Si narra che anche Pietro l'Olonese una volta facesse altrettanto.”

- Un mezzo estremamente eroico.

- Che ci darà però la vittoria, - rispose Raveneau. - Conosco troppo bene questi disperati. Ah!... Eccolo.

- Dove?

- S'avanza proprio su di noi.

- Non vedo ancora nulla.

- Tu non hai l'occhio del marinaio. Fra pochi minuti però lo scorgerai anche tu.

Anche i suoi uomini dovevano essersi accorti dell'avvicinarsi del galeone, poiché, come avevano ricevuto l'ordine, si erano disposti su una lunga fila, che doveva subito rinserrarsi al primo colpo di fuoco.

Ben presto una grande ombra, che procedeva lentamente, essendo la brezza diminuita, comparve.

Era il galeone spagnuolo che puntava sulla baia di David.

Nessun rumore proveniva dal ponte; solamente l'acqua, tagliata dall'alto sperone, rumoreggiava rompendo il silenzio della notte.

Le otto piroghe avevano prontamente stretta la linea sul passaggio preciso del vascello. Un comando era stato dato da Raveneau e trasmesso a tutti gli equipaggi.

- Nessun colpo di fucile. Preparate i grappini d'arrembaggio.

Il galeone non era ormai che a duecento passi e procedeva tranquillo la sua via, non sospettando nemmeno lontanamente gli uomini che lo montavano l'agguato che li attendeva.

Era una splendida nave, altissima di bordo, col castello di prora vastissimo e munito probabilmente d'artiglierie.

Le otto piroghe, le quali manovravano silenziosamente, in un baleno si strinsero intorno al vascello ed i grappini d'arrembaggio furono subito lanciati attraverso i paterazzi e le griselle, senza che gli uomini di guardia, troppo sicuri di non incontrare alcun nemico cosí presso alla costa, se ne fossero accorti.

Un comando breve, secco, lanciato da Raveneau de Lussan, echeggiò: - Sfondate!...

Seguí un rimbombo cupo e sinistro. I capi delle scialuppe, secondo l'ordine che avevano ricevuto e come avevano promesso, fracassavano a gran colpi di scure i fasciami.

Sul vascello s'alzarono tosto delle grida.

- All'armi!... All'armi!...

- Fuoco in batteria!...

- Tutti in coperta!...

Era un po' tardi per respingere l'arrembaggio. I filibustieri, vedendosi mancare sotto i piedi le scialuppe, si erano avventati contro il legno, col fucile in ispalla e la corta sciabola fra i denti.

Aggrappandosi agli sportelli delle cannoniere, alle bancazze, alle catene delle âncore, ai paterazzi, in un batter d'occhio i duecento e ottantacinque uomini, compresi i tre avventurieri, sono in salvo sul vascello nemico, mentre le scialuppe scompaiono sotto le acque del Pacifico.

Dei colpi di fuoco echeggiano subito. Gli uomini di guardia del galeone, accortisi, troppo tardi però, di essere stati arrembati, hanno valorosamente impegnata la lotta, pur ripiegandosi precipitosamente verso il castello di prora dove si trovavano due pezzi d'artiglieria.

Raveneau de Lussan comprende subito il pericolo e scaglia i suoi uomini all'assalto di quel posto, mentre Buttafuoco, alla testa d'una trentina di combattenti, spazza con delle scariche nutrite l'alto cassero della nave, del pari armato di grosse bocche da fuoco.

Nemmeno a dirlo che il guascone ed il basco sono in prima linea, pronti a provare il filo delle loro formidabili lame.

Intanto gli uomini delle batterie, credendo di trovarsi dinanzi qualche nave, scaricano d'un colpo i trentasei pezzi del galeone, senz'altro effetto che quello di produrre un rombo spaventevole che fa volare in pezzi tutte le vetrate dei sabordi di poppa.

La difesa però si organizza prontamente anche da parte degli spagnuoli. Dal boccaporto di prora gli uomini salgono a gruppi, semi-nudi, ma bene armati e decisi a non arrendersi senza lotta.

Anche dal boccaporto di poppa altri uomini compaiono, raggruppandosi rapidamente intorno ai due pezzi da caccia disposti sul cassero.

I filibustieri che si sentono ormai in casa propria, si piegarono con rapidità fulminea fra i tre alberi, aprendo un fuoco d'inferno attraverso i ponti.

È quel fuoco che ha sempre terrorizzato gli spagnuoli, poiché ogni palla, bene o male, colpisce un corpo e ad ogni scarica; i difensori del galeone cadono a gruppi, prima ancora d'aver avuto il tempo di mitragliare gli assalitori che già si avanzano correndo, colle sciabole in pugno.

- A te il cassero!... - urla Raveneau de Lussan, dominando colla sua voce squillante il fracasso della fucileria. - Sotto, Buttafuoco!... A me il castello!...

Due fiumane d'uomini si rovesciano attraverso alla tolda, mandando clamori spaventevoli. Nessuno potrà arrestarle poiché sono formate da uomini ormai abituati alle battaglie.

Una lotta terribile si impegna alle due estremità del vascello. Tutti gli uomini delle batterie e le guardie franche del galeone sono in coperta e gareggiano fra di loro per far pagare cara la vittoria all'audace nemico.

I fuoco dei quattro pezzi di prora e di poppa s'incrocia, gettando a terra non pochi uomini di Raveneau de Lussan e di Buttafuoco; ma gli altri, niente affatto atterriti, e premurosi di evitare un'altra scarica montano all'assalto coll'impeto che infonde il valore disperato.

Le scale sono superate in un battibaleno ed ecco i filibustieri sui due altissimi ponti.

La draghinassa del guascone e lo spadone del Mendoza lavorano terribilmente.

Fra il cozzare dei ferri, le urla dei combattenti, i lamenti dei feriti, i colpi di pistola o di archibugio, si ode tratto tratto la voce dei due fracassoni:

- Avanti la Biscaglia!...

- Sotto la Guascogna!...

Il valore nulla può contro l'impeto irrefrenabile dei filibustieri, abituati a non arrestarsi mai, una volta lanciati alla carica.

I due ponti sono conquistati dopo un breve ma furiosissimo combattimento, il grande stendardo di Spagna viene calato, gli uomini che hanno opposto una fiera resistenza, pur essendo stati sorpresi ed in minor numero, depongono le armi, per non farsi inutilmente trucidare.

Il comandante del galeone, un vecchio capitano, che ha la sua spada spezzata, s'avanza verso Raveneau de Lussan, dicendo:

- Abbiamo perduto: se credete, gettateci pure in mare.

- Signore - rispose dignitosamente il gentiluomo francese, - non tutti i giorni accade di vincere ed io ho ammirato il vostro coraggio.

“D'altronde i filibustieri non sono cosí feroci come forse avete udito raccontare.

“Ne volete una prova? Vi lascio le armi ed il vostro vascello del quale noi non sapremmo in questo momento che cosa fare.”

- Perché ci avete assaliti dunque? - chiese, stupito, il vecchio comandante.

- Voi avete una señorita a bordo, è vero?

- Chi ve lo ha detto?

- Lo sapevamo: ve l'ha affidata il marchese di Montelimar.

- Siete dei demoni voi? Avrebbero ragione i nostri frati a credervi figli dell'inferno?

- Mio padre era un buon gentiluomo francese della Geronda, e credo che non avesse alcuna parentela con messer Belzebú, - rispose, ridendo. - Forse era mio nonno il parente.

- Insomma che cosa volete?

- Ve l'ho già detto: la consegna immediata della señorita affidatavi dal marchese di Montelimar.

- E se mi rifiutassi?

- Per Bacco!... Siamo padroni della nave e delle armi e non avremmo certamente bisogno del vostro permesso per salutare la contessina di Ventimiglia, la figlia del famoso Corsaro Rosso.

“E poi non contate troppo sulla generosità dei filibustieri, perché potreste ingannarvi.

“Orsú, signore, la señorita!...”

Ravenau de Lussan aveva pronunciato le ultime parole, con un tono cosí minaccioso, che il capitano del galeone non credette piú oltre d'insistere.

Ad un suo cenno uno dei suoi ufficiali scese nel quadro e poco dopo tornò, dando il braccio ad una bellissima fanciulla, alta, slanciata, dalla capigliatura corvina, gli occhi intensamente neri e grandi e le carni abbronzate con certe sfumature che parevano riflessi d'oro.

Si avanzò attraverso le file degli spagnuoli, non dimostrando nessuna sgradevole impressione pel sangue che correva ancora attraverso le tavole, e mosse diritta verso Buttafuoco, dicendogli semplicemente:

- Vi aspettavo.

- Non cosí presto forse, - rispose il bucaniere, baciandole galantemente la mano.

- Voi corsari gareggiate coi fulmini e colle tempeste. E Mendoza?

- Presente, señorita! - urlò il basco.

- E ci sono anch'io, contessa, corpo di centomila cannoni!... - gridò don Barrejo. - Non si conoscono piú dunque i vecchi amici?

- Ah!... Il famoso guascone!... - esclamò la figlia del Corsaro Rosso, mostrando i suoi splendidi dentini, scintillanti come perle.

- Sempre pronto a morire per tutti coloro che portano il nome dei Ventimiglia, señorita.

- Alle vele, amici, - gridò in quel momento Raveneau de Lussan. - Quattro uomini al timone e cento nelle batterie a guardia dei prigionieri.

“Chi tenta resistere sia gettato senz'altro in mare.”

Pochi minuti dopo il galeone si rimetteva alla vela, avanzandosi lentamente verso la baia di David.

 

 

Capitolo XI

SUL CONTINENTE

 

L'aver raggiunto il continente e l'aver sorpreso il galeone erano due fatti che avrebbero dovuto incoraggiare subito i filibustieri a rimettersi risolutamente in marcia.

Invece ebbero ancora un ultima esitazione e, prima d'inoltrarsi, mandarono settanta dei loro compagni ad esplorare i dintorni ed a raccogliere informazioni sulla via da tenersi, poiché la ignoravano assolutamente.

Mentre i rimasti si trinceravano fortemente nel villaggio, armandolo di tutti i cannoni che portava il galeone, il drappello di esploratori si mise senz'altro in marcia, risoluto a fare dei prigionieri perché potessero fornire delle indicazioni.

Camminarono costoro finché ebbero forza, attraversando montagne e foreste, ma avendo per caso udito che un corpo di seimila spagnuoli si preparava ad opporsi alla loro avanzata, stimarono opportuno non impegnarsi, ed avendo già raccolte sufficienti informazioni, s'incamminarono nuovamente verso la costa.

Avevano lasciati però indietro diciotto compagni, ai quali avevano dato l'incarico di raccogliere delle provviste.

Invece di scoprire campi coltivati o villaggi da saccheggiare, s'imbatterono in due spagnuoli a cavallo e senz'altro li fecero prigionieri.

Per bocca di quei malcapitati seppero che a breve distanza si trovava la piccola città di Chiloteca, ove oltre un gran numero di negri, di mulatti e d'indiani, abitavano pure quattrocento spagnuoli.

La piú elementare prudenza avrebbe dovuto consigliare a quel manipolo di disperati di battere prontamente in ritirata e di raggiungere i compagni.

L'idea di mettere le mani su una città probabilmente ricca, fu piú forte della prudenza. Alle porte nessuno vegliava poiché nessuno aveva mai della prudenza e, incredibile a dirsi, quei diciotto decisero senz'altro sorprendere gli abitanti.

Era giorno di mercato e tutta la gente si era raccolta sulla piazza non avendo udito parlare fino allora di filibustieri. I diciotto uomini dunque irrompono a corsa disperata attraverso le vie delle città, urlando ferocemente per farsi credere in maggior numero e sparando colpi di fucile a casaccio, per terrorizzare prontamente la popolazione.

Quell'irruzione improvvisa, la vista di quegli uomini bruni, barbuti e stracciati ed i colpi di fuoco che si succedono, mettono lo scompiglio dappertutto.

Negri, mulatti, indiani, spagnuoli, fuggono all'impazzata, gettando all'aria i banchi di mercato.

I filibustieri ne approfittano subito. S'impadroniscono di parecchi cavalli carichi di provviste e, per assicurarsi la ritirata, prendono i primi cittadini che capitano loro fra le mani e se la svignano fra un grandinare di palle. (nota: storico)

Gli spagnuoli, accortisi d'aver da fare con un pugno di uomini, erano ridiscesi nelle vie per dare battaglia e per liberare il loro governatore che per caso era stato fatto prigioniero, ma la riscossa giungeva ormai troppo tardi.

I filibustieri lanciano i cavalli ventre a terra e raggiungono i loro compagni che si ripiegavano già verso la costa.

La cattura del governatore di Chiloteca fu pei filibustieri preziosissima, poiché con minacce di morte riuscirono ad avere altre informazioni sulla via che dovevano tenere, ed anche a sapere dove gli spagnuoli si preparavano ad attenderli, in grossi corpi.

Avendo pure appreso che a Caldeira si trovava ancorata la grande galea di Panama per spiare le loro mosse e che nel porto di Ralejo si trovava un'altra nave armata di trenta cannoni, i filibustieri, che temevano di dover essere sorpresi anche alle spalle, decisero subito di abbandonare per sempre le coste del Pacifico.

Cacciati in acqua i cannoni del galeone, resa la libertà all'equipaggio per non ingombrarsi di prigionieri, cinque giorni dopo volgevano risolutamente le spalle a quel mare, ansiosi di rivedere l'altro.

Il paese che dovevano attraversare era quella porzione dell'America che abbraccia la provincia di Guatemala, avente a settentrione la costa d'Honduras ed a levante il capo Gracias de Dios, paese ben popolato, con città numerose e fortemente guarnite.

La loro partenza per l'interno era stata subito avvertita da numerose spie che gli spagnuoli tenevano lungo le coste, quindi quei disperati dovevano aspettarsi ben presto dei furiosi combattimenti.

Raveneau de Lussan e Buttafuoco divisero i loro uomini in quattro compagnie, affidando alla piú forte la sorveglianza della contessa di Ventimiglia, e si misero in marcia attraverso le grandi foreste dell'interno, formate da alberi antichi quanto il mondo.

Il primo giorno tutto va bene e perfino il guascone non trova di che lamentarsi, quantunque non avesse avuto occasione di esercitare i suoi muscoli e la sua draghinassa.

Al secondo cominciano le difficoltà. Gli abitanti hanno rotto le strade e trasportati lontano, al sicuro, tutti i loro viveri.

I villaggi indiani, che avrebbero potuto servire d'asilo ai filibustieri, sono tutti in fiamme. Il deserto si fa intorno a loro, poiché anche i campi, per ordine dei governanti, vengono inesorabilmente distrutti onde affamare quell'orda di disperati e costringerla a tornare donde è venuta.

Colonne di fumo si abbattono di quando in quando sui disgraziati, minacciando di soffocarli, ed in mezzo alle selve sibilano le micidiali frecce degli indiani senza poter sapere da quale parte provengano.

Don Barrejo cominciava a trovare che le cose non andavano piú troppo bene, e che le frontiere del Darien non erano cosí facili a raggiungersi come aveva sperato dapprima.

- Compare, - disse a Mendoza, il quale marciava all'avanguardia con una ventina di cavalieri. - Io vorrei sapere come finirà questa faccenda. Si direbbe che gli spagnuoli nascono come i funghi, dinanzi a noi.

- Credevi di fare dunque una passeggiata trionfale? - rispose Mendoza. - Certo che si stava meglio alla taverna d'El Moro, colla bella castigliana.

- Tu mi burli.

- Niente affatto, don Barrejo.

- Io non ho ancora nominata la mia taverna e nemmeno mia moglie, tonnerre!...

- Allora tira avanti finché saremo giunti alle frontiere del Darien.

- Che non saranno vicine, m'immagino.

- Mah!... Chi lo sa? Nemmeno Raveneau de Lussan potrebbe dirtelo, tuttavia sono sicuro che finiremo per giungervi e forse prima del marchese di Montelimar.

- A proposito, che cosa è avvenuto di quel caro gentiluomo?

- Si dice che abbia lasciato Panama, per correre anche lui verso il Darien. Non so però come rimarrà quando apprenderà che la señorita è ritornata fra le nostre mani.

- Io al suo posto tornerei subito a Panama e lascerei in pace il tesoro del Grande Cacico e anche la pentola dove è stato cucinato l'Olonese.

- Io ti dico invece che ci darà da fare non poco e che, prima di giungere al Darien, ne vedremo delle belle.

- Finora però non ho veduto che delle strade rotte e molto fumo, che mi fa tossire orribilmente, - rispose il guascone.

- Verrà anche il piombo, compare, e forse ti lamenterai allora per la sua abbondanza.

- Storie!... Tutti scappano dinanzi a noi, come se gli spagnuoli fossero diventati, da un momento all'altro, dei conigli.

“Vedrai che giungeremo al Darien pieni di fame e senza aver data nemmeno una piattonata.”

Per otto giorni infatti il guascone ebbe ragione, poiché gli spagnuoli, sia che non si sentissero ancora in forze bastanti per affrontare quei terribili filibustieri, temuti come esseri indiavolati, sia che aspettassero qualche buona occasione, non si fecero vivi, sicché la colonna poté inoltrarsi abbastanza tranquillamente, quantunque sempre esposta al pericolo di cadere fra le fiamme, poiché piantagioni, villaggi e perfino boschi, non cessavano di ardere davanti a loro.

Il nono giorno si erano impegnati in una foltissima foresta, incassata fra due alte montagne, quando delle scariche micidialissime partirono da tutte le parti, decimando di colpo l'avanguardia.

Trecento spagnuoli, come seppero di poi, armati di buonissimi archibugi, stesi ventre a terra sotto le macchie, avevano tesa loro un imboscata nei dintorni di Tusignala.

I filibustieri, che ignorano quali forze hanno dinanzi, restano titubanti a slanciarsi sotto quella cupa foresta che continua a risuonare di schioppettate mortali.

Finalmente comprendono che una sosta piú lunga può perderli, e desiderosi anche di far conoscere a quei nuovi nemici il loro straordinario valore, si scagliano innanzi.

Una delle quattro compagnie di Raveneau, guidata da Buttafuoco, occorre per appoggiarli vigorosamente.

La battaglia non dura che pochi minuti, poiché gli spagnuoli sapevano già la terribile fama che godevano quegli uomini formidabili.

Vistisi scoperti, si salvarono piú che in fretta sui pendii delle montagne, da dove continuarono però a tribolare le quattro compagnie, che si avanzano rapidamente per uscire da quella strettoia che per poco non era riuscita loro fatale.

Solo alla notte quello scambio di archibugiate cessò. Si era alzata una foltissima nebbia assai fredda, la quale si era abbattuta sulla foresta come un lenzuolo funebre, avvolgendo i grandi alberi.

I filibustieri, che avevano subíte non poche perdite, si accampano alla rinfusa, guardandosi bene dall'accendere i fuochi per non attirare l'attenzione dei nemici, forse sempre vigilanti.

Il guascone e Mendoza, si sono accovacciati sotto un cespuglio i cui rami stillano continuamente grosse gocce che danno, specialmente al primo, una grande noia.

Si sono rovinati i denti intorno ad un pezzo di tasajo, carne seccata al sole, senza riuscire a calmarsi i morsi della fame.

- Compare, - disse il basco, che stava consumando la sua ultima carica di tabacco. - Sei d'umore nero questa sera. Eppure abbiamo combattuto e ne abbiamo anche preso del piombo.

“Scommetto che pensi sempre alla tua taverna ed alla bella castigliana. Là dentro almeno il piombo non faceva scoppiare le botti come le teste dei nostri camerati.”

- Se t'ho detto centomila volte, che sono nato per fare l'avventuriero e non il taverniere, - rispose don Barrejo. - Sono di pessimo umore perché anche oggi la mia draghinassa è rimasta assolutamente inoperosa.

- Tu che hai le gambe cosí lunghe dovevi slanciarti dinanzi a tutti a far correre gli spagnuoli.

- Faceva troppo caldo sotto gli alberi ed io non sono mai stato troppo amico del piombo. I guasconi non amano che l'acciaio e bene temprato.

“E poi queste imboscate a me non vanno troppo a sangue.”

- Eppure dovrai abituarti. Ora che gli spagnuoli hanno cominciato, non ci lasceranno piú tranquilli finché non saremo giunti al Darien, - disse Mendoza. - Domani avremo, probabilmente, un'altra edizione.

- Ci dessero una carica a colpi di spada ne sarei lietissimo, ma come ti ho detto, non ho mai sentito alcuna affezione pel piombo.

“Acciaio, sempre acciaio pei guasconi. Ma non sai tu che noi siamo capaci di caricare un reggimento nemico anche quando siamo in due soli?”

- Che uomo terribile!...

- Non sono un basco, io!...

- Ohé, don Barrejo, metteresti in dubbio il mio coraggio? Bada che potrei metterti alla prova.

- Quale prova? - chiese il guascone.

- Di vedere due uomini caricare un reggimento a colpi di spada, - disse Mendoza.

- Ti ripeto che se fossero due guasconi non avrebbero paura.

- Mettiamoci invece un basco.

- Ehi, compare, hai delle idee bellicose?

- Vorrei vederti alla prova, don Barrejo, - rispose il basco. - E l'occasione sarebbe propizia.

- Per menare le mani?

- E salvare probabilmente la spedizione.

- Che cosa mi narri tu?

- Vuoi scommettere, don Barrejo, che nemmeno a mille passi di qui vi sono gli spagnuoli pronti a fucilarci appena noi leveremo il campo?

- Dopo la batosta presa quest'oggi?

- Da loro o da noi?

- Un po' per ciascuno, - rispose il guascone, ridendo. - Ne abbiamo date e ne abbiamo anche prese e non poche.

“Dieci vittorie come questa e non rimarrebbe che la contessa di Ventimiglia a continuare la sua marcia verso il Darien.”

- Vuoi dunque provare la tua draghinassa?

- Un guascone non si rifiuta mai.

- Sono laggiú, imboscati.

- Chi?

- Gli spagnuoli.

- Tu sogni, compare. Tutti questi uomini non si sono accorti di nulla.

- Non v'è un basco fra tutta questa gente.

- E vorresti dire con questo?

- Chi i baschi hanno il fiuto finissimo dei bracchi. L'hai inteso mai dire?

- Corpo d'un tuono!... - Esclamò don Barrejo. - Ecco una particolarità che i guasconi non hanno mai posseduta e che vi invidieranno sempre.

“Li senti proprio questi spagnuoli?”

- Te lo dico sul serio. Se facciamo una passeggiata di mille o mille e cinquecento passi ci daremo dentro.

“Vuoi che andiamo un po' ad assicurarcene, compare?”

- Quando si tratta di menare le mani, un guascone non si rifiuta mai; te l'ho detto già almeno cento volte. E se non ci fossero?

- Avremo fatta una deliziosa passeggiata al fresco, - rispose Mendoza, un po' ironicamente.

Don Barrejo si tolse dalle labbra la pipa, la vuotò sulla palma della mano, troppo incallita per provare i morsi del fuoco, raccolse il suo archibugio e disse:

- Andiamo: infine si tratta della salvezza di tutti.

Mendoza scambiò qualche parola cogli uomini di guardia che vegliavano intorno al campo improvvisato, per evitare il pericolo di farsi prendere a fucilate, e si mise in cammino con don Barrejo alle spalle, occupato a far scorrere dentro e fuori la guaina la sua terribile draghinassa. La notte non solamente era oscura ma anche fredda e nebbiosa, poiché i filibustieri avevano già raggiunti i primi contrafforti della Cordigliera.

Una pioggia sottile trapelava attraverso le alte e foltissime piante, sussurrando monotonamente sulle gigantesche foglie, larghe come ombrelli.

Quel rumore prodotto dall'acqua sulla grande foresta favoriva l'ardito progetto dei due avventurieri di sorprendere gli spagnuoli all'agguato. La loro marcia almeno non poteva essere facilmente rilevata e udita.

Ad un tratto però il guascone, che s'avanzava carponi, udí delle voci umane che sussurravano al di là della muraglia di verzura.

- Tonnerre!... - esclamò, guardando Mendoza, il quale si era arrestato. - È proprio vero che voi baschi avete un fiuto straordinario.

“Gli spagnuoli stanno dinanzi a noi e ci aspettano al varco.”

- Te l'avevo detto io, - rispose il filibustiere. - Vuoi che attacchiamo?

- Alto là, camerata! Non facciamo delle sciocchezze. I guasconi si battono splendidamente perché, ti piaccia o no, dividono cogli italiani, il vanto di essere i piú formidabili spadaccini dell'Europa, però non ci tengono affatto a farsi fucilare come merli.

“Ci sono, va benissimo. Provochiamoli ed avremo sventato un altro agguato forse peggiore dell'altro.

“Gettati a terra e lascia a fare a me.”

Il guascone strappa una foglia, la rotola rapidamente in forma di cornetto e trae, non si sa come, una serie di note acutissime.

Un colpo d'archibugio tosto rimbomba a poca distanza dal suonatore, poi due, quattro, quindi si succedono delle scariche furiose.

Don Barrejo e Mendoza si allungano piú che possono fra le alte erbe che li nascondono completamente e odono passare, sopra le loro teste, un vero uragano di proiettili.

I filibustieri del campo balzano in piedi ed a loro volta rispondono e si scagliano avanti colla loro usuale pazza temerità, senza badare alla tempesta che li investe.

Gli spagnuoli avvedutisi che l'agguato, forse da lungo tempo preparato, era sventato, e non desiderando affatto venire ad un corpo a corpo con quei terribili uomini che consideravano, come abbiamo detto, figli di Belzebú, non tardarono a disperdersi ed a mettersi in salvo sui fianchi dei burroni.

- Alto, amici!... - grida Don Barrejo, che si vede giungere addosso, lanciati a passo di corsa, i filibustieri. - Non abbiamo pelle spagnuola noi indosso, e perciò vi prego di rispettarci.

Buttafuoco, che è alla testa della prima compagnia, se li vede dinanzi tutti e due.

- I miei fracassoni! - esclamò. - Me lo immaginavo che avrebbero tentata qualche diavoleria.

- Che vi ha però salvati da un'imboscata, - rispose Mendoza. - Senza di noi sareste caduti come pernici dentro la rete della morte.

- Sapete che cos'è, signor Buttafuoco? - domandò il guascone.

- Me lo spiegherai un altro giorno. Avanti, amici, dobbiamo uscire da questa seconda strettoia prima che l'alba ci sorprenda fra queste foreste.

I filibustieri, incoraggiati da Raveneau de Lussan, si spingono innanzi nel piú profondo silenzio, per non segnalare con qualche inopportuno colpo di fuoco la loro marcia.

Gli spagnuoli, imboscati sui fianchi della valle, continuano le loro scariche le quali si disperdono, senza produrre danni, attraverso la boscaglia.

Finalmente il passo pericoloso è superato ed i filibustieri riescono a raggiungere la base della sierra.

Non hanno guide, non hanno carte; sanno solo che al di là di quelle montagne, entro una profonda valle, simile ad una conca, si trova una città: Segovia-Nuova.

Sicuri di riuscire sempre nelle loro imprese, quantunque siano sfiniti dalla fame e delle fatiche, attaccano risolutamente la Cordigliera, risoluti a piombare sulla città e sicuri d'impadronirsene con un colpo di mano.

Eccoli scalare rupi di altezze incredibili, fiancheggiare burroni spaventevoli, arrampicarsi sopra ciglioni tremendi, scendere attraverso a precipizi e sfondare boscaglie forse mai calpestate da piedi europei, penetrati nell'ossa al mattino da un acutissimo freddo, rompere fino alle dieci del mattino una nebbia cosí fitta da non potersi scorgere nulla alla distanza di dieci passi e sfidare venti freddissimi che rovesciano su di loro, di quando in quando, nembi di pioggia.

Nessun ostacolo arresta quei terribili uomini, che sono ben decisi rivedere il Golfo del Messico o cadere tutti nell'ardua impresa.

E la contessina di Ventimiglia, che ha nelle sue vene sangue indiano, è sempre là pronta a dare il buon esempio ed il suo slancio e la sua resistenza formano l'ammirazione di quei ruvidi avventurieri, i quali hanno sempre conservato nel loro cuore un vero culto pei discendenti dei tre grandi corsari: il Nero, il Rosso, il Verde.

Dopo tre giorni di fatiche inenarrabili, la colonna, verso il cader del giorno, giunta sulla vetta d'una certa montagna, scorge con grande stupore, agglomerati nella sottoposta valle, una moltitudine di animali.

Dapprima li presero per buoi al pascolo e già si rallegravano di potersi finalmente ristorare, quando furono avvertiti dai loro esploratori che quelle bestie erano cavalli già insellati e colle loro staffe, e che il loro numero ascendeva almeno a mille e cinquecento!

E non era tutto. Gli stessi esploratori avevano scoperto, nel ripiegarsi verso la montagna, tre ordini di trincee alzate a breve distanza le une dalle altre che chiudevano completamente la gola, per dove avrebbero dovuto scendere il giorno seguente, non essendovi altri passaggi in vista. Infatti tutto intorno il paese era coperto da foreste impraticabili, da rupi scoscese, da precipizi profondissimi e da paludi che probabilmente nascondevano delle sabbie mobili.

In tante angustie, i filibustieri, dopo essersi radunati a consiglio, decidono di tentare un colpo disperato, ossia di sorprendere gli spagnuoli alle spalle; ma per far ciò era d'uopo lasciare indietro tutto il loro convoglio, non volendo esporsi a perdere le loro ultime ricchezze, per le quali sole si sentivano tratti a salvare le loro vite.

E stavano già preparandosi animosamente alla disperata impresa, quando da un negro fuggiasco, catturato dai loro esploratori, apprendono che hanno alle spalle un corpo di trecento spagnuoli, i quali da giorni e giorni li seguivano, in attesa del momento opportuno di privarli dei loro bagagli.

Altri uomini, di fronte a tanti ostacoli, si sarebbero certamente perduti d'animo, ma i filibustieri possedevano una fibra a prova di qualunque fuoco.

Con alberi innalzano delle trincee e fortificano, come meglio possono, il loro campo, incaricando di guardarlo e di difenderlo ottanta dei loro compagni, i quali dovevano pure vegliare sulla contessa di Ventimiglia.

Per ingannare poi meglio gli spagnuoli sui loro disegni, Raveneau de Lussan e Buttafuoco ordinano alla retroguardia di mantenere sempre accesi i fuochi, di far rullare incessantemente i loro tamburi, istrumenti carissimi ai filibustieri, e che portavano con loro anche durante le piú pericolose spedizioni, di far gridare alto alle sentinelle ogni volta che le cambiavano e di fare, di quando in quando, delle scariche di moschetteria.

Prese queste precauzioni, il corpo principale, composto di poco piú che duecento uomini, nel cuor della notte lascia il campo, risoluto ad aprirsi il passaggio della valle e a piombare su Segovia-Nuova.

Quegli uomini instancabili, rotti a tutte le fatiche ed a tutti i disagi, scendono la montagna per uno dei fianchi e cominciano a trarsi sulla parte opposta con incredibili fatiche, sfondando boschi, superando rocce spaventose, attraversando burroni profondissimi solcati da torrenti impetuosi, le cui acque sono gelate.

Allo spuntare del giorno i duecento uomini si trovano finalmente riuniti sulla vetta d'una montagna alla cui falda stavano i trinceramenti spagnuoli preparati con tale arte da rendere impossibile ogni attacco di fronte.

Una densa nebbia fu loro propizia, in quanto che poterono scendere inosservati, però quella nebbia nel medesimo tempo toglieva loro la vista dei trinceramenti.

Fu grande ventura per loro di udire a pochi passi una pattuglia nemica, che marciava pesantemente sul terreno ineguale.

Giovò pure a loro udire le voci degli spagnuoli che recitavano le loro preghiere del mattino, sicché conobbero facilmente a che distanza e da quale parte si trovavano i loro nemici.

Gli spagnuoli erano cinquecento, comandati da un vecchio ed esperimentato ufficiale vallone, quindi avrebbero potuto disputare lungamente la vittoria a quel pugno d'uomini.

Vedendo precipitare dall'alto i loro avversari che aspettavano invece al passo della gola, presi da meraviglia e da spavento fuggono disordinatamente, credendo di aver di fronte un grosso corpo.

Quelli che si trovano nei trinceramenti, per loro diventati ormai inutili, per un'ora resistono ferocemente, poi a loro volta si precipitano al basso, sperando di salvarsi in Segovia-Nuova ma cadono sugli ostacoli che avevano preparati pei filibustieri.

Sui fianchi della montagna s'impegna una lotta spaventosa, la quale non tarda a tramutarsi in un macello, poiché gli spagnuoli, sdegnando di difendere la vita contro uomini che credevano piú infernali che umani, si lasciavano trucidare senza opporre resistenza, sicché ben pochi si salvarono in mezzo alle folte boscaglie.

Fra i morti fu trovato il vecchio ufficiale vallone che comandava la spedizione, espertissimo nelle cose di guerra, il quale, mentre il governatore di Costarica, d'accordo col marchese di Montelimar, voleva dargli ottomila uomini, che si trovavano radunati in Segovia-Nuova, non ne aveva presi con sé che mille e cinquecento, reputandoli piú che bastanti per arrestare quel pugno di avventurieri e di sterminarli in fondo alla valle.

Diceva nelle lettere trovategli indosso, che se i filibustieri erano uomini, non avrebbero potuto superare quelle rocce in meno di otto giorni; che se poi erano demoni, ogni misura che si prendesse contro di loro sarebbe stata vana.

Cosí col fatto gli spagnuoli poterono convincersi sempre piú che non erano uomini i filibustieri, bensí spiriti maligni vomitati dall'inferno per tormentare l'umanità.

Incredibile a dirsi! In quella lotta durata varie ore i filibustieri non avevano perduto che un solo uomo e non avevano avuto che due feriti! E questa è storia.

Mentre gli spagnuoli dei trinceramenti si lasciavano distruggere quasi senza combattere, i trecento che erano stati incaricati dal governatore di Tusignala di perseguitare la retroguardia dei filibustieri, si spingevano invece audacemente sotto il campo tentando una sorpresa.

Accortisi che la maggior parte dei loro avversari avevano abbandonata la vetta della montagna, si fecero arditamente innanzi, ma all'ultimo momento, invece di agire, vollero ragionare, mentre avrebbero potuto facilmente aver ragione degli ottanta uomini che difendevano il campo.

Mandarono quindi uno dei loro camerati a dire ai filibustieri che l'attacco dato del corpo di duecento uomini era andato a vuoto, che tutto il paese era in armi e che perciò si arrendessero.

Pei filibustieri è un altro momento terribile. Hanno udito rombare i moschetti giú nella valle, ma le grida di vittoria dei loro camerati non erano giunte ai loro orecchi, trovandosi troppo lontani dai punti di attacco.

Essi si domandano angosciosamente se i loro camerati sono davvero tutti caduti o se sono riusciti invece ad aprirsi un passaggio.

Raveneau de Lussan e Buttafuoco avevano presa la precauzione, prima di lasciare il campo, di avvertire gli ottanta uomini di prendere le loro misure per salvarsi al piú presto nel caso che fossero stati attaccati.

La retroguardia, credendosi ormai abbandonata alle sue sole forze, non esita. Respinge la resa e risponde fieramente al messo spagnuolo che insiste:

- Se i vostri compagni hanno distrutto i due terzi dei nostri, il terzo che rimane ha bastante coraggio per tenere testa a tutti voi.

Mentre si dispongono a scendere nella valle, scorgono finalmente i segnali di vittoria dei loro camerati, sventolati sulle trincee grondanti di sangue.

Mentre il messo spagnuolo ritorna al campo per riferire al suo comandante la risposta avuta, formano rapidamente una carovana, rinchiudendo nel mezzo la contessa e scendono a precipizio nella valle, sparando furiosamente per impressionare i trecento spagnuoli che avrebbero dovuto distruggerli.

A mezzogiorno i due piccoli corpi si riunivano, accampandosi nelle fortissime trincee che avrebbero dovuto arrestarli e che ormai diventavano imprendibili anche per gli spagnuoli.

 

 

Capitolo XII

IN CERCA DI IMBOSCATE

 

L'entusiasmo dei filibustieri per aver riportata quella grande ed insperata vittoria, non aveva durato molto, poiché se erano riusciti ad impadronirsi dei trinceramenti e forzare la bocca della valle, non potevano dire di essersi aperti il passo.

Le lettere trovate sul vecchio ufficiale vallone, le quali affermavano che entro Segovia-Nuova si trovavano seimila uomini al comando del marchese di Montelimar, avevano raffreddato molto gli animi.

Una nuova battaglia avrebbe potuto terminare in un terribile disastro, poiché erano esseri umani non diversi dagli spagnuoli e che nessun talismano proteggeva dalle palle.

Raveneau de Lussan e Buttafuoco, i quali si erano spinti fino alle ultime trincee, si erano resi subito conto della gravità della situazione.

La città stava dinanzi a loro, a poche miglia di distanza, incassata dentro una specie di conca e chiudeva tutti i passaggi.

Per di piú sui fianchi delle montagne gli spagnuoli avevano eretto delle forti trincee armate di cannoni, pronti a schiacciare il nemico se avesse osato scendere nella valle.

- Mio caro, - disse Raveneau a Buttafuoco, - ecco una magnifica vittoria guadagnata quasi senza perdite e che non ci ha fruttato che una massa di cadaveri e di corazze. Che cosa fate ora? Tornare indietro? Nessuno dei miei uomini accetterebbe una simile proposta, quand'anche fossero sicuri di lasciar qui la loro pelle e le loro ricchezze.

- Se in Segovia-Nuova non ci fosse il marchese di Montelimar, ti direi senz'altro di muovere all'assalto della città, approfittando dello sgomento che deve aver invaso ormai tutte le truppe per la nostra strepitosa vittoria.

Una voce in quel momento si fece udire dietro i due capi delle bande.

- È il marchese che v'inquieta?

Buttafuoco e Raveneau si erano voltati e si erano trovati dinanzi al guascone ed al basco, i quali stavano osservando a breve distanza delle magnifiche corazze cesellate che i filibustieri avevano levate ai morti.

- Che cosa volete dire, don Barrejo? - chiese Raveneau, un po' sorpreso da quella domanda.

- Che voi, mio caro signore, vi dimenticate troppo spesso di aver fra le vostre file qualche guascone e qualche basco, - rispose l'ex taverniere.

- Vi prego di spiegarvi meglio.

- Io dico che quando un uomo dà dei fastidi si va a trovarlo e si mette a posto.

“Giacché è il marchese di Montelimar che vi dà delle preoccupazioni, perché non dite a noi: Signori miei, andate a prenderlo e portatemelo qui? Con un ostaggio di tale specie la via ci sarebbe subito aperta e sarebbe anche finita la storia di questo pericoloso concorrente alla conquista del tesoro del Gran Cacico del Darien.”

- Voi siete pazzo!...

- Niente affatto, signor Raveneau. Che diamine!... I cervelli dei guasconi nascono ben muniti di chiavarde tutto intorno.

- Insomma, che cosa volete fare? - chiese il gentiluomo, un po' impazientito.

- Chiedetelo ora al mio camerata. A te la parola, Mendoza.

Il basco lasciò cadere la corazza che teneva in mano e, guardando i due capi, disse con una calma stupenda:

- Che cosa vogliamo fare? Per Bacco!... Andarvi a prendere il marchese e portarvelo qui.

- E farvi appiccare, - disse Buttafuoco.

- Bah!... Non si appicca cosí facilmente i baschi ed i guasconi.

“Io e don Barrejo, in un lampo, abbiamo fatto il nostro piano.

“Giacché il marchese ci ha portata via, quasi sotto il naso, la contessa di Ventimiglia, desideriamo provare il piacere di rapire ora lui, tanto piú che quell'uomo vi è necessario perché è l'anima della difesa.

“Quanti giorni ci accordate?”

- Siete pazzi, - ripeté Raveneau de Lussan, il quale non poteva fare a meno d'ammirare il coraggio di quei due terribili spadaccini.

- Diteci quanti giorni ci accordate, - disse don Barrejo. - Noi non vi chiederemo né un uomo, né un fucile di piú, quantunque qui ve ne siano in abbondanza.

“Basteranno a noi due costumi spagnuoli e due corazze con relativi elmetti, è vero, camerata?”

- Ben detto, don Barrejo.

- Noi non lasceremo questi trinceramenti finché non avremo qualche probabilità di espugnare, con un colpo di mano, Segovia-Nuova, - disse Raveneau de Lussan.

- Allora possiamo prenderci alcuni giorni di permesso per andarci a divertire in città. È un bel po' che non visitiamo una taverna, è vero, don Barrejo?

- Tanto che mi pare di non aver mai fatto il taverniere, - rispose il guascone.

Raveneau de Lussan interrogò cogli sguardi Buttafuoco.

- Lasciali fare, - rispose il bucaniere. - So di che cosa sono capaci questi due uomini.

- E se gli spagnuoli ce li appiccano? Mi dispiacerebbe perdere due combattenti cosí valorosi.

- Quelli li morranno sul loro letto, te lo dico io, perché sapranno sempre trarsi d'impiccio.

- Se tu dici questo, sia fatta la loro volontà, e poi sapremo sempre vendicarli.

Mentre discorrevano, il basco ed il guascone avevano spogliati due ufficiali e ne avevano indossate le vesti le quali si adattavano abbastanza bene alle loro corporature.

- Con quelle due corazze cesellate noi faremo una splendida figura a Segovia, - diceva il guascone. - Era tempo di indossare un vestito un po' piú decente. Il mio cadeva a brandelli ed anche il tuo, mio caro Mendoza, non si trovava in migliori condizioni.

“Aveva perfino uno strappo che mostrava certe rotondità che avrebbero dovuto rimanere sempre al coperto.”

- Scommetto che tu, don Barrejo, farai qualche nuova conquista a Segovia.

- Non sarà però questa volta una castigliana. Hai finito?

- Si.

- Cerca un paio di pistole.

- Ne ho messo da parte quattro.

- Allora possiamo andare.

I due avventurieri, coi loro costumi d'ufficiali, a tinte smaglianti, le corazze e gli elmetti cesellati, facevano realmente una splendida figura, malgrado le loro lunghe barbe incolte che da settimane e settimane non avevano conosciuto né il rasoio, né le forbici.

- Signor Raveneau, - disse il guascone, - spero di rivedervi presto e di farvi fare la conoscenza del marchese di Montelimar. È un bell'uomo che merita di essere veduto, ve l'assicuro.

“Se vi deciderete ad attaccare la città, prima che noi l'abbiamo catturato, fate visitare tutte le taverne e vedrete che in qualcuna ci troverete.”

- Non commettete delle pazzie, - disse Buttafuoco.

- Non ne abbiamo nessun voglia.

I due avventurieri strinsero le mani ai due capi delle bande e lasciarono i trinceramenti, fra lo stupore dei filibustieri, i quali ignoravano ancora ogni cosa.

Dopo essere passati sopra diversi cumuli cadaveri, il guascone e Mendoza si gettarono dentro un bosco, il quale si estendeva lungo la falda di un'aspra montagna.

Giú, in fondo alla conca, si vedevano ancora degli spagnuoli, sfuggiti miracolosamente al massacro, scappare a piccoli gruppi, mentre le campane delle due chiese della città squillavano a distesa per chiamare gli abitanti alle armi.

La notizia della disfatta doveva ormai essere giunta agli orecchi del governatore, che certo, per quanto gli sembrasse inverosimile, aveva subito prese le disposizioni necessarie per respingere un attacco.

Per far capire ai filibustieri, i quali non avevano nessun desiderio di lasciare la posizione conquistata, che disponeva ancora di forze imponenti e che possedeva dei pezzi di cannone collocati sulle trincee fiancheggianti le montagne, aveva fatto fare alcune scariche, le quali si erano ripercosse, con un rimbombo infernale, dentro la conca.

Don Barrejo e Mendoza, per nulla inquietati da tutto quel fracasso, continuavano tranquillamente la loro via, calando a poco a poco nella valle, volendo possibilmente entrare in città insieme agli ultimi gruppi di fuggiaschi.

- Bah!... Non ce la prendiamo tanto calda, - disse don Barrejo, il quale dubitava di poter giungere prima dell'alzata dei ponti, essendo la china intricatissima e cosparsa anche di rocce enormi. - Colle corazze che indossiamo ci scorgeranno da lungi e si guarderanno bene di far fuoco su di noi.

- Hai preparato il tuo piano? - chiese Mendoza.

- Sí: ricordati solamente che noi siamo mandati dal governatore di Tusignala.

“Se il colpo mi riesce, il marchese cadrà nella rete; però tu rimani piú che puoi nell'ombra.

“Il marchese di Montelimar potrebbe riconoscerti anche nella pelle d'uno spagnuolo, quantunque io dubiti assai che dopo sei anni si ricordi ancora di te. Cambia voce innanzi tutto.”

- Parlerò col naso.

- Benissimo, Mendoza. Mi accorgo che anche i baschi sono dei gran furbi.

- Se lo sono sempre stati!...

- Infatti mi pare di averlo udito dire, - rispose il guascone, con comica serietà.

- Ecco che ora non conosci piú i fratelli che stanno dall'altra parte del mare di Biscaglia.

“Ah!... Questi guasconi sono insoffribili!...”

Don Barrejo si limitò a sorridere ed affrettò il passo, mentre gli ultimi drappelli di fuggiaschi si precipitavano schiamazzando nella città ed i ponti venivano precipitosamente alzati.

- Mettiamoci a correre anche noi, - disse Mendoza. - Fingiamo di essere inseguiti dei filibustieri.

- Stavo per proportelo, - rispose don Barrejo, prendendo subito lo slancio colle sue magre e lunghissime gambe.

Erano già scesi nella valle ed avevano raggiunta la strada che conduceva a Segovia-Nuova. Scorgendoli, gli spagnuoli che stavano radunati sui bastioni, spararono qualche colpo d'archibugio, ma poi avvedutisi del loro errore si affrettarono a riabbassare il ponte per accogliere anche quei due ultimi fuggiaschi non potendo crederli che tali.

Don Barrejo e Mendoza, non udendo piú fischiare le palle, precipitarono la corsa e giunsero ansanti, trafelati, al ponte, dove li aspettavano alcuni ufficiali della guarnigione ed un vecchio maggiore.

Lo stupore di quella brava gente fu immenso, non avendo mai veduto fra le loro file quei due ufficiali.

- Da dove venite voi, caballeros? - chiese loro il maggiore, mentre il ponte veniva sollecitamente rialzato. - Voi non siete agli ordini del marchese di Montelimar.

- No, signore, - rispose prontamente il guascone. - Noi siamo alle dipendenze del governatore di Tusignala.

- È lui che vi manda?

- Sí, caballero.

- Giungete in un bel momento.

- Dite pessimo, poiché abbiamo assistito alla sconfitta dei nostri compatriotti mentre valicavano l'ultima cresta della montagna.

“Siamo sfuggiti anche noi per miracolo alle palle di quei terribili masnadieri.”

- Portate degli ordini da parte del governatore?

- Ed urgentissimi, pel signor marchese di Montelimar.

Il vecchio maggiore si volse verso uno degli ufficiali che gli stavano presso e disse:

- Signor Ramirez, conducete subito questi valorosi caballeros da Sua Eccellenza.

“Decisamente,” pensò don Barrejo, “i guasconi ed i baschi sono piú furbi degli spagnuoli.”

I due avventurieri si erano messi dietro all'ufficiale, cercando di darsi un aspetto molto serio.

Tutta la città era sottosopra.

La popolazione, impressionata dalla terribile sconfitta subita dalle truppe che occupavano le trincee, si preparava a fuggire, caricando su muli e cavalli quanto aveva di meglio.

In tutte le case si udivano strilli di ragazzi, grida di donne ed uomini che imprecavano contro la canaglia che i venti dell'oceano Pacifico avevano spinto attraverso l'istmo.

- Questo sarebbe un bel momento se Raveneau e Buttafuoco lanciassero i loro uomini, ancora inebriati dalla vittoria, su questa città, - mormorò il guascone. - Nemmeno il marchese di Montelimar saprebbe trattenere questa popolazione pazza di terrore.

Dopo aver percorso parecchie luride viuzze ingombre di animali carichi fino a piegare a terra, i due avventurieri giunsero su una specie di spianata, difesa da un ridotto armato da qualche pezzo di cannone.

Il marchese di Montelimar era là, accompagnato da alcuni dei suoi ufficiali. Era sempre un bell'uomo, quantunque fosse molto invecchiato, ed aveva conservato il suo aspetto marziale di vero condottiero.

Pareva furibondo, poiché in quel momento camminava nervosamente per la spianata, imprecando poco cristianamente.

Vendendo Mendoza e don Barrejo, si era fermato bruscamente, posando con un gesto tragico la sinistra sull'impugnatura della spada, e chiedendo brutalmente:

- Chi siete voi?

- Messi del governatore di Tusignala, - rispose il guascone, dopo d'aver fatto un profondo inchino.

Il marchese aveva avuto un soprassalto.

- Voi venite da Tusignala? - chiese con stupore e meno rudemente.

- Si, Eccellenza.

- Soli?

- La nostra scorta è stata massacrata dai ladroni dell'oceano Pacifico, durante il combattimento impegnato dalle vostre truppe.

- E siete riusciti a salvarvi?

- Ci siamo aperti il passo fra quei banditi, combattendo come diavoli scatenati, Eccellenza, - rispose il guascone.

- Chi conduceva quei disperati? Sapreste dirmelo?

- Abbiamo udito pronunciare un nome durante la breve lotta sostenuta dai nostri uomini.

- Ditemelo.

- Raveneau, se non m'inganno.

- Il capo dei corsari dell'oceano Pacifico che si era stabilito a Taroga? - disse il marchese. - Ma l'ero immaginato.

“Aveva molti uomini con sé?”

Non saprei dirvi il numero, Eccellenza, ma molti di certo, poiché di sotto ogni cespuglio sorgeva un drappello di quei banditi.

Il marchese fece cenno ai suoi ufficiali di ritirarsi, poi chiese al guascone, poiché Mendoza pareva che fosse diventato improvvisamente muto, con una visibile emozione:

- Avete veduta una fanciulla fra i filibustieri?

- Una indiana o per lo meno una meticcia, volete dire? - rispose don Barrejo, dopo aver pensato qualche istante.

- Si, giovane e bellissima.

- Precisamente, Eccellenza: combatteva fra le file dei filibustieri, con grande animazione.

Il marchese si morse le mani fino a farle sanguinare.

- Lo sospettavo, - disse poi.

Fece otto o dieci passi colle braccia dietro il dorso e la testa china, poi tornando verso il guascone, il quale si studiava di nascondergli piú che gli era possibile il basco, chiese bruscamente:

- Orsú, che cosa vuole da me il governatore di Tusignala? Invece di mandarmi un paio d'uomini, avrebbe dovuto inviarmi quel corpo di cavalleria che aspetto da due settimane.

- Eccellenza, ci ha mandati invece per chiedere a voi dei pronti aiuti.

- Chi lo minaccia?

- Tutte le tribú indiane sono in rivolta e distruggono le piantagioni da zucchero e le fattorie e non risparmiamo i proprietari, quando riescono ad acciuffarne uno.

Il marchese si alzò le spalle.

- S'inquieta per poco il governatore di Tusignala? - disse poi, un po' ironicamente.

“Mi mandi i suoi indiani ed io gli manderò quei demoni che mi stanno di fronte e che nessuna forza umana vale ad arrestare.

“Avete veduto come combattono quei filibustieri?”

- Meravigliosamente, Eccellenza. Sono dei soldati che fanno paura.

- Eh, lo so. - disse il marchese. - Eppure non devono essere in molti.

- Io ho veduto quattro grosse compagnie a combattere, Eccellenza, ed ognuna doveva contare molti uomini, - disse il guascone.

Il marchese non rispose. Si era rimesso a camminare, colla fronte offuscata, borbottando delle parole e pestando, di quando in quando, i piedi.

Per la seconda volta si fermò dinanzi ai due avventurieri e disse loro:

- Pel momento non posso prendere alcuna decisone. Questa sera vi aspetto a casa mia, dove potrete pernottare a mangiare liberamente.

“Andate, miei bravi.”

Il guascone ed il basco, felici di non aver destato il minimo sospetto, fecero un profondo inchino e girarono sui talloni, ridiscendendo verso la città.

Gli abitanti, passato il primo momento di terrore, cominciavano a calmarsi, essendovi in città abbastanza truppe per dar molto da fare anche agli invincibili filibustieri.

Su tutti i volti però don Barrejo e Mendoza leggevano chiaramente l'angoscia profonda che si era impadronita di tutti.

- Compare, - disse il guascone, - fingiamo di essere desolati anche noi e andiamo a consolarci con qualche bottiglia. Sai che sono sette giorni e cinque ore che nel mio corpo non entra una goccia di vino?

- Perfino le ore hai contato!... - esclamò Mendoza, scoppiando in una risata, che doveva produrre un certo effetto sulle persone spaurite che ingombravano la viuzza.

- Mio caro, da quando sono diventato proprietario ho imparato a fare i conti per non andare a casa del diavolo senza una piastra.

- Chi ti ha insegnato?

- Mia moglie.

- Quella castigliana vale un Perú.

- Sto meglio qui, per ora. Ne avevo fin sopra gli occhi di quell'infame mestiere, che non consisteva che nel portare boccali di vino.

- Ed anche nel vuotarli, però.

- Dei bei buchi ne ho fatti nella mia cantina malgrado le proteste di mia moglie, la quale temeva che la mandassi in rovina. Oh!... Toh!... Che curiosa combinazione!... Sogno io?

Don Barrejo si era fermato in mezzo alla via, con la testa in aria e gli occhi fissi su una vecchia insegna di legno la quale rappresentava un toro.

- Mendoza, leggi!... - disse, con viva commozione.

- Taverna d'El Moro.

- Tonnerre!... Chi è questo mascalzone di oste che ha rubato il nome alla mia taverna? Voglio tagliargli gli orecchi.

- Se gli spagnuoli sono sempre stati furibondi pei tori!... Che cosa ci trovi di strano se trovi anche qui un'insegna simile alla tua?

- È vero, sono una bestia qualche volta, - disse il guascone. - Sarà meglio che andiamo a tirare il collo alle bottiglie del taverniere.

“Ci guasteremo meno il sangue.”

Con una pedata spalancò la porta ed entrò in una stanzaccia bassa, dalle mura tutte annerite ed i tavolini piú o meno sgangherati.

Un tanfo d'olio bruciato, di mezcal fermentato e di caña circolava là dentro, togliendo quasi il respiro.

Udendo quel fracasso, il proprietario della tavernaccia si era precipitato fuori dal banco, sagrando. Non aveva torto, poiché il calcio del guascone aveva mandato in frantumi un vetro.

Era un uomo sulla quarantina, con un naso arcuato come il becco di un pappagallo, due baffi folti, magro e alto quanto don Barrejo, ma tutto nervi e muscoli.

- Canarios!... - urlò furioso. - La mia caverna non è un canile per entrare in questo modo, corpo dei centomila fulmini di Giove!... Non tollero prepotenze qui dentro, nemmeno da parte di ufficiali.

Don Barrejo era rimasto lí a guardarlo, come trasognato, poi si diede un gran pugno sull'elmetto, gridando:

- De Gussac!...

- Barrejo!...

- Tonnerre!...

- Corpo di tutti i fulmini di Giove!...Che cosa fai tu qui, che ti ho veduto taverniere a Panama tre anni or sono? -

- Ah!... Canaglia!… Mi hai rubato l'insegna gloriosa d'El Moro.

Il taverniere era scoppiato in una risata ed aveva stese le mani al guascone.

- Speravo che mi portasse fortuna, - disse poi.

- Vedo un gran vuoto qui.

- Che cosa vuoi, amico i soldati da tre mesi non ricevono la paga e non spendono piú, e trovo piú conveniente vuotare io la mia cantina.

Don Barrejo si era voltato verso Mendoza, il quale aveva assistito a quell'incontro un po' prodigioso, con un certo interesse, e gli disse con voce commossa:

- Vedi, amico, che cosa ha serbato la triste sorte ai grandi guasconi che vengono a cercare fortuna in America? Ecco un piccolo nobile della nobile terra che ha nutrito da migliaia d'anni i guasconi, ridotto anche lui a portare boccali di mezcal e dar da bere perfino a dei luridi indiani. Credo che non vi siano in tutta l'America centrale che due guasconi e si sono ridotti a fare i tavernieri!...

- Orrore!... - disse il basco. - Per degli spadaccini non è certo un bel mestiere.

- La Guascona è finita!... - esclamò don Barrejo, il quale aveva gli occhi umidi. - La terra dei prodi muore.

- Vivaddio, un po' di coraggio, camerata. - disse il taverniere. - La Guascona non muore mai, anche se i suoi figli vendono vino ed appendono le loro draghinasse arrugginite alle pareti fumose o sotto il camino. La mano rimane sempre lesta per dare delle stoccate.

- Hai ragione, amico. - disse don Barrejo, rimettendosi prontamente dalla sua commozione. - Noi rimarremo sempre i piú terribili spadaccini della Francia.

“Ehi, Mendoza, allunga la tua zampa al mio compatriotta e tu, De Gussac, fa' altrettanto.”

“Stringerai quella d'uno dei piú formidabili filibustieri che siano vissuti sotto la cappa del cielo americano.”

- Filibustiero, hai detto?...

- Pst!...Silenzio per ora. Farai meglio a portarci da bere, se ti è rimasta ancora qualche bottiglia nella cantina.

- Per gli amici ne ho sempre, - rispose il taverniere, scomparendo nella stanza vicina.

- Dove l'hai conosciuto? - chiese Mendoza a don Barrejo.

- A Panama, dove credo che vendesse delle banane. Che cosa vuoi? L'America non è fatta pei guasconi.

- Di che cosa hai tu da lagnarti, briccone? Hai una moglie adorabile e una cantina splendidamente fornita, che ti rende piastre su piastre. Che cosa vorresti di piú?

- Che nessun figlio della grande terra degli spadaccini vendesse vino, - rispose don Barrejo, con accento tragico.

- Però sei sempre pronto a berlo.

- Tonnerre!... L'uomo di spada, che non vive che per l'avventura, beve sempre come una spugna.

- Allora lascia andare per un momento la tua grande Guascogna, che non è mai stata piú grossa d'una provincia spagnuola ed occupiamoci del marchese.

“Non siamo già venuti qui per discutere sui tuoi compatriotti.”

- Spesso divento un bestione, compare, - disse don Barrejo. - Mi ero già dimenticato che noi siamo entrati in Segovia-Nuova per portare via il marchese di Montelimar!...

“Eppure quell'uomo ci occorre, e, come abbiamo fatto cadere il Pfiffero, faremo cadere anche lui.”

- Disgraziatamente il marchese non è un uomo che vada a bere nelle taverne, e non sarà qui che noi lo cattureremo.

- Lascia fare a me - rispose don Barrejo. - Intanto i piedi li abbiamo messi nella sua casa e questo è già molto.

Tonnerre!... Ospiti del marchese di Montelimar!... Quell'uomo dannato, in fondo è un grande gentiluomo che sa apprezzare i valorosi.”

In quel momento giunse De Gussac, portando un paniere pieno di bottiglie che avevano un aspetto abbastanza venerando.

- Le mie ultime, - disse con un sorriso un po' mesto. - Spero però che siano le migliori.

“Vuotatele liberamente, perché le serbavo per gli amici e degli amici qui non ne sono mai venuti. La Francia è troppo lontana ed anche i bucanieri del golfo del Messico, che sono quasi tutti nostri compatriotti, hanno il buon senso di non mostrarsi da queste parti.

“C'è troppa corda anche in Segovia-Nuova.”

Sturò un paio di bottiglie ed empí i bicchieri, dicendo:

- Orsú, alla Guascona!

- Non piú taverniera, - rispose don Barrejo, ingollando, una dopo l'altra, tre o quattro tazze.

Si asciugò i baffi, fece schioccare la lingua, poi fissando il suo compatriotta, gli chiese bruscamente:

- Hai qualche grossa botte vuota tu?

- Sono già tutte vuote e senza speranza di poterle riempire! - rispose De Gussac, ridendo.

- A noi basta una che sia capace di contenere un uomo.

- Un uomo!...

- Vi cacceremo dentro il marchese di Montelimar.

- Per i centomila fulmini di Giove!... - esclamò De Gussac, spaventato. - Che cosa sei venuto a fare tu in questa città?

- A portare via un uomo che si chiama il marchese di Montelimar, - rispose don Barrejo, con voce tranquilla. - Non ci credi capaci di compiere questa impresa? Io e l'amico, che sta qui accanto a me, ne abbiamo fatto già di grosse quando eravamo ai servigi del signor conte Enrico di Ventimiglia, figlio d'uno dei tre famosi corsari.

- Ti sei arruolato fra i filibustieri dunque?

- Ero stanco di vendere vino e di vedere la mia draghinassa a coprirsi ogni giorno piú di ruggine ed ho lasciato le botti ed i boccali per menare un po' le zampe.

“Tu sai già che noi guasconi abbiamo trenta diavoli nascosti nel corpo.”

- Mettine pure altri trenta, - disse Mendoza. - Non guasteranno.

- Allora do un calcio anch'io alle mie botti che sono già vuote e mi getto coi filibustieri.

- Non a tutte: ti ho detto che me ne occorre una.

- Per mettervi dentro il marchese?

- Noi abbiamo l'abitudine di far sempre viaggiare i nostri prigionieri dentro una botte, è vero Mendoza?

Il basco, che stava vuotando il suo decimo bicchiere, approvò con un gesto della mano sinistra.

- Barrejo, - disse De Gussac, sturando delle altre bottiglie. - Mi vuoi? Sai come siamo noi guasconi: si va sempre a fondo o si muore sul campo, ed un campo vale meglio d'una cantina.

“Se vuoi, la mia draghinassa è a tua disposizione.”

- Per ora lasciala appesa sotto la cappa del camino e continua a fare il taverniere senza clienti, - rispose il marito della bella castigliana. - Qualche volta le taverne sono piú utili delle draghinasse, ed io lo so per prova.

“Beviamo, e da questo momento puoi considerarti arruolato fra i filibustieri di Raveneau de Lussan e di Buttafuoco.”

 

 

Capitolo XIII

L'INCENDIO DI SEGOVIA

 

Alla sera i due avventurieri, che fra una bottiglia e l'altra avevano architettato piú o meno il loro audace colpo di mano, si presentavano agli alabardieri vigilanti dinanzi al massiccio palazzo del governo, facendosi annunziare pei due ufficiali giunti al mattino da Tusignala.

Il marchese di Montelimar doveva aver dato degli ordini in proposito, poiché i due avventurieri furono subito condotti al piano superiore, dove un ufficiale, lo stesso che li aveva scortati dal ponte alla spianata, li aspettava.

- Siete voi che ho condotto stamani dinanzi al marchese? - domandò.

- Si, camerata, - rispose familiarmente don Barrejo.

- Sua Eccellenza vi aspetta nel suo gabinetto.

- È solo?

- Col suo segretario. Seguitemi, signori.

Fece attraversare loro alcuni corridoi scarsamente illuminati da qualche fumosa lampada ad olio e li introdusse in una vasta sala, occupata quasi tutta da una immensa tavola coperta d'un ricco tappeto verde.

All'estremità, seduti presso uno scrittoio illuminato da due candele, stavano due uomini: erano il marchese di Montelimar ed il suo segretario, che rassomigliava stranamente al povero Pfiffero, sia per la tinta scialba, sia per gli occhi azzurrastri, sia per i capelli di un biodo slavato.

Il marchese, vedendoli entrare, si era alzato, mentre l'ufficiale si affrettava a ritirarsi.

- Ah!... Siete finalmente giunti, - disse. - Avete indosso qualche documento che mi assicuri che voi siete realmente stati mandati dal governatori di Tusignala?

Don Barrejo e Mendoza si scambiarono uno sguardo d'inquietudine, ma poi il primo rispose prontamente:

- Nessuno, Eccellenza, perché quando ci siamo veduti assaliti dai filibustieri abbiamo distrutto tutto come ci era stato ordinato.

“Al governatore premeva che non si sapesse della rivolta degli indiani perché la canaglia del Pacifico non ne approfittasse.”

- Avete fatto bene, - disse il marchese. - Voi dunque dite che le cose vanno male a Turisanda?

- Tutta la provincia è in fiamma e noi abbiamo corso diverse volte il pericolo di morire asfissiati fra le piantagioni brucianti.

- Quanti uomini domanda il governatore?

- Un migliaio, Eccellenza.

- Quell'uomo è pazzo. In questo momento io non posso sprovvedermi di una forza cosí importante. Che cosa dite voi, don Perego?

- Che avete ragioni da vendere, - rispose il segretario, il quale non cessava di far stridere la sua penna d'oca su dei grossolani fogli di carta.

- E poi appena usciti dalla città i mille uomini crebbero tutti sotto i colpi dei filibustieri ed io rimarrei con meno forze ed il governatore di Tusignala senza un uomo di piú. Vi pare, don Perego?

- Avete sempre ragioni da vendere, - rispose il segretario.

- Cambiate qualche volta la risposa, - disse il marchese, stizzito. - Colle vostre eterne ragioni da vendere io non capisco affatto il vostro pensiero.

- Avete...

- Ho capito: ancora delle ragioni da vendere. Continuate a scrivere il rapporto della battaglia che noi rimetteremo a questi due valorosi.

- Scusate, Eccellenza, - disse il guascone. - Perché vorreste consegnarlo a noi?

- Per portarlo al governatore di Tusignala, affinché si persuada meglio che io non posso soccorrerlo in modo alcuno.

- Potrà giungervi?

- E perché no? Come siete venuti da Tusignala potrete anche ritornare a Tusignala.

- Coi filibustieri?

- Due uomini soli possono sfuggire piú facilmente che mille.

- Sarà un'impresa ardua, Eccellenza.

- Che io saprò ricompensare però largamente.

- E se i filibustieri ci prendessero?

- Come siete sfuggiti loro la prima volta, riuscirete anche la seconda.

Ad un tratto il marchese, che aveva fatto il giro della lunga tavola, camminando nervosamente, si fermò dinanzi a Mendoza il quale si era tenuto sempre prudentemente dietro al guascone e si mise a guardarlo con una certa insistenza.

- Siete muto voi, che non parlate mai? - gli chiese, senza levargli di dosso gli occhi.

I due avventurieri, qualunque fossero coraggiosi fino alla temerarietà, si sentirono correre un brivido freddo per le ossa.

Il guascone, che non perdeva mai il suo sangue freddo, tentò di salvare la situazione, dicendo:

- Perdonate, Eccellenza, se il mio compagno non parla mai, avendo ricevuta una palla attraverso la lingua in non so quale battaglia datasi nell'Andalusia. Perciò preferisce rimanere muto per non provocare colla sua voce un certo senso di ribrezzo.

- È spagnuolo?

- Si, eccellenza.

Il marchese scosse il capo, poi, dopo d'aver guardato con maggior attenzione Mendoza, il quale impallidiva a vista d'occhio, disse:

- Eppure io ho veduto in qualche luogo questa testa.

- È impossibile eccellenza, poiché è appena un mese che il mio camerata è giunto dall'Europa, - disse don Barrejo.

- Soffermandosi a Panama?

Mendoza fece col capo un gesto affermativo.

- Sarebbe una strana rassomiglianza? - si chiese il marchese.

- Perché dite questo, Eccellenza? - chiese il guascone, il quale ormai comprendeva perfettamente che le cose andavano imbrogliandosi inaspettatamente.

- Perché sulla gettata di Panama io ho riconosciuto un uomo che da sei anni non avevano piú riveduto e che somigliava perfettamente al vostro camerata.

- Sarà stato un altro.

- Adagio, caballero: io sono molto curioso e desidero vederci ben chiaro in questa faccenda.

“Voi non avete nessuna carta dal governatore di Tusignala?”

- Se vi ho detto che abbiamo distrutto tutto!... Era l'ordine e noi abbiamo obbedito.

- Mio caro, noi viviamo in tempo di guerra ed io ho l'abitudine di diffidare di tutti e di tutto.

- Dubitereste di noi? - Chiese don Barrejo, il quale si sentiva fuggire il terreno sotto i piedi.

- Del vostro compagno almeno.

- Sareste voi il diavolo? - esclamò imprudentemente il guascone.

Il marchese incrociò le braccia sul petto ed affrontandolo risolutamente, gli chiese:

- Che cosa avete voluto dire con quelle parole?

- Che se la Spagna avesse dieci uomini come voi, a quest'ora non vi sarebbe piú un filibustiere né sul golfo del Messico né nell'oceano Pacifico, - rispose pacatamente don Barrejo.

- Vi prego di spiegarvi meglio, caballero.

- Domandò invece a voi quali intenzioni avete a nostro riguardo. Vivaddio!... Abbiamo attraversato fiumi e foreste; abbiamo sfidato cento pericoli; abbiamo salvato la pelle per miracolo, per compiere il nostro dovere ed ecco che ci accogliete con dei sospetti.

- Vi dico, anzi, che vi farò subito arrestare, - disse il marchese.

- Là là, signor di Montelimar, - rispose don Barrejo, sguainando rapidamente la draghinassa, mentre il basco balzava verso la porta colla spada in pugno. - La partita non l'abbiamo ancora perduta e voi non ci farete arrestare.

Il marchese aveva fatto due passi indietro, mentre il suo segretario rimaneva colla penna d'oca in aria, guardando con ispavento i due falsi ufficiali.

- Chi siete voi? - chiese il marchese, trascorso il primo momento di stupore.

- Giacché avete su di noi dei sospetti e volete farci arrestare, vi diremo allora che noi non siamo affatto due soldati spagnuoli, signor marchese: voi avete un fiuto straordinario ed i filibustieri li sentite subito.

- Filibustieri, avete detto!... - esclamò il governatore, al colmo della sorpresa.

- Si, signor marchese, noi abbiamo l'onore di appartenere a quella associazione di ladroni, - rispose don Barrejo.

- Ed avete osato entrare in città?

- Dite nel vostro studio.

- Dal quale non uscirete che con una corda al collo!... - gridò il governatore, furibondo.

- Non vi infiammate tanto, signore. Abbiamo perduta la partita, però siamo tali uomini da farvi pagare cara la rivincita.

- Miserabili!...

Il marchese aveva fatto un gesto per cercare la sua spada, che non aveva invece piú al suo fianco.

- Don Perego, - disse al segretario, - chiamate gli alabardieri e fate arrestare queste canaglie.

- Signor marchese, - disse il guascone, - vi consiglio di ritirare l'ordine, poiché il mio compagno veglia dinanzi alla porta e se non parla ha la mano lesta, ve lo assicuro io.

- Voi osereste opporvi?...

- Diavolo!... Noi non abbiamo alcun desiderio di far la conoscenza colla canapa che intrecciano gli spagnuoli.

“Si dice che sia troppo ruvida e che rovini la gola agli appiccati.”

- Ed avete tanta audacia da scherzare?

- E perché no, signor marchese? I filibustieri sono sempre di buon umore, anche quando le cose vanno maluccio, ed è perciò che vincono sempre.

- Che cosa siete venuti a fare qui, furfanti?

- Avevamo sete, signor marchese, ed abbiamo fatta una visita alle taverne per accettarci se i nostri compagni avrebbero trovato del buon vino in Segovia.

- Voi siete stupefacente!... - esclamò il marchese.

- Me lo diceva anche mio padre, - rispose don Barrejo, ironicamente.

- Basta, caramba!... Don Perego, chiamate gli alabardieri!...

Il segretario, quantunque fosse in preda ad un grande spavento, non avendo combattuto, durante la sua vita, che colle penne d'oca, si alzò e fece per avanzarsi.

Il guascone, che lo teneva d'occhio, fu pronto a chiudergli il passo ed a puntargli sul petto la draghinassa, dicendo:

- Signor segretario, occupatevi dei vostri calamai e dei vostri sgorbi. In questi affari non c'entrate affatto.

- Allora andrò io, - disse il marchese, il quale aveva cercato invano un'arma. - Vedremo chi saprà fermare un Montelimar.

- La punta della mia draghinassa, signore, - rispose don Barrejo.

- Voi osereste?

- Tutto, signor marchese. Tonnerre!... Si tratta di salvare la mia pelle e quella del mio compagno e vi giuro che non esisterò.

“Non dimenticate, signor marchese, che noi siamo dei filibustieri, quindi delle persone capaci di tutto, anche di portar via un governatore spagnuolo sotto gli occhi dei suoi alabardieri.”

- Volevate rapirmi forse? - chiese il marchese, ironicamente.

- Veramente eravamo scesi in città con quell'idea, e giacché la sorte non ci ha favorito, come speravamo, non ci rimane che di alzare i tacchi e di tornarcene presso il signor Raveneau de Lussan, un bravo e valoroso gentiluomo francese, ve lo afferma un guascone autentico.

Fra i due uomini vi fu un breve silenzio. Il marchese sembrava pietrificato e guardava con inquietudine la draghinassa di don Barrejo, la quale non cessava di descrivere dei molinelli pericolosi.

- Si direbbe che sogno, - disse ad un tratto, passandosi una mano sulla fronte. - Conoscevo l'audacia dei filibustieri, però non credevo che giungesse a tal punto. Siete uomini o diavoli voi?

- Io credo, signor marchese, che noi abbiamo nelle vene un po' di sangue umano ed un po' di sangue infernale. È tempo però di tagliar corto, signor mio.

“Abbiamo chiacchierato abbastanza e qualcuno potrebbe venire a disturbarci, ciò che costringerebbe il mio compagno a far qualche grossa sciocchezza.”

- Che cosa volete, furfanti?

- Per ora non chiediamo che di andarcene giacché ci avete scoperti.

- E voi sperate...

- Speriamo?... Signor marchese, qui si giuoca la vita ed i vecchi amici del conte Enrico di Ventimiglia e della marchesa di Montelimar vostra cognata, non esiteranno.

- Di mia cognata!... - esclamò il marchese furibondo, diventando livido. - È lei forse che vi ha mandati qui per assassinarmi?

- Niente affatto, signore. Noi siamo stati semplicemente incaricati di scortare la contessina Ines di Ventimiglia fino al Darien.

- E spera di giungervi?

- E di raccogliere anche l'eredità che la spetta.

- Mi troverà sempre attraverso a tutte le sue vie. Ah!... Quei Ventimiglia hanno dato da fare alla Spagna, piú che tutti i filibustieri dell'Atlantico e del Pacifico.

“Orsú, finiamola, che cosa volete da me?”

- Che ci lasciate andare per le nostre faccende e nient'altro.

- Provatevi a uscire.

- Non sarà da quella parte che noi ce ne andremo, signor marchese. Io non ho mai voluto troppo bene agli alabardieri.

“Giacché ci sono delle finestre salteremo, non prima però di avervi ridotto all'impotenza.”

Con una improvvisa strappata il guascone aveva spezzata uno dei lunghi cordoni di seta che reggevano la tenda, poi si era avvicinato al marchese, che lo guardava stupito, e gli disse:

- Permettete che vi leghi, signore. Vi avverto che se opponete resistenza, fra mezzo minuto il marchese di Montelimar ed il suo segretario non saranno piú vivi.

La lama del guascone si era puntata sul petto del governatore, in direzione del cuore. Mendoza aveva lasciato il suo posto dopo d'aver chiusa la porta a chiave, ed accorreva in aiuto del camerata, brandendo la spada.

Il marchese capí di essere perduto e di aver da fare con due uomini risoluti a tutto.

- Fate, - disse, tergendosi alcune gocce di sudore, - spero però di rivedervi presto e di prendermi la rivincita. I filibustieri non sono ancora giunti al Darien e la vita è lunga assai.

Ciò detto si lasciò legare, senza tentare la menoma resistenza.

Mendoza si era incaricato del segretario e non aveva avuto da faticare, poiché quel povero scriba era piú morto che vivo pel grande spavento.

- Permettete che vi prenda il fazzoletto, signor marchese, - disse il guascone, quand'ebbe finito di legargli le gambe.

- Mi volete anche imbavagliare? - chiese il signor Montelimar, con voce sibilante.

- Dobbiamo prendere le nostre precauzioni per assicurarci la ritirata, signor mio.

I due disgraziati si lasciarono imbavagliare, poi vennero fatti sedere in due ampie poltrone ai cui bracciali furono ancora assicurati.

- Signor marchese, i miei ossequi, - disse il guascone. - Avrei voluto portarvi in persona alla contessina di Ventimiglia; si contenterà per questa volta dei vostri saluti.

Mendoza intanto aveva aperta una finestra e misurava l'altezza.

- Dove mette? - chiese don Barrejo.

- Su un giardino.

- Vi sono sentinelle?

- Non ho mai posseduto gli occhi dei gatti, - rispose il basco.

- Possiamo tentare il salto senza romperci il collo?

- Siamo al primo piano, quindi non correremo nemmeno il pericolo di slogarci un piede.

- Giú.

Mendoza si lasciò andare, cadendo in mezzo ad un'aiuola di fiori. Don Barrejo fu pronto a seguirlo.

Diedero un rapido sguardo all’intorno e, non avendo scorto nessuno, si slanciarono attraverso i viali spaziosi ombreggiati da splendide palme.

Correvano a casaccio, colla speranza di giungere presto a qualche cancello, poiché ignoravo assolutamente da quale parte del palazzo si trovava.

Vi era il pericolo che, invece di girarlo per di dietro lo girassero per davanti e si trovassero di colpo fra le braccia degli alabardieri.

Spronati dalla paura, poiché cominciavano ad averne, ed in non piccola dose, continuarono la corsa furiosa per cinque o sei minuti e andarono a fermarsi dinanzi ad una cinta.

Scalarla e varcarla fu pei due filibustieri l’affare di pochi secondi.

Lasciami respirare, Mendoza, - disse il guascone. - Finché mi trovavo dentro il giardino non ho quasi osato mandar giú una boccata d'aria. L’abbiamo fatta grossa!...

- E ce la siamo cavata splendidamente, - rispose il basco.

- Noi, amico, siamo protetti da qualche buona stella.

- Sia pure, però preferirei trovarmi al sicuro nella taverna del mio amico De Gussac.

- Saremo capaci di trovarla?

- E che!... Hanno perduto il naso ora i baschi? Come fiuti dei nemici a grande distanza, potrai fare altrettanto con gli amici.

- Cercheremo: corri, don Barrejo.

Si erano cacciati in una via abbastanza larga, fiancheggiata da alte case ed illuminata da qualche rara lampada che spandeva piú fumo che luce.

Pareva che i buoni cittadini di Segovia, malgrado la paura, si fossero profondamente addormentati, poiché porte e finestre erano chiuse e nessun lume brillava dentro le stanze.

Solamente dei cani randagi vagavano per le vie che i due avventurieri attraversavano l’una dietro l'altra, cercando di orizzontarsi come meglio potevano.

Si sentivano ormai abbastanza sicuri. Anche se il marchese di Montelimar avesse già lanciati sulle loro tracce i suoi alabardieri, la distanza percorsa era abbastanza rilevante per dare loro un grandissimo vantaggio.

Non avevano da temere nemmeno da parte delle ronde, indossando le divise di ufficiali spagnuoli. Pareva però che per quella notte il governatore avesse mandato altrove quelle guardie, quasi inutili in una cittaduzza cosí tranquilla.

Avevano già percorse sette od otto vie che s’incrociavano in tutti i versi, passando ora fra case ed ora fra ortaglie, quando si trovarono di fronte alla spianata sulla quale al mattino avevano incontrato il marchese.

- Ci siamo! - esclamò don Barrejo.

- Alla taverna? - chiese Mendoza. - Io non vedo che due cannoni piazzati lassú.

- Ebbene ora io ti dimostrerò, camerata, che anche i guasconi hanno dei buoni nasi, specialmente per fiutare le taverne.

“Conta duecento passi.”

- Preferisco farli.

- Allora facciamoli.

- Tu hai fiutato l'insegna d’El Moro?

- Ti condurrò diritto alla taverna del mio amico d'infanzia, senza sbagliare.

S’aprivano dinanzi a loro due stradicciuole sfondate e polverose. Don Barrejo esitò un momento, poi prese la destra, fiutando, come un vero bracco.

Dobbiamo dire che aveva ragione di dire che anche i guasconi possedevano dei buoni nasi, poiché cinque minuti dopo giungevano dinanzi alla taverna.

Dalle fessure della porta, abbastanza sgangherata, trapelavano dei fili di luce. De Gussac dunque, da vero amico, li aspettava.

Ed infatti bastò un leggiero picchio perché si trovassero tutti e tre riuniti nella miserabile taverna.

- Credevo che vi avessero già appiccati, - disse De Gussac.

- Lascia le chiacchiere e porta invece delle bottiglie, se ne hai ancora, - disse don Barrejo, respirando a pieni polmoni. - Io non avevo saputo prima d'ora che cosa fosse la paura e quel Montelimar me l'ha fatta provare.

- E non l'avete portato via?

- Si, va a prenderlo tu fra i suoi alabardieri.

- Ed io che avevo preparato la botte.

- Servirà egualmente.

- Per metterci dentro chi?

- Portaci da bere prima, - disse don Barrejo. - Non vedi che non abbiamo piú fiato?

- E qualche cosa da gettare nel ventre che brontola da parecchie ore, - aggiunse Mendoza.

De Gussac scese nella cantina e tornò con altre bottiglie, un mezzo prosciutto e delle tortillas di mais.

- Le mie ultime ricchezze, - disse, con sospiro. - Non ho piú che dell'aguardiente.

- Meglio, amico! - esclamò don Barrejo. - Servirà ai miei tenebrosi progetti.

- Vuoi farne delle altre, compare? - chiese Mendoza. - Io ne ho abbastanza, e giacché il colpo è fallito non domando altro che di cambiare vestito e di andarmene al piú presto.

“Mi pare di sentire, da qualche ora, un gran nodo alla gola.”

- Brutto segno, - disse don Barrejo, con voce grave. - Tu senti la corda degli appiccati!

- Mi consolerò pensando che se acciuffano me prenderanno anche te, e che ci terremo compagnia nell'ultima danza della vita.

Invece di rispondere, don Barrejo si tagliò una grossa fetta di prosciutto che stese su una tortillas e si mise a mangiare. Mendoza si credette in dovere d'imitarlo, mentre De Gussac stappava le sue ultime bottiglie.

La cena, abbastanza magra, fu divorata in pochi minuti ed anche abbondantemente innaffiata, poi don Barrejo, che, contro il suo solito, aveva conservato un mutismo assoluto, si rovesciò sulla spalliera della sedia, e disse a Mendoza:

- Ti senti tu di poter rimanere ancora qui?

- Io no, - rispose il basco. - Quel Montelimar mi fa troppa paura.

- Sicché è meglio ritornare fra i nostri.

- Io non amo scherzare colle corde degli spagnuoli. Penso che la fortuna ci ha protetti anche un po' troppo.

“Non sarà però cosa facile lasciare la città in questo momento, con tante ronde ed i ponti rialzati.”

- De Gussac, tu hai dei vestiti da prestarci?

- Il mio guardaroba è a tua disposizione.

- Ora dimmi che cosa vale questa taverna.

- Quanto vale!... Se non c'è piú nulla qui dentro!... Tutte le botti sono state vuotate.

- Da te?

- Credo di si, perché il Moro non mi ha portato fortuna.

- Hai fatto benissimo, amico, - disse don Barrejo. - Quando un taverniere non trova bevitori, deve diventare lui un bevitore, e poi non pagare mai i fornitori.

- Sbrigati, don Barrejo, - disse Mendoza. - Io ne ho abbastanza di Nuova Segovia e vorrei andarmene al piú presto.

- Aspetta un momento, camerata, - disse il guascone. - Se non abbiamo potuto prendere il marchese di Montelimar, cerchiamo almeno di aprire il passo ai nostri compagni.

“Finché Segovia resiste nessuno potrà scendere.”

- E che cosa vorresti fare tu? Prenderla d'assalto? Se vuoi provare, io starò a vederti.

- Lascia che dica due parole a questo caro De Gussac e ti persuaderai che i guasconi hanno sempre delle trovate meravigliose.

Don Barrejo mandò giú un altro bicchiere, l'ultimo rimasto sulla tavola e che aveva sottratto destramente al basco, poi, rivolgendosi al suo compatriotta, gli chiese:

- Dunque tu non possiedi piú nulla qui?

- Appartiene tutto ai miei creditori.

- Allora possiamo bruciare questi stracci e mandare all'aria la città. La casa è vecchia e costruita in legno di pino, ed altre consimili ne ho vedute presso a questa.

“Che bella fiammata che noi faremo. È grosso il bottale dell'aguardiente?”

- Abbastanza rotondo.

- Lo berranno questi tavolini e queste sedie zoppicanti.

“Lesto, camerata, portaci dei vestiti ed un paio di forbici per tagliarci un po' di barba, mentre noi prepariamo il falò.

“Se Segovia non brucia questa notte non brucerà piú.

“Mendoza, scendiamo in cantina e portiamo quassú il barile.”

 

 

Capitolo XIV

FRA LE BOSCAGLIE DEL NICARAGUA

 

- Al fuoco!... Al fuoco!...

Questo grido, lanciato nel cuore della notte, in una città che ha di fronte un nemico formidabile, capace di tutto, si propagò colla rapidità del lampo, di casa in casa.

I cittadini, in preda ad uno spavento indescrivibile, si precipitano nelle vie spingendo le donne ed i fanciulli strillanti e fuggono, senza nemmeno pensare a mettere in salvo le loro ricchezze.

Alla testa di quella turba vi sono tre uomini che non cessano di urlare a squarciagola:

- Al fuoco!... Al fuoco!... I filibustieri!...

Sono i due guasconi ed il basco, i quali cercano di giungere primi a qualche ponte levatoio per guadagnare la montagna.

La taverna d'El Moro brucia come un zolfanello e le case che le stanno presso, tutte costruite con tavole di pino della sierra, fiammeggiano anch'esse.

Cortine di fuoco scagliano al di là della strada una tempesta di tizzoni ardenti e nembi di scintille, provocando altri incendi.

Le trombe squillano, le truppe accorrono da tutte le parti, mentre le batterie della montagna, credendo che i filibustieri avessero attaccata la città, fanno rimbombare i loro cannoni.

Ogni tentativo per salvare la città, costruita quasi interamente in legno, eccettuato il palazzo del governo, è subito riconosciuto vano dai primi accorsi, i quali si trovano costretti a battere in ritirata dinanzi a quel fiammeggiare spaventoso che aumenta di momento in momento.

Degli scoppi avvengono e fanno saltare degli appartamenti interi, mandando tutto all'aria ed accrescendo il terrore: sono le provviste di polvere che prendono fuoco.

Ormai tutti fuggono, perfino i soldati che temono per la polveriera.

Don Barrejo ed i suoi due compagni sono sempre alla testa di quella moltitudine di fuggiaschi e non cessano di urlare.

Hanno delle gambe solide i due guasconi ed anche il basco e fanno degli sforzi prodigiosi per giungere primi, per non correre il pericolo d'imbattersi nel marchese di Montelimar o nel suo segretario.

Con un ultimo slancio raggiungono il ponte levatoio di levante, già precipitosamente calato dai soldati di guardia, e si gettano attraverso alla valle, lasciandosi subito molto addietro i cittadini.

Per una diecina di minuti continuano a scendere la valle, che le fiamme illuminano sinistramente, poi si gettano verso la montagna che s'alza verso il mezzodí e la scalano per alcune centinaia di metri.

- Basta, - disse don Barrejo, il quale soffiava come un mantice. - I guasconi non hanno mai avuto né le zampe, né i polmoni dei cavalli.

Si era lasciato cadere sotto un gigantesco pinou ed i suoi due compagni, non meno sfiatati di lui, l'avevano tosto imitato.

Da quell'altezza potevano assistere, senza alcun pericolo, alla distruzione della disgraziata città.

Segovia-Nuova non era altro che un mare di fuoco, spaventoso a vedersi.

Giganteschi turbini di fumo, che avevano delle tinte sulfuree, salivano verso il cielo come sospinti da un vento impetuoso, mentre miriadi e miriadi di scintille volteggiavano in tutte le direzioni per ricadere in mezzo alle cupe boscaglie della valle.

Di quando in quando una colonna di fuoco si slanciava fuori da quella bolgia infernale, con le selvagge contrazioni dei serpenti, poi vi tornava dentro.

Gli abitanti si affollavano nella valle, spingendo innanzi muli, cavalli e buoi piú o meno carichi, fra un urlío di donne spaventate e di fanciulli terrorizzati, mentre i soldati proteggevano la ritirata occupando fortemente le due falde dei monti, per impedire un improvviso attacco da parte dei filibustieri.

- Per bacco!... - disse don Barrejo, il quale si era rialzato. - Nuova Segovia si potrebbe chiamare ora Nuovo Forno.

“Non avrei mai creduto che un miserabile caratello d'aguardiente potesse scatenare un simile incendio.

“Ah! i filibustieri non potranno lamentarsi di noi. Se non abbiamo potuto prendere il marchese di Montelimar, abbiamo almeno aperta la strada. Che cosa dici, Mendoza?”

- Che schiaccerei un sonnellino, - rispose il basco, il quale sbadigliava come un orso.

- Qui no. il vento comincia a spingere verso di noi il fumo, e poi i filibustieri potrebbero sorprenderci e mandarci all'altro mondo senza riconoscerci.

“Fortunatamente ho detto a Buttafuoco, prima di lasciarlo, che avremmo segnalato il nostro ritorno.”

- Accendendo la pipa?

- No, con dei fuochi disposti in croce.

- Che non potranno vedere con tutte queste gigantesche piante che ci coprono. Bada a me, camerata, gettati al mio fianco ed aspettiamo che il fuoco abbia divorata la città.

“Domani ci apriremo la via attraverso il bosco ed i filibustieri non saranno cosí imbecilli da fucilarci senza nemmeno dire: ehi!... guardati!... Buttafuoco manderà degli uomini a cercarci.”

- C'è troppa luce per dormire.

- Copriti gli occhi colle mani, - disse De Gussac. - Io accetto il consiglio del tuo amico, e fino allo spuntare del sole non mi muoverò.

- Allora monto la guardia.

- Come vuoi, amico: buona notte, e guarda che le fiamme non si spingano fino a noi, - disse Mendoza.

- Potete dormire tranquilli quando veglia un Barrejo.

La risposta fu data da due grugniti. Il guascone numero due ed il basco russavano già, mentre la valle fiammeggiava sempre piú intensamente, illuminando perfino le creste delle altissime montagne.

Tutta la notte il fuoco avvampò con furia incredibile, facendo crollare case, caserme, chiese, campanili, magazzini, poi verso l'alba le fiamme, per mancanza di alimento, gradatamente si abbassarono, contorcendosi, come fossero furiose di non aver piú nulla da distruggere.

Segovia-Nuova non esisteva piú.

La geniale, quantunque feroce, trovata del guascone era stata sufficiente ad aprire, il poche ore, la via ai filibustieri di Raveneau de Lussan e disperdere i grossi corpi spagnuoli che il marchese di Montelimar poteva opporre a loro, e con molte speranze di aver ragione di quel pugno d'uomini.

Quando il sole riapparve sulle alte vette dell'impotente sierra, che si stendeva da ponente a levante, fronteggiata da un'altra minore, i tre avventurieri, non vedendo piú nessuno nella valle, si misero in cammino per raggiungere Buttafuoco e Raveneau de Lussan.

I filibustieri, vedendo il passo libero, potevano approfittare e scendere dalle loro posizioni, senza attenderli.

Si ricacciarono sotto i foltissimi boschi che coprivano i fianchi della sierra e si misero animosamente in cammino, preceduti da De Gussac, il quale si era provvisto d'un moschetto prima di lasciare la sua tavernaccia.

Nello scendere la valle si erano considerevolmente allontanati dalle trincee tenute dai loro compagni, sicché dovettero rimontare faticosamente la sierra per una mezza dozzina d'ore, aprendosi il passo a colpi di draghinassa.

- Si vedono, - disse ad un tratto don Barrejo.

- Chi? - domandò Mendoza.

- Le trincee.

- Ed i filibustieri?

- O che dormono tutti come ghiri o sono partiti - rispose il guascone. - Non vedo nessuna sentinella vegliare sui punti avanzati.

- Che ci abbiano abbandonati?

- Mio caro, avranno pensato che era meglio salvare trecento uomini, invece di due soli.

- Gl'ingrati!... - esclamò Mendoza.

- Non siamo ancora dentro le palizzate, - disse De Gussac.

- Forse si riposano all'ombra delle cinte.

Don Barrejo scosse la testa.

- Uhm!... - fece poi. - Noi abbiamo lavorato per gli altri, e gli altri hanno piantato in asso noi.

“Forse, non vedendoci ritornare presto, avranno creduto che gli spagnuoli ci avessero appiccati.”

Un odore insopportabile giungeva dalla parte delle trincee, sopra le quali vedevano volteggiare stormi immensi di urubu, i falchi dell'America centrale.

I cadaveri degli spagnuoli, abbandonati sul campo di battaglia, cominciavano a corrompersi.

- Tonnerre!... - esclamò don Barrejo, il quale cominciava ad avanzarsi con prudenza. - Sarà un affare serio mettere i piedi dentro a quel carnaio.

“Che i nostri compagni siano fuggiti per non prendersi la peste?”

- Lassú non vi è nessun essere vivente, - disse De Gussac, il quale aveva raggiunto l'orlo della prima trincea. - Mi rincresce dirvelo, ma voi siete stati abbandonati.

- Andremo al Darien per nostro conto, - rispose don Barrejo, il quale non si spaventava mai di nulla. - Ora non abbiamo piú gli spagnuoli ai fianchi.

- Aspetta: vedo un segnale piantato in mezzo alla trincea.

- Andiamo a vederlo, - disse il basco. - Lo hanno innalzato certamente per noi.

Superarono la trincea, turandosi il naso per non respirare quelle esalazioni pestifere prodotte da quell'ammasso di corpi umani ormai in completa dissoluzione, e si diressero verso un'asta di lancia la quale reggeva un drappo rosso con qualche cosa di bianco piantato sulla cima e che non doveva essere un pezzo di lama.

Mendoza non si era ingannato.

Era un biglietto di Buttafuoco, col quale dava loro l'appuntamento sul Maddalena, nel caso che fossero riusciti a sfuggire agli spagnuoli.

- Hanno approfittato dell'incendio per passare, coperti dalle nuvole di fumo, sotto le batterie spagnuole, - disse don Barrejo.

- E noi? - chiese De Gussac.

- Seguiremo la medesima via.

- È lontano però il Maddalena, perché scorre lungo le frontiere del Darien. Non vi potremo giungere prima di una diecina di giorni.

- Daremo un po' d'olio di palma ai nostri piedi e non ci fermeremo finché non avremo raggiunti i compagni.

- Vorrei sapere quale vantaggio hanno su di noi.

- Notevole certamente, ma noi cercheremo di guadagnare via. Prima però di metterci in marcia cerchiamo delle armi da fuoco e delle munizioni, disse don Barrejo. - Ne vedo tante là in mezzo a quei morti.

- Non sarò certamente io che metterò i miei piedi in quel carnaio, - disse Mendoza facendo un gesto di ribrezzo.

- E nemmeno io, - aggiunse De Gussac.

Il guascone li guardò quasi con commiserazione, poi disse.

- Diventate un po' schizzinosi voi, camerati. Don Barrejo però non lo è mai stato.

Scavalcò la trincea e si lasciò cadere su quell'ammasso di cadaveri, sopra i quali battagliavano ferocemente gli urubu.

Tenendosi uno straccio al naso, si avanzò con precauzione, temendo una caduta, e giunse finalmente dinanzi ad un gruppo dove archibugi e munizioni abbondavano.

Stava per prendere un paio di armi da fuoco, quando si vide piombare addosso uno stormo di volatili.

I divoratori di carogne, disturbati nel loro nauseabondo pasto, si precipitavano addosso al vivo, tentando di levargli gli occhi.

- Ah!... furfanti!... - urlò il guascone, furibondo, sguainando subito la draghinassa. - Avete fatto alleanza cogli spagnuoli? Ora vi accomodo io.

Chiacchierava e battagliava ad un tempo, tagliando ali e teste, seppellendosi fra una nuvolaglia di penne.

Mendoza e De Gussac ridevano a crepapelle, senza accorrere in suo aiuto.

Gli urubu dovettero però ben presto convincersi che i loro becchi erano meno robusti della draghinassa del guascone e finirono per andarsene. Don Barrejo raccolse i suoi due archibugi e le sue munizioni, ripassò sui cadaveri brulicanti già di vermi e scalò la palizzata.

- Guardate un po', - disse. - Perfino gli uccelli l'hanno con noi!

“Questa è la terra della maledizione e...”

Un colpo di fucile, sparato a non molta distanza, gli ruppe la frase. Degli uomini che indossavano corazze ed elmetti erano improvvisamente comparsi sulla cresta dell'altura e si preparavano a fucilare i tre avventurieri senza nemmeno dire loro: Ohé, guardatevi!

- Fulmini!... - esclamò Mendoza, mettendosi prontamente al coperto della seconda trincea. - Gli spagnuoli!...

- Tonnerre!... Da dove sono sbucati costoro? - si chiese don Barrejo, il quale aveva fatto altrettanto.

- Devono essere quei trecento che ci seguivano alle spalle per toglierci i bagagli, - rispose Mendoza. - Gambe, amici, e rifugiamoci nella foresta.

Le palle cominciavano a fioccare sulle palizzate, però gli spagnuoli, temendo forse di aver dinanzi a loro forze rilevanti, non avevano osato abbandonare la cresta dell'altura.

I tre avventurieri, tenendosi curvi e ben vicini alla cinta di mezzo, guadagnarono d'un fiato il fianco della sierra, coperto da alberi immensi e da cespugli colossali che s'intrecciavano ai festoni di liane e vi si gettarono dentro, mentre i colpi di fuoco spesseggiavano con maggior frequenza.

- Se non si sono accorti che siamo in tre soli, forse ci lasceranno in pace, - disse don Barrejo, il quale sciabolava rabbiosamente le piante per aprirsi il passo.

- T'inganni, compare, - disse Mendoza. - Ho udito dei cani latrare e li lanceranno sulle nostre tracce.

“Ti ricordi quella famosa corsa attraverso i boschi di Sandomingo?”

- Lasciami correre: è il meglio che possiamo fare.

Avevano trovato uno squarcio nella foresta, forse aperto dai tapiri, i quali hanno l'abitudine di costruirsi delle vere strade, e si erano messi a correre con lena affannosa, spronati dalle archibugiate che la montagna opposta ripercuoteva con un rimbombo assordante.

Quella corsa disperata, lungo il fianco della sierra, durò una buona ora, poi i tre avventurieri, non udendo piú far fuoco, si fermarono, non poco stupiti di essere scampati miracolosamente all'agguato.

- Che cosa dici tu, Mendoza, di tutta questa faccenda?

- Che se avessi una buona colazione la divorerei subito in mezzo minuto, - rispose il basco.

- Io penso invece che navighiamo ora in un mare di fastidi.

- Sono inezie, pei guasconi.

- Corpo di bacco!... Se abbiamo alle spalle quei trecento uomini finiremo per essere presi.

- Abbiamo delle gambe anche noi.

- E loro hanno i cani. Hai proprio udito dei latrati?

- Qualche mastino urlava fra gli spagnuoli.

- Io ho sempre avuto una paura tremenda di quelle bestiacce, perché quando si mettono su una pista non la lasciano piú.

“Che bel guadagno che abbiamo fatto a recarci a Segovia! Siamo rimasti tagliati fuori dal grosso e colla retroguardia degli spagnuoli alla spalle.

“De Gussac, tu che sei guascone come me, hai qualche idea meravigliosa?”

- Se avessi qui qualche bottiglia saprei forse trovarcela nel fondo, - rispose il guascone numero due. - Il vino, purtroppo, non s’incontra nelle boscaglie.

- Allora non ci rimane che di metterci in cammino.

- Finché avremo la lingua asciutta e le gambe rotte, - aggiunse Mendoza. - Non bisogna fidarsi di questo silenzio.

“Se gli spagnuoli non sparano piú, è segno che si sono messi già sulla nostra pista.

“Amici, gambe!...”

Si erano internati in un superbo bosco di passiflore, arrampicanti che in quelle regioni acquistano rapidamente delle dimensioni straordinarie, col fusto irto di spine e che si attorciglia facilmente ai pini od alle palme, formando dei festoni d’una magnificenza incredibile.

Quasi tutto il tempo dell’anno sono coperte di fiori purpurei con pistilli e stami bianchi i quali rappresentano, con esattezza meravigliosa, dei martelli, dei chiodi, dei ferri di lancia, delle piccole corone di spine e tutti gli altri strumenti della passione.

I tre avventurieri, che cominciavano a provare le prime strette della fame, si gettarono sulla frutta di quei profumati vegetali, grossi come un piccolo popone, colla buccia giallastra, eccellenti se conditi con vino e zucchero, e dopo d’averne fatto un’ampia raccolta, si rimisero in cammino seguendo sempre l’aspra falda della sierra.

Di quando in quando, quasi sotto i loro piedi, si alzavano dei botauro, volatili alti quasi due piedi, colle penne brune, rigate sopra, il ventre grigiastro ed il becco acutissimo, oppure dei curlam, trampolieri appartenenti alla famiglia dei francolini, bruno-purpurei e la testa picchiettata di bianco, che non avrebbero dovuto trovarsi in mezzo a quelle foreste essendo uccelli palustri. Vedendo passare i tre avventurieri, i quali si guardavano bene dallo sparare pel timore di attirare l’attenzione degli spagnuoli, volavano via gridando: carò... carò...

- Ehi, don Barrejo, - disse Mendoza, il quale seguiva cogli sguardi ardenti un branco di scoiattoli volanti, che avrebbero potuto fornirgli una deliziosa colazione. - Cantano per te quei trampolieri.

- Per me!... - esclamò stupito il guascone, il quale non cessava di battagliare, con De Gussac, contro le passiflore.

- Questi sono messaggeri gentili, mandati da tua moglie: carocaro...

- Che il diavolo ti porti!... - Tu sei sordo come una campana!. Carò... carò... la castigliana non mi ha mai detto carò.

“Lascia stare le donne e cerca di catturarmi invece un paio di quegli scoiattoli volanti. Credi tu che io sia un uomo da vivere solamente di poponcelli di passiflore?”

- Se vuoi, sparo!

- Ah, no!... - disse don Barrejo. - Gli spagnuoli ci sono alle calcagna.

“Odi quel maledetto cane?”

- Mi pare di udirlo di quando in quando.

- Già!... I baschi sono diventati anche sordi ora.

Pur chiacchierando non si arrestavano. Colle spade e con la draghinassa battagliavano ferocemente contro le passiflore, le quali formavano sopra di loro dei festoni sempre piú folti.

Verso il mezzodí fecero una breve fermata dinanzi ad una grossa pianta, la quale cresceva solitaria in mezzo a quel caos di verzura.

- Un palo de vaca!... - aveva esclamato don Barrejo. - La colazione è assicurata. Anche i boschi qualche volta servono, benché facciano sovente disperare i poveri diavoli che sono costretti ad attraversarli.

“Ehi, Mendoza, tu che hai un buon naso, senti gli spagnuoli?... Io che posseggo due orecchi larghi come due ombrelli non odo piú il cane.”

- Io credo che si siano fermati a fare colazione, - rispose il basco. - Non sono già dei muli dei Pirenei per marciare senza un momento di sosta.

- De Gussac, prestami il tuo elmetto. Non vi saranno delle bestie dentro?

- No, camerata, te lo assicuro.

- D’altronde se vi è qualche schizzinoso, tanto peggio per lui.

Prese la draghinassa e l’elmetto e s’appressò alla pianta, la quale cresceva dritta, tenacemente abbarbicata a una roccia, con una corona di foglie larghissime.

Vibrò un terribile colpo e dal tronco si vide scaturire subito uno zampillo di liquido biancastro, che pareva non avesse nulla da invidiare al latte.

- Questo vale meglio dei poponcelli, - disse, porgendo a Mendoza il casco che traboccava. - Che peccato non diventare piantatore di palo de vaca!... Ciò mi risparmierebbe la fatica di tenere delle mucche.

- Sarà per un’altra volta, - rispose Mendoza, il quale beveva a lunghi sorsi il dolcissimo e denso liquido.

La fermata alla base dell’albero non durò piú di dieci minuti. Un lontano latrato li persuase a rimettersi subito in marcia, per non venire raggiunti.

- Come sono lesti gli spagnuoli a fare colazione, - disse bon Barrejo. - La nostra pelle deve valere piú dell’oro... Bestia!... Sono pelli guascone e basche!... Sfido io che sono ansiosi di levarcele di dosso!

Avevano ripresa la corsa, ma non piú attraverso ad una boscaglia di passiflore. Delle palme magnifiche sorgevano dinanzi a loro, a gruppi, lanciando i loro tronchi snelli e flessibili a piú di cinquanta metri d’altezza. Sulle cime cadevano elegantemente delle immense foglie dentellate, che portavano una spola d’un bel violetto iridiscente, listata di porpora e fiocchi di frutta che sembravano mele verdi.

Ai piedi di quelle piante crescevano, in grande quantità, delle tigridie, le quali spiegavano al sole i loro fiori in forma di coppa, chiazzati ed occhialuti come il pelame d’un giaguaro o d’un pavone.

Quella seconda corsa, piú affannosa della prima, durò fino al cader del sole.

Tutto il giorno avevano udito i latrati del maledetto cane, sempre lontani è vero, ma anche sempre sulla loro pista.

- Cerchiamoci un rifugio, - disse De Gussac. - Se non lasciamo passare gli spagnuoli, ci faranno correre fino alle cateratte del Maddalena.

- Cercalo tu, - disse don Barrejo. - Sarei ben felice di lasciar passare quel cane dannato.

- Se ci arrampicassimo...

- Taci, Mendoza, - disse il guascone, il quale da qualche istante tendeva gli orecchi. - Si direbbe che noi siamo vicini a qualche fonte.

“Ascolta tu, De Gussac.”

- Odo infatti dell’acqua gorgogliare, - rispose il guascone numero due.

- Sarebbe quel che ci vorrebbe per far perdere al cane le nostre tracce.

- Andiamo un po' a vedere se si potrà usare quell’acqua a nostro vantaggio, - disse Mendoza. - Se si tratta d’un ruscello, addio tutte le nostre speranze.

I tre avventurieri, all’incerta luce crepuscolare, sfondarono un ammasso enorme di cespugli, massacrarono colle spade una ventina di cactus giganti e si trovarono improvvisamente dinanzi ad un bacino il quale si stendeva dinanzi ad una roccia.

Da una spaccatura, piuttosto ampia, che pareva conducesse a qualche antro, l’acqua entrava e da un’altra spaccatura, aperta sul margine del bacino, usciva, precipitandosi giú pei selvosi fianchi della sierra.

Don Barrejo aveva subito fissati i suoi sguardi sulla roccia.

- La sorgente è là dentro, - disse. - Se potessimo trovare un rifugio? Il cane avrebbe un bel cercare le nostre tracce.

- Credi che vi sia qualche caverna piena d’acqua? - chiese Mendoza.

- Un serbatoio di certo.

- E tu vorresti passare la notte là dentro coi piedi in acqua?

- Rimani fuori e sbrigatela da solo cogli spagnuoli.

- Non ho mai avuto simpatia per gli antri oscuri, dentro i quali si possono nascondere anche dei serpenti.

- E le nostre spade non sono state temprate nelle acque de Guadalquivir? Compare, tu diventi, da qualche tempo, noioso. Invecchi forse?

- Può darsi, - rispose il basco, ridendo.

- Ho trovato, disse in quel momento De Gussac, il quale da qualche minuto si frugava le tasche.

- Che cosa? - domandarono ad una voce i due amici.

- Un pezzo di candela che mi è servito a dar fuoco al barile dell’aguardiente.

- Leviamoci gli stivali e andiamo ad esplorare la sorgente, - disse don Barrejo. - I latrati si odono sempre piú distinti, e scommetterei che gli spagnuoli non si trovano a piú di mille passi da noi.

 

 

Capitolo XV

IL PITONE DELLE CAVERNE

 

I tre avventurieri, profondamente impressionati dall’ostinazione degli spagnuoli, i quali parevano risoluti a non accordare loro un momento di tregua, si tolsero gli stivali di pelle gialla, appendendoseli agli archibugi ed entrarono nel bacino il cui fondo era coperto di erbe acquatiche.

De Gussac aveva già accesa la candela, essendo ormai scomparso anche l’ultimo barlume di luce e si era messo dinanzi ai compagni tenendo in pugno la spada.

Pratico delle regioni dell’America centrale, temeva che sotto quelle acque tranquille sonnecchiasse fra le erbe qualcuno di quei mostruosi serpenti acquatici, particolarmente temuti dagl’indiani, potendo sviluppare una forza non inferiore a quella dei pitoni dell’India e della Malesia.

La traversata del bacino, non molto vasto d’altronde, si compí felicemente ed i tre avventurieri si trovarono presto dinanzi alla spaccatura dalla quale l’acqua sfuggiva gorgogliando dolcemente.

- Possiamo passare, De Gussac? - chiese don Barrejo, che era in coda.

- Non avremo alcuna difficoltà, - rispose il guascone numero due.

- Cacciati dentro, dunque. Quel maledetto cane si avvicina sempre.

De Gussac alzò la candela ed attraversò lo squarcio.

Dinanzi a lui, come aveva già supposto, s’apriva uno splendido bacino naturale, di forma quasi circolare, abbastanza ampio per contenere anche due dozzine di uomini.

Dalla vôlta e dalle pareti l’acqua cadeva abbondantemente, alimentando cosí la sorgente.

De Gussac aveva fatto alcuni passi innanzi, tastando con precauzione il fondo, quando Mendoza e don Barrejo lo videro improvvisamente arrestarsi.

- Hai veduto qualche satanello? - chiese il terribile guascone. - I miei li ho lasciati tutti nella cantina della mia taverna, sotto la guardia di Rios.

- Non scherzare, camerata, - rispose De Gussac, con voce un po' alterata.

- Non ci saranno dei caimani qui, m’immagino.

- Ho udito all’estremità del serbatoio l’acqua subito agitarsi.

- Eppure non soffia vento qui dentro.

De Gussac, invece di rispondere, alzò piú che poté la candela e si mise a guardare attentamente, ma la luce non poteva giungere fino in fondo alla sorgente.

- Eppure, - disse, - sono certo di non essermi ingannato. È precisamente in questi rifugi tranquilli che amano ritirarsi i grossi serpenti d’acqua dolce.

“Amici, fuori le spade!...”

Aveva appena pronunciate quelle parole, quando l’acqua del bacino, quantunque non fosse piú alta di cinquanta centimetri, si gonfiò improvvisamente formando una vera ondata, ed un mostruoso serpente acquatico, che rassomigliava ad uno di quei terribili sucuriu brasiliani, colle scaglie tutte nere, si eresse sibilando rabbiosamente.

Era piú grosso della coscia di un uomo e misurava, su per giú, almeno otto metri.

I tre avventurieri, spaventati da quella improvvisa comparsa, si erano appoggiati contro la parete, per non farsi avvolgere dalle possenti spire del rettile stritolatore.

- Mano agli archibugi!... - aveva gridato De Gussac, piantando la candela entro una fessura, per avere le mani libere e non correre il pericolo di rimanere senza luce.

- Guardatevene!... - aveva invece esclamato don Barrejo. - Volete attirarci addosso gli spagnuoli?

“Abbiamo delle spade e daremo battaglia a questo signor abitante delle caverne.”

Il serpente, disturbato nel suo sonno, manifestava una collera terribile, però non osava ancora assalire, abbagliato forse dalla luce della candela.

Fischiava rabbiosamente, si alzava e si abbassava ed agitava burrascosamente la sua coda, cercando di allungarla verso gli avventurieri per avvolgerla intorno alle loro gambe.

La situazione era terribile. Dal di fuori giungevano, ad intervalli, i latrati del maledetto cane che guidava gli spagnuoli, ed il rettile si preparava per l’assalto.

- Preveniamolo!... - gridò don Barrejo, alzando la sua terribile draghinassa. - Fra cinque minuti gli spagnuoli saranno qui.

“Animo, camerati: proviamo il nostro acciaio sulle squame di quel mostro.”

I tre avventurieri, decisi a uscire in qualche modo da quella situazione che di momento in momento si aggravava, si scagliarono a corpo perduto contro l’abitatore della caverna, menando colpi disperati.

La spada di Mendoza, troppo leggiera, rimbalzava sulle scaglie del mostruoso rettile, senza riuscire a produrre alcuna ferita seria; le due draghinasse dei guasconi, piú solide e piú pesanti, tagliavano invece in pieno.

Il serpente, coperto di sangue dalla testa a mezzo corpo, raddoppiava i suoi attacchi, cercando di avvolgere in un sol colpo i suoi assalitori e stritolarli.

La sua possente coda si agitava in tutti i sensi, scagliando addosso ai combattenti sprazzi d’acqua che non li sgominavano affatto.

- Picchia sodo, De Gussac!... - gridava don Barrejo, saltando a destra ed a sinistra per non farsi avvolgere. - Cacciagli la tua spada in gola, Mendoza, se non fa presa sulle scaglie.

- E picchia duro anche tu, - rispondevano i camerati, menando colpi terribili.

Il rettile, ferito in dieci punti, si esauriva rapidamente senza riuscire a sbarazzarsi dei suoi avversarî che gli piombavano incessantemente addosso come mastini arrabbiati.

Finalmente il lungo corpo si ripiegò su se stesso, scosso da fortissime convulsioni, poi si stese lentamente sul fondo del serbatoio, proprio nel momento che don Barrejo lo finiva con un tremendo colpo di draghinassa vibratogli sulla testa.

Intorno ai combattenti l’acqua era diventata tutta rosa, però essendo la bocca di sfogo abbastanza ampia, sfuggiva rapidamente.

- Tonnerre!... - esclamò don Barrejo, tergendosi il sudore che gli colava dalla fronte. - Mi pare di aver battagliato contro qualche mostruoso drago. Sono veramente pericolosi, questi rettili, De Gussac?

- Non sono velenosi, però posseggono una tale forza da stritolare, fra le loro spire, perfino un giaguaro.

“Non vi è un animale che possa resistere loro.”

- L’orso forse?

- No, Il tapiro, e deve la sua salvezza alla capacità ed alla resistenza dei suoi polmoni.

“Quando si sente avvincere, e ciò gli succede di frequente, abitando i luoghi frequentati da questi rettili, si sgonfia tutto.

“Quando il rettile ha ben chiuse le spire, beve aria in gran copia, diventando un terzo piú grosso e spezza le vertebre del suo avversario se...”

- Taci!... - disse Don Barrejo, curvandosi verso l’apertura. - Gli spagnuoli sono qui.

Un latrato sonoro si era fatto udire a non molta distanza dal bacino. Il cane doveva aver trovata la pista dei fuggiaschi e la seguiva ancora con ostinazione feroce.

- Io ho quasi piú paura dei mastini degli spagnuoli che dei giaguari, - disse Don Barrejo. - Che riesca a trovarci anche qui dentro, Mendoza?

- È impossibile, - rispose il basco. - Se noi restiamo tranquilli e silenziosi, sfuggiremo ancora una volta ai nostri nemici.

- Vediamo se à possibile trovare un posticino almeno per sederci.

Non sarebbe piacevole rimanere tutta la notte coi piedi nell’acqua tutt’altro che calda e sempre ritti.

- Cerchiamo pure, - rispose Mendoza, il quale ci teneva pure a riposarsi un po', dopo una cosí lunga marcia.

Prese la candela e fece il giro della sorgente. All’estremità scoprí una specie di nicchia, scavata dalle acque, bastante a contenerli tutti tre. Era tutt’altro che asciutta, poiché dai pori del suolo sfuggivano, con un allegro rumore, dei getti di acqua che poi si radunavano un po' piú in basso.

- Ci si può stare, - disse Mendoza. - Saremo costretti a prendere un bagno fino a domani mattina. Tutte le comodità d’altronde non si possono trovare.

- Hai guardato bene se vi è nascosto dentro qualche altro serpente? Qualche volta questi brutti rettili si appaiano.

- Non ho veduto che dell'acqua colare.

- Tonnerre!... Spegni la candela!

Il cane che guidava gli spagnuoli, un mastino di certo capace di tener testa anche a due uomini, aveva lanciato tre sonori latrati i quali si erano ripercossi sinistramente entro il serbatoio.

La candela fu immediatamente spenta, ed i tre avventurieri si rannicchiarono nello speco, puntando gli archibugi verso l’apertura, quantunque dubitassero assai che la polvere fosse asciutta.

Al di fuori, sulle rive del bacino, si udivano gli uomini parlare ad alta voce.

- Il cane si è fermato, - diceva uno che aveva un vocione da toro. - Se Lopez si è arrestato, vuol dire che quelle canaglie hanno fatto qui una sosta.

- Bella scoperta!... - aveva risposto un altro soldato, che aveva invece una voce squillante come una campana d’argento. - Anch’io, senza essere un cane, avrei sospettato che qui avessero fatto una fermata.

Caramba!... Non si trova sempre dell’acqua cosí fresca e cosí limpida.”

- Dove si saranno nascosti quei demoni? - aveva ripreso il primo. - Che abbiano dei muscoli d’acciaio? È da stamane che corriamo come lupi affamati senza un momento di tregua.

- Cerca Lopez!... Cerca!... - avevano gridato parecchie voci.

Il cane continuava a latrare lungo le rive del bacino senza decidersi a riprendere la corsa.

La pista che da dodici ore seguiva ostinatamente, gli era ad un tratto mancata.

- Ehi, Mendoza, - disse don Barrejo, urtando il basco che gli stava vicino. - Che cosa ti dice il cuore, vecchio mio?

- Che anche questa volta la passeremo liscia, - rispose il filibustiere. - La notte è scesa e non potranno scorgere la spaccatura per la quale siamo entrati!

- Un’idea!... - esclamò don Barrejo, picchiandosi la fronte. - Talvolta si hanno nelle mani delle fortune e non si afferrano.

- Ora quest’uomo metterà a soqquadro il serbatoio, - disse Mendoza.

- Non si tratta che di prendere quel serpentaccio e di collocarlo presso l’apertura, - rispose il terribile guascone. - È cosí grosso che la otturerà completamente.

“Vedremo se gli spagnuoli avranno il coraggio di assalirlo.”

- Dopo che noi l’abbiamo accoppato, - disse De Gussac.

- Ora che è morto difenderà noi.

- Quest’uomo ha una fantasia inesauribile, - disse Mendoza.

- Eppure le sue trovate, devo convenirne, sono sempre efficaci.

- Allora si va a ripescare quel serpente? - chiese De Gussac.

- Andiamo, - rispose Mendoza.

Deposero gli archibugi, si presero per mano, regnando ormai là dentro un’oscurità perfetta, dopo che avevano spento il pezzo di candela, e si misero a cercare il mostruoso rettile coricato in fondo al bacino.

Non fu difficile trovarlo poiché era cosí lungo che occupava quasi tutto l’antro, essendosi disteso dopo la sua morte.

- Issa, - disse Mendoza, che pel primo l’aveva scoperto. - È pesante come dieci gomene delle âncore di speranza d’un tre ponti.

- Issa, - risposero a loro volta i due guasconi.

L’impresa però non fu cosí facile come si potrebbe credere, poiché quell’abitatore delle caverne pesava come se avesse dentro i suoi intestini del piombo.

Tirando e spingendo e guidandosi colla debole luce che entrava dalla spaccatura, riuscirono finalmente a trascinarlo sul posto.

- Prima di chiudere il passaggio vediamo cosa fanno gli spagnuoli e se sono sempre in buon numero, - disse don Barrejo.

Dall’altra parte del serbatoio giungevano dei riflessi rossastri e si udivano molte voci parlare.

Il guascone salí con precauzione fino alla spaccatura e lanciò al di fuori uno sguardo.

- Corbezzoli!... - disse. - Si sono accampati proprio nei pressi del bacino ed hanno acceso molti fuochi.

“Passeranno la notte qui; in attesa che il loro cane ritrovi le nostre tracce.”

- Sono molti? - chiese Mendoza che gli stava dietro.

- Non posso scorgerli tutti, - rispose don Barrejo. - Mi pare però che siano una grossa compagnia.

“Devono essere quei famosi trecento che seguivano i filibustieri di Raveneau, per togliere loro i bagagli.

“Dammi la testa di questo bestione per metterla bene in vista: anche se è spaccata produrrà un certo effetto. Ohé, issa!...”

Il rettile fu nuovamente sollevato, spinto ed accomodato attraverso lo squarcio della sorgente, in modo da sembrare addormentato.

Don Barrejo aveva avuta la precauzione di mettere la testa bene in vista, dopo d’averla pulita del sangue coagulato.

- Ecco uno spauracchio che ci lascerà tranquilli, - disse. - Camerati, in ritirata nel nostro buco e cercate di dormire.

Riattraversarono silenziosamente il serbatoio e raggiunsero il loro rifugio pullulante d’acqua freschissima, accomodandosi alla meglio per prendere un po' di riposo.

Dal di fuori non giungeva piú alcun rumore. Gli spagnuoli, stanchi da quella lunga corsa, dovevano essersi addormentati intorno ai fuochi.

Neppure il cane urlava piú; solo l’acqua del bacino continuava a gorgogliare dolcemente, invitando a dormire.

Potevano riposarsi tranquillamente gli spagnuoli che avevano per materasso dell’erba folta e profumata, ma non certo i tre disgraziati avventurieri, che si sentivano correre l’acqua sotto e sopra, cadendo anche dalla vôlta dei larghi goccioloni che stizzivano specialmente don Barrejo.

Tutta la notte non fecero che agitarsi e cambiare di posto, nella speranza di trovare un posticino asciutto, mentre invece pareva che sopra la grande roccia esistesse un altro serbatoio importante, impaziente di scaricarsi per far posto alle nuove piogge.

Anche quella notte, per quanto tormentosa passò come tante altre e finalmente un po' di luce rischiarò il serbatoio, filtrando attraverso le spire del serpente.

Gli spagnuoli al di fuori recitavano, come era loro costume, le preghiere del mattino e si udiva un fruscío ed un cozzare di spade e di archibugi.

Don Barrejo che non aveva chiuso gli occhi un solo momento, stava per balzare fuori dal buco volendo sgranchirsi le gambe, quando si udirono echeggiare delle urla di terrore.

- Serpente!... Serpente!... - gridarono gli spagnuoli, mentre il cane urlava a squarciagola.

Sette od otto colpi di fucile rimbombarono un momento dopo e parecchie palle attraversarono il serbatoio, piantandosi nelle rocce friabilissime.

- Ci assaltano? - chiesero Mendoza e De Gussac, svegliati di soprassalto.

- Si, il rettile, - rispose il terribile guascone, ridendo. - Guardatevi dalle palle di rimbalzo.

Il guascone numero due ed il basco, senza aspettare il suo ordine, si erano già coricati dentro il crepaccio, affinché i grossi proiettili, che fischiavano sempre attraverso il serbatoio, non li colpissero.

Gli spagnuoli si accanivano contro l’enorme serpente e gli mandavano addosso una tal grandine di proiettili da farlo sussultare come se fosse ancora vivo.

Quella tempesta durò parecchi minuti, quasi senza interruzione, poi finí in un clamore altissimo.

Gli spagnuoli si erano probabilmente convinti che il rettile finalmente doveva essere morto.

- Mendoza, - chiese don Barrejo, il quale seguiva le pareti del serbatoio tenendosi ben curvo. - Sei ancora vivo?

- Si, compare, - rispose il basco.

- E tu, De Gussac?

- Piú vivo di prima.

- Rendete grazie al serpentaccio, - disse don Barrejo, togliendosi il cappello ed inchinandosi. - Quella povera bestia ci ha salvata la pelle, figliuoli miei.

“Purtroppo; senza la mia prodigiosa idea, a quest’ora voi sareste tutti morti.”

- E le spade temprate nelle acque del Guadalquivir a che cosa servono dunque? - chiese il basco, ironicamente. - Se tagliando le ruvide e grosse scaglie dei serpenti, potrebbero tagliare anche qualche testa umana.

- Qualche volta anche dieci teste, quando l’uomo che le impugna è valoroso ed ha il braccio solido, - disse il terribile guascone.

- Anche cento, uomo ferocissimo, - rispose Mendoza. - Io ho passati molti anni fra i piú tremendi filibustieri e non mi è mai toccato d’incontrarmi in un avventuriero di tale fatta. Tu, compare, sei il vero calibro da 36.

- Che cos’è?

- Quando Wan Horn, il famoso filibustiere, scopriva fra i suoi uomini un accidente secco come te, lo insigniva dell’ordine calibro 36, che allora era la massima portata dei pezzi da caccia.

Don Barrejo si scoprí e fece un profondo inchino.

- Tu non sei un Wan Horn, né, un conte di Ventimiglia, - disse, colla sua solita comica gravità. - Siccome però sei sempre stato un famoso filibustiere, pur combattendo negli ultimi ranghi, io ti sono riconoscente del calibro che mi hai assegnato.

“Corpo d’un cannone!... Se noi riusciremo a mettere le mani sul famoso tesoro del Gran Cacico del Darien, farò fondere per mia moglie una pepita grossa come una patata e su quello spillone farò incidere il 36.

“Nuovo ordine cavalleresco di S. M. Mendoza 54°.”

- Perché 54°?

- Suppongo che tu avrai avuto degli antenati come qualche altro mortale e che non sarai nato dalla schiuma del mare. Tu dunque sarai il 54° successore del tuo antenatissimo.

- Che il diavolo ti porti!... - rispose Mendoza, scoppiando in una risata.

- È impossibile, camerata, - disse don Barrejo, - perché i diavoli ed i satanelli li ho lasciati tutti nella mia cantina sotto la guardia di Rios.

“Suvvia, aiutatemi a togliere il serpentaccio, giacché gli spagnuoli se ne sono andati.”

- Ne sei proprio convinto? - chiese De Gussac.

- Non odi il cane latrare in lontananza? O cerca disperatamente la nostra pista o ne ha trovata un’altra.

- Sí, se ne sono andati, - confermò Mendoza.

Afferrarono il rettile che era ridotto in uno stato miserando e lo lasciarono cadere nel serbatoio, poi prese le armi e le munizioni lasciarono il rifugio per prendersi, dopo tanta acqua, un bel bagno di sole.

Intorno al bacino fumavano ancora dei tizzoni, sui quali gli spagnuoli avevano abbrustolito delle pannocchie di mais, a giudicare dai molti grani che si vedevano a terra.

Nemmeno essi dovevano essere ricchi in fatto di provviste.

La giornata prometteva di essere splendida. L’astro diurno sfolgorava già sulle cime della sierra di levante, inondando la vallata di raggi d’oro, ed una brezzolina fresca fresca passava attraverso i boschi, facendo sussurrare le gigantesche foglie delle palme ed ondeggiare le altissime cime dei pinou.

Ritto sui rami d’un cespuglio di anone grandiflore un bell’uccello, alto quasi due piedi, colle penne bruno rigate sopra ed il ventre grigiastro, col becco lungo ed acutissimo e gli occhi gialli e dilatati, pareva che salutasse il sole, lanciando a tutta gola e senza alcuna interruzione delle note curiose: dun ka-du... dun ka-du...

- Quella sarebbe una magnifica colazione, - disse don Barrejo.

- I botoko sono delicatissimi, noi però saremo costretti a guardarlo da lontano.

“I nostri archibugi non possono sparare per ora. Peccato!...”

- E poi non sarebbe prudente far fuoco in questo momento.

Gli spagnuoli non dovevano essere molto lontani, - disse Mendoza.

- Eppure i ventri brontolano minacciosamente. Abbiamo soppresso colazioni, pranzi e cene tutto d’un colpo.

- Quando avremo varcata la cresta di questa montagna potremo arrischiare un colpo di fucile, don Barrejo. Lasciamoli quindi brontolare per ora.

Il terribile guascone mandò un lungo sospiro.

- A quest’ora, se io fossi nella mia taverna, avrei già fatte due colazioni.

- E portato il caffè alla señora moglie, - aggiunse Mendoza, ridendo.

- Questa volta va' tu al diavolo!...

- Preferisco salire la montagna. Orsú, De Gussac, attacchiamo.

Dato un ultimo sguardo alla profondissima valle che serpeggiava fra le due sierre e che appariva assolutamente deserta, i tre avventurieri, dopo avere imposto alle loro budella un rigoroso silenzio, si cacciarono attraverso la boscaglia colla speranza di lasciarsi molto addietro gli spagnuoli e di giungere prima di loro alle cateratte del Maddalena.

La selvaggina abbondava sotto a quelle superbe piante, che lanciavano le loro cime a quaranta, a cinquanta e perfino a sessanta metri.

Bande di coniglî dal pelo rosso chiaro e la coda lunga fuggivano attraverso ai cespugli; i galli dal collare, allora numerosissimi ed ora scomparsi sulle sierre del centro americano, facevano per qualche istante la loro comparsa fra le liane che s’intrecciavano a festoni, mostrando le loro quattro ali, poiché ne hanno due piantate quasi sotto il collo, gonfiavano il loro gozzo rugoso di color arancio e salutavano con un grido acutissimo per poi scappare subito; sui tronchi dei pini i picchi capelluti, tutti neri, con un ciuffetto sulla testa, grossi come una cornacchia, picchiavano rabbiosamente contro il legno, col loro becco aguzzo e duro come l’acciaio, per cercare le larve depositate dagli insetti.

In alto e quasi rasente al suolo poi, stormi di scoiattoli volanti non piú grossi d’un topo, col pelame grigio perla sopra e bianco sotto, il muso roseo e le piccole orecchie tutte nere, descrivevano degli zig-zag curiosi a vedersi, allargando la membrana dei fianchi che serve loro come paracadute.

Don Barrejo, il quale non era ancora riuscito a far tacere i suoi intestini reclamanti imperiosamente la colazione, guardava malinconicamente quella selvaggina che pareva lo deridesse.

- Tonnerre!... - borbottava. - Qui ci sarebbe da fare degli arrosti squisiti e devo contentarmi di guardarli. Cosí non la può durare.

“Sono già abbastanza magro per diventarlo di piú.”

A mezzodí, dopo d’aver attraversato parecchi cañon, i tre avventurieri, piú affamati che mai, raggiungevano la cima della sierra.

Dinanzi a loro si stendevano altre vette che dovevano superare se non volevano cadere nelle braccia degli spagnuoli.

Scaricarono gli archibugi, temendo che la polvere non servisse piú e si slanciarono attraverso i cespugli, ansiosi di guadagnarsi finalmente una colazione che mancava loro fino dal giorno innanzi.

Ben presto dei colpi risuonarono a destra ed a sinistra, ripercuotendosi fragorosamente nella profonda vallata. Conigli, galline sultane, galli del collare erano caduti in buon numero sotto i colpi dei cacciatori i quali oltre ad essere spadaccini insuperabili, erano altrettanto famosi bersaglieri, specialmente Mendoza.

Avevano già acceso il fuoco al riparo d’una roccia, soffiando un vento piuttosto forte sulla sierra, e stavano spennacchiando i volatili, quando don Barrejo gettò in aria il gallo del collare che teneva in mano, accompagnando il gesto con una sfilza di tonnerre!

- Ebbene, diventi pazzo? - gli chiese Mendoza, stupito. - È vero che la puna della montagna guasta talvolta i cervelli.

- Non ha però guasti i miei orecchi, compare, - rispose il terribile guascone. - Non odi nulla tu?

- Dei torrenti scrosciare.

- E tu, De Gussac, che sei un guascone al pari di me e che devi aver l’udito finissimo?

- Ancora il cane?

- Sí, urla sul fianco della sierra. Quella bestia malefica ci ha fiutato anche a lunga distanza e cerca di raggiungerci.

- Deve essere però molto lontano.

Don Barrejo si diede due pugni sulla testa.

- Corpo di tutti i satanelli chiusi nella mia cantina!... - esclamò furibondo. - Che non possiamo piú né dormire, né mangiare?

- Compare, - disse Mendoza, - sai come fanno gli spagnuoli quando vanno alla guerra? Fanno colazione con una sigaretta, pranzano con una cipolla e cenano con una serenata fatta alla luna.

- E se la luna manca?

- Le chitarre continuano egualmente, - rispose Mendoza.

- Ho udito infatti parlare della frugalità e della resistenza del soldato spagnuolo, - disse don Barrejo. - E cosí?

- Si torna a scappare.

- Senza aver assaggiati prima questi due galli del collare? Oh, mai!... Abbiamo anche noi il diritto di fare colazione e la faremo, corpo di tutti i satanelli!...

“Il cane d’altronde è ancora molto lontano e forse segue un’altra pista e poi noi teniamo la cresta della sierra, gli archibugi sono bene asciutti e sapremo difenderci.

“De Gussac, soffia sul fuoco.”

 

 

Capitolo XVI

SULL’ALTA “SIERRA

 

Don Barrejo, da buon guascone, era un uomo di parola e siccome la gola tentava ferocemente i suoi compagni, tutti furono d’accordo di prepararsi la colazione e di divorarsela, salvo a battersi come era loro abitudine.

Il cane, che doveva avere un olfatto finissimo per sentire i nemici ad una cosí grande distanza, continuava a latrare sui fianchi della sierra. Seguiva probabilmente qualche cañon, forse un po' a casaccio, tirandosi dietro i combattenti i quali, dopo tante marce faticose, dovevano essere impazienti di finirla con quegli inafferrabili avventurieri.

Due galli del collare, sapientemente arrostiti da De Gussac, anche lui taverniere, infilzati in una bacchetta di ferro d’un archibugio, furono il piatto forte della colazione.

Mendoza però vi aveva aggiunto un coniglio ben grassoccio, il quale arrosolandosi spandeva all’intorno un profumo squisito, fors'anche pericoloso col cane che era sempre sulla loro pista.

Malgrado le spacconate dei due guasconi, i quali affermavano di non volersi muovere fino a che non avevano terminato, la colazione fu fatta alla lesta.

I latrati del maledetto cane, echeggianti sempre sul fianco della sierra e che diventavano di minuto in minuto piú distinti, avevano messo un po' d’inquietudine anche indosso ai due gradassi.

- Sgombriamo, - disse Mendoza, il quale sospirava l'istante di unirsi alla colonna dei filibustieri. - Chi vuol battersi rimanga pure.

“Per conto mio serbo la pancia per un'altra occasione.”

- Perché è piena di quella deliziosa carne di gallo da scoppiare, - disse don Barrejo. - Se tu fossi affamato terresti testa a quei demoni che c'inseguono. Confesso però che sono anch'io del tuo parere e che preferisco rimettermi in cammino.

“Sai condurci tu, De Gussac?”

- Quando avremo attraversata la sierra vi mostrerò le cascate del Maddalena.

“La via sarà lunga e molto aspra, però vi assicuro che giungeremo prima dei vostri compagni, se sono costretti a seguire la valle di Segovia.”

- Mettiamoci le gambe in ispalla, - disse don Barrejo - e facciamo correre gli spagnuoli.

“Che non si stanchino mai? Oh vedremo se avranno le gambe piú solide dei guasconi e dei baschi.

“Ah!... Quel cane!... Se potessi mandargli una buona palla!”

- Si presenterà piú tardi l'occasione, - disse De Gussac. - Per ora non dobbiamo far altro che correre.

- Da' un po' d'olio ai muscoli, Mendoza.

- I muscoli dei baschi non si bagnano che nel vino, - rispose il filibustiere.

Un'altra vetta, altissima, tutta coperta di foreste immense stava di fronte a loro.

I tre avventurieri, dopo essersi ben assicurati che il cane era ancora lontano, attaccarono coraggiosamente la montagna, colla ferma intenzione di far fare agli spagnuoli una lunga e terribile marcia, poiché quella ostinazione cominciava ad impressionarli. Dovevano essersi ben accorti che non avevano dinanzi che degli sbandati e non già il gruppo principale guidato da Raveneau de Lussan e da Buttafuoco, per impegnarsi cosí accanitamente.

Un dubbio si era però cacciato nel cervello del guascone numero uno e del basco, cioè che il marchese di Montelimar, abbandonato il grosso delle sue forze, si fosse unito ai trecento uomini per giungere piú sollecitamente alle frontiere del Darien.

L'idea di doversi trovare ancora dinanzi al terribile marchese, faceva correre dei brividi di spavento nelle ossa dei due avventurieri.

Marciavano da quattro ore, con lena affannosa, non fermandosi che qualche istante per ascoltare se il cane guadagnava su di loro, quando De Gussac che marciava in testa si fermò bruscamente, facendo un gesto di dispetto.

- Ehi, amico, mi pare che tu non sia contento in questo momento. Hai veduto le corna o la coda di compare Belzebú?

- Temo che avremo fra poco da fare appunto con delle corna e con delle code, - rispose il taverniere di Segovia. - Ascolta un po' dunque.

- To'!... Si direbbe che qui vi sono delle mucche, - rispose don Barrejo. - Che bella occasione per bere una tazza di latte!

- Sí, va' a mungerlo tu, - rispose De Gussac, il quale non pareva affatto tranquillo.

- Non sono spagnuoli e a me basta, - rispose don Barrejo.

- Sono ben piú terribili. Hai mai udito parlare dei tori della puna?

- M’immagino che saranno delle bestie fornite di corna, di zoccoli e di code come tutte le altre.

- Uff!... - fece don Barrejo.

- Non prendete le cose alla leggiera, - disse Mendoza, il quale aveva già armato l’archibugio. - Io ho udito parlare dei tori delle alte sierre e sempre con grande spavento.

- Insomma che animali sono? - chiese don Barrejo.

- Dei tori fuggiti dalle tenute in seguito ai feroci trattamenti dei vaqueros e diventati ormai cosí selvaggi che appena scorgono un uomo lo assaltano e lo sventrano.

- Veramente non amerei affatto lasciare sulle loro corna la mia squisita colazione, - disse don Barrejo. - Che cosa si fa dunque?

- Si aspetta, - rispose De Gussac.

- E gli spagnuoli che ci sono sempre alle spalle!...

- Preferisco affrontare loro, per mio conto, piuttosto che un toro della puna.

- Sei un guascone come me, quindi io devo crederti. Guardiamoci dunque dalle corna di questi signori dell’alta sierra.

Si erano gettati dietro il tronco d’un altissimo pinou, facile a scalarsi avendo i rami fino quasi a terra, e si erano messi in ascolto.

Nella boscaglia si udivano dei muggiti sordi, che avevano un non so che di feroce ed attraverso agli squarci delle piante si vedevano passare e ripassare delle grandi ombre tutte nere.

Qualche drappello di quei formidabili animali, riconosciuti di una ferocia inaudita e d’uno slancio irrefrenabile, si era radunato in quel luogo e tagliava la via agli avventurieri, i quali correvano il pericolo di vedersi presi fra i colpi d’archibugio degli spagnuoli e quelli delle corna non meno temibili.

- Non ci mancava che questo, - disse sottovoce don Barrejo, il quale spiava curiosamente quelle grosse ombre. - Io no ho mai avuto a che fare con questi animali.

“Ci vorrebbe il signor Buttafuoco con una mezza dozzina di bucanieri.”

- Vallo a pescare sul Maddalena, - disse Mendoza.

- Eppure anche senza di lui dobbiamo fare qualche cosa. Preferisci le palle o le corna?

- Preferisco aspettare che i tori se ne vadano, - rispose Mendoza.

- Ed allora avremo addosso gli spagnuoli. Il cane ha trovato certamente la nostra pista. Odi come latra giocondamente, ora? Se potessi prenderlo a calci!...

- Non impicciarti coi mastini. Hanno dei denti formidabili e non esitano mai ad attaccare il nemico.

- Mi ricordo di. Sandomingo.

- Lascialo quindi in pace e se vuoi sbarazzarti di lui, ammazzalo con una buona fucilata e anche a distanza, poiché non sempre vanno a terra con una palla.

- L’odio ferocemente.

- Ed io non meno di te ed aspetto pazientemente l’occasione che mi giunga a tiro. Morto lui, gli spagnuoli rimarranno disorientati.

- Tonnerre!...

Un colpo di archibugio era risuonato in quel momento lungo i fianchi della sierra.

I tori, udendo quella detonazione, si gettarono fra i cespugli facendo udire dei muggiti minacciosi.

- In alto!... - comandò De Gussac.

I tre uomini s’aggrapparono ai grossi rami del pinou e diedero la scalata al vegetale gigante, il quale lanciava la sua cima a sessanta e forse piú metri dal suolo.

Si erano appena innalzati, quando dieci o dodici tori, tutti neri, cogli occhi iniettati di sangue, le corna lunghe ed aguzze bene piantate sulla fronte, si gettarono come un uragano sotto la boscaglia.

- Un momento di ritardo e facevano di noi una bella frittata, - disse don Barrejo.

- Te lo avevo detto io che erano piú pericolosi degli spagnuoli, - rispose De Gussac. - Quando sono lanciati non li arresterebbe nemmeno un pezzo d’artiglieria.

- Speriamo che s’incontrino coi nostri nemici e che sventrino quel dannato cane.

Temendo di venire da un momento all’altro scoperti, si erano messi a salire frettolosamente, passando di ramo in ramo.

Sotto di loro i tori continuavano a scorrazzare all’impazzata per la boscaglia, ora scagliandosi con impeto spaventoso ed ora sostando qualche istante, come se cercassero di raccogliere dei lontani rumori.

Probabilmente avevano udito i latrati del cane e si erano accorti dell’avanzata degli spagnuoli.

- Che brutte bestie, - disse l’eterno chiacchierone, salendo sempre. - Avevi ragione a dire, De Gussac, che sono peggiori degli spagnuoli, quantunque non li abbia ancora provati.

- E ti auguro di non provarli, - rispose il guascone numero due. - Fortunatamente non possono arrampicarsi e troveremo sulla cima di questo pinou un comodo nido.

- Un nido, avete detto? - chiese Mendoza, il quale era piú avanzato di tutti. - Io credo che ce ne sia uno lassú e abbastanza comodo per starci tutti.

“Avremo però da fare i conti con i proprietarî.”

- Che cosa hai scoperto dunque? - chiese don Barrejo.

- Non vedi lassú, una grossa macchia nera?

- E sarebbe un nido quello?

- È di condor!

- Vuoto o non vuoto noi lo occuperemo, - rispose il terribile guascone.

- Bada ai tuoi occhi, camerata. Non si scherza coi condor.

- Può essere vuoto.

- Questo lo sapremo fra cinque minuti.

- Mi pare che il diavolo abbia messo la coda nei nostri affari. I tori sono sotto di noi, i grossi uccellacci sopra e gli spagnuoli pronti a fucilarci!

- Taci e sali, - rispose Mendoza.

Quella scalata pareva che non dovesse finire mai, tanto alta era la pianta. Finalmente Mendoza, che era sempre piú in alto di tutti, giunse sotto una specie di piattaforma, coi margini rialzati, formata di robusti rami intrecciati.

Era cosí vasta da poter contenere non tre, bensí anche sei uomini, e sulla sua robustezza non si poteva dubitare.

- È proprio un nido di condor, - disse. - Se è vuoto, potremmo riposarci tranquillamente e lasciar passare gli spagnuoli.

“Quassú non verranno certo a scovarci.”

- E se sarà occupato, metteremo gli inquilini alla porta, - disse don Barrejo. - Abbiamo archibugi e spade per tenere in rispetto quei giganti dell’aria.

“Sali, Mendoza, ma prima assicurati se questa gigantesca cesta è solida.”

- Ne rispondo pienamente, senza provarla.

Il basco si aggrappò all’orlo ed in due tempi si tirò su piantando il viso fra una moltitudine di penne e di avanzi animali che puzzavano orrendamente.

- Sacco rotto!... - esclamò, mettendosi in ginocchio. - Il nido è occupato.

- Da chi? - chiese Barrejo, il quale si era issato dall’altra parte, aiutato da De Gussac.

- Vi sono due condorini che sonnecchiano in mezzo a tutta questa porcheria.

- Mettili alla porta.

- E se i genitori ritornano? Non vi è molto da scherzare coi condor, compare.

- Allora strozzali e ci serviranno piú tardi di colazione.

- Puah!... Volatili nutriti di carogne!...

Aveva alzate le piume e le erbe secche ed aveva messo allo scoperto due condorini, già grossi come un tacchino, quantunque non avessero ancora messe le piume.

- Sarei stato piú contento se non li avessimo trovati, - disse. - Buttali via, prima che giungano i vecchi e facciamo un po' di pulizia.

“Questo è un letamaio.”

Il basco guardò prima in aria, poi non avendo scorto nulla, prese i due piccini e li gettò nella foresta, mentre De Gussac e don Barrejo rovesciavano penne, avanzi d’animali puzzolenti e grossi mazzi d’erbe secche.

- Panchita sarebbe stata piú brava colla scopa, - disse il terribile guascone, con un sospiro. - Noi d’altronde non abbiamo maneggiato altro che spade e draghinasse.

- E boccali di mezcal o di Xeres, aggiunse maliziosamente Mendoza.

- Mio caro, bisogna sapersi guadagnare la vita... Toh! E gli spagnuoli? Io non odo piú i latrati del cane.

I tre uomini si misero in ascolto ed infatti non udirono piú la grossa voce del terribile mastino.

- Che ci siano già sotto? - si chiese don Barrejo, facendo una smorfia. - Impegnare un combattimento a sessanta metri d’altezza è un certo affare che non mi va troppo a sangue.

- Vediamo innanzitutto che cosa fanno i tori della puna, - disse Mendoza. - Se pascolano sempre nel bosco, vuol dire che gli spagnuoli non sono ancora giunti.

Si gettò carponi e si spinse fino sull’orlo del vasto paniere.

Da quell’altezza poteva dominare un immenso tratto di foresta, anche perché le piante non erano piú folte come sui fianchi della sierra.

- Si vedono? - chiese don Barrejo che gli stava dietro.

- Sí, e pascolano precisamente sotto questo pinou, - rispose Mendoza.

- Eppure poco fa gli spagnuoli non erano molto lontani. Quel corpo d’archibugio deve essere stato sparato a non piú di mille passi.

- Sapete, amici, che questo silenzio m’inquieta?

- Che abbiano abbandonata la caccia? - chiese De Gussac.

- Quando le cinquantine spagnuole che hanno per guida un mastino, si mettono su una pista, la seguono con non minor ostinazione degl’indiani, - rispose Mendoza. - Li conosco troppo bene.

- Sono tranquilli i tori? - chiese il taverniere di Segovia.

- Manifestano una certa inquietudine, però non si allontanano.

- Sai che dobbiamo fare, camerata? - disse don Barrejo.

- L’aria è purissima, il sole è splendido, il nido oscilla dolcemente come per invitarci a dormire. Chiudiamo gli occhi e lasciamo che gli spagnuoli ci cerchino in mezzo alla foresta.

Con un calcio gettò giú gli ultimi rimasugli di erbe secche, e dopo aver sbadigliato tre o quattro volte di seguito con relativi stiramenti di braccia, si coricò nel robusto paniere, incrociando le mani sul ventre.

- Felici volatili, - disse. - Coll’aria che soffia quassú devono provare degli appetiti straordinarî.

- Tali da levare gli occhi anche a te, - disse De Gussac.

- Se vengono a seccarci, con due colpi di draghinassa taglierò loro il collo e li manderò a tenere compagnia ai condorini che spero si saranno accoppati, cadendo da questa altezza.

“Se avessi una carica di tabacco sarei l’uomo piú felice del mondo.”

- La provvista è esaurita, - rispose Mendoza.

- Mi rifarò alle cateratte del Maddalena.

I suoi due compagni, vedendo che i tori si mantenevano sempre tranquilli, giú, alla base del pinou, e non udendo piú i latrati del cane, si erano decisi a coricarsi accanto a lui, quantunque tutti quei rami fossero impregnati d’un fetore di carne marcia quasi insopportabile.

Il vento che spirava abbastanza forte, faceva dondolare la cima dell’altissima pianta imprimendo anche al nido un leggiero movimento di rollio.

Non ci voleva di piú per far chiudere gli occhi ai tre avventurieri, che ben poco si erano riposati dopo la loro fuga da Segovia-Nuova.

Avevano dimenticato spagnuoli e condor; pei tori nulla avevano certo da temere e potevano dormire anche una settimana.

Ad un tratto una fortissima corrente d’aria si produsse sopra di loro, poi qualche cosa precipitò sul nido, emettendo stride acute. De Gussac che aveva ricevuto un terribile colpo di becco sull’elmetto, aprí gli occhi, gridando:

- All’erta!... I condor!...

Un uccellaccio mostruoso, che aveva dell’aquila e del marabuto indiano avendo il collo spelato e rognoso con grosse sporgenze, si era lasciato cadere sopra di loro.

Come si sa, i condor sono i piú grossi volatili che esistano al mondo, possedendo delle ali che misurano, prese insieme, perfino cinque metri ed una forza tale da portare in aria un montone o un guanaco colla stessa facilità come fossero delle semplici lepri.

Non vi era quindi da scherzare con un tale avversario.

Vedendo i tre avventurieri balzare in piedi colle spade in mano, si ritrasse fino all’orlo del nido, agitando furiosamente le sue immense ali e spalancando il rostro pronto all’offesa.

Imprimeva alla costruzione tali scosse da temere che da un momento all’altro tutto si sfasciasse.

I tre avventurieri, ben risoluti a non lasciarsi levare gli occhi o fare un salto di cinquanta o sessanta metri, stavano per spingersi innanzi, quando una grande ombra si proiettò sopra di loro.

- Il maschio!... - aveva gridato De Gussac, il quale conosceva meglio dei suoi compagni quei formidabili uccellacci.

Un altro condor, piú gigantesco del primo, si precipitava sul pinou mandando grida acute e sbattendo rabbiosamente le ali.

- Diamo battaglia!... - gridò don Barrejo. - A me il maschio, per ora; a voi la femmina.

- Bada di non farti scaraventare nel bosco, - avvertí De Gussac.

Il secondo uccellaccio si era pure aggrappato all’orlo del nido e tendeva il collo rognoso, avventando furiose beccate in tutte le direzioni.

Un combattimento a terra, fosse pure contro dei nemici piú numerosi, non avrebbe spaventato i due guasconi ed il basco, oramai troppo abituati a menar le mani. Una lotta lassú, dentro un nido situato sulla cima di un albero, a sessanta metri d’altezza, contro due volatili che con un solo colpo d’ala potevano spazzarli via, era una certa faccenda che faceva sudar freddo anche don Barrejo.

- Gettatevi in ginocchio!... - aveva comandato De Gussac.

Era l’unica cosa da farsi per evitare un terribile capitombolo.

Mendoza e l’ex taverniere di Segovia-Nuova si erano gettati contro la femmina, la quale sembrava la piú furiosa, mentre don Barrejo cercava tener testa al maschio che minacciava di spaccargli la testa con un tremendo colpo di rostro.

La lotta però era tutt’altro che facile, in causa delle spaventose oscillazioni che subíva il nido, sotto l’enorme spinta di quelle quattro gigantesche ali.

I colpi grandinavano, colpi di spada e colpi di draghinassa, e non ottenevano altro successo che quello di far volar in aria una nuvola di penne.

I condor tenevano coraggiosamente testa agli invasori del loro nido e sembravano ben decisi a vendicare la loro prole.

S’avanzavano, producendo delle impetuose correnti d’aria, gridando rabbiosamente, riparandosi destramente dai colpi di spada colle ali e perfino col rostro. Gli archibugi avrebbero potuto avere buon giuoco contro di loro, se il timore di attirare l’attenzione degli spagnuoli, forse vicinissimi, non avesse trattenuto prudentemente gli avventurieri.

La battaglia durava da cinque minuti, con pari furore d’ambe le parti e con scarso successo, quando il maschio che si sentiva punzecchiare da tutte le parti, abbandonò l’orlo del nido, e alzatosi di pochi metri piombò come una massa inerte addosso al terribile guascone, sperando forse di opprimerlo col suo peso o d'imprigionarlo fra le sue ali.

Don Barrejo, sconcertato da quel fulmineo attacco, che certamente non s’aspettava, vedendo sopra di sé gli artigli pronti a piantarsi nella sua testa, lasciò cadere la draghinassa e s’aggrappò disperatamente alle zampe dell’uccellaccio, confidando nella propria forza e nel proprio peso. Il condor invece, con uno sforzo disperato, si risollevò e spiccò una grande volata al di sopra del bosco, abbassandosi gradatamente.

Il disgraziato guascone, che non aveva nessun desiderio di fracassarsi le ossa, non aveva abbandonate le zampe.

- Aiuto, Mendoza!... - aveva urlato.

Disgraziatamente il basco e l’ex taverniere di Segovia-Nuova non potevano in quel momento occuparsi di lui, né seguirlo nel suo viaggio aereo.

Stretti dalla femmina, che li assaliva con una ferocia inaudita, avevano un gran da fare a tenerla lontana a colpi di spada.

Il condor, non poteva reggere a tanto peso, calava dolcemente, quasi sfiorando le cime degli alberi, contro i quali il guascone di quando in quando urtava, ammaccandosi malamente le ginocchia.

Teneva le immense ali aperte, per servirsene come di paracadute e si dirigeva verso una spianata sulla quale pascolavano alcuni tori della puna. Invano don Barrejo, spaventato, urlava disperatamente e stringeva le zampe con tutta la sua forza: l’uccellaccio, forse non meno spaventato di lui, continuava la sua discesa, facendo degli sforzi giganteschi per reggersi.

Le disgrazie del teverniere di Panama non erano però ancora finite.

Il gigantesco uccellaccio, stremato probabilmente dagli sforzi fatti, precipitava rapidamente e proprio sopra il branco di tori brucanti la fresca e odorosa erba dell’alta sierra.

Gli animali, vedendo piombarsi addosso quel mostro, tentarono di darsi alla fuga nel momento in cui il guascone, vedendosi ormai a pochi metri da terra, si lasciava andare. Fu una caduta straordinaria, inaspettata. Il disgraziato invece di andarsene a coricare sia pure a gambe levate, sulle folte erbe, si era trovato, senza sapere come, sul d’orso d’uno dei tori fuggenti!...

- Ecco la fine, - pensò. - Addio, bella castigliana!...

Deciso però a lottare fino all’estremo delle sue forze, si era aggrappato disperatamente alle corna del toro, mentre il condor riprendeva il suo volo verso il nido, in aiuto della sua compagna.

L’animale, uno splendido toro tutto nero, sentendosi addosso quel peso, si era slanciato a corsa furiosa, lasciandosi addietro subito i compagni, i quali non parevano affatto disposti a seguirlo in quella galoppata.

Il toro in pochi minuti attraversò la radura e si scagliò pazzamente in mezzo alla foresta, muggendo e scuotendo la robusta testa.

Probabilmente credeva di essere stato assalito da qualche coguaro o da qualche giaguaro e perciò si gettava furiosamente in mezzo ai cespugli, colla speranza che la supposta bestia lo lasciasse.

Don Barrejo, piú spaventato che mai, si era allungato tutto sul dorso del bestione perché qualche ramo basso non gli spaccasse la testa.

Foglie e fronde gli cadevano addosso in grande quantità e si sentiva sferzare crudelmente il viso dai ramoscelli dei cespugli, però non lasciava le corna e stringeva disperatamente le gambe, per non fare un capitombolo che avrebbe potuto avere delle conseguenze mortali, fra tanti tronchi d’albero.

Il toro, sempre piú inferocito e spaventato, precipitava la corsa. Col collo teso, gli occhi iniettati di sangue, i fianchi pulsanti, si scagliava sempre piú impetuosamente.

Vi erano certi momenti che il guascone si credeva trasportato da qualche spaventoso uragano.

Ad un tratto quella galoppata disordinata si arrestò di colpo. Don Barrejo, proiettato innanzi con impeto irresistibile, era andato a cadere, per sua fortuna, in mezzo ad un folto ed altissimo cespuglio di citriuoli, mentre l’indemoniato animale scompariva in uno squarcio del terreno, mandando un lamentevole muggito.

 

 

Capitolo XVII

LA CATTURA DI DON BARREJO

 

Quantunque i flessibili rami della magnolia acuminata, - si chiamano cosí quegli altissimi cespugli, - avessero ceduto subito sotto il suo peso, passarono parecchi minuti prima che il taverniere di Panama potesse rimettersi un po' in gambe. La volata prima, la corsa furiosa dopo, l'avevamo talmente stordito da domandarsi se per caso aveva sognato.

Da vero guascone possedeva però dei nervi d'una solidità a prova di bomba e non tardò a lasciarsi scivolare giú dal cespuglio, trascinando seco una moltitudine di frutta, somiglianti nella forma ai citriuoli, ma d'un rosso lucentissimo, buonissime per le febbri intermittenti.

- Che cosa è successo? - si era chiesto subito. - Sono ancora vivo o sono morto? Eppure poco fa dormivo tranquillamente sul nido dei condor... Tonnerre!... In venti o trenta minuti io ho arrischiata due volte la pelle... ora me ne ricordo... Ed il toro? Dove è andato a finire? L'uccellaccio l'ho ben veduto rialzarsi ma l'animalaccio, non l'ho veduto continuare la sua furiosa corsa dopo avermi scaraventato in mezzo a queste piante come se fossi una palla di cannone.

Colle gambe allargate, le mani chiuse intorno alla fronte, ancora intontito, don Barrejo giaceva al suolo, respirando a pieni polmoni per riprendere un po' di lena.

- Tonnerre!... - riprese un momento dopo, togliendosi l'archibugio che portava ad armacollo e del quale per sua ventura non aveva mai pensato fino allora a servirsi. - Io chiacchiero come un pappagallo, mentre Mendoza e De Gussac saranno ancora alle prese coi condor.

“Gambe, don Barrejo, ed andiamo a cercare gli amici in pericolo.”

Si era finalmente alzato e dopo pochi passi si era fermato dinanzi ad una profonda buca, in fondo alla quale gemeva il toro della puna, col corpo attraversato da un palo aguzzo, di quel certo legno forse preso dall'albero del ferro.

- Mi dispiace per te, amico - gli disse, - ma don Barrejo ha una taverna ed una bella moglie, mentre tu non hai che qualche nera compagna brutta al pari di te e non meno feroce.

“Ad ogni modo mi hai salvata la vita e ti sono riconoscente.

“Muori in pace.”

Si allontanò da quella trappola scavata probabilmente dagl'indiani per impadronirsi, senza correre alcun pericolo, di quei grossi animali che hanno le carni eccellenti, ma dovette subito fermarsi di nuovo.

Si ritrova in mezzo ad una folta foresta e non udiva né colpi d'archibugio, né grida di condor, né altri rumori. Solo di quando in quando un muggito strozzato del toro agonizzante, rompeva quel gran silenzio.

Il guascone si grattò la testa, come per sollecitare il cervello a dargli qualche buon consiglio, poi disse:

- Questo si chiama un gran brutto affare. Dove mi ha condotto quella bestia dannata nella sua pazza corsa? E i miei due compagni? Saranno riusciti a tagliare la testa a quei dannati uccellacci o saranno stati scaraventati sopra la foresta? Oh!... Comincio a rimpiangere la tranquilla taverna d'El Moro!

Si guardò intorno, cercando di orizzontarsi e si convinse subito dell'impossibilità di prendere una giusta direzione, poiché sopra di lui le gigantesche foglie delle palme s'intrecciavano, formando una vôlta quasi impenetrabile alla luce solare.

A un tratto Don Barrejo si diede un gran pugno sul cranio.

- Zucca maledetta, - disse. - Dovevi venire prima in mio aiuto. È vero che anch'io qualche volta sono un bestione.

“Per uscire da questa boscaglia non vi è che una cosa sola da fare: seguire alla rovescia le orme del toro.

“Anche per questa volta ho scoperto l'America.”

Infatti, il toro nella sua corsa furiosa, doveva aver aperto come un solco attraverso alle masse di cespugli e di liane che aveva sfondati.

Don Barrejo si assicurò che l'archibugio fosse carico, potendo trovarsi dinanzi, da un momento all'altro, a qualche coguaro, o peggio ancora a qualche giaguaro, poi tornò indietro girando intorno alla trappola.

Il toro era spirato e giaceva in mezzo ad una vera pozzanghera di sangue.

Don Barrejo non si degnò nemmeno di guardarlo e si mise subito in cerca del solco.

Aveva fatto appena pochi passi, quando si trovo dinanzi ad un ammasso di liane che pareva fossero state violentemente strappate.

- Ecco la via del ritorno, - disse. - Orsú, cerchiamo di raggiungere al piú presto la radura dove pascolavano i tori.

“Il nido non deve trovarsi che a qualche centinaia di passi, poiché la mia volata non ha durato che un paio di minuti. Sono impaziente di ritrovare i miei bravi camerati, senza dei quali io non saprei piú far nulla.”

Passò attraverso lo squarcio delle liane e venti passi piú innanzi trovò un cespuglio, che pareva fosse stato sfondato da un ariete.

Anche per di là il toro era passato, quindi era sulla buona via.

Si avanzò cosí per una buona ora, seguendo le orme, stupito di essere stato condotto tanto lontano, poi si arrestò guardandosi intorno con inquietudine.

- Che ci siano degli altri tori? - si era domandato. - Sarebbe un magnifico incontro!... Don Barrejo, sta' in guardia e ricordati che non hai piú con te la tua fida draghinassa.

Si era messo in ascolto, tenendo il dito sul grilletto dell'archibugio. Delle fronte si muovevano dinanzi a lui ad una distanza di soli pochi passi. Qualche animale doveva trovarsi in mezzo ai folti cespugli che formavano come una muraglia di verzura, tanto erano alti.

Trascorse qualche minuto d'angosciosa aspettativa pel povero guascone, il quale non poteva ancora sapere con chi doveva fare, poi un lungo corpo setoloso, nero a riflessi azzurrastri, con una splendida coda ricca di peli, s'aprí il passo fra i cespugli, fermandosi non meno sorpreso, dinanzi a don Barrejo.

Era un animale grosso quanto un cane di Terranuova, basso di zampe e che invece di avere una vera bocca, aveva una specie di tubo da cui usciva ad intervalli una brutta lingua vischiosa.

- Che cos'è questo? - si chiese il guascone un po' rassicurato, poiché quello strano animale se possedeva delle robuste unghie mancava assolutamente di denti.

Se don Barrejo fosse stato un po' piú istruito avrebbe potuto subito riconoscere nel nuovo venuto un orso formichiere, ma non essendosi occupato che di dare colpi draghinassa anche a coloro che non ne volevano, non capí niente.

L'orso, un'animale niente affatto pericoloso, che si difende però ferocemente cogli artigli contro i coguari che sono ghiotti della sua carne, si era seduto sulle zampe posteriori, mettendosi dinanzi, come uno scudo, la sua magnifica coda, la quale gli giungeva fino all'altezza della testa.

Si dondolava cosi comicamente, continuando a lanciare fuori, come uno stantuffo, la sua lingua impregnata d'una materia viscosa colla quale si prende le formiche che formano il suo unico cibo, che don Barrejo non poté trattenere una allegra risata.

- Micò!... Micò!... Compare Micò!... - esclamò. - Sei ben gentile per offrirmi questo spettacolo in piena...

Si era bruscamente interrotto. L'orso non badava piú a lui; teneva i suoi occhietti nerissimi, fissi su un albero sotto il quale giganteggiava una magnolia acuminata.

Il guascone, messo in sospetto, alzò gli occhi e spiccò quattro o cinque salti.

- Tonnerre!... - aveva gridato. - Altro che compare Micò!

Coricato sopra un ramo che si spingeva quasi orizzontalmente a pochi metri dal suolo, stava un altro abitante della foresta e non cosí mansueto come il povero formichiere.

Don Barrejo questa volta l'aveva subito riconosciuto e perciò si era messo prontamente fuori di portata.

Si trattava d'un giaguaro, l'animale piú temuto nell'America centrale e meridionale, possedendo la forza, lo slancio e la ferocia della tigre indiana, pur essendo inferiore per mole.

Pareva che sonnecchiasse, però di quando in quando socchiudeva or uno ed or l'altro occhio, fissandolo volta a volta sull'uomo e sul formichiere.

- Signora tigre americana, - disse don Barrejo, tenendo imbracciato l'archibugio. - Se desidera assaggiare le polpette di compare Micò faccia pure, a patto che mi lasci andare per le mie faccende.

La risposta fu un sordo miagolío che poteva passare per un ruggito strozzato.

Il guascone fece precipitosamente altri quattro o cinque passi indietro e s'appoggio fortemente contro il tronco d'un pino, tenendo l'archibugio sempre puntato.

Il povero formichiere non aveva abbandonato la sua guardia e dietro la grande coda piumata agitava minacciosamente le zampe anteriori armate di lunghi artigli.

- Qui sta per succedere una tragedia, - disse il guascone. - Sarebbe meglio che lasciassi quei due abitanti della foreste alle prese, senza occuparmi dei fatti loro.

Stava per voltarsi e riprendere la corsa, quando il giaguaro con un gran salto cadde in mezzo alla piccola radura mostrando la sua superba pelliccia macchiata.

Le sue potenti unghie, che sono cosí dure da trapassare perfino i gusci delle testuggini, strappavano le erbe insieme a larghi lembi di corteccia, essendo caduto in mezzo a delle enormi radici.

- Gambe, don Barrejo! - gridò il guascone, prendendo lo slancio. Non desiderava affatto di assistere a quel dramma, poiché dopo il formichiere, il giaguaro poteva attaccare anche l'uomo.

Per qualche istante il fuggiasco udí dei grugniti e dei miagolii strozzati, poi il silenzio tornò ad imperare nella grande foresta.

La tigre americana aveva avuto la sua cena.

Per dieci o quindici minuti il guascone, che aveva due buone gambe, continuò a scappare, seguendo lo squarcio aperto del toro, quando si sentí cadere addosso qualche cosa, come una corda e stringere il corpo cosí fortemente da togliergli il respiro. Alcuni soldati spagnuoli erano usciti dai vicini cespugli e lo avevano attorniato, brandendo minacciosamente spadoni, picche ed archibugi.

Il lazo lanciato cosí destramente da uno di loro, fu subito allargato per impedire che il povero guascone morisse strozzato.

- Sangue d’un caimano!... - esclamò il guascone, cercando inutilmente la sua fida draghinassa. - Toccano tutte a me dunque le disgrazie. Chi siete voi e che cosa volete da me? Non sono un toro per prendermi al lazo.

I soldati, dieci o dodici in tutti, si erano messi a ridere, godendosi della sua rabbia impotente.

L’archibugio per precauzione era stato subito raccolto per impedirgli di commettere qualche pazzia.

- Appartenete a qualche tribú di muti? - gridò il guascone, sempre piú infuriato. - Oh! Se avessi la mia draghinassa vi farei gelare sulle labbra le vostre rise. Tonnerre!...

Il comandante del drappello, un vecchio sergente dai baffi bianchi e col naso arcuato come don Barrejo, udendo quell’esclamazione, aveva avuto un sussulto.

- Non vi è che un Lussac solo e quello si trova in Guascogna, - aveva mormorato.

Si avvicinò al prigioniero, il quale non cessava di bestemmiare e di minacciare, quantunque non avesse ormai indosso nemmeno un semplice coltello, e gli disse, battendogli famigliarmente una mano sulla spalla:

- Avete fatta la vostra parte di guascone: ora finitela. L’onore è salvo.

- Chi vi ha detto che sono un guascone? - gridò don Barrejo.

- Sarà stato il marchese di Montelimar, credo. Finitela di sagrare e seguiteci.

- Un momento, sergente. Avete detto il marchese di Montelimar, è vero?

- E poi?

- Dov’è quel signore?

- A pochi passi da noi.

Don Barrejo si morse le labbra a sangue e provò un brivido. Quel gentiluomo, che non avrebbe probabilmente potuto resistere a tre colpi della sua draghinassa, gli aveva sempre inspirato un vero senso di paura.

- La catastrofe è completa, - pensò. - Cerchiamo di cavarcela alla meglio.

Il vecchio sergente, che continuava a tenergli gli occhi addosso, lo prese per un braccio, dicendo ruvidamente:

- Andiamo: abbiamo chiacchierato abbastanza.

Nella muraglia di verzura vi era un largo squarcio, aperto probabilmente a colpi di spadone e che formava come una specie di galleria.

Il drappello vi si cacciò sotto e, dopo aver percorso una cinquantina di passi, si trovò in mezzo ad una piccola radura, circondata tutta da alberi enormi, i quali intercettavano quasi completamente la luce.

Due soldati s’affaccendavano intorno ad un pentolone sospeso al ramo d’una pianta e soffiavano di quando in quando sul fuoco.

Vi era però nel piccolo campo un terzo uomo, il quale in quel momento stava seduto sul tronco d’un albero, tutto occupato a studiare una carta geografica: era il marchese di Montelimar. Vedendo ricomparire la sua scorta, il marchese alzò gli occhi ed un perfido sorriso gli comparve sulle labbra.

- Buona preda, a quanto pare, - disse. - Io ho già veduto altre volte quest’uomo. Deve essere uno dei tre che da giorni faccio inseguire dalla retroguardia.

Don Barrejo fece un profondo inchino e rispose subito:

- Io credo che v’inganniate, poiché nella taverna d’El Moro che da sei anni tengo in Panama, i gentiluomini non si vedono, quantunque la mia cantina non sia peggiore delle altre.

- Tu sei un taverniere!... - esclamò il marchese.

- Per servirvi, Eccellenza.

- La taverna d’El Moro!... Toh! Toh! Io ho udito parlare ancora di quella celebre cantina, - disse il marchese ironicamente. - è appunto là dentro che uno dei miei segretari è scomparso, senza piú dare alcuna notizia di sé.

Don Barrejo ebbe uno scatto d’indignazione:

- Signor mio, - disse, - io sono sempre stato un onesto taverniere e non ho mai ammazzato le persone che venivano a bere.

- Vi prego di chiamarmi Eccellenza.

- E voi datemi allora del don, perché se nelle vostre vene scorre sangue azzurro, anche nelle mie la tinta non cambia.

- Rossa?

- Azzurra con quarti di nobiltà dei Riberac, un tempo signori di Lussac.

- E fate il taverniere?

- Cioè, lo facevo.

- Per imbrancarvi colla canaglia, che scorazza dalle coste dell’oceano Pacifico fino a quelle dell’Atlantico. Che bel nobile!

- Tonnerre!... - urlò don Barrejo. - Sono un guascone e i guasconi non sono mai stati ricchi.

Il vecchio sergente, che assisteva all’interrogatorio, approvò con un leggiero gesto del capo.

- Non vi infuriate, - disse il marchese, con la sua solita calma ironica. - È vero che avete sangue francese nelle vene, ma ne ho anch'io, perché i Montelimar hanno un nome in quella grande nazione.

- E vi siete messo ai servigi della Spagna, nemica continua della Francia? Eccellenza, avevo della stima per voi ed ora non l'ho piú.

“Non si rinnega una patria.”

Il marchese era diventato livido e aveva fatto un gesto di rabbia. La sua tempesta però non ebbe che la durata di pochi secondi poiché riprese, quasi subito, la sua calma e, fissando il guascone con due occhi saturi d'odio disse:

- Che importa a voi che sia stato francese od olandese o inglese? Oggi sono uno spagnuolo e servo la mia nuova patria, mio caro don...

- Barrejo de Lussac, - rispose prontamente il guascone.

- Portate un sedile a questo signore, - disse il marchese, dopo aver guardato il sole che si mostrava attraverso uno squarcio della boscaglia. - Avremo ancora due buone ore di luce e chissà che in questo frattempo le mie retroguardie finiscano per prendere gli altri due amici del signore, poiché eravate proprio in tre signor don... de Lussac.

- Dove?

- Salivate la sierra e vi avevamo veduti.

- Si vede che gli spagnuoli che un tempo hanno avuto tanti buoni occhi da scoprire l'America, ora non ci vedono piú

“Infatti il sole equatoriale non fa bene alla vista.”

- Fate dello spirito, mi pare, signor guascone.

- Chiamatemi compatriota, sarà piú spiccio.

- No, - rispose il marchese, con impeto quasi feroce. - I Montelimar non appartengono piú alla Francia da qualche secolo.

Un soldato aveva portato un tamburo, e fece cenno a don Barrejo di sedersi.

Il guascone che conservava un buon umore superbo, provò colle nocche delle dita la pelle dell'asino, per assicurarsi della sua solidità, poi si sedette tranquillamente, colle magre gambe aperte, guardando bene in viso il marchese.

- Eccellenza, - disse, - la mia sedia è piú comoda della vostra e, se può farvi piacere, sono pronto a cedervela.

- I miei avi rendevano giustizia ai loro vassalli, seduti su un tronco d'albero, - rispose il signor di Montelimar.

- I miei invece, seduti sulla punta d'uno scoglio emergente di fronte al mar di Biscaglia.

“I nostri antenati avevano dei gusti singolari. Io, per mio conto, avrei preferito una comoda poltrona coi bracciuoli imbottiti.”

- Avete finito?

- Che cosa?

- Di dire delle sciocchezze?

- Se V. E. ha parlato dei suoi avi, io ho parlato dei miei, - rispose don Barrejo. - Sono pure un gentiluomo ed una lingua la posseggo anch'io.

- La metteremo subito alla prova, - disse il marchese. - Mi direte, prima di tutto, dove avete lasciati i vostri due compagni.

- Io credo, signor marchese, che di quei due disgraziati non sia rimasta piú intatta nemmeno una costola.

“Io li ho veduti scomparire in mezzo ad una furiosa carica di tori della puna e non li ho piú riveduti.”

- Voi mi vendete delle carote, signor guascone.

- Non nascono nel mio paese, quindi non potrei vendervele nemmeno a peso d'oro.

- Voi siete stupefacente.

- Perché, signor marchese?

- Io sto cercando l'albero a cui domani mattina vi appiccherò e voi continuate a scherzare! È vero che siete un guascone e non mi stupisco della vostra audacia.

Don Barrejo si dimenò sul tamburo, facendo crepitare la pelle, poi disse con voce minacciosa:

- Badate, signor marchese, che avete dinanzi a voi un corpo di filibustieri.

- Lo so.

- E non dimenticare che quegli uomini invincibili hanno l'abitudine di vendicare i loro camerati.

- Vengano.

- Vi hanno già distrutto tutti gli uomini che difendevano le colline e non avete ancora paura di quei terribili scorridori del mare?

- Un Montelimar non ha mai saputo che cosa sia la paura.

- Vorrei però vedervi appeso a quel certo albero che ora state cercando, con una solida fune al collo, - disse don Barrejo.

- Siete insolente o spavaldo?

- Io veramente sono sempre stato un terribile spadaccino.

- Mi pare però che la vostra lingua sia lesta come la vostra mano.

- Non me n'ero accorto prima d'ora.

- Dovreste allora fare una cosa.

- Quale, signor marchese?

- Andarvene a dormire per prepararvi pel grande viaggio che avrà luogo allo spuntar del sole. Ho giurato che quanti di quei ladroni mi capiteranno fra le mani li avrei giustiziati senza misericordia e manterrò la parola.

Don Barrejo divenne un po' pallido, tuttavia non si dette ancora per vinto.

- Un gentiluomo francese assassinare un altro gentiluomo pure francese! Siete un giaguaro voi?

- Vi ho detto che ormai sono spagnuolo e che colla mia antica patria non ho piú alcun vincolo.

“Andate a recitare le vostre preghiere, poiché vi ripeto che domani voi non sarete piú vivo.”

- Eccellenza, buon riposo, - disse il guascone, tergendosi con un moto nervoso alcune stille di sudor freddo che gli bagnavano la fronte.

- Legate quell'uomo ad un albero, accanto al fuoco, ed alzate la mia tenda, - disse il marchese. - Desidero non essere disturbato fino al momento in cui appiccheremo questo ribaldo.

- Tonnerre!.... - urlò il guascone, alzandosi di colpo ed afferrando il tamburo. - A me del ribaldo?

Gli spagnuoli che gli stavano intorno furono lesti a piombargli addosso ed a ridurlo all'impotenza.

Il disgraziato, in un batter d'occhio, si trovò seduto alla base d'una palma, col corpo quasi interamente avvolto da corde. Dinanzi a lui era stato ravvivato il fuoco su cui bolliva il pentolone, sprigionando dei profumi indescrivibili. Doveva essere una vera olla podrida, composta di chissà quali vegetali o radici raccolte nella foresta, poiché anche gli spagnuoli, dopo un inseguimento che durava da parecchie settimane, dovevano essere assolutamente a corto di viveri.

Frattanto il sergente, aiutato da un paio di soldati, aveva alzata la tenda destinata al marchese, una tenda da campo qualunque.

Don Barrejo, un po' scombussolato dalla cattiva piega che prendevano i suoi affari, si era abbandonato lungo il tronco della palma, fingendo di dormire.

Il volpone però non aveva alcuna intenzione, pel momento, di schiacciare un sonnellino, colla prospettiva poco allegra che aveva dinanzi, ossia di venire appiccato all'alba come un ladrone qualunque.

I suoi occhi seguivano, anche semi- socchiusi, tutte le mosse del vecchio sergente e fra uno sbadiglio e l'altro si domandava insistentemente ed anche angosciosamente se per caso aveva trovato un protettore dell'ultima ora.

Anche il soldato non lo perdeva di vista. Quando i suoi compagni non facevano attenzione a lui, faceva al guascone, di nascosto, dei segni che non erano certo malevoli.

- Che sia anche lui un guascone? - si chiedeva Don Barrejo, con crescente ansietà. - Veramente il nostro naso caratteristico lo possiede anche lui.

Il pentolone fu finalmente tolto dal fuoco ed un intruglio nerastro, a base di cipolle e di funghi, fu dispensato a tutti entro certe gamelle che da parecchi giorni non dovevano aver veduto l'acqua.

Don Barrejo, a cui l'appetito non faceva mai difetto, fece discretamente onore a quel brodaccio.

Invidiava però il coniglio selvatico, splendidamente arrosolato, che il marchese si divorava, stando seduto dinanzi alla sua tenda. S. E. non voleva guastarsi lo stomaco coll'intruglio dei soldati ed a quanto pareva serbava i migliori bocconi per sé.

Terminata la cena, gli spagnuoli non udendo nessun rumore ed essendo d'altronde certi di non venire disturbati, poiché i filibustieri si trovavano dinanzi a loro, ammassarono intorno ai fuochi, poiché altri ne erano stati accesi per tenere a distanza le belve feroci, delle bracciate di foglie fresche e profumate, e si coricarono.

Il marchese era già scomparso dentro la tenda e stava digerendo tranquillamente il suo coniglio.

Don Barrejo, a cui nulla sfuggiva, vide, con una certa sorpresa, il vecchio sergente montare il primo quarto di guardia.

Il soldato, dopo d'aver coperto i camerati con delle bracciate di foglie per difenderli dall'umidità e fors'anche con un altro scopo segreto, si era seduto intorno al falò che ardeva presso il guascone e si era messo a fumare la pipa, tenendo l'archibugio sulle ginocchia.

Pareva che aspettasse l'occasione di scambiare due parole col prigioniero, poiché di quando in quando i suoi occhi si fissavano attentamente sui suoi camerati, sdraiati sul fogliame, ed ogni volta che qualcuno faceva un moto, don Barrejo lo udiva sagrare sottovoce e lo vedeva fumare con maggior veemenza.

I grossi grilli della foresta trillavano fra le tenebre, le coyotes, specie di volpi e di lupi, urlavano lugubremente; ondate di splendide moscas de luz si incrociavano fra i rami della foresta con un effetto magnifico.

In lontananza un urlo rauco, che non si poteva comprendere da quale animale lanciato, si alzava di quando in quando, coprendo per qualche istante tutti gli altri rumori della boscaglia.

Nel piccolo campo già si russava. I pochi uomini che formavano la scorta del marchese Montelimar, stanchi dalle lunghe marce, dormivano come ghiri, col ventre in aria e le gambe allungate verso i fuochi.

Il vecchio sergente si era alzato, tenendo sempre in mano l'archibugio.

Girò intorno alla tenda del marchese, ascoltando con profonda attenzione, guardò i suoi camerati ormai vinti da un sonno irresistibile e si accostò a don Barrejo il quale aveva tutt'altra voglia che di dormire e di recitare le preghiere dei moribondi, e stesosi sull'erba, gli disse sottovoce:

- Di Lussac, avete detto?

Il guascone, che fingeva di sonnecchiare, spalancò gli occhi.

- Si, di Lussac, - rispose.

- Non vi è al mondo, io credo, che un Lussac solo e quello si trova in Guascogna, - disse il sergente, con una profonda commozione. - È di là che escono le migliori lame della Francia che fanno stupire anche la Spagna e l'Allemagna.

- Ebbene, brav'uomo, che cosa volete dire? - chiese don Barrejo, a cui cominciava ad allargarsi il cuore.

- Che in Lussac sono nato anch'io, - rispose il sergente. - I vostri vi posseggono un castelluccio, è vero?

- In cattivo stato, purtroppo, - sospirò il guascone. - Non vi è mai stato un soldo in casa mia da destinare alle riparazioni.

“La Guascogna non è mai stata ricca.”

- Lo so meglio di voi, signore.

- Che cosa volete allora?

- E me lo chiedete? - domandò il vecchio sergente con stupore. - Quando due guasconi s'incontrano e si vedono in pericolo, levano fraternamente le loro draghinasse e si aiutano.

- Toh!.... Un altro guascone!.... - esclamò don Barrejo, respirando a pieni polmoni. - È il secondo che incontro in America.

- Avete mai avuto da lagnarvi del primo?

- Mai!....

- Il castellano di Lussac non avrà da lagnarsi di uno dei suoi vecchi vassalli.

“Succeda quello che si vuole, voi domani non sarete appiccato.”

- E veramente ci tenevo a non farmi strangolare all'estremità d'un ramo.

Il sergente, il quale pareva in preda ad una vivissima emozione, si alzò, fece un'altra volta il giro della tenda occupata dal marchese, guardò i suoi camerati e sciolse silenziosamente un fascio d'archibugi, deponendoli dinanzi a don Barrejo.

- Io non so che cosa accadrà, - gli disse, mentre con una navaja gli tagliava le corde che lo avvincevano all'albero. - Tuttavia non vi preoccupate per me. I guasconi hanno sempre saputo trarsi d'impiccio anche in mezzo alle piú terribili circostanze.

- Che cosa devo fare?

- Cacciatevi nel bosco, mio signore e scaricate tutti questi archibugi, che sono carichi, in aria.

“Io darò l'allarme e voi prenderete subito il largo. Vi avverto che vi sono quasi trecento spagnuoli nei dintorni e che sono guidati da un mastino impareggiabile. Ora regolatevi e ricordatevi che anche tra guasconi, simili favori, non si fanno due volte.”

Don Barrejo si era alzato.

- Qua la mano, amico, - disse. - Io non scorderò mai che a te devo la vita.

“Se un giorno tu torni a Lussac, salutami la torre che dovrebbe ergersi sul castelluccio dei miei avi, se non è già diroccato tutto.”

Prese i sei fucili che il suo compatriotta aveva deposto ai suoi piedi, fece col capo un segno d'addio e se ne andò tranquillamente, almeno in apparenza.

Il vecchio sergente si era intanto gettato a terra, fingendo di essersi addormentato.

Trascorse qualche minuto, poi nella boscaglia rintronarono, uno dopo l'altro, cinque colpi d'archibugio.

Don Barrejo simulava l'attacco del piccolo campo, sparando però in aria per non ammazzare il suo compatriotta.

Il primo sparo era echeggiato, quando si udí il vecchio sergente urlare a squarciagola:

- All'armi!... I filibustieri!... Fuggite!

Don Barrejo udí delle grida, delle bestemmie, poi un tramestío e dei comandi precipitati, quindi uno sparo che gli parve un colpo di pistola.

- Gambe ora, amico, - disse.

Si era slanciato a corsa disperata, a casaccio, cercando qua e là dei passaggi che non sempre trovava.

Ad un tratto un'ombra bianca, seguita da un uomo, gli si parò dinanzi.

Don Barrejo aveva mandato un vero ruggito ed aveva spianato il sesto archibugio che era carico.

- Mastino maledetto!.... - gridò. - Muori!....

Un lampo illuminò le tenebre seguíto da un guaito lamentevole. Il famoso cane che guidava le retroguardie era caduto per non rialzarsi piú. Il guascone approfittò dello spavento che aveva invaso l'uomo che lo conduceva per spiccare quattro o cinque salti e scomparire nella foresta.

 

 

Capitolo XVIII

LA VENDETTA DEL MARCHESE

 

Mentre don Barrejo, protetto da una fortuna piú che sorprendente, riusciva a sfuggire al marchese di Montelimar, quando si vedeva già appeso ad un grosso ramo d'albero, Mendoza e De Gussac rimasti sul nido, si erano precipitati all'impazzata sulla femmina e dopo un violento battagliare erano riusciti a decapitarla ed a precipitare nella sottoposta foresta quel corpaccio che colle sue ali ancora aperte occupava tutto il rifugio aereo.

Avevano assistito, col cuore stretto da un'angoscia indescrivibile, alla volata del guascone, però si erano subito rassicurati vedendolo scendere lentamente verso terra.

Non s'immaginavano però che quel dannato uccellaccio andasse a cacciarsi fra i tori della puna per far ridurre in una poltiglia sanguinolenta il suo avversario.

Sbarazzatisi quindi della femmina, non avevano avuto che un solo pensiero: quello di mettersi in cerca del valoroso taverniere.

- Bisogna trovarlo, - aveva detto Mendoza, il quale amava don Barrejo come se fosse suo fratello.

- E subito, - aveva soggiunto De Gussac.

Senza pensare che sotto di loro si potevano trovare ancora i tori della puna o gli spagnuoli, si preparavano a sgombrare il nido, quando videro il condor che aveva, per modo di dire, rapito il suo compagno, comparire al di sopra dell'immensa foresta e muovere verso di loro.

- Che non si finisca piú con questi uccellacci!... - esclamò Mendoza, pallido d'ira. - Ecco l'altro che ritorna all'attacco.

- Scendiamo subito, - disse De Gussac.

- Sei pazzo!... Se ci assalisse prima che noi possiamo giungere a terra, vedresti che terribile capitombolo faremmo.

- Mandiamogli un paio di palle.

- Nemmeno per sogno, camerata. Poco fa ho udito il cane che urlava, quindi vuol dire che gli spagnuoli sono nelle vicinanze.

- E don Barrejo?

- Aspetterà che anche noi ci siamo sbarazzati di questi ostinati uccellacci.

“Aveva l'archibugio con sé, quindi non correrà un immediato pericolo.”

- Che non si sia rotte le gambe?

- Non sarà stato cosí stupido da abbandonare le zampe del condor a grande altezza.

“Sono certo che noi lo ritroveremo appollaiato su qualche altro albero.

“Orsú, prepariamoci alla seconda battaglia, che prevedo sarà non meno terribile della prima.”

- Prendete la draghinassa di don Barrejo; vi servirà meglio della vostra spada, - disse l'ex-taverniere di Segovia.

- E vero, - rispose Mendoza. - Cercherò di non guastargliela, poiché ci tiene troppo a questo pezzo d'acciaio.

Il condor, invece di muovere subito all'assalto del nido, si era innalzato per quattro o cinquecento metri e di lassú si era messo a descrivere dei giri che andavano a poco a poco restringendosi.

Si capiva che voleva lasciarsi cadere quasi di peso sul nido, per tentare di schiacciare i due intrusi.

Mendoza e De Gussac, in ginocchio, colle draghinasse puntate in aria aspettavano coraggiosamente l'attacco che prevedevano terribile.

Per cinque o sei minuti, l'enorme uccellaccio si mantenne a quell'altezza, poi ripiegò un po' le ali, discendendo con fulminea rapidità.

Già stava per cadere sul nido, quando cinque o sei colpi d'archibugio rimbombarono improvvisamente in mezzo al bosco.

Colpito certamente da parecchie palle, tentò di risollevarsi, mandando grida feroci, quando ad un tratto le forze gli vennero meno.

Raccolse le ali e si lasciò cadere come corpo morto in mezzo alla foresta, dove i cacciatori lo aspettavano di certo.

Mendoza e De Gussac, udendo quegli spari, si erano lasciati cadere in fondo al nido.

- Gli spagnuoli? - aveva chiesto l'ex-taverniere con inquietudine.

- Non possono essere che loro, - aveva risposto il basco, il quale non si sentiva pure affatto tranquillo.

- Che ci abbiano veduti?

- Avrebbero fatto fuoco piuttosto su di noi che sul condor.

- Adesso prenderanno don Barrejo.

- È un tal diavolo d'uomo che non mi dà troppe preoccupazioni, - rispose Mendoza. - Io l'ho sempre veduto cavarsela anche nelle situazioni piú difficili.

- Allora siamo noi invece che corriamo il pericolo di venire crivellati di palle. Se si accorgono che noi siamo quassú non ci risparmieranno.

- Udite il cane voi?

- No, non l'odo piú.

- Si sarà messo alla testa di qualche cinquantina, - disse Mendoza. - È una vera fortuna per noi, poiché avrebbe potuto seguire la nostra pista fino alla base di questo pinou. Tuttavia la nostra situazione non mi pare troppo allegra.

“Se don Barrejo si troverà male, noi non ci troviamo meglio.”

- Che cosa fare ora?

- Rimanere tranquilli ed aspettare che gli spagnuoli se ne vadano. Don Barrejo a quest’ora avrebbe fatta già la proposta di riprendere la dormita.

- Io non avrò questo coraggio, - rispose l’ex-taverniere.

- Confesso che non l’ho nemmeno io e che preferisco vigilare, per difendere la mia pelle meglio che potrò.

- Possiamo dare uno sguardo?

- Lasciate fare a me, - disse Mendoza. - Il vostro elmetto luccica troppo e potrebbe attirare subito l’attenzione dei nostri nemici.

Si gettò bocconi e si mise a strisciare verso il margine del vasto nido, da cui poteva sicuramente vedere gli spagnuoli, se erano entrati nella foresta, come faceva supporre l’uccisione del condor.

Stava per sporgere il capo, quando delle voci umane salirono fino a lui.

- Ehi, Alonzo!... Guarda dove aveva il nido quel condor. Lo vedi?

- Sí, Pedro.

- Forse ci sarebbe da raccogliere una bella frittata lassú.

- Se vuoi romperti il collo provati tu. Io mi accontento di un po' di brodo dei due volatili.

- Sí, dei due volatili. Che cosa ne pensi tu della femmina che abbiamo trovata decapitata?

- Che, stanca di vivere, si sia suicidata.

Uno scroscio di risa salutò quella risposta spiritosa.

- Adagio, camerati, - riprese colui che si chiamava Pedro. - Che io sappia, i condor non hanno mai posseduto dei rasoi per farsi cosí ferocemente la barba.

- Allora spiegherò io, camerata, come s’è svolta la dolorosa istoria. La condoressa rivedeva qualche amico ed il marito, accortosene, le ha strappato la testa o meglio gliel’ha tagliata con un terribile colpo di becco.

“Credi tu che anche fra i volatili non esista la gelosia?”

- Dite quello che volete, ma questa sera, dopo cena, tenterò la salita di quell’albero, - rispose Pedro. - Voglio andare a vedere se vi sono dei condorini.

- Se ne abbiamo già raccolti due, - disse un altro soldato.

- Ve ne possono essere degli altri.

- Tu sei un asino, Pedro, e non conosci i condor. Ma se vuoi provare i tuoi muscoli, non saremo certamente noi che te lo impediremo.

Mendoza udí un altro scroscio di risa, poi piú nulla.

- La nostra situazione si complica, - mormorò. - Se quell’uomo si prende il capriccio di fare una visita al nido siamo fritti.

Stette qualche minuto ancora in ascolto, poi, non udendo piú nulla, osò sporgere la testa. Si trovava d’altronde ad una cosí grande altezza che non sarebbe stato facile scorgerlo, specialmente fra i lunghi rami del pinou, i quali si stendevano quasi orizzontalmente.

Delle nuvole di fumo salivano in aria, a breve distanza dalla grossa pianta. Gli spagnuoli, con grande spavento di Mendoza, dovevano essersi accampati.

Il basco scostò con precauzione i rami e scorse una dozzina e mezza d’uomini, affaccendati a spennacchiare i condor ed i piccini.

Il fuoco era stato acceso ed una pentola di dimensioni non comuni, era stata appesa ad un ramo, in attesa di ricevere un buon pezzo di quella selvaggina aerea, eccellente per fare del brodo, ma coriacea come quella di un vecchio mulo.

- Se vi fosse con noi don Barrejo, si avrebbe potuto tentare questa sera una sorpresa, - mormorò il basco. - Diciotto contro due sono troppi.

“Toh!... Come si sono frazionate queste cinquantine!... Si vede che a quei signori preme assai averci nelle loro mani, mentre a noi preme di non lasciarci prendere.”

Si ritrasse colle medesime precauzioni di prima e si allungò accanto a De Gussac, informandolo di quanto aveva veduto e udito.

- Se quel curioso giunge quassú, noi saremo scoperti, - disse l’ex-taverniere, diventando un po' pallido.

- Oh!... Non è ancora salito, mio caro De Gussac, ed in una scalata notturna possono succedere molti accidenti, come la rottura d’un ramo abilmente tagliato prima.

“Prima che la luna si mostri mi occuperò io di questo affare e non vorrei certo trovarmi dopo nei panni di quel visitatore di nidi.”

- Con tuttociò non sono tranquillo, Mendoza.

- Oh, nemmeno io! - disse il basco. - E credo che in questo momento non lo sia nemmeno quel povero don Barrejo.

“Spero però, se si sarà rifugiato subito su qualche pianta, che scorgerà i fuochi dell’accampamento e che si guarderà bene dal raggiungerci finché gli spagnuoli non se ne saranno andati.”

- Per voi dunque il mio caro compatriotta sarebbe ancora vivo?

- E perché no? Il condor, trascinato dal peso scendeva abbastanza dolcemente, - rispose il basco. - Quegli uccelli posseggono una forza straordinaria, non tale però da poter sorreggere a lungo un uomo, anche se magro come don Barrejo.

- Avete ragione e probabilmente egli si trova in migliori condizioni delle nostre, perché non correrà il pericolo d’essere, come noi, da un momento all’altro crivellato dalle palle.

- Alto là, compare! Questo nido, quantunque non sembri, è solido come una piccola fortezza ed i proiettili non lo attraverseranno a sessanta o settanta metri di distanza.

“Quello piuttosto che temo è un assedio in piena regola, senza provviste, mentre questo ventre insaziabile ricomincia a brontolare.”

- Stringetevi la cintola.

- L’ho già fatto, - rispose il basco. - Corpo d’una pipa!... Che profumo sale dal basso!

“Non lo sentite, voi?”

- È odore di buon brodo, - rispose l’ex-taverniere di Segovia. - Me ne intendo io.

- Ho capito. Gli spagnuoli hanno cacciato nel pentolone qualche ala di condor e si preparano la zuppa.

“Che peccato non poter prendere parte alla loro mensa!”

- Come vi siete stretta la cintola, turatevi il naso.

- Se fosse lungo come quello dei guasconi, si potrebbe provare, mentre invece i nasi dei baschi, non si sa il perché, pare che abbiamo un grande desiderio di scomparire.

L’ex-taverniere di Segovia non poté trattenere una risata che, da quell’altezza, non poteva di sicuro giungere agli orecchi degli spagnuoli.

I due assediati, tormentati dalla fame e stuzzicati da quell’odore di brodo che arrivava sempre fino a loro, si stesero nel nido l’uno accanto all’altro, dopo d’aver preparati gli archibugi.

Sotto udivano gli spagnuoli chiacchierare e ridere. La zuppa di condor doveva averli messi in allegria, dopo tante privazioni.

Dopo l’odor del brodo fu il fumo delle pipe che giunse fino sul pinou, con grande disperazione di Mendoza, il quale, possedeva del tabacco, ma non osava servirsene.

Le ore trascorsero in un’ansia continua pei due disgraziati, i quali temevano ad ogni istante di veder qualcuno dare la scalata dell’altissimo albero.

Appena il sole fu tramontato e le tenebre furono scese sulla foresta, Mendoza, come aveva promesso, prese l’affilata draghinassa di don Barrejo ed incise profondamente due rami che si allungavano sotto il nido, uno a destra e l’altro a sinistra.

Un uomo, per quanto agile e destro, che si fosse spinto fino lassú ed avesse messa una mano su l’uno o l’altro di quei rami, non doveva salvarsi da uno spaventevole capitombolo.

Nel frattempo gli spagnuoli, i quali pareva che avessero ricevuto l’ordine di bivaccare in quel luogo per lasciar tempo alle cinquantine di radunarsi e formare massa, avevano accesi altri falò e messi sui carboni enormi pezzi di carne di condor. Una viva allegria regnava nel campo, mentre una cupa tristezza regnava sul nido dei condor.

I disgraziati, per la seconda volta avevano dovuto accontentarsi dei profumi, abbastanza stuzzicanti, che salivano dal basso. Mendoza, che era affamato come un lupo, aveva stretta la sua cintura di pelle di un altro occhiello.

Ad un tratto alcune voci si alzavano, seguite da scrosci di risa:

- Pedro!... Pedro!... La luna spunta sulla cima della sierra.

- Va' a cercarti la frittata dei condorini.

- Da' una prova della forza dei tuoi muscoli, carrai!

- Su, su, in alto! Noi staremo a vederti.

Mendoza non aveva potuto trattenere una bestemmia.

- Avete udito, De Gussac? - chiese.

- Pare che la nostra ultima ora stia per suonare, - rispose il guascone. - Questo è quanto ho capito.

Mendoza si era alzato sulle ginocchia, stringendo ferocemente la draghinassa di don Barrejo.

La luna appariva in quel momento, dietro la piú alta cima della sierra, rovesciando sui boschi i suoi dolcissimi raggi azzurrini.

- Potevi, almeno per una volta, annegarti nel mare, - disse il basco.

Sotto la pianta, gli spagnuoli continuavano a gridare in coro:

- In alto, Pedro!... La luna è sorta per illuminare la frittata!... Una voce finalmente si alzò, dominando quel frastuono.

- Giacché volete la frittata, l’avrete.

“Pedro non ha che una parola.”

Il soldato che portava quel nome, un gagliardo garzone che non doveva toccare la trentina, si alzò e dopo essersi fatta scorrere la misericordia da destra a sinistra per essere piú libero nelle mosse, s’avvicinò al pinou e con un gran salto s’aggrappò ad uno dei primi rami.

- Voglio mostrarvi, - disse, - come i gabbieri prendono d’assalto le alberature. Silenzio e lasciatemi fare.

Mendoza e De Gussac tutto avevano veduto e tutto avevano anche udito. Se quell’uomo riusciva a scansare i rami quasi tagliati, potevano considerarsi come perduti.

- Che cosa dite, Mendoza? - chiese l’ex-taverniere di Segovia, il quale tormentava il grilletto del suo archibugio. - Se lo freddassi prima che potesse giungere fino a noi? Sono sicuro dei miei colpi.

- Ed anch’io dei miei, - rispose il basco, - però vi prego di lasciare in pace le armi da fuoco per ora.

“Io non dispero ancora. D’altronde penso che le loro palle non riusciranno a passare questi grossi rami cosí strettamente intrecciati.”

- E se arriva?

- Lo faremo prigioniero e lo terremo in ostaggio. Siamo in due ed entrambi robusti ed avremo facilmente ragione di quel gabbiere del malanno.

“Tuttavia teniamo pronte le draghinasse e se sarà proprio necessario ce ne serviremo.”

- E dopo?

- Un assedio in piena regola.

- Senza niente da cacciare in corpo. Ah!... Se don Barrejo ci avesse lasciati almeno i condorini.

- Tardivi rimpianti, - rispose il basco. - L’uomo sale lesto: attento, De Gussac!...

Il gabbiere, abituato a scalare le sartie dei galeoni e favorito dalla luna la quale illuminava la foresta magnificamente, montava rapidamente, aggrappandosi di ramo in ramo.

Di sotto, i suoi compagni, disposti in circolo intorno al pinou, lo guardavano senza parlare.

Mendoza e De Gussac lo vedevano, col cuore stretto all’angoscia, avvicinarsi. Il primo aveva impugnato la draghinassa di don Barrejo, mentre il secondo aveva ripreso l’archibugio, deciso a servirsene checché dovesse accadere poi.

Qualche minuto ancora ed il gabbiere raggiunse gli ultimi rami che reggevano il nido. Stava per aggrapparsi già all’orlo della costruzione, quando si udí un crac sinistro.

Uno dei rami sui quali si appoggiava aveva ceduto ed il disgraziato, dopo d’aver mandato un urlo straziante, era andato a sfracellarsi fra i fuochi del campo, con grande terrore dei suoi compagni.

Il tonfo di quel povero corpo che precipitava da quell’altezza, era stato cosí intenso, da poterlo paragonare ad un colpo di spingarda o di falconetto.

Passato il primo istante di spavento, gli spagnuoli erano accorsi a lui e s’avvidero subito che pel disgraziato gabbiere, vittima del ramo traditore preparato da Mendoza, non vi era da fare altro che scavargli una buca in mezzo alla foresta.

- Mi rincresce averlo ammazzato cosí, senza affrontarlo, - disse Mendoza a De Gussac.

“Disgraziatamente la guerra non ha leggi, specialmente qui, e noi eravamo nel nostro pieno diritto di difendere la nostra pelle.”

- Crederanno ad una disgrazia i suoi compagni?

- Ah!... Questo non lo so.

Il dubbio del guascone era ben fondato, poiché gli spagnuoli, dopo d’aver gettata una coperta da campo sopra il gabbiere, si erano messi a girare intorno al pinou, guardando sospettosamente l’immenso nido.

Ad un tratto uno di loro alzò l’archibugio e sparò un colpo. I due assediati udirono la palla penetrare fra i rami, ma come il basco aveva previsto, non giunse fino a loro.

I fucili di quell’epoca avevano una portata limitatissima ed una penetrazione misera, tale anzi che un solo ramo sarebbe bastato a far deviare facilmente un proiettile.

Altri cinque o sei colpi furono sparati, a breve distanza l’uno dall’altro, sempre contro il nido, collo stesso risultato.

Mendoza e De Gussac, quantunque temessero che da un momento all’altro qualche palla potesse aprirsi un passaggio, si guardarono bene dal rispondere.

Ad un tratto delle grida di terrore echeggiarono nel campo spagnuolo:

- I tori!... I tori!... Anda!... Anda!...

Una torma di quelle pericolosissime bestie, attirata probabilmente da quegli spari e disturbata nel suo sonno, caricava all’impazzata attraverso la foresta, dirigendosi appunto là dove i fuochi brillavano.

Gli spagnuoli, sapendo con che razza di animali avevano da fare, spararono a casaccio i loro ultimi colpi, quindi si dispersero per la foresta, sempre inseguiti dai furibondi cornuti.

Mendoza si era alzato in piedi di colpo esclamando:

- Ecco degli alleati sui quali io non contavo. Se vi preme mettere in salvo la pelle, De Gussac, lasciate subito il nido e scendiamo nella foresta.

“Passate a sinistra se non volete fare la fine di quel disgraziato gabbiere.”

Scavalcarono in un lampo l’enorme cesta, non senza aver prima raccolta la famosa draghinassa di don Barrejo che non volevano assolutamente perdere, e cominciarono la discesa, calando di ramo in ramo.

In lontananza si udivano le grida degli spagnuoli, accompagnate, di quando in quando, da qualche colpo d’archibugio.

L’inseguimento non era dunque ancora cessato.

Cinque minuti dopo, Mendoza e l’ex-taverniere di Segovia erano a terra.

I fuochi ardevano ancora, il pentolone giaceva col fondo in aria, qua e là erano state dimenticate delle armi.

Il basco raccolse due spade, s’avvicinò alla salma del povero gabbiere che per un caso straordinario era sfuggita alla carica dei tori, formò una specie di croce e gliela mise sulla coperta, dicendo con voce abbastanza commossa:

- Avrei preferito affrontarti colla spada alla mano e ricevere una stoccata. Riposa in pace, pover’uomo.

Poi spiccò tre o quattro salti attraverso i falò e si mise a correre, seguito da De Gussac, nella direzione tutta opposta a quella presa dagli spagnuoli.

Ora che era libero non aveva che un solo pensiero: quello di ritrovare il terribile guascone, senza del quale si sentiva come sperduto, quantunque avesse trovato un altro spadaccino appartenente alla medesima razza.

Che cosa era successo dunque dell’allegro don Barrejo? Vagava pei boschi cercando di orientarsi, o era stato catturato dagli spagnuoli? Mendoza si rivolgeva cento volte queste domande, senza riuscire a fare un po' di luce sulla misteriosa scomparsa del guascone.

Però non disperava. Aveva veduto il condor scendere dolcemente ai confini della boscaglia e si teneva certo che don Barrejo non si sarebbe lasciato cadere da una grande altezza, per rompersi le gambe.

I due avventurieri, spinti dal desiderio di sottrarsi alle ricerche degli spagnuoli e di trovare il compagno, continuavano a correre a tutta lena, quantunque si sentissero sfiniti dal digiuno.

Dopo una buona mezz’ora, raggiunsero il margine della boscaglia. Dinanzi a loro si stendeva una vasta prateria, fortunatamente in quel momento non occupata dai terribili tori della puna.

- Don Barrejo deve essere calato qui, - disse Mendoza, tirando il fiato.

- Eppure non si vede, - rispose De Gussac. - Se provassimo a sparare un colpo di fucile?

- Mai!... Ne ho abbastanza degli spagnuoli.

- Dove cercarlo allora?

- Comincio a disperare, De Gussac. I filibustieri lontani, noi quasi smarriti sulle cime di questa sierra, don Barrejo perduto.

“Che cosa accadrà di noi? Dove andremo a finire?”

- Probabilmente appesi a qualche ramo con una corda al collo, - rispose il guascone.

- Che don Barrejo ci abbia già preceduti? Attraversiamo questa prateria ed andiamo a rovistare la boscaglia opposta.

“Forse laggiú potremo azzardarci a sparare un colpo di fucile.”

Dopo aver guardato attentamente, temendo che qualche branco di tori sonnecchiasse fra le alte e profumate erbe, i due avventurieri ripresero la corsa, raggiungendo felicemente il margine della seconda foresta, la quale si stendeva lungo una gobba della sierra.

Si erano inoltrati per due o trecento metri, quando udirono improvvisamente risuonare, a breve distanza, parecchi spari.

Quasi subito un uomo passò dinanzi a loro, correndo come un cervo e mostrandosi ai raggi della luna.

Due grida erano sfuggite a Mendoza ed a De Gussac:

- Don Barrejo!...

Il fuggiasco si fermò, tenendo l’archibugio imbracciato, poi abbassò l’arma e mosse verso i suoi compagni non meno stupiti di lui, dicendo:

- Panchita, la bella castigliana, deve pregare per me, camerati. Se qualche buon genio non mi avesse sempre protetto, don Barrejo avrebbe finita la sua carriera con una fune al collo.

“Mendoza!... De Gussac!... Qua, fra le mie braccia!...”

- Ti credevo morto, - disse il basco, - e non sapevo rassegnarmi all’idea di riprendere il viaggio senza di te.

“Chi ha fatto fuoco?”

- Io.

- Sei o sette colpi?

- Avevo un fascio d’archibugi. Ma questo non è il momento di chiacchierare, amici. Se vogliamo prendere il marchese di Montelimar, seguitemi subito.

“Gli spagnuoli del piccolo campo sono quasi inermi.”

- Il marchese di Montelimar!... - esclamò Mendoza.

- Corri, e non parlare!...

Guidati da don Barrejo, il basco e l’ex-taverniere di Segovia-Nuova, si erano cacciati nella foresta, seguendo delle vaste aperture tracciate certamente dai tori della puna.

Attraverso il fogliame si vedevano brillare vagamente i fuochi del campo.

Con una corsa velocissima i tre avventurieri attraversarono la distanza e piombarono sull’accampamento cogli archibugi puntati.

Non vi era, almeno in quel momento, bisogno di bruciare della polvere, poiché gli spagnuoli, credendosi assaliti dal corpo principale dei filibustieri, non avevano piú fatto ritorno.

Anche il marchese era scomparso.

Mendoza e De Gussac, vedendo il pentolone, vi si erano precipitati sopra per raccogliere gli ultimi avanzi, mentre don Barrejo faceva una rapida esplorazione pel campo.

Un grido di furore interruppe il loro magro pasto.

Il terribile guascone si era fermato dinanzi al cadavere d’un soldato, cacciandosi disperatamente le mani nei capelli.

- Il vecchio sergente!... Un altro guascone!... È quello che mi ha fatto fuggire e il marchese lo ha assassinato! - gridava.

Mendoza ed il guascone numero due erano accorsi.

Un uomo, che aveva due lunghi baffi grigi e dei galloni sulle maniche della sua variopinta casacca, stava steso in mezzo all’erba col capo fracassato da una e forse da due palle.

- Chi è? - chiese Mendoza.

- L’uomo che mi ha fatto fuggire prima che il marchese mi appiccasse, ed è uno dei nostri, sai, De Gussac, un guascone anche lui, - rispose don Barrejo, il quale aveva le lagrime agli occhi.

- Chi l’ha ucciso?

- Quel cane di Montelimar, non ci può esser nessun dubbio. Solo il marchese aveva delle pistole alla cintura, e questi non sono colpi d’archibugio.

- No, - rispose il basco, il quale appariva pure profondamente commosso, poiché in quel momento pensava al povero gabbiere. - Qualunque uomo di guerra lo capirebbe subito.

Don Barrejo si morse le dita a sangue, poi disse:

- Quel Montelimar non rivedrà piú mai le torri dei suoi castelli di Francia e di Spagna, perché io lo ucciderò.

Si chinò sul cadavere del sergente, gli chiuse gli occhi, poi disse ancora:

- Seguitemi!... Il marchese si trova dinanzi a noi con pochi uomini, quasi sprovvisti d’armi da fuoco.

“Voglio avere la sua pelle!...”

 

 

Capitolo XIX

FRA LE FORESTE VERGINI

 

La luna cominciava a tramontare dietro le alte cime della sierra, quando i tre avventurieri si rimisero in cammino, colla speranza di piombare di sorpresa addosso al marchese ed ai suoi pochi uomini, se non si erano ripiegati già sulle cinquantine della retroguardia, e finirla per sempre con quel formidabile ed inafferrabile avversario.

Si erano cacciati in mezzo ad una boscaglia di noci nere, alberi giganteschi, frondosi, foltissimi, che danno delle frutte in quantità enorme, colla corteccia molto spessa ed il nocciolo invece piccolo e mediocre, preziosissimi però pel loro legno che può quasi competere col famoso ebano africano.

Un silenzio di tomba regnava sotto quelle magnifiche piante. La caccia notturna doveva essere finita, poiché l’alba non era lontana e le belve si erano certamente già ritirate, nei loro covi, dopo aver fatto delle vere ecatombi di conigli.

Di quando in quando un improvviso bagliore rompeva l’oscurità profondissima. Proveniva da masse di funghi fosforescenti, di dimensioni gigantesche, che si stringevano intorno ai tronchi enormi dei noci.

Quella corsa furiosa, condotta da don Barrejo, il quale si sentiva spinto da un desiderio feroce di vendicare il povero sergente, non ebbe alcun risultato.

Ai primi albori, i tre avventurieri, madidi di sudore, colle gambe rotte, si trovavano sulla cima della sierra. Degli spagnuoli non avevano trovato alcuna traccia.

- Ehi, don Barrejo, - disse il basco, - spero che non mi prenderai per un mulo dei Pirenei, corpo d’una saetta!... Io e De Gussac siamo quasi morti di fame.

- Ora potremo cacciare, senza correre alcun pericolo, - rispose il guascone.

- Perché?

- Ho ammazzato il cane che guidava gli spagnuoli.

- Tu hai fatto questo?

- Non ho perduto il mio tempo, compare. Avevo già giurato di fare la pelle a quella bestiaccia che costituiva per noi un continuo pericolo.

“Anche se gli spagnuoli udranno un colpo d’archibugio, difficilmente sapranno orientarsi, specialmente sotto queste boscaglie.”

- Io preferirei però fare una dormita, giacché abbiamo guadagnato terreno, - disse De Gussac. - Non ne posso piú.

“Alla colazione potremo pensare piú tardi.”

- Tutti i tavernieri non sono nati avventurieri, - disse don Barrejo, scherzando. - D’altronde anch’io non ho dormito un solo momento, tormentato sempre dal pensiero che sarei stato inesorabilmente appiccato.

“Cadere sul campo di battaglia, passi, ma finire sulla forca come un bandito!... Oh!... Ciò mi crucciava immensamente.

“Che cosa dici, Mendoza?”

Il basco non rispose. Si era sdraiato in mezzo ad un folto e freschissimo tappeto di muschi e cominciava già a sonnecchiare, quantunque avesse gli occhi ancora aperti.

- Allora approfittiamo, - disse don Barrejo. - Pel momento nessuno verrà a disturbarci.

“Abbiamo almeno un vantaggio di sei ore di marcia sugli spagnuoli, ammettendo che si siano mossi coll’alzarsi della luna.”

- Dormi, chiacchierone eterno, - disse Mendoza, sbadigliando. - La tua lingua starebbe bene in bocca alla bella castigliana.

- Anche la sua è abbastanza lunga e non ha bisogno che gliene dia un po' della mia.

“Tu non l’hai mai udita come urlava quando salivo dalla cantina colle gambe malferme! E quella briccona non voleva capire che i vini devono essere sempre assaggiati da un buon taverniere.

“Vi pare?”

Gli risposero due grugniti: Mendoza e l’ex-taverniere di Segovia dormivano come ghiri, affondati in mezzo al soffice strato di muschio.

- Non sono della mia fibra, - disse il guascone, torcendosi con sussiego i baffi. - Giacché non posso parlare nemmeno coi pappagalli, che qui mancano assolutamente, sarà meglio che approfitti anch’io della circostanza. Chissà!... Posso sognare le deliziose serate passate nella mia cantina, intorno alle botti ben piene.

Sbadigliò tre o quattro volte, stirandosi le membra, poi a sua volta si affondò nel soffice muschio, mandando un gran sospiro di soddisfazione.

Sonnecchiava da forse un quarto d’ora, quando fu sorpreso da una dolcissima corrente d’aria che pareva prodotta da un ventaglio agitato sopra la sua testa. Non essendo ancora completamente addormentato, agitò una mano e provò una strana impressione di freddo che gli fece subito spalancare gli occhi.

Un uccellaccio, che rassomigliava ad un grossissimo pipistrello, si era alzato sopra di lui, mandando delle piccole grida e descrivendo dei fulminei zig-zag.

Essendosi il sole già un po' alzato, il guascone aveva potuto vederlo. Aveva la testa grossa, armata di due denti e d’una specie di ventosa, e le sue ali pelose misuravano, insieme, quasi un metro, mentre il corpo non era piú lungo d’una ventina di centimetri.

- Un vampiro!... - urlò. - All’erta, camerati!... Si cerca di dissanguarci!...

Né Mendoza, né l’ex-taverniere di Segovia avevano risposto alla chiamata d’allarme.

- Tonnerre!... Sono stati già dissanguati!... - esclamò.

Si era alzato in preda ad una visibile emozione, tenendo l’archibugio alzato per ammazzare quei maledetti succhiatori di sangue.

Ad un tratto arrestò inorridito, lasciò cadere il fucile che a nulla avrebbe potuto servirgli, e snudò la draghinassa.

Un orribile spettacolo si era offerto ai suoi occhi; uno spettacolo da far gelare il sangue all’uomo piú coraggioso dei due mondi.

Accovacciati sul petto dei suoi due compagni, stavano due ragni giganteschi, orribili, pelosi, tutti neri, grossi quanto una bottiglia, con due branche armate di terribili uncini, lunghi non meno di otto pollici, i quali si erano già affondati nella carne, attraverso lo sparato della sbrindellata camicia.

Don Barrejo, abbastanza pratico della regione, non aveva tardato a riconoscere in quei due brutti mostri che succhiavano sangue avidamente, due migale giganti, ossia due di quei ragni che vivono nelle foreste dell’America centrale, e che quando sono affamati non esitano anche ad assalire le persone addormentate.

Le branche taglientissime dei due brutti mostri avevano intaccato le carni di Mendoza e dell’ex-taverniere di Segovia, e succhiavano ferocemente.

Don Barrejo balzò contro il piú vicino, con una pedata lo tolse dal petto di De Gussac, poi con un gran colpo di draghinassa lo finí.

Il secondo, vista la mala fine del compagno, aveva tentato di mettersi in salvo su un vicino albero, però prima che fosse troppo alto la draghinassa lo colse, spaccandolo nettamente in due.

- Amici!... Amici!... - gridò il terribile guascone, scuotendoli. - Non vi accorgete che vi dissanguano?

Mendoza pel primo aprí gli occhi, e non seppe trattenere un grido di ribrezzo vedendosi il petto coperto di sangue.

- M’hanno assassinato!... - esclamò.

- Ma che!... - rispose don Barrejo. - Non si tratta che d’una semplice cavata di sangue compiuta dalle migale.

“È vero che se tardavo ad accorgermene, quei mostriciattoli te ne avrebbero succhiato almeno un paio di libbre.”

- Ed anch’io sono tutto insanguinato, - disse De Gussac, balzando in piedi, spaventato.

- Ed io per poco non dividevo la medesima sorte, poiché un grosso vampiro cercava di sorprendermi nel sonno, - disse don Barrejo. - D’ora innanzi noi non commetteremo piú l’imprudenza di addormentarci tutti e tre.

- Le hai almeno accoppate quelle bestie? - chiese Mendoza.

- Io ho vendicato il tuo sangue. Vi è un ruscelletto che scorgo laggiú, andate a lavarvi e mettete sulle ferite un po' di cotone.

“Ecco là un albero che ve ne fornirà finché ne vorrete.”

- Sarebbe stato meglio che quel cotoniere portasse delle frutta, - disse De Gussac. - Noi moriamo di fame.

- To'!... Mi ero scordato che avete sempre la pancia vuota, mentre il mio ventre è stato generosamente imbottito di non so quale infame intruglio navigante in una vera olla podrida.

“Mentre fate un po' di toeletta, mi proverò a battere questa foresta.”

- Bada di non perderti, - gli disse De Gussac.

- Non andrò lontano, compare. So bene che è facile smarrirsi in queste immense foreste vergini.

Mise un po' di polvere nello scodellino dell'archibugio, abbassò il cane perché la trattenesse contro la pietra focaia, e se ne andò, guardando attentamente a desta e a sinistra.

Non aveva percorsi duecento passi quando udí, in mezzo alle folte piante, uscire un grido malinconico, lugubre:

- A-j!...

Don Barrejo si era fermato, guardandosi intorno.

- Chi è che si lamenta? - si chiese. - Che vi sia qualche ferito? Non rappresenterebbe una colazione, per centomila code del diavolo!...

In quel momento il grido si fece nuovamente udire, piú lungo, piú straziante.

Pareva proprio che qualcuno si lamentasse.

Il guascone, un po' impressionato, stava per tornare indietro, quando, alzando gli occhi verso una noce, scorse aggrappate ad un ramo, col dorso rivolto a terra, una specie di scimmia, dal pelame molto folto e colla testa che rassomigliava piuttosto a quella d'un gatto che d'un quadrumane qualunque.

- Ecco la colazione!... - esclamo il guascone. - Non so che cosa sia, so però che sotto la pelle vi è della carne di arrostire.

Aveva alzato già l'archibugio, poi tornò ad abbassarlo, borbottando:

- Se non si muove! Vediamo se si può risparmiare una carica. - Infatti quello strano quadrumane, quantunque avesse già scorto il cacciatore, non abbandonava il ramo e non cessava di mandare il suo sgradevolissimo urlo lamentevole.

- Bisogna venir giú, mio caro, - disse il guascone. - Se hai le gambe rotte e non puoi muoverti io non so che cosa farci.

“Ci servirai egualmente da colazione.”

Si avvicinò al ramo che era piuttosto basso e spoglio interamente di tutte le sue foglie, ed afferrò la coda del quadrumane, tirando a tutta forza.

Il ramo, sotto quella violenta trazione, si abbassò, ma l'animale rimase fermo al suo posto.

- Altro che zampe rotte!... - esclamò don Barrejo. - Queste sono zampe di ferro.

“Signora scimmia, volete arrendervi si o no?”

Il quadrumane ritirò lentamente la sua coda e non si mosse.

- Eppure non è legata, - disse il guascone. - che razza di bestia è questa? Me lo dirà Mendoza che conosce meglio di me le bestie che abitano queste selve.

“Orsú, legami o no, tagliamo.”

Tirò fuori la draghinassa e d'un colpo, decapitò la povera bestia, poi aggrappandosi nuovamente alla coda, dopo sei o sette strappate, le une piú vigorose delle altre, pervenne ad impadronirsene.

Solo allora si accorse che quello strano animale invece di avere delle dita possedeva delle unghie robustissime, lunghe un buon pollice.

- Che appartenga alla famiglia delle scimmie graffianti, se ne esiste una al mondo? Io veramente non ne ho mai udito parlare.

“Graffiante o no, andiamo a scuoiarla ed a gettarla sul fuoco.”

La riprese per la coda per lasciare che il sangue sfuggisse interamente e tornò, non senza qualche difficoltà, al campo.

Mendoza e l'ex-taverniere di Segovia avevano terminata la loro toeletta ed avevano chiuse le due piccole ferite prodotte dalle terribili branche delle migale con dei ciuffi di cotone selvatico.

La cavata di sangue era stata forse un po' abbondante, però le ferite riportate si riducevano a semplici tagli sulla pelle.

- Ehi, Mendoza, - disse il guascone, gettandogli ai piedi il singolare quadrumane. - Io ti porto la colazione e vorrei, prima di metterla sui carboni, che tu mi dicessi che specie di animale noi mangeremo.

“Certo non è un serpente, ed io non ho mai udito parlare di scimmie velenose.”

- Quantunque tu l'abbia decapitato ti dirò subito che è un a-j.

- A-j?... Che cos’è?

- L'animale piú poltrone che esista al mondo, poiché impiega non meno d'un paio di giorni a percorrere un paio di metri, per raggiungere le foglie che gli servono d'alimento.

“Figurati, amico, che piuttosto d'incomodarsi a scendere dagli alberi, si lascia cadere a terra per risparmiarsi la fatica.”

- Che gambe hanno dunque?

- Solidissime e anche ben armate.

- Lo so io che non ero capace di strappare giú questo macaco. È almeno mangiabile?

- Gli indiani non rifiutano la sua carne, quantunque si affermi che sia coriacea come quella del tapiro.

- Bah!... Abbiamo lo stomaco robusto e andrà giú egualmente, - disse l'ex-taverniere di Segovia, il quale aveva già impugnata la navaja per preparare l'arrosto.

- Degli spagnuoli nessuna nuova? - chiese Mendoza.

- Io non ho veduto altro che degli alberi, - rispose don Barrejo. - Devono essere ancora ben lontani, dopo la nostra marcia forzata. Signor taverniere di Segovia, come si può cucinare questa bestia?

- Gl'indiani, che sono grandi divoratori di scimmie, le cuociono al forno. Lasciate fare a me.

“Portatemi della legna e vi offrirò una colazione eccellente.”

- Uhm!... - fece il basco, scuotendo la testa.

Nemmeno don Barrejo parve convinto, poiché fece una smorfia di disgusto.

L'ex-taverniere aveva terminato di scuoiare l'a-j e l'aveva avvolto in diverse foglie di palmizio, dopo d'avergli cacciato nel ventre, prima vuotato, delle erbe aromatiche che aveva trovato a portata di mano.

Servendosi un po' della draghinassa e un po' delle mani, scavò una buca abbastanza profonda e vi gettò dentro quanta legna già accesa poté.

- Ecco un forno molto economico e molto spiccio, - disse don Barrejo. - Per caso hai fatto cucina agl'indiani?

- Piú di quanto t'immagini, - rispose De Gussac, ridendo. - Ti posso anzi dire che se sono ancora vivo lo devo alla mia abilità culinaria.

- Che cosa ti è successo dunque?

- Traversavo l'istmo in compagnia d'una mezza dozzina di avventurieri, i quali si erano proposti di raggiungere le sponde dell'oceano Pacifico per arruolarsi sotto Davis, quand'ecco che un brutto giorno una tempesta di frecce ci accoglie in mezzo alla boscaglia, senza che si potesse vedere da qual parte provenivano.

“Rispondemmo subito coi nostri archibugi. Il fragore dei colpi pareva che non spaventasse affatto quei fieri indiani, poiché continuarono a prenderci di mira coi loro dardi e cosí bene, che dopo un quarto d'ora tutti i miei compagni giacevano a terra morti.”

- Eri protetto da qualche prezioso amuleto, tu? - chiese don Barrejo, il quale sorvegliava il fuoco.

- Certo, - rispose, serio serio, l'ex-taverniere di Segovia. - Nella famiglia dei De Gussac si conservava una medaglia benedetta, che si aveva l'abitudine di portare sul cuore.

“Ti avverto che era grossa quando una piastra.”

- Tira avanti, - disse don Barrejo, sorridendo, - e tu, Mendoza, ritira i tizzoni e getta nel forno la nostra scimmia.

“Si deve coprirla di terra, mi pare, è vero, De Gussac?”

- Ed accendervi sopra un altro fuoco.

- Ora continua.

- Morto mio padre, la medaglia l'avevo presa io, perché era l'unica cosa che avesse ancora un po' di valore, essendo d'oro di miniera.

- Erano ricchi come i miei, i De Gussac, - disse il terribile guascone. - Continua.

- Tu non lo crederai, eppure tre volte delle frecce mi colpirono in direzione del cuore e si spuntarono tutte contro l'amuleto.

- Cospettaccio!... Vuoi vendermelo?

- Se non l'ho piú!

- Dov'è andato a finire?

- Si troverà ancora sospeso al collo del capo della tribú.

- E tu dunque hai reso quel briccone invulnerabile!... Speriamo di non trovarlo sul nostro cammino, - disse don Barrejo, un po' ironicamente. - E come andò a finire la storia?

- Accerchiato da tutte le parti, da non so quante dozzine d'indiani armati d'archi e di rompi-costole, fui costretto ad arrendermi.

“Fortunatamente quegl'indiani erano antropofagi.”

- Fortunatamente!... - esclamarono ad una voce Mendoza e don Barrejo.

- Se non lo fossero stati, io non sarei già qui a narrarvi quella brutta avventura.

- Spiegati meglio, amico, - disse il terribile guascone. - Qui vi è un punto oscuro che bisogna chiarire.

- Te lo dico subito, - rispose l'ex-taverniere di Segovia-Nuova. - Mi avevano condotto al villaggio e mi avevano legato ad un palo, in attesa di mangiarmi.

“Avendo però abbastanza carne umana, perché come ti ho detto, tutti i miei compagni erano rimasti sul terreno, mi riservarono per una colazione che il cacico doveva offrire ad un altro capo.

“Sotto i miei occhi vidi arrosolare cinque dei miei camerati, su certe graticolone formate di legno d'albero del ferro. Trovandomi presente a quell'orgia di carne, un indiano fu tanto gentile di portarmi una mano semi- bruciata, invitandomi a divorarla.”

- E tu l'hai mangiata! - gridò don Barrejo facendo tre o quattro smorfie di fila. - Puah!...

- Finsi invece di assaggiarla, poi protestai altamente contro i cucinieri, chiamandoli ignari dei piú semplici elementi della culinaria.

“Il cacico, che era un gran buongustaio, come seppi dopo, mi offerse senz'altro la carica di grande cuciniere di corte.

“Ed eccomi all'indomani a cucinar cadaveri dentro pentoloni, con contorno di patate e di erbe aromatiche.”

- E chi cucinavate? - chiese Mendoza.

- Gli altri cinque miei compagni.

- Fulmini!... Che fegato!...

- Mio caro, si trattava di salvare la pelle, e se non li avessi cucinati io, li avrebbero arrostiti gli altri.

“Il successo fu immenso, straordinario. Se quella sera il cacico non morí d'indigestione fu un vero miracolo.”

- Ecco una terribile storia di cannibali!... - esclamò don Barrejo. - Continua, De Gussac: questo racconto m'interessa assai.

- L'interesse è terminato, - rispose l'ex-taverniere di Segovia. - Per cinque mesi non feci altro che preparare gl'indiani morti negli scontri, alcuni alla salsa verde, altri alla rossa, finché un giorno, stanco di quella carica, me ne andai.

- Senza il medaglione?

- Era rimasto nelle mani del cacico.

- E tutto finí lí?

- Ho attraversato boschi, montagne e fiumi, sempre spronato dalla paura di venire ripreso e mangiato a mia volta, finché un giorno giunsi a Segovia-Nuova, che allora non era che un semplice villaggio e là mi stabilii.

- Queste si chiamano avventure, è vero, Mendoza? - disse don Barrejo.

- Che fanno venire la pelle d'oca solamente a udirle raccontare, - rispose il basco.

- Dimmi un po', De Gussac, hai servito anche qualche morto agli spagnuoli di Segovia?

- Mi avrebbero già appiccato. Ohé, Mendoza, e l'arrosto? Non cucinavo cosí io quand'ero fra gli antropofagi del Darien.

“La scimmia deve essere cucinata a puntino.”

Spensero il fuoco, colle draghinasse vuotarono la buca e misero allo scoperto l'a-j, il quale, pur essendo un quadrumane, spandeva intorno a sé un profumo appetitoso. L'ex-taverniere di Segovia tolse le foglie di palmizio e la tanto sospirata colazione finalmente comparve.

I tre uomini però, quantunque affamati, si guardarono l'un l'altro ed esitarono ad intaccare l'arrosto.

- De Gussac, - chiese don Barrejo, - a che cosa ti pare che somigli questo arrosto?

- Ad uno di quei bambini che cucinavo pel cacico nelle feste di gala.

- Somigli anche al diavolo, non sarò io che mi tirerò addietro, - disse Mendoza.

Prese la navaja e spaccò l'a-j, il quale sembrava piú un essere umano che una bestia.

Vinta la ripugnanza e solleticati dalle erbe aromatiche i tre filibustieri finirono per dare all'arrosto un tale assalto da non lasciare che poche ossa.

- Mi pare che questa carne fosse molto dura, - disse don Barrejo.

- Ah!... Io non me ne sono accorto, - rispose Mendoza. - So che riposa tranquillamente nel mio ventre e che il sacco non è piú vuoto come prima.

De Gussac approvò con un cenno del capo.

- Possiamo andare? - chiese don Barrejo. - Non scordiamoci che abbiamo dietro di noi il marchese di Montelimar e che i nostri compagni sono forse già giunti al Maddalena.

- Gambe, - risposero semplicemente il basco e l'ex-taverniere di Segovia.

 

 

Capitolo XX

LA VALLE DEI SONAGLI

 

Dall'estremità dell'America meridionale si stende una gigantesca catena, la quale forma l'ossatura principale dei due continenti, poiché se oltre l'istmo di Panama non si chiama piú la Cordigliera, ma la montagna Rocciosa, è però sempre la stessa.

Attraverso ai fiumi giganti dei due continenti, la grande catena impera, spingendo talora le sue vette all'altezza del nostro monte Bianco ed anche molto di piú.

Singolarmente difficile ad attraversarla, quantunque non piú altissima, è quella parte che si insinua attraverso l'America centrale.

Ancora oggidí è quasi un problema il tentarne la scalata, sia da parte dell'oceano Pacifico che dell'Atlantico, perché coperta ancora di boscaglie immense, dove i viaggiatori corrono il pericolo di smarrirsi e di morire di fame.

Al tempo in cui si svolge il nostro racconto, le sierre dell'istmo offrivano pericoli ben maggiori, poiché gli spagnuoli, solo occupati nello sfruttamento delle ricchissime miniere d'oro e d'argento, dove sacrificavano migliaia d'indiani, non avevano aperto nessuna via.

La paura di una invasione da parte dei filibustieri, di quei formidabili uomini che avevano distrutta Panama, li avevano persuasi a non toccare quelle boscaglie, antiche quasi quanto il mondo, credendo che quelle barriere naturali fossero sufficienti a trattenere i loro eterni nemici.

Come si può ben immaginare, don Barrejo, Mendoza e De Gussac, quantunque quest'ultimo fosse fornito d'una piccola bussola e sapesse, approssimativamente, dove si trovava il Maddalena, si erano trovati subito come smarriti in mezzo alle gigantesche foreste vergini che coprivano le ultime cime della sierra.

Se i grandi deserti, arsi perennemente dal sole, destano, nei viaggiatori che per la prima volta li attraversano, un senso di sbigottimento, se le alte cime coi loro ghiacciai scintillanti, coloriti in rosa dai primi riflessi dell'alba, o di fuoco dagli ultimi raggi del sole tramontante, destano un senso di ammirazione, la foresta vergine invece spaventa addirittura e rende l'uomo continuamente perplesso, in preda ad una vera angoscia.

Una vôlta senza fine, altissima, formata da foglie, per lo piú mostruose, che s'intrecciano le une alle altre, insieme alla moltitudine di liane ricadenti in enormi festoni, si stende per miglia e per miglia sopra le teste dei viaggiatori, intercettando quasi completamente la luce del sole.

Una paurosa semi-oscurità, che non si dirada che verso il mezzodí e solo per qualche ora, regna in mezzo a quegli immensi oceani di verzura.

Anche i raggi della luna di rado vi penetrano, non esistendo veramente nelle foreste vergini degli squarci che formino radure.

Sotto quegli immensi vegetali regna un'afa che sovente impedisce, o per lo meno rende difficile il respiro. Talora è ardente come se dalle vôlte cadessero vampe di fuoco; per lo piú però è umida, snervante, accasciante.

Un grande silenzio, paragonabile a quello che regna nei grandi deserti, impera durante il giorno; alla notte invece è un concerto orribile, spaventoso, che non cessa che ai primi albori.

Rospi giganti, insetti che fischiano come le vaporiere, coguari che urlano, giaguari che soffiano e ruggiscono, lupi rossi che lanciano a piena gola degli ululati lugubri, confondono le loro voci in un frastuono orrendo.

L'uomo che s'avanza affannosamente attraverso a quelle selve senza fine, quasi asfissiato dalla povertà dell'aria, non è sicuro di fare dieci passi senza correre il pericolo di lasciarvi la pelle.

Sono i rettili, quelli velenosi, che piú spaventano, poiché sorgono improvvisamente sotto un ramo morto, sotto un gruppo di foglie secche o in decomposizione e attaccano ferocemente il povero passante, il quale non ha da fare altro che sdraiarsi sotto una pianta e attendere la morte, la quale d’altronde non tarda a sopraggiungere.

Le formiche termiti in seguito passano, spolpano il cadavere e lasciano uno scheletro perfettamente denudato, che potrebbe fare ottima figura in un museo o in una scuola d'anatomia.

E non basta ancora. Ben altri pericoli si celano sotto le foreste vergini. Là è il vampiro, una specie di pipistrello, grosso quanto un gatto, che attende che il viandante, stanco morto dalla lunga marcia, si sia addormentato, per fargli un'abbondante cavata di sangue; piú oltre vi sono le orribili migali giganti, non meno assetate di sangue, sempre all'agguato sul tronco d'una pianta; piú innanzi, quando la foresta diventerà umida e pantanosa, migliaia e migliaia di mignatte sbucano da tutte le parti, mordendo ferocemente.

Tali sono le delizie delle grandi foreste vergini, siano americane, africane o asiatiche.

I tre avventurieri, pur sapendo a quali pericoli andavano incontro, spronati anche dalla paura di venire, da un momento all'altro, raggiunti dal terribile marchese, marciavano affannosamente, sempre avvolti in una semi-oscurità crepuscolare che non permetteva loro di poter scorgere subito gli agguati delle belve.

La prima marcia li portò fino alla cima della sierra, ma là sostarono, dichiarandosi tutti impotenti di mettere un piede dinanzi all'altro.

- Corpo dei cento tuoni del mar di Biscaglia!... - esclamò don Barrejo, il quale conservava sempre un umore eccellente. - Pare che siamo invecchiati mio caro Mendoza.

“Dove sono le corse che abbiamo fatto col conte di Ventimiglia fra le selve di Sandomingo?

“Quelle si chiamavano veramente marce e si resisteva!”

- Per paura di farsi mordere le gambe dai mastini, - rispose il basco. - Ce ne avevano sguinzagliati contro!… Ti ricordi?

- E qui, compare basco, vi sono le palle che ti possono sorprendere da un istante all’altro e produrre delle ferite ben piú gravi.

- Finché non le udrò fischiare, io non mi muoverò, - rispose Mendoza.

- E per ora nemmeno io, aggiunse De Gussac. - Abbiamo già guadagnate le cime della sierra e penso che possiamo prenderci un po' di riposo e possibilmente prepararci la cena.

- Oh!... I ghiottoni!... - gridò don Barrejo. - E la scimmia?

- Non me la ricordo piú, - rispose Mendoza, ridendo.

- Anche a me è venuta in mente solamente ora. Diavolo!... Che cosa offrirvi?

- M'incarico io della cucina, - disse l'ex-taverniere di Segovia.

- Il furbo!... - esclamò don Barrejo. - Ma giacché mi avete nominato grande provveditore dei vostri stomachi senza fondo, spetta a me di riempirvi il sacco.

“Bah!... Chissà che non trovi un'altra scimmia. Vuoi accompagnarmi, De Gussac, se ti resta ancora un po' di forza? Mendoza intanto accenderà il fuoco.”

- Per mille passi ci sto ancora, - rispose l'ex-taverniere, gettandosi in ispalla l'archibugio.

- Anche il mestiere del provveditore comincia a diventare pesante. Il peggio è che temo di non potervi offrire altro che degli avvoltoi.

- Dove sono? - chiese De Gussac.

- Poco fa, mentre ci aprivano il passo fra le grandi macchie, ne ho veduti parecchi volar via.

- Buon segno.

- Perché?

- Vi deve essere qualche bestia morta.

- Signor cuoco, spero che non ci cucinerete delle carogne. Qui non siamo fra gli antropofagi del Darien, - disse don Barrejo.

- L'animale può essere morto di recente, - rispose l'ex-taverniere. - Andiamo un po' a vedere che cosa divorano quegli avvoltoi.

“Il fuoco, Mendoza: noi non torneremo a mani vuote.”

Diedero uno sguardo alla bussola, poi si ricacciarono sotto le infinite arcate della foresta, procedendo con prudenza.

Un animale doveva essere morto in qualche luogo, poiché si udivano i volatili gridare come se fossero impazienti di dilaniare la preda.

Percorsi due o trecento passi, i due avventurieri scorsero un gruppo compatto di avvoltoi aura, bruttissimi volatili, grossi come tacchini, colle piume grigie-oscure, gli occhi rossi ed il becco bianco.

- Li vedi? - chiese don Barrejo a De Gussac.

- Sì, e ti avverto di guardarti anche da loro, - rispose l'ex-taverniere di Segovia.

- Hai paura che ci assalgano? Non sono già dei condor.

- Non l'oserebbero; hanno però la pessima abitudine, quando si vedono disturbati, di vomitare addosso ai cacciatori il cibo che stanno digerendo e ti garantisco che non è mai profumato.

- Oh!... Brutti porci!... Farò fuoco su di loro da lontano.

Don Barrejo però nemmeno quella volta ebbe occasione di consumare una carica di polvere, poiché gli avvoltoi, scorgendo i due cacciatori, preferirono di alzarsi e di scomparire attraverso uno squarcio della foresta.

Certi di trovare qualche animale, morto o moribondo, poiché quei feroci e avidissimi volatili assalgono anche le bestie che non si possono difendere, i due avventurieri si spinsero innanzi e ben presto scorsero, disteso alla base d'una palma enorme, un corpaccio che nelle forme rassomiglia ad un maiale, essendo coperto egualmente di setole, ma molto piú grosso.

- Un tapiro!... - aveva esclamato De Gussac. - Quanti ne ho ammazzati, quando mi trovavo fra gl'indiani!...

- Uno strano animale, che vive sempre solitario nel piú fitto delle foreste, e che come vedi, ha per naso una specie di tromba della quale si serve per scavare le radici.

- Che sia stato ammazzato da molto tempo?

- Io non sento alcun odore sgradevole. Provati a tastare le sue carni.

“La sua pelle è ben tesa.”

Don Barrejo affondò le mani nel corpaccio dell'animale e cadde bocconi fra un crepitío di ossa. Nel medesimo tempo che la massa cedeva come fosse internamente vuota, tre o quattro strani esseri sfuggirono sotto la pelle cercando di battersela.

- Acchiappa!... Acchiappa!... - aveva gridato l'ex-taverniere di Segovia.

Don Barrejo, il quale si era prontamente alzato, balzò innanzi e si precipitò coll'archibugio alzato verso i quattro animaletti, non piú grossi d'un coniglio, e che invece di pelame avevano certe scaglie snodate, d'una tinta giallastra, che parevano pronte a sovrapporsi le une alle altre.

Il terribile guascone si preparava a massacrarli a colpi di calcio d'archibugio, quando gli animaletti si fermarono e si arrotolarono, formando quattro palle ossee.

- Ohé, bestiacce!... - gridò. - Che giuoco mi fate ora?

Cominciò a picchiare e s'accorse ben presto che non riusciva assolutamente a nulla. Quelle scaglie offrivano una resistenza tale da mettere in grave pericolo il calcio del fucile.

- Ehi, De Gussac!... - esclamò don Barrejo. - Ne avrò per molto? Questi mostriciattoli non vogliono snodarsi.

L'ex-taverniere rideva a crepapelle, senza muoversi.

- Birbante!... Ti diverti a vedermi sudare?

- Lascia andare, don Barrejo. I tatú, mio caro, hanno delle piastre ossee quasi a prova di palla.

- E vuoi lasciarli andare?

- Niente affatto amico, poiché sono eccellenti come le tartarughe di terra.

- Tatú!...

- Chiamali, se ti piace meglio, armadilli.

- Ora ho capito. Ho veduto qualcuna di queste bestie a Panama.

“Come faremo a portarle via?”

- Le porteremo a mano e le getteremo sul fuoco per farle friggere nel loro grasso.

- Vorrei però sapere da te, che mi sembri molto istruito, che cosa facevano queste bestie dentro la pelle di quel tapiro.

- Vedi, questi tatú si nutrono di carogne, né piú né meno degli avvoltoi aura e dei condor.

“Quando trovano un animale morto, vi si cacciano dentro, ed a poco a poco se lo divorano, non lasciando intatte che le ossa e la pelle.”

- Dunque quel bestione dal naso lungo non aveva piú carne dentro di sé?

- Nemmeno una briciola, - rispose De Gussac.

Don Barrejo si tirò i baffi e guardò l'ex-taverniere, il quale teneva d'occhio i quattro armadilli perché non prendessero la fuga.

- Che cosa finirai per farci mangiare, tu?

- Chi rifiuterebbe un tatú ben arrosolato nel suo grasso?

- E nutrito di carne putrida. Devono avere un sapore detestabile.

- Io ti proverò il contrario.

- Io credo che finiremo, con te, per mangiare anche dei serpenti, - disse don Barrejo.

- Oh!...Ne servivo sovente al cacico e non l'ho mai udito lamentarsi.

- Tonnerre!... Che stomaco doveva avere quell'indiano. Tirava giú i sonagli come i maccheroni.

- Senza testa però. Prendi i tatú, prima che snodino le loro piastre, e torniamo al campo.

“Mendoza può essere inquieto.”

Raccolsero i quattro tatú, i quali si tenevano ostinatamente sempre avvolti su se stessi come porci-spini, e ripresero la via del ritorno, osservando attentamente i segni che avevano fatti sul tronco degli alberi, sempre a destra, in modo da potersi guidare a sinistra. Trovarono il fuoco acceso ed il basco coll'archibugio puntato, come se si preparasse a far fuoco.

- Spari ai pappagalli? - chiese don Barrejo, sempre scherzando.

- Quello che è venuto a ringhiarmi quasi sul viso, mentre stavo raccattando dei rami secchi, era un certo pappagallaccio da spaventare anche un guascone.

- Dovevi ammazzarlo, scuoiarlo e metterlo sui carboni. Che bella sorpresa per della gente affamata!...

- Va' tu a prenderlo per la coda.

- Sentiamo, - disse De Gussac, - che statura aveva?

- Quella d'un mastino.

- Ed il pelame?

- Fulvo.

- Ho capito: si trattava d'un leone americano, leone per modo di dire, perché non assomiglia affatto a quelli dell'Africa, non avendone né la statura, né la forza, né la criniera.

- Sono pericolosi? - chiese il terribile guascone, che si sentiva in vena di battagliare.

- Quantunque di piccola mole, assaltano talvolta perfino gli uomini, con un coraggio che non sempre possiede il giaguaro.

- È scappato?

- Vi ha uditi giungere e si è ricacciato nella foresta. - rispose Mendoza.

- Buon viaggio. - disse don Barrejo. - Se verrà a disturbare la nostra cena avrà il suo conto, corpo d'un cannone!...

“Ehi, grande cuciniere degl'indiani antropofagi, occupati un po' di queste bestioline che non vogliono saperne di aprire le scaglie.”

- È subito fatto, - rispose l'ex-taverniere, gettando i quattro tatú in mezzo alle fiamme. - Si cucineranno benissimo dentro i loro gusci, senza perdere troppo grasso.

“Se starai un mese sotto di me diventerai anche tu un grande cuciniere.”

- Sí, di scimmie e di mangiatori di carogne, - rispose il terribile guascone. - Ci vuol poco ad imparare un simile mestiere.

- Intanto però fiuti il profumo squisito che tramandano quei divoratori di carogne.

- Sento bruciare solamente delle ossa.

- Aspetta un po’, impaziente.

De Gussac stava per rivoltare i tatú per mezzo d'un randello, quando Mendoza disse:

- C'è un altro individuo che reclama la sua parte.

- Chi? - domandò don Barrejo.

- L'animalaccio che poco fa mi ha visitato.

- Dov'è questo ospite da nessuno richiesto?

- Guardalo là, piantato su quel ramo. Il profumo degli armadilli lo ha fatto ritornare.

- E le nostre palle calmeranno la sua fame, - rispose il terribile guascone. - Signor ghiottone, se vuole farsi avanti, siamo pronti a fare la sua conoscenza, e senza tremare.

Il coguaro, uno splendido animale, ben piú grosso di quelli soliti, si teneva accovacciato su un ramo di noci, lasciando pendere la coda.

All'invito del guascone sbadigliò, mostrando una dentatura superba e non si mosse.

- Che sia sordo? - disse De Gussac.

- Da un orecchio di certo, - rispose don Barrejo. - Si potrebbe fargli provare un colpo dei nostri archibugi.

Come se si fosse accorto della minaccia, il coguaro spiccò in quel momento un gran salto e scomparve nel folto della foresta.

- È un pauroso, - disse don Barrejo. - Lasciamolo andare ed occupiamoci della cena.

“Se tornerà a disturbarci gli faremo capire che noi siamo persone che se ne ridono di tutte le bestie feroci del mondo.”

Spaccarono colle draghinasse le scaglie dei quattro tatú e si misero a lavorare di denti, senza piú occuparsi del coguaro.

Avevano appena terminato, quando udirono un fruscío di fronde, e come un passo accelerato. Pareva che qualcuno scendesse da sierra a corsa disperata.

- Badate!... - aveva gridato don Barrejo.

Tutti tre erano balzati in piedi, cogli archibugi armati, temendo una sorpresa da parte degli spagnuoli.

Il fruscío continuava. Un uomo sfondava le fronde per aprirsi il passaggio attraverso a quei foltissimi vegetali.

Ad un tratto un cespuglio si piegò in due, ed un indiano, di statura alta, cogli zigomi assai prominenti e la capigliatura foltissima, comparve, fissando sui tre avventurieri i suoi occhi nerissimi, che tradivano un estrema angoscia.

- Compare, - gli disse don Barrejo, - se siete un amico non avete nulla da temere da parte nostra. Favorite quindi avanzarvi.

L'indiano, vedendo gli archibugi abbassarsi, fece alcuni passi innanzi, poi mise un ginocchio a terra tendendo le sue braccia graziosamente tatuate e cariche di monili d'oro.

- Amigo, - disse.

- Allora, avanzati ancora. Da dove vieni? T'inseguiva qualcuno?

- Volete un consiglio? - disse l'indiano. - Fuggite senza perdere un istante, od i Tasarios vi piomberanno addosso, vi faranno prigionieri e vi mangeranno.

L'indiano, che era un bel giovane di forse trent'anni, si esprimeva benissimo in lingua spagnuola, lingua già ormai quasi adottata da molte tribú.

- Chi sono questi Tasarios? - chiese Mendoza.

- Dei mangiatori di carne umana. Sono sfuggito loro per un puro caso, però vi posso dire che m'inseguono.

- Non ci mancava altro, - disse don Barrejo. - Ecco un altro brutto affare, da nessuno richiesto, che ci piomba addosso.

“Tu, a quale tribú appartieni?”

- A quella del Gran Cacico del Darien, - rispose l'indiano.

I tre avventurieri avevano mandato un grido di sorpresa ed insieme di gioia.

- Vieni, amico, - disse don Barrejo. - Ci spiegheremo meglio piú tardi.

“Tu conosci queste foreste?”

- Come le mie, perché le ho percorse per parecchi anni.

- Non vi sarebbe un asilo in questi dintorni?

L'indiano rifletté un momento poi, facendo un gesto energico, rispose:

- Io vi condurrò in un luogo ove i Tasarios non potranno raggiungerci.

“Sono già in marcia: io li sento.”

I tre avventurieri non ne vollero sapere di piú pel momento e si misero dietro all'indiano, il quale scendeva la sierra con passo celere, senza mai esitare, quantunque la grande foresta vergine continuasse ancora.

Una mezz'ora dopo, i fuggiaschi giungevano all'entrata di un profondo cañon, ossia d'una stretta valle, anche quella coperta da una prodigiosa quantità di vegetali.

- Scendiamo all'inferno? - si chiese don Barrejo.

- Silenzio, - disse l'indiano. - È pericoloso parlare.

- Temi l'assalto di qualche bestia feroce?

L'uomo rosso scosse il capo e si mise un dito sulle labbra come per invitarlo a non aprire piú la bocca.

Quel cañon sembrava una tenebrosa ed interminabile galleria, poiché le immense piante che crescevano sui suoi margini, intrecciavano in alto strettamente i loro rami e le loro foglie.

Un silenzio impressionante regnava fra quell'oscurità.

L'uomo rosso continuava la sua marcia, fermandosi solo, di quando in quando, ad ascoltare.

I tre avventurieri però si erano accorti che lanciava continuamente de gli sguardi inquieti a destra ed a sinistra, come se temesse un improvviso attacco o da parte dei Tasarios o di animali pericolosi.

- Silenzio, silenzio, - ripeteva, - e soprattutto non fate rumore, se vi preme salvare la vita.

- Dove vede tutti questi pericoli quest'animale di pelle-rossa? - borbottava don Barrejo. - Non vi è nemmeno un mosquito, ed a udir lui si direbbe che qui si sono radunate tutte le belve che abitano l'America centrale.

Invece Mendoza e De Gussac, che conoscevano meglio gl'indiani, lo seguivano senza mormorare, cercando di fare meno rumore che era possibile.

Pensavano che se l'uomo delle foreste agiva cosí, doveva avere i suoi motivi.

Un'altra ora trascorse, poi l'indiano si fermò sotto un foltissimo simaruba, pianta di dimensioni enormi, e dei cui fiori sono ghiottissime le testuggini terrestri.

Infatti basta scavare la terra presso le radici per trovarne quasi sempre.

- Dammi la tua navaja per un momento solo, - disse a don Barrejo.

- Chi hai da sbudellare? - chiese il guascone.

- Nessuno, per ora. Mi occorre per fabbricarmi un flauto.

- Vuoi offrirci un concerto?

L'indiano lo guardò con un certo stupore, poi scuotendo la folta e lunga capigliatura intrecciata con delle sottilissime liane, disse:

- I Tasarios vengono.

- Ce lo hai già detto una mezza dozzina di volte e non abbiamo ancora veduto volare una sola freccia.

- Io li sento.

- Tonnerre!... Nemmeno io sono sordo, eppure non odo che stormire le fronde.

- Salite su questa pianta, uomini bianchi, - disse l'indiano, con accento imperioso. - Intorno a voi vi è la morte.

- Hai capito, Mendoza? - chiese don Barrejo.

- Ed allora obbediamo. Quest'uomo rosso saprà il perché vuole mandarci in alto.

- Io però non ho capito finora assolutamente niente. Orsú, proviamo se i muscoli sono sempre in ottimo stato.

Mentre i tre avventurieri si aggrappavano ai festoni di liane pendenti dagli enormi rami, l'indiano, con un colpo di navaja, aveva reciso un bambú di mediocre grossezza, poi a sua volta aveva dato la scalata al simaruba, dimostrando un certo terrore.

- To'!... - disse l'eterno chiacchierone. - Mi hai una faccia punto tranquilla e ti prepari a fabbricarti una trombetta!... Come sono curiosi questi indiani!...

- Varrà meglio delle tue canne da fuoco, - rispose il selvaggio, il quale continuava il suo lavoro. - Fra poco lo vedrai.

- Aspettiamo dunque, - disse il terribile guascone.

Quando il piccolo istrumento musicale fu terminato, l'indiano lo imboccò e trasse alcune note.

Un momento dopo, in mezzo ai cespugli, sotto le foglie secche, fra le enormi radici degli alberi, si udirono suonare come dei sonagliuzzi.

- Lampi!... - esclamò don Barrejo. - Questi sono serpenti a sonagli.

- E la valle ne è piena, - disse l'indiano. - Queste terribili bestie arresteranno la corsa dei Tasarios.

“Non si tratta che di trarli dal loro letargo e di metterli in marcia.”

- Bell'affare se noi scendevamo attraverso questo cañon, è vero De Gussac?

- Ringrazia quest'uomo a cui noi tutti dovremo la vita, - rispose l'ex-taverniere di Segovia.

- Dinanzi a lui mi levo tanto di cappello.

- Ed io perfino la casacca, - aggiunse Mendoza.

- Ecco un saluto che quest'indiano apprezzerà probabilmente piú del mio.

- Per tutti i tuoni del mar di Biscaglia!... Hai preso la lingua di tua moglie prima di lasciare Panama? Chiacchieri sempre, come dieci scimmie rosse.

- Me l'avrà prestata senza che io lo sappia, - rispose il terribile guascone, ridendo.

- Ah!... Ridi!... Vorrei vederti là in mezzo che boccaccie faresti. Eccoli che giungono e s'avanzano a battaglioni.

I velenosissimi crotali, galvanizzati improvvisamente dalle note strane che l'indiano cavava dal suo flauto primitivo, si erano come irregimentati nel fondo del cañon, mettendosi in marcia.

- Solamente a vederli fanno sudare freddo, - disse don Barrejo.

L'indiano staccò un momento il flauto dalle labbra e disse agli avventurieri:

- Non vi occupate di me, per ora. Devo condurre la truppa, e dalla loro marcia dipende la vostra salvezza.

- Dove vai? - chiese Mendoza.

- Incontro ai Tasarios.

- Vengono? - chiese don Barrejo, ironicamente.

- Ci sono vicini.

- Allora buona passeggiata fra i serpenti.

S'ingannava. L'indiano, quantunque dovesse essere un incantatore di rettili, non aveva alcun desiderio di offrire le sue gambe ai loro morsi.

Si spinse lungo un ramo, poi balzò verso un ammasso di passiflore sospese ad una palma e si allontanò, cominciando una vera marcia aerea. Di quando in quando il suo flauto echeggiava, mettendo un certo malessere nei tre avventurieri, poi taceva per qualche minuto per farsi udire piú lontano.

I crotali, attratti, affascinati da quelle note, continuavano a calare nel fondo del cañon, occupandolo interamente.

Perfino dalle spaccature dei vecchi alberi ne uscivano a dozzine, lasciandosi cadere addosso ai compagni.

I tre avventurieri assistevano, in preda ad un violento terrore, a quella formidabile emigrazione. Come mai si erano radunati in quella valle tenebrosa tanti rettili? Forse nemmeno l'indiano avrebbe potuto dirlo.

I battaglioni intanto continuavano sempre la loro marcia, risalendo la valle, con uno strano ed impressionantissimo rumore di sonagli. Pareva che fossero stati presi da una vera furia di correre, poiché si saltavano gli uni addosso agli altri per andare piú innanzi e non perdere nessuna delle note dell'indiano.

D'improvviso la musica cessò.

I crotali, non piú aizzati, si alzarono ondeggiando le loro teste e scuotendo impazientemente le loro code sonore, poi si lasciarono cadere nel fondo del cañon.

- Tuttociò è spaventoso, - disse don Barrejo. - Preferirei combattere contro cento spagnuoli.

“E perché l'indiano tace ora?”

- Egli deve aver già veduto i Tasarios, - rispose Mendoza.

- Veduti o uditi, poiché è un paio d'ore che continua a soffiarmi negli orecchi che li sentiva.

“Un paio d'orecchi li posseggo anch'io, diavolo!...”

- Ed ora che cosa succederà?

- Una cosa semplicissima. I crotali arresteranno di colpo la marcia degli antropofagi.

- Uhm!... - fece don Barrejo. - Purché quei furfanti non mangino anche i serpenti velenosi senza crepare!...

 

 

Capitolo XXI

L'ATTACCO DEGLI ANTROPOFAGI

 

L'udito finissimo del selvaggio, abituato a raccogliere i piú lontani rumori della foresta, purtroppo non aveva sbagliato.

I mangiatori di carne umana calavano a torme lungo il cañon, battendo furiosamente le une contro le altre le loro mazze di legno sonoro.

Pareva che ci tenessero molto a riavere il loro prigioniero, destinato a figurare in qualche gran banchetto, forse con un contorno di banani.

La loro furia doveva però rompersi contro la moltitudine di crotali, i quali tappezzavano tutto il fondo della valle, in attesa di mordere.

Il guerriero del gran Cacico del Darien, dopo d'averli condotti innanzi per due o trecento passi, balzando di ramo in ramo, era ritornato verso gli avventurieri, i quali si trovavano tutt'altro che tranquilli.

Quel fragore di mazze, accompagnato, di quando in quando, da grida feroci, aveva prodotto una profonda impressione sull'animo di tutti.

Perfino don Barrejo aveva perduto il suo eterno buon umore.

- Siete persuaso ora che mi davano la caccia? - chiese l'indiano al guascone. - Udite!...Udite!...

- Sembrano bestie feroci e non uomini, - rispose don Barrejo. - Da dove sono sbucate quelle canaglie?

- Vi sono delle tribú sull'alta sierra e tutte divorano i prigionieri di guerra.

- Ecco una bella occasione per te, De Gussac. Giacché colla tua arte culinaria hai salvato una volta la pelle, cerca di mettere in salvo ora quella dei tuoi camerati. Va' ad insegnare anche a loro come si cucinano i cadaveri in salsa bianca o verde.

L'ex-taverniere di Segovia fece una smorfia.

- Non si può avere due volte la medesima fortuna e preferisco rimanere qui, fra voi, dietro ai serpenti a sonaglio, - disse poi. - Mi sento piú sicuro.

- Pensi alla tua pancia, briccone!...

- Silenzio, - disse l'indiano.

Il frastuono orrendo che poco prima faceva rintronare la gola, era improvvisamente cessato. Le mazze non suonavano piú l'attacco e tutte le bocche erano diventate mute.

- Sono alle prese coi crotali, - disse Mendoza, il quale, allungato su un ramo, cercava distinguere qualche cosa fra quella piú che semi-oscurità.

- Speriamo che quei maledetti rettili mordano bene, - disse don Barrejo.

L'indiano fece loro cenno di tacere, imboccò il flauto e si mise a suonare precipitosamente, battendo il tempo con le gambe e coi braccialetti.

Udendo quella musica i crotali, che pareva si fossero nuovamente assopiti, alzarono le teste e si spinsero innanzi, fischiando rabbiosamente.

Quanti erano? Delle centinaia e centinaia di certo, poiché formavano una vera colonna, una colonna spaventosa, perché satura del piú terribile veleno.

- Mi fanno venire freddo, - disse don Barrejo. - Su, all'attacco, mostriciattoli, e spazzate via tutto.

I Tasarios, dopo un breve silenzio, si erano rimessi a urlare ed a battere le mazze.

La battaglia doveva essere cominciata, fra i terribili rettili dal morso che non ha rimedio ed i mangiatori di carne umana.

Di quando in quando si udivano fischiare delle frecce attraverso gli alberi.

Dei colpi sordi echeggiavano, riempiendo il cañon di strani fragori: erano le mazze sonore che picchiavano contro le pietre per fare indietreggiare i serpenti a sonagli.

I tre avventurieri e l'indiano, rannicchiati sul simaruba frondoso che li rendeva invisibili, ascoltavano con ansietà crescente.

Resi furiosi da quell'attacco, tutte le falangi dei rettili si spingevano innanzi, impazienti di mordere.

I piú robusti passavano sopra i piú deboli e correvano coraggiosamente in aiuto dei compagni massacrati dalle mazze dei cannibali.

La battaglia non durò che pochi minuti: e la vittoria, come l'indiano aveva previsto, rimase ai serpenti, le cui colonne non si erano aperte dinanzi a nessun sforzo.

Si udirono le urla dei Tasarios allontanarsi verso l'alto cañon, però una voce, che pareva il muggito d'un toro, aveva gridato in una lingua che solo l'indiano aveva compresa: - Ti mangeranno egualmente.

- Le tue carni devono avere un sapore speciale, - disse don Barrejo, quando gli fu tradotta la minaccia. - Non valeva la pena di muovere una intera tribú per prendere un solo arrosto.

“Che mantengano la promessa?”

- I Tasarios non ci daranno tregua, - rispose l'indiano, il quale appariva preoccupato.

- Cerchiamo di raggiungere al piú presto il Maddalena e di scenderlo fino alle grandi cascate.

- È quella la nostra via, - disse Mendoza. - Abbiamo laggiú molti compagni che ci aspettano per guidare la nipote del Gran Cacico del Darien che le tribú aspettano.

“Hai udito parlare tu di quella fanciulla, nata da un uomo bianco e da una figlia del capo?”

L'indiano aveva guardato, con vivissimo stupore, i tre avventurieri, facendo dei gesti di sorpresa.

- Sareste voi, - chiese, - gli uomini che dovevano venire dalla parte ove il sole tramonta e scortare la nipote del Gran Cacico?

- Si, siamo noi, - rispose Mendoza.

- Gli spagnuoli ci hanno separati dai nostri compagni, ma noi ritroveremo sulle rive del Maddalena, presso le cascate, la fanciulla a cui spetta l'eredità del defunto capo.

- Pare che sia grossa, è vero? - chiese don Barrejo.

- Vi sono tre caverne piene d'oro.

- Con un po' di quelle pepite aprirò un vero albergo, corpo di un cannone.

- Lasciami parlare, compare, - disse Mendoza. - Desidero chiarire, innanzi tutto, un punto oscuro.

“Il Cacico, prima di morire, aveva mandato un uomo bianco nei lontani paesi d'oltremare per condurre qui sua nipote?”

- Sí, - Rispose l'indiano.

- È tornato?

- Ed è stato anche mangiato, - rispose il selvaggio. - Quell'uomo, che si era accaparrata la fiducia del Cacico, pretendeva d'impadronirsi dei tesori, minacciando, in caso di rifiuto, una invasione di spagnuoli. Diventato insopportabile, l'abbiamo preso e messo alla graticola per ordine del tuscan.

- Chi è questo signore? - chiese don Barrejo.

- Il mago o stregone della tribú, - rispose Mendoza.

- Corbezzoli!... Un pezzo grosso!...

- E poi che cosa è successo? - chiese il basco.

- Il tuscan, vedendo che l'uomo bianco voleva impadronirsi dei tesori, come vi dissi, lo fece prendere e mettere alla graticola.

- Benissimo!... - esclamò don Barrejo. - È la pena giusta dei traditori.

- E poi? - riprese Mendoza.

- Delle voci vaghe erano giunte fino alle nostre tribú, ed annunciavano l'arrivo di una grossa banda d'uomini bianchi che si ritenevano nostri amici.

“Il tuscan che aveva invece tutto da temere da parte degli spagnuoli, lanciò dei corrieri in tutte le direzioni, affinché li avvicinassero e si accertassero se la nipote del Gran Cacico si trovava veramente fra di loro.”

- Seppero almeno qualche cosa? - chiese il basco.

- Che una truppa, dopo d'aver lungamente battagliato cogli spagnuoli intorno a Segovia-Nuova, s'avanzava verso il Maddalena.

- È lontano il fiume?

- Appena una giornata di marcia, - rispose l'indiano.

- E tu hai veduto quegli uomini?

- No, perché i Tasarios, mentre esploravo la sierra, mi hanno catturato. Devo alla buona robustezza delle mie gambe se sono riuscito a sfuggire alla morte.

- Ehi, Mendoza, ne sappiamo abbastanza ora, - disse don Barrejo. - Non si potrebbe andarsene, prima che i crotali si risveglino?

- L'indiano saprà riaddormentarli, se vorrà, - rispose Mendoza.

- Ora che sono tutti dinanzi a noi, non abbiamo piú nulla da temere, poiché formano come una barriera insuperabile fra noi ed i mangiatori di carne umana.

- Fermeremo anche il marchese di Montelimar?

- Toh!... - esclamò don Barrejo. - Mi ero dimenticato di quel terribile uomo. Dove sarà rimasto costui?

- Noi siamo degli stupidi, - disse De Gussac. - Stiamo qui a chiacchierare, mentre forse a quest'ora spagnuoli ed antropofagi si preparano, di comune accordo, a darci la caccia.

“Le due razze vanno spesso assai d'accordo.”

- Ed è proprio vero, - disse Mendoza. - I discendenti dei conquistadores li hanno talmente terrorizzati, che basta che vedano un elmetto spagnuolo per dichiararsi schiavi.

“Non valeva la pena, in fondo, che i filibustieri intraprendessero tante meravigliose imprese per vendicare degli esseri ormai abbrutiti.”

L'indiano si era alzato, tenendo in mano il flauto.

- Il tempo vola, - disse, - ed i Tasarios potrebbero girare piú sopra il cañon.

- Io avevo già dimenticato che le mie magre membra correvano il pericolo di finire sulla graticola, - disse don Barrejo. - La vita dell'avventuriero diventa troppo dura al giorno d'oggi.

- E si rimpiange sempre la cantina d'El Moro e la bella taverniera, - disse Mendoza.

- Può darsi, ma don Barrejo, da buon guascone, non lo confesserà mai.

L'indiano aveva fatto un moto d'impazienza.

- Venite, uomini bianchi, - disse, col suo solito accento imperioso. - La morte può essere piú vicina di quello che credete.

- Hai ragione, compare, - rispose don Barrejo. - Noi siamo una massa di chiacchieroni.

“Ed i serpenti a sonagli?”

- Non si sveglieranno finché non lo vorrò io, e siccome per ora non lo desidero, li lascerò dormire.

Si aggrapparono alle liane e si lasciarono scendere fino a terra.

I serpenti sonnecchiavano gli uni addosso agli altri, senza muoversi e senza sibilare. Cessato l'attacco, si riposavano tranquillamente, in attesa d'un altro risveglio, piú terribile forse del primo.

L'indiano, appena a terra, appoggiò un orecchio al suolo e si mise ad ascoltare con grande attenzione.

- Odi sempre, tu? - chiese don Barrejo, ironico.

- Sempre, - rispose l'indiano.

- Tonnerre!... Tu devi avere gli orecchi del Padre Eterno!... Non credi che si siano allontanati i mangiatori di carne umana?

- Sospetto che abbiano presa un'altra via per tenderci un agguato all'uscita del cañon.

- Le loro frecce sono avvelenate? - chiese Mendoza.

- No.

- Allora possiamo battagliare. L'archibugio ha ammazzato il dardo.

Pur discorrendo, scendevano a precipizio il cañon, il quale diventava di momento in momento piú ripido.

Alberi ve n'erano dovunque ed intralciavano talvolta la marcia, nondimeno i tre avventurieri e l'indiano continuavano la loro rapida ritirata, spinti dalla paura di doversi trovare, da un istante all'altro, dinanzi ai mangiatori di carne umana.

Il cañon a poco a poco si allargava e lungo i suoi fianchi si udivano scrosciare numerosi torrenti che una vegetazione intensa, gigantesca, rendeva assolutamente invisibili.

La luce cominciava a penetrare, poiché i grandi alberi che crescevano sulle due coste, non potevano piú incrociare i loro rami e le loro foglie.

Quella corsa, condotta con crescente rapidità dall'indiano, durava da un paio d'ore, quando i quattro uomini si fermarono di comune accordo.

In mezzo alle grandi foreste che si stendevano a destra ed a sinistra del cañon, avevano udito squillare una trombetta.

- Gli spagnuoli? - aveva chiesto don Barrejo, guardando l'indiano.

- No, - disse questi, scuotendo il capo e facendosi oscuro in viso, - questa tromba io l'ho udita suonare presso i mangiatori di carne umana.

- La caccia diventa interessante.

- Ed anche estremamente pericolosa, mi pare, - aggiunse De Gussac.

- Sono dunque passati i tempi nei quali gl'indiani fuggivano sempre e si lasciavano prendere due imperi, quello del Perú e quello del Messico, da pochi avventurieri?

- Purtroppo sono diventati battaglieri anche essi, - disse Mendoza.

- Eh!... Avrebbero potuto aspettare qualche secolo ancora!

In quell'istante l'indiano si fermò nuovamente e andò ad appoggiare un orecchio prima contro la costa sinistra, poi contro quella di destra del cañon.

- Ecco un uomo prodigioso, che ode e sente sempre, - riprese l'incorreggibile chiacchierone. - Ora verrà a raccontarci che ci sono già addosso.

L'indiano era tornato verso di loro e non aveva detto che una parola:

- Fuggite!...

- Allora, gambe! - disse don Barrejo.

Si slanciarono a corsa disperata lungo il fondo del cañon, cosparso di macigni trasportati dalle acque e di cespugli, cercando di distanziare, piú che era possibile, i pericolosi mangiatori di carne umana.

Non avevano però ancora percorsi cinque o seicento metri, quando una freccia passò, sibilando sinistramente, sopra le loro teste.

- Eccoli!... - gridò De Gussac.

Don Barrejo si volse e puntò l'archibugio verso un enorme ammasso di passiflore. Cercò un po’ cogli sguardi, poi premette il grilletto.

La detonazione fu seguita da un grido. Un selvaggio che teneva ancora l'arco in mano venne a rotolare fino in fondo al cañon, fracassandosi il capo contro le pietre.

- Via!... Via!... - disse don Barrejo, cercando di ricaricare l'arma. - Se non usciamo da questa maledetta valle, noi corriamo il pericolo di finire davvero sulla graticola.

“È lontano lo sbocco?”

L'indiano, a cui era rivolta la domanda, fece un cenno negativo.

- Noi siamo degli stupidi, - disse il basco. - Giacché i selvaggi scendono lungo la costa di ponente, noi montiamo quella di levante e prendiamo posizione.

“Se si raggruppano ci massacreranno a colpi di pietra.”

- È quello che volevo proporvi, - rispose l'indiano. - Sono sicuro che i mangiatori di carne umana non tengono che una costa del cañon.

- Montiamo dunque, - disse De Gussac. - Ci vedremo meglio.

Si aprirono frettolosamente il passo attraverso quell'ammasso di piante che copriva il fianco interno della valle, e dopo pochi minuti raggiungevano la grande foresta.

Erano appena saliti, quando una tempesta di pietre scese lungo il cañon con un fracasso indiavolato.

Quasi nel medesimo tempo delle freccie furono lanciate sopra la valletta, in direzione dei fuggiaschi, senza però riuscire a raggiungerli, essendo ormai fuori di portata dagli archi.

Venti o trenta indiani erano subito comparsi sull'opposta parete del cañon, mandando urla spaventevoli.

Erano tutti di alta statura, quantunque molto magri, avevano le teste coperte di piume variopinte, e le braccia e le gambe adorne di braccialetti d'oro, probabilmente purissimo.

Dei tatuaggi strani, che dal petto salivano fino alla faccia, a diverse tinte, davano loro un aspetto poco gradevole.

Mentre alcuni erano armati di archi, altri sbatacchiavano furiosamente le loro mazze di legno sonoro, cantando nel loro barbaro linguaggio:

- Vi mangeremo! Vi mangeremo!

- Hai capito, Mendoza, che cosa dicono quelle scimmie rosse? - chiese don Barrejo al basco, dopo che l'indiano del Darien gli ebbe tradotte quelle parole poco rassicuranti.

- Non sono sordo, - rispose il filibustiere. - Pare che ci tengano ora ad avere delle bistecche di carne bianca.

“Forse non ne hanno mai assaggiate.”

- Non restiamo inoperosi, amici. Giacché quei selvaggi si presentano bene ai nostri colpi, tentiamo di spaventarli con una scarica meravigliosa.

“Io sono sicuro del mio colpo.”

- Ed anche noi, - risposero il basco e De Gussac.

- Se non ci facciamo temere, li avremo alle costole fino al Maddalena.

In quel momento una raffica violenta passò sulla grande foresta, senza che nessun indizio l'avesse annunciata, torcendo i grossi rami e ululando sinistramente in mezzo al fogliame.

- Che cosa c'è dunque ora? - chiese l'eterno chiacchierone.

- Il tempio cambia, - rispose l'indiano. - Avremo un tornado.

- Affrettiamoci, camerati. Il momento è buono.

Gl'indiani continuavano a vociferare sull'opposta costa del cañon, senza però decidersi a scendere. Probabilmente dovevano aver già fatta la conoscenza colle canne da fuoco degli uomini bianchi e si tenevano in guardia.

I tre avventurieri si appoggiarono al tronco d'un pinou, per avere la mira piú sicura e spararono, uno dietro l'altro, tre colpi, i quali rumoreggiarono a lungo dentro la valle, come se fosse caduta qualche valanga di sassi.

Tre indiani erano caduti, scivolando lungo il pendío. Gli altri, spaventati, si erano affrettati a rinselvarsi.

- Speriamo che ci lascino un po' di tregua, - disse don Barrejo. - Credo che pel momento ne abbiano abbastanza.

- E noi approfittiamone per scendere verso il Maddalena, - disse Mendoza. - Odo già frangersi la sua rapida corrente.

Attesero un momento per vedere, se gl'indiani si mostravano, di fare un'altra scarica, poi si slanciarono sotto le foreste scendendo verso la pianura bagnata dal fiume gigante.

Per far comprendere però ai mangiatori di carne umana che avevano ancora delle munizioni, di quando in quando si volgevano per sparare qualche colpo in direzione del cañon.

Mentre affrettavano la discesa per raggiungere il fiume, l'uragano s'avanzava con una rapidità impressionante.

Il cielo, che qualche ora prima era ancora limpido, si era coperto di tali masse di vapori da intercettare quasi completamente la luce.

Mille strani fragori si scatenavano in alto. Ora pareva che centinaia e centinaia di carri pieni di lamine di ferro e tirati da cavalli focosi, corressero sfrenatamente; ora invece sembrava che si sparassero dei cannoni, e le detonazioni erano seguíte dalle urla del vento.

Le raffiche piombavano sulla grande foresta, devastandola. Rami, foglie gigantesche, frutta, volavano in aria come fuscelli di paglia.

Tacevano un momento, come per riprendere forza, poi sibilavano con furia piú terribile sotto le immense vôlte di verzura, strappando d'un colpo solo i grandi festoni di liane ed abbattendo i superbi cespugli delle passiflore.

I tre avventurieri e l'indiano, assordati da tutti quei fragori e spaventati dalla furia del tornado, affrettavano la marcia, guardandosi di non ricevere qualche ramo sulla testa.

Agl'indiani ormai non pensavano quasi piú.

D'improvviso, quando già stavano finalmente per sboccare nella valle del Maddalena, udirono fra lo scrosciare dei tuoni e le urla del ventaccio, delle scariche d'archibugio.

Gli avventurieri si erano fermati, guardandosi l'un l'altro.

- Sono ben colpi di fuoco questi? - disse De Gussac.

- Che puzzano di polvere lontano un miglio, - rispose il basco. - Queste scariche non si possono confondere coi tuoni.

Don Barrejo si era messo a ridere.

- Non capite dunque? - chiese. - È il signor marchese di Montelimar che si prende la briga di accomodare i nostri affari.

“La sua banda si è incontrata coi mangiatori d'uomini e dà battaglia.”

- In attesa di darla poi a noi, - aggiunse Mendoza.

- Io però ho constatato un fatto, compare Mendoza.

- Quale, don Barrejo?

- Che le nostre gambe sono piú resistenti di quelle degli spagnuoli.

- Un momento di respiro e guadagnamo il Maddalena, - disse De Gussac. - Vuoi tu?

L'indiano guardò il cielo che continuava ora ad oscurarsi ed ora ad illuminarsi sotto la vivissima luce di centinaia di lampi, poi disse inesorabilmente:

- Avanti ancora.

- Lui sente sempre ed ode sempre, - disse don Barrejo. - Olio alle gambe, amici, se non volete andare a finire fra una graticola ed una corda da appiccare.

Le scariche si succedevano alle scariche, mescolandosi ai tuoni. Una vera battaglia doveva essersi impegnata fra gli spagnuoli del marchese di Montelimar ed i mangiatori di carne umana.

Gli avventurieri approfittavano di quell'insperato soccorso per accelerare sempre la marcia.

Ormai il fiume era vicino: si udiva muggire cupamente entro l'ampia valle.

L'uragano però rendeva la ritirata difficilissima. Alberi giganteschi, che avevano resistito a chissà quanti altri tornados, cadevano al suolo sotto l'impeto furioso delle raffiche, trascinando seco dei lembi interi di foresta.

Era un vero miracolo se i fuggiaschi riuscivano ad evitare quei colossi, sotto il cui enorme peso sarebbero rimasti per sempre.

Fortunatamente la foresta si diradava. La sierra finiva e cominciava la pianura, una pianura strettissima, cosparsa di sabbie, di magri cespugli e di enormi ammassi di fango disseccato.

Con un ultimo slancio l'indiano ed i tre filibustieri la raggiunsero e si diressero, sempre correndo, verso il fiume, quantunque non avessero nessuna speranza di trovare in quel luogo qualche canotto.

Una roccia, alta una mezza dozzina di metri, molto incavata da una parte, offrí subito ai fuggiaschi un rifugio e fu tutto quel che poterono avere, poiché nessuna piroga si scorgeva nelle vicinanze.

Si erano appena riparati, quando le cateratte del cielo si aprirono ed un vero diluvio d'acqua, accompagnato da rombo di tuoni, da ruggiti di vento e da lampi vivissimi, si rovesciò sulla valle del Maddalena con furia incredibile.

- Compiango gli spagnuoli che non avranno trovato anche loro un asilo, - disse don Barrejo, stringendosi contro i compagni per evitare i furiosi sprazzi di pioggia. - Questo tornado dovrebbe però renderci un favore.

- Quale? - chiese De Gussac.

- Di lasciar cadere sulla testa del marchese qualche pinou, - rispose il guascone.

- Uhm!... Quell'uomo deve essere fortunato, mio caro, - disse Mendoza. - Se è sfuggito finora a tanti pericoli, sfuggirà a molti altri ancora.

In quell'istante, a monte del fiume si udí un rombo che si spezzò in mille muggiti.

L'indiano era balzato in piedi, mostrandosi inquieto.

- Che cosa c'è ancora? - chiese don Barrejo. - Tu senti e odi qualche cosa di certo; però questo fracasso l'ho udito anch'io.

- La piena, - rispose il selvaggio. - Il Maddalena straripa.

 

 

Capitolo XXII

LA ZATTERA

 

Gli uragani che scoppiano nell'America centrale sono fortunatamente rari, ma quando Giove galoppa sulle nubi, accompagnato dal fido Eolo, raggiungono una tale furia da non potere noi, abitanti delle zone temperate, formarcene un'idea.

Non hanno una lunga durata, però bastano quelle poche ore per mettere sottosopra provincie intere, devastare immense piantagioni, e quello che è peggio, per far straripare i fiumi.

Il tornado che aveva dovuto prima infuriare sull'alta sierra, aveva gonfiato quasi di colpo il Maddalena ed ora il fiume gigante, con poco piacere dei fuggiaschi che ne avevano fino sopra i capelli delle avventure, compreso don Barrejo, si preparava a uscire dal suo letto, ed occupare la piccola pianura sabbiosa.

Quantunque continuasse a piovere con una furia spaventevole, l'indiano ed i tre filibustieri, allarmati da quei fragori che facevano risuonare sinistramente la valle, avevano lasciato per un momento il rifugio, volendo rendersi conto dello stato del fiume e del nuovo pericolo che li minacciava.

Il Maddalena cresceva a vista d'occhio. Delle ondate mostruose, di colore giallastro, si seguivano senza interruzione, trascinando nel loro corso vertiginoso dei giganteschi alberi strappati ai fianchi della sierra.

- Tonnerre!... - esclamò don Barrejo. - Ecco che si prepara un'altra avventura poco piacevole.

- Non eri forse partito da Panama per andarle a cercare? - chiese Mendoza. - Hai lasciato laggiú, per correre il mondo, una splendida castigliana ed una cantina magnificamente fornita.

“È vero che dentro le botti vi erano gli spiritelli?”

- No, vi era dentro quel povero Pfiffero, - rispose il terribile guascone. - In quanto a mia moglie, lasciala in pace.

- Invece di pensare alle persone assenti, pensiamo a noi, - disse De Gussac. - Che cosa si fa? Il fiume monta di minuto in minuto e finirà per invadere la pianura.

- Domandalo all'indiano che sente ed ode tutto, - rispose don Barrejo.

L'indiano invece rimaneva muto come una sfinge egiziana. Colle braccia strette sul petto, gli occhi nerissimi e sempre inquieti come dell'uomo che si aspetta, da un momento all'altro, una brutta sorpresa, guardava il fiume senza parlare.

- Toh!... - esclamò don Barrejo. - Ora non sente e non ode piú, mentre io odo un fragore spaventevole che cresce di momento in momento.

- Dunque? - chiese De Gussac, guardando l'indiano.

- La piena, - rispose questi.

- La vedo, - disse don Barrejo. - Un paio d'occhi sono piantati sul mio muso. Ti domandiamo che cosa si può fare.

- Nulla, - rispose l'indiano, colla sua voce monotona.

- Tonnerre!... E noi staremo qui a farci portar via dalla piena?

- La roccia, - rispose l'indiano.

- Ma questo è un mulo dei Pirenei, - disse don Barrejo. - Vedo anch'io che c'è una roccia.

“Mendoza, puoi levare qualche parola a quest'uomo o meglio strappargliela?

“La mia pazienza ormai l'ho esaurita, e se fosse un altro a quest'ora avrei impugnata la mia draghinassa.”

- Ehi, antropofago!... - disse Mendoza. - Hai la manía omicida? Le troppe avventure ti hanno guastato un po' il cervello, è vero, mio povero don Barrejo?

Un grande scroscio di risa fu la risposta.

Il mattacchione del di là del mar di Biscaglia rideva a crepapelle.

- Ah!... Questi guasconi!... - esclamò Mendoza.

- Valgono i baschi, è vero? - chiese don Barrejo.

- Devo confessarlo.

- Finalmente!... Interroga dunque quella marmotta rossa che sente sempre e che ode sempre, mentre non sa mai prendere una decisione.

- Amico, - disse Mendoza all'indiano, il quale guardava sempre il fiume coi suoi occhi irrequieti. - Che cosa si fa dunque? Si scappa verso la sierra?

- Troppo tardi, - rispose il pelle- rossa.

- Abbiamo le gambe ancora buone.

- Troppo tardi, - ripeté l'indiano.

- Ehi, Mendoza, perdi il tuo tempo, - disse don Barrejo. - Da quell'uomo lí non caverai altro che un “sento” ed un “odo”.

“È meglio che pensiamo noi a trarci d'impiccio.

“Se gl'indiani amano annegarsi, io francamente non ci tengo affatto. Se si trattasse di affogarmi in un fiume di Xeres passi ancora, ma papà Noè non ha pensato a provvedere i fiumi di viti.”

- Non vi è che una cosa sola da fare, - disse De Gussac. - La roccia è abbastanza alta e non credo che la piena ci raggiungerà.

- Conosci le rabbie di questo fiume, tu?

- Io no.

- Allora non ci si può fidare del tuo consiglio. Visto però e considerato che non vi è altra scappatoia, lo accetto, e vi propongo una bagnata coi fiocchi.

“Cercate almeno di non bagnare le munizioni.”

- La polvere è dentro i corni, - rispose Mendoza. - Sarà sempre pronta a far udire la sua voce, sia contro gli spagnuoli, sia contro i mangiatori di carne umana.

“Montiamo: l'acqua cresce con una rapidità impressionante.”

Il Maddalena infatti si gonfiava a vista d'occhio. Le sue acque, ordinariamente limpide, erano diventate fangose e dal monte le onde si succedevano sempre con rabbia feroce, stendendosi sulla pianura di destra e di sinistra.

Un muggito assordante, continuo, riempiva la valle, ripercuotendosi dentro i boschi della sierra.

- Calcatevi bene in capo i cappelli, - disse don Barrejo, - e cercate di farli servire da parapioggia.

Le onde brevi e rapide del Maddalena si stendevano sulle sabbie delle due pianure, coprendo rapidamente i magri cespugli.

L'indiano ed i tre avventurieri, non poco impressionati dalla brutta piega che prendevano gli “affari”, come diceva don Barrejo, abbandonarono il rifugio e si arrampicarono sulla roccia, esponendosi completamente alle furie del tornado.

Lampeggiava sempre e tuonava spaventosamente, mentre dalla valle scendevano delle raffiche cosí impetuose da costringere i quattro uomini a tenersi ben uniti per non farsi portar via. La pioggia poi continuava pure, lasciando cadere certi goccioloni grossi come un pugno, che se non facevano male, inzuppavano completamente.

- Questa si chiama ira di Dio, - disse don Barrejo, il quale si annoiava mortalmente a starsene zitto. - Ehi, amico del Darien, ne avremo per molto tempo? Io per ora ne avrei già abbastanza.

Il figlio dei boschi guardò il cielo incessantemente illuminato dai lampi, poi alzò le spalle senza dare nessuna risposta.

- Come sono avari di parole, - riprese don Barrejo, il quale si prendeva filosoficamente quei goccioloni. - Si direbbe che a questi indiani fa male la lingua.

- Mentre tu l'hai troppo lunga, - disse Mendoza.

- Mio caro, prova a prender moglie, e vedrai come si snoderà anche la tua.

- Per ora non ne ho intenzione.

- Già, tu sei un avventuriero troppo logoro.

- Anche tu però non tornerai a Panama piú grasso di prima.

- Ci tornerò però colle tasche piene, - rispose il guascone. - Siamo ormai alle frontiere del Darien e spero che quei selvaggi non faranno cattiva accoglienza alla nipote del Gran Cacico, e che ci lasceranno vuotare, senza proteste, le caverne piene d'oro.

- E se invece ci mangiassero? Ancora pochi anni or sono erano antropofagi e potrebbe dirtelo, se fosse ancora vivo, Pietro l'Olonese, che era il piú famoso filibustiere dei Fratelli della Costa, e che finí la sua gloriosa carriera di ladro emerito su una graticola o dentro un pentolone.

- Tu vedi tutto nero quest'oggi, compare; che sia il tempo?

- Può darsi, - rispose il basco.

- E l'acqua monta rapidamente, - disse in quel momento De Gussac. - La pianura si copre.

Infatti il Maddalena era uscito dal suo letto e straripava con una violenza inaudita.

Fra le sue onde fangose, d’un brutto color biondastro, travolgeva degli alberi immensi e degli ammassi di radici e di terra che galleggiavano come le famose chimponas del lago di Messico.

Quei galleggianti non erano sempre vuoti. Ora trasportavano una tribú di scoiattoli, ora un coguaro ed ora un giaguaro.

Queste ultime bestie però erano tanto spaventate che si tenevano rannicchiate, col pelame arruffato, senza dimostrare piú alcuna ferocia.

La notte tornava a scendere, quando le acque del fiume giunsero ad infrangersi contro la roccia, muggendo sinistramente.

Don Barrejo guardò l’indiano.

- Orsú, - gli disse, - snoda una buona volta la tua lingua. Credi che l’acqua non ci raggiungerà?

La piena è terribile, - rispose il selvaggio figlio delle foreste. - Non ne ho mai veduta una simile.

- Che cosa possiamo fare, dunque?

L’indiano indicò le zattere vegetali che il fiume continuava a trascinare in gran numero e che mandava ad arenarsi sui margini della pianura.

- Sono come le canoe, - disse poi.

- E se ne vanno ad urtare contro qualche roccia?

- Non essere troppo esigente, don Barrejo, - disse Mendoza.

- Seguiamo il consiglio di quest’uomo ed imbarchiamoci.

“Eccone là una che pare abbia proprio l’intenzione di dirigersi verso di noi.”

Il galleggiante indicato dal basco era un zatterone composto di enormi ammassi di radici, strettamente intrecciate, e coperto da ammassi di cespugli che le raffiche, sempre impetuosissime, volta a volta scuotevano.

I tre avventurieri e l’indiano si erano alzati per essere pronti a spiccare il salto.

- Badate che chi cade è perduto, - aveva detto Mendoza. - Contro questa corrente cosí impetuosa non si potrebbe resistere.

Il galleggiante, oscillando pesantemente, s’appressava.

Trovata sul suo corso la roccia, girò su sé stesso senza rompersi e continuò la sua rapida corsa.

Quel momento di sosta era bastato ai tre avventurieri e all’indiano.

Con un gran salto erano andati a cadere in mezzo agli ammassi di cespugli, e subito erano scappati all’opposta estremità del galleggiante, manifestando una viva inquietudine.

- L’hai veduto? - chiese don Barrejo a Mendoza.

- Sí: era nascosto sotto il fogliame.

- E non era solo, - disse De Gussac. - Io ho veduto un altro giaguaro nascosto un po' piú in là.

- Tonnerre!... - esclamò il terribile guascone. - Ecco un bell'equipaggio che vorrei subito gettare in acqua.

- E gli archibugi pel momento sono inservibili, - aggiunse il basco. - Dovremo scaricarli.

- Che si siano imbarcati di loro spontanea volontà per provare le emozioni d'un viaggio acquatico?

- Saranno stati, piú probabilmente, portati via insieme a qualche lembo di foresta.

“Offri loro un ponte, don Barrejo, e vedrai come scapperanno senza curarsi di noi.”

- Faglielo tu colla tua schiena, il passaggio, - ribatté il guascone. - Per mio conto ci tengo alla mia spina dorsale, e checché tu dica, non la metterò mai a portata di quelle bocche.

- Preferisco lasciare quelle due bestie nei loro nascondigli. Mi sembrano cosí spaventate da non avere, per ora, nessun desiderio di attaccarci.

- Se tu mi assicuri che la paura li ha resi mansueti come agnellini, non mi rincrescerebbe andarli a vedere.

- Ed anch’io ci terrei, - disse De Gussac. - E poi un arrosto di giaguaro potrebbe passare, è vero don Barrejo?

- Arrostito sul fiume?... Ah!... De Gussac, la vita dell’avventuriero non è proprio fatta per te, e credo che faresti...

Non poté proseguire. La zattera in quell’istante era stata presa da una serie di gorghi e si era messa a girare vorticosamente su se stessa, ora sprofondando quasi tutta ed ora rimontando impetuosamente a galla, come se spinta da una forza misteriosa.

Quel moto rotatorio era cosí rapido che i quattro uomini, non escluso l’indiano, si sentirono prendere dalle vertigini.

Anche i giaguari, spaventati, soffiavano e sbuffavano sotto i cespugli che servivano loro d’asilo.

- Che sarabanda è questa? - Chiese don Barrejo al basco, il quale non riusciva a tenersi in piedi. - Che siamo vicini alle grandi cascate? Lo sai tu, amico del Darien?

- Non è nulla, - rispose l’indiano, il quale si sforzava di strappare una enorme radice per servirsene come di remo. - Alle cateratte c’è del tempo e non auguratevi, uomini bianchi, di giungervi troppo presto.

- Si tratterà d’un salto, m’immagino.

- Io però ho udito parlare con grande spavento di quelle cateratte, - disse De Gussac. - Si dice che nemmeno gl’indiani, che sono i migliori battellieri, osino tentarne la discesa.

- Giacché sono ancora molto lontane possiamo occuparci dei due giaguari. Io non oserei dormire con questi vicini.

- Francamente nemmeno io, - disse l’ex-taverniere di Segovia - e sarei ben lieto di cacciarli in acqua, prima che la notte scenda.

- E tu, Mendoza? - Chiese don Barrejo. - Il sole sta per tramontare già e fra una mezz'ora l’oscurità sarà completa.

“Ti fiderai tu a dormire con quei poco desiderati vicini?”

- L’impresa non sarà facile, - rispose il basco, tentennando il capo. - Voi forse non conoscete la ferocia sanguinaria dei giaguari.

“È vero che gl’indiani osano talvolta affrontarli armati d’una semplice lancia e difesi da una pelle che serve di scudo.”

- Ed allora noi faremo di meglio, - rispose don Barrejo. - Colle nostre draghinasse scorcieremo loro le unghie, mentre l’amico rosso accarezzerà loro il dorso con quel bastone che è riuscito a strappare.

“Che disgrazia che i nostri archibugi siano ancora pieni d’acqua.

“Andiamo, camerati, prima che sopraggiunga qualche altro malanno.”

L’indiavolato avventuriero stava per dirigersi animosamente verso le due belve, risoluto ad offrire loro una battaglia in piena regola, quando il terreno gli mancò improvvisamente sotto i piedi come se si fosse aperto un trabocchetto.

Quasi nell’istesso tempo si sentí afferrare una gamba da un paio di mascelle e stringere forte gli alti stivali di cuoio.

- Aiuto!... - aveva gridato.

Mendoza e De Gussac, che gli stavano dietro, furono pronti ad afferrarlo per le spalle ed a trarlo fuori.

- Muschio!... - gridò Mendoza. - Vi è un caimano imprigionato fra le radici, che lavora alla sua salvezza.

“Senti questo profumo cosí delizioso ai nasi dei negri?”

- Tonnerre!... - esclamò don Barrejo, sternutando sonoramente - questa non è una zattera bensí un serraglio completo.

“Che l’amico cerchi di montare verso di noi?”

- È probabile, - rispose Mendoza. - Morde le radici in alto invece che sotto.

“Avremo di certo una sua visita.”

- Allora potremmo occuparci di questo messere prima che ci porti via le gambe.

“Ai giaguari penseremo dopo.”

Tutti si erano curvati intorno al buco, il quale in pochi momenti era diventato già molto largo.

Un alligatore, o meglio un jacarè, come vengono chiamati quei ferocissimi sauriani, lungo non meno di quattro metri, si trovava imprigionato fra il fitto strato di radici e faceva sforzi poderosi per uscire e gettarsi nel fiume.

Le sue robustissime mascelle, armate di denti formidabili, mordevano con furore, mentre le zampaccie allargavano a poco a poco la prigione.

Non vi era nulla di straordinario nel trovare un simile bestione cosí rinchiuso.

Durante l’estate, quando gli stagni confinanti coi fiumi si disseccano, i jacarè non trovano di meglio che di seppellirsi nel fango e di rimanervi, in una specie di letargo, anche un paio di mesi.

La vegetazione sempre poderosa in quelle regioni, si stende sugli stagni e colle sue radici forma delle vere reti compatte, dentro le quali rimane preso per la maggior parte delle volte il rettile.

Quando le piene, quasi sempre furiosissime, sopravvengono, strappano quei lembi e li portano nel fiume.

L’isola galleggiante è formata, ma può sempre nascondere delle brutte sorprese per le persone che osano montarla.

Don Barrejo, passato il primo momento d’ansietà, aveva impugnata la draghinassa, dicendo all’jacarè, il quale non cessava di contorcersi con rabbia crescente:

- Signor profumiere, noi non abbiamo affatto bisogno né del vostro muschio, né della vostra coda, perché noi non siamo dei luridi negri.

“Vorreste dirmi dove devo colpirvi?”

- Tu sei pazzo don Barrejo, disse De Gussac. - Vuoi aspettare che salti fuori e che si scagli addosso a noi?

- Lascia che mi goda prima l’agonia di questo bruto.

- Ed i giaguari li hai dimenticati? - chiese Mendoza. - Guarda: i loro occhi cominciano a luccicare.

“Sbrighiamocela con questo.”

In quel momento l’indiano si fece innanzi, armato d’un grosso pezzo di radice che, bene o male, rassomigliava ad un rompi-costole.

- A me l'jacarè, - disse. - Le vostre armi non varranno gran che contro queste bestiacce.

Alzò la mazza, la dondolò innanzi e indietro come per imprimerle maggior slancio, poi la lasciò cadere dentro la buca, balzando subito indietro. Il caimano aveva spalancate le mascelle, poi le aveva subito chiuse. La mazza gli aveva spaccato il cranio, facendoglielo quasi scoppiare.

Si gonfiò aspirando un'ultima boccata d’aria, si sgonfiò allungandosi tutto, poi rimase immobile, mentre le radici si ripiegavano su di lui rinserrandolo come dentro una tomba.

- Tonnerre!... Che colpo, - esclamò don Barrejo. - A vederli non si direbbe che questi indiani posseggano una tale forza.

“L'ha fulminato!...”

- È cosí che se la sbrigano, quando riescono a sorprenderli imprigionati nel fango degli stagni, - disse Mendoza, il quale non cessava di guardarsi alle spalle per paura di un attacco fulmineo da parte dei giaguari. - Sei sempre d'opinione di sbarazzare questa zattera dalle bestiacce che la infestano?

- E me lo domandi? Provati tu a chiudere gli occhi dunque con quei messeri che saranno probabilmente mezzi morti di fame.

- E giacché vi è ancora un barlume di luce, attacchiamo subito, - aggiunse De Gussac.

Il tempo si era rasserenato, poiché, come abbiamo detto, se le tempeste sono formidabili sotto quei climi, hanno una brevissima durata.

I densi vapori, tra i quali rumoreggiava il tuono, erano scomparsi verso levante, ossia in direzione del golfo del Messico, ed il sole tramontava dietro le cime della sierra, in mezzo ad un mare di luce iridiscente.

D'altra parte la luna occhieggiava al di sopra delle foreste, alzandosi rapidamente.

Sotto i cespugli gli occhi fosforescenti dei giaguari, contratti come un i, brillavano stranamente. Pareva però che i due feroci animali, impressionati dalla corsa vertiginosa che la corrente imprimeva alla zattera, non avessero alcun desiderio di tentare un assalto, almeno pel momento.

Che fossero però un terribile pericolo per i quattro amici non si poteva negarlo, poiché la fame poteva spingerli ad un disperato assalto.

I tre avventurieri e l’indiano, risoluti a rimanere i soli padroni del galleggiante, si divisero in due gruppi: De Gussac e Mendoza; don Barrejo e l’uomo rosso armato del suo rompi-costole che aveva servito cosí bene contro il sauriano.

I due giaguari, vedendoli avanzare, si erano messi a brontolare minacciosamente, senza però lasciare i loro rifugi.

Cantano la loro marcia funebre, - disse don Barrejo. - Sanno già di dover finire nel fiume.

- Non scherzare, compare, - disse Mendoza. - Sono piú terribili di quello che tu credi.

- Proviamo dunque le draghinasse dei guasconi e la spada basca sulla pellaccia di quelle bestie, - rispose il terribile guascone. - A me fa l'effetto di andare alla caccia dei gatti.

- Di quel genere!...

- Non dico che non siano molto grossi, però anche le nostre lame sono di tempra superiore.

“Voglio vedere quale effetto produrrà un colpo di draghinassa vibrato all'estremità d'una zampa. Povere unghie!... Vedremo se resisteranno!...”

- Adagio don Barrejo!... Tu vuoi scherzare troppo!... - disse Mendoza.

- Dopo tutto, quelle bestie non sono che dei gattacci, che forse non valgono certi gatti della nostra Guascogna, è vero De Gussac?

L'ex taverniere di Segovia non credette opportuno di rispondere a quella spacconata, degna veramente d'un guascone.

Mendoza però borbottò fra i denti:

- Questo diavolo d'uomo vuole farsi mangiare da quei gattacci. Fortunatamente ci sono io e lo tratterò all'ultimo momento.

Mentre si avanzavano, chiacchierando tranquillamente come se si recassero alla caccia dei conigli, i due giaguari non cessavano di ringhiare.

Accovacciati alla distanza di dieci passi l'uno dall'altro, continuavano a fissare intensamente i cacciatori, sbadigliando e mostrando nel medesimo tempo certe bocche da far rabbrividire.

- Ehi, Mendoza, - riprese il terribile guascone, quando furono a una quindicina di passi dai due animali. - Che siano due maschi o due femmine?

- Vivaddio, è troppo, don Barrejo, - rispose il basco. - Tu scherzi troppo, e colle tue imprudenze un giorno o l'altro finirai nel ventre di qualche...

- Tigre, - disse il guascone, ridendo.

- Se non sarà asiatica, sarà americana.

- Ah, bah!... La pelle dei guasconi è troppo dura da mandarsi giú quando vi è insieme una draghinassa.

“Che brutto lavoro farebbe negli intestini di quelle bestie.”

- Taci!... Ci siamo!

I quattro terribili uomini si trovavano ormai a pochi passi dai due giaguari, sempre in agguato fra i cespugli.

Da una parte e dall'altra vi fu un momento di grande ansietà, poiché i pretesi gattacci del guascone erano degli avversari formidabili.

Don Barrejo, sempre noncurante del pericolo, fu il primo che si mosse, tenendo la draghinassa in linea, come se dovesse bucare sul colpo qualche avversario.

- Signor mio, - disse al giaguaro di destra, che si teneva ostinatamente nel suo covo. - Volete degnarvi di accettare una partita d’onore fra acciaio ben temprato ed unghie non meno solide?

La risposta fu un rauco ruggito che terminò in una specie di miagolío.

- L’ho detto io, - riprese il terribile uomo, - che questi sono dei gattacci.

“Ehi, pelle-rossa, mentre io punzecchio, tu picchia sodo e spacca teste.

“Ti ho già veduto alla prova e so quanto vali, quando hai una mazza fra le mani.”

Si era messo in ginocchio, dinanzi al rifugio della belva, per offrire meno bersaglio all’attacco, il quale non doveva tardare.

Contrariamente alle sue abitudini aggressive e sanguinarie, il giaguaro che don Barrejo si proponeva di scucire con un buon colpo di draghinassa, invece di spingersi innanzi, si mise a rinculare, cacciandosi sempre piú fra i cespugli e le radici.

- Tonnerre!... - esclamò il terribile guascone, facendo descrivere alla sua draghinassa un gran molinello. - I gatti americani sarebbero piú codardi di quelli europei?

“Ehi, amico, si arrischia la pelle qui!... O provare il filo della mia draghinassa o saltare nel fiume.

“Non hai che da scegliere.”

Il giaguaro rispose con urlo feroce, e questa volta si fece innanzi, allungandosi e spalancando le mascelle.

Don Barrejo diede uno sguardo all’indiano, il quale teneva sollevata la sua mazza, pronto ad ammazzare.

- Bada, amico, - gli disse. - Ci attacca!...

Con una pazza temerità si era spinto innanzi, riprendendo la sua linea di combattimento.

- Su, dunque!... Attacca!... - urlò.

Il giaguaro, vedendosi l’uomo a pochi passi, si raccolse su se stesso, poi spiccò un salto immenso passando sopra al guascone e cadendo quasi ai piedi dell’indiano.

Questi, sapendo con che razza di bestie aveva da fare, lasciò calare la sua mazza e d’un colpo abbatté la belva, stordendola.

Don Barrejo si era voltato di colpo.

Piombò come un fulmine sul giaguaro, ormai impotente a rimettersi sulle gambe, e gli vibrò un formidabile colpo di draghinassa attraverso il collo, staccandogli quasi interamente la testa.

Mentre il primo cadeva senza aver potuto far uso delle sue unghie, il secondo, invece di dare indietro, aveva affrontato risolutamente Mendoza e De Gussac. Aveva mandato un urlo ferocissimo e, come il suo compagno, si era disteso, pronto a slanciarsi.

- Guardatevi, De Gussac!... - aveva detto il basco.

- La draghinassa berrà, fra poco, il sangue della tigre americana, - rispose l’intrepido ex-taverniere di Segovia, coprendosi con una serie di fulminei molinelli. - Addosso, Mendoza!... Mi pare che i nostri compagni abbiano già finito.

- Allora, sotto!...

I due valorosi, non volendo mostrarsi da meno del primo guascone e dell’indiano, attaccarono risolutamente a colpo perduto, vibrando stoccate in tutte le direzioni. Il giaguaro, vigorosamente incalzato, dapprima retrocesse, poi a sua volta attaccò coll’impeto fulmineo che sogliono usare quei terribili animali.

Non era certamente una serata favorevole pei giaguari, poiché andò a cadere fra la spada del basco e la draghinassa del guascone.

La prima lo inchiodò fra le radici, mentre la seconda spaccava costole e troncava zampe, riducendolo ben presto all’impotenza.

- Olà, compari, avete bisogno d’aiuto? - gridò in quel momento don Barrejo, accorrendo colla draghinassa ancora sanguinante.

- Abbiamo finito, - rispose il basco.

- Allora giú, dormiamo, e che la zattera vada all’inferno insieme a noi ed ai giaguari.

 

 

Capitolo XXIII

L’ISOLA DELLE TARTARUGHE

 

Il galleggiante, abbandonato a se stesso, continuava la sua corsa rapidissima, oscillando sulle onde della piena.

La luna era sorta ed illuminava la vallata del Maddalena, la quale rimbombava di continui fragori che talvolta diventavano veramente spaventevoli.

Sembrava che l’astro notturno passeggiasse sulle punte estreme dell’alta sierra, versando fasci di luce azzurrognola, la quale si rifletteva nelle onde.

I tre avventurieri e l’indiano, sfiniti dalle fatiche e anche dall’eterna fame, si erano addormentati gli uni vicino agli altri, colla testa appoggiata sui cadaveri dei due giaguari.

La zattera correva da parecchie ore, ora girando e rigirando su sé stessa fra i gorghi della piena, ed ora rollando o beccheggiando, quando un urto spaventevole accadde.

Don Barrejo, che aveva l’abitudine di dormire con un solo occhio, almeno cosí affermava, fu il primo a saltare in piedi, gridando, con voce stentorea:

- Ohé, camerati, abbiamo dato dentro a qualche cosa!...

Le acque del fiume si precipitavano sulla zattera con impeto rabbioso, spazzandola tutta.

Mendoza, De Gussac e l’indiano, svegliati di soprassalto da quelle doccie che minacciavano di affogarli, erano balzati in piedi.

La luna era tramontata ed una profonda oscurità avvolgeva il fiume.

- Don Barrejo!... - gridò il basco. - Che cosa succede dunque?

- Che ne so io?

- Abbiamo fatto naufragio?

- Mi pare, poiché la zattera non si muove piú.

- Corpo d’un cannone!... - esclamò De Gussac. - Ci vorrebbe un fanale!...

- Sí, va a cercartelo, - rispose don Barrejo.

- Che cos’è quella massa oscura che sta dinanzi a noi?

Fu l’indiano che diede la risposta.

- L’isola delle tartarughe.

- Ecco una bella notizia che fa sussultare di gioia i miei intestini, - disse don Barrejo. - Era molto tempo che non mangiavo di quei deliziosi animali.

“Ne troveremo molti, uomo rosso?”

- I miei compatriotti vengono qui tutti gli anni a farne delle enormi raccolte, e la stagione ora è buona.

- Si può sbarcare dunque?

- Non correte alcun pericolo, poiché l’isola si eleva molto sulle acque del fiume.

- E la zattera?

- Lasciamola qui, - disse De Gussac.

- E poi come faremo a riprendere la navigazione?

- Cercheremo di rimetterla in acqua, don Barrejo.

- Spalancate gli occhi e seguitemi. State in guardia, poiché le zattere potrebbero avere condotti qui altri animali.

I quattro uomini attraversarono il galleggiante, il quale subiva delle scosse formidabili, senza però che la massa cedesse, e sbarcarono in mezzo ad un gruppo d’alberi, i quali proiettavano un’ombra foltissima.

- Il terreno è asciutto e sabbioso, - disse don Barrejo, il quale era stato il primo a saltare a terra. - Noi potremo riprendere tranquillamente il nostro sonno senza timore che questa volta sia l’isola che scappi.

- E le bestie? - chiese Mendoza. - L’isola mi pare abbastanza vasta e potrebbe contenere degli animali piú o meno feroci.

- Per mio conto preferirei un buon fuoco, - disse De Gussac.

- La mia esca che è chiusa in una scatoletta d’acciaio è perfettamente asciutta e dorme accanto all’acciarino.

- Bell’idea!... - esclamò Mendoza. - Mandiamo l’indiano a far provvista di legna se vi riuscirà.

- Un uomo che ode e che sente tutto, è anche capace di tutto, - disse Don Barrejo, ridendo.

L’indiano, ormai abituato ai frizzi del guascone, si fece dare da De Gussac la navaja e si avanzò sotto gli alberi.

I tre avventurieri intanto scavavano il suolo sabbioso per preparare il camino. Ad un tratto misero allo scoperto una specie di cono formato di fango bene spalmato e mescolato ad avanzi di vegetali.

- Qui dentro ci deve essere un tesoro!... - esclamò don Barrejo.

- Un tesoro nascosto certamente da qualche banda di filibustieri, - aggiunse De Gussac.

Mendoza era rimasto silenzioso, non condividendo affatto le speranze dei suoi due compagni.

- Scaviamo, De Gussac, - riprese il terribile guascone. - Vedrai che fra poco metteremo le mani su uno strato di dobloni e di piastre.

Tolsero lo strato fangoso che copriva la cima del cono tronco...e misero le mani su uno strato di uova, grosse come quelle di un’oca, ma piú allungate e col guscio molto rugoso e solcato da strani geroglifici.

L’osservazione era stata fatta da De Gussac, il quale aveva accesa l’esca colla speranza di veder la fiammella riflettersi dolcemente sull’aureo metallo.

- Corpo d’un cane strozzato!... - gridò don Barrejo. - Chi può essere stata quella meravigliosa gallina che ha pensato a noi?

“Corbezzoli!... Delle uova, signori miei, e ben grosse. Peccato non avere una padella ed un po' d’olio per prepararci una frittata.”

- Uhm!... Uhm!... - fece Mendoza.

- Che cos’hai tu da brontolare? - chiese don Barrejo, il quale metteva da parte le uova con grande cura.

- Sarà stata poi una gallina a farle? Io non ho mai veduto di quei bipedi a costruirsi di questi nidi.

- Saranno dei bipedi selvaggi ancora sconosciuti. Toh!... Un altro strato di fango.

“Qui sotto ci deve essere ancora qualche cosa.”

Tolse la crosta, con una certa precauzione, per non fare una vera frittata non mangiabile, e mise allo scoperto un secondo e poi un terzo strato di uova, tutte eguali alle prime.

- Qui dentro c’è l’America coi tesori del Perú!... - esclamò.

In quel momento l’indiano comparve, portando un fascio di legna piú o meno secca.

- Ehi, amico, - disse don Barrejo, mentre De Gussac si affannava ad accendere il fuoco. - Sono proprio uova queste, è vero?

- Sí, - rispose il pelle-rossa.

- Di tartaruga?

L’indiano fece un gesto di disgusto:

- Uova di jacarè, - disse poi.

- Di caimano!...

- È un nido di quei rettili che le sabbie, sollevate dal tornado, hanno quasi ricoperto.

- Tonnerre!... Io non avrò mai il coraggio di assaggiarle. E tu, Mendoza?

- Preferisco stringermi ancora la cintura, - rispose il basco.

- Finirai per scoppiare, compare. Eppure i negri le mangiano queste uova.

- Ed anche le code dei caimani, - disse Mendoza.

- Troveremo di meglio, - disse l’indiano. - Aspettate che spunti il giorno.

“Le careta questa notte verranno a depositare le loro uova e voi ne avrete finché vorrete.”

- Un’altra stretta di ventre per ventiquattro ore, Mendoza, - disse il terribile guascone.

A forza di soffiare, De Gussac aveva acceso il fuoco, ed una bella fiamma aveva illuminato il minuscolo accampamento, spandendo intorno a sé un dolce tepore.

I tre avventurieri, che avevano le vesti inzuppate d’acqua e che tremavano di freddo, essendo tutt’altro che calde le notti di certe regioni dell’America centrale, si strinsero intorno all’allegra fiammata, mentre l’indiano ritornava a fare provvista di legna.

Tutta la notte il Maddalena si mantenne straordinariamente gonfio, tanto anzi da far nascere dei gravi dubbi ai tre avventurieri.

- Se anche l’isola viene coperta, buona sera a tutti, - si ripetevano, prestando orecchio ai fragori cupi della corrente.

La calma però che conservava l’indiano li rassicurava non poco.

Quell’uomo che udiva e sentiva tutto, avrebbe dovuto pur lui allarmarsi, mentre invece si manteneva d’un umore eccellente.

- Tu devi udire e sentire qualche cosa, - gli disse don Barrejo, un po' prima che il sole spuntasse.

- Sí, le tartarughe che vengono, - rispose il figlio dei boschi.

- È l’ora della raccolta.

- Delle tartarughe o delle uova?

- Delle une e delle altre.

- Tu sei la Provvidenza.

“Amici, ci siamo arrosolati abbastanza al fuoco, senza riempire i nostri ventri, e quest’indiano ci promette delle colazioni straordinarie.

“Levatevi, poltroni.”

Scaricarono e poi ricaricarono i loro archibugi, temendo di fare qualche brutto incontro e si misero dietro all’indiano, mentre l’aurora spuntava rosseggiando pel tersissimo cielo, ormai sgombro di nubi. L’isola pareva che avesse piú di qualche miglio di lunghezza, e mentre le sue rive erano coperte da altissimi strati di sabbia, la sua parte centrale era coperta da bellissime palme, le quali facevano ondeggiare, ai primi soffi della brezza mattutina, le loro immense foglie dentellate.

L’indiano costeggiò dapprima quei boschetti che erano pieni di parraneca, bruttissime rane nere che hanno le gambe posteriori assai piú lunghe delle anteriori sicché permettono loro di spiccare dei salti cosí alti da poter entrare comodamente nelle case, passando attraverso le finestre; poi il figlio dei boschi, che era diventato prudentissimo, si fermò, indicando agli avventurieri la riva.

Uno spettacolo straordinario si offriva ai loro occhi. Tutte le dune sabbiose erano coperte di testuggini, le quali uscivano dal fiume a battaglioni, disperdendosi subito per l’isola.

Ve n’erano di due specie: le testudos midas, che hanno il guscio verdastro marmorizzato, squamoso, lunghe quasi due metri e larghe uno, e le testudos careta, dal guscio bruno chiazzato di macchie rossastre, irregolari, formato di tredici lamine poste superiormente e dodici inferiormente.

Se le prime sono ricercate per la massa delle loro carni, le seconde non lo sono meno, poiché dal loro guscio si ottiene quella scaglia di tartaruga che serve per mille usi.

- Chi prendere? - chiese don Barrejo, il quale non poteva tenersi piú fermo.

- Aspettiamo, - rispose l’indiano.

- Vuoi lasciare loro il tempo di riguadagnare il fiume?

- Aspetta che abbiano deposto le uova.

- A noi basta un paio di quei bestioni, - disse Mendoza. - Per noi le uova ci sarebbero d’impiccio.

“Addosso, don Barrejo!...”

I tre avventurieri si scagliarono in mezzo ai battaglioni dei rettili, disorganizzandoli e mettendoli in completa rotta.

Due grosse midas però erano rimaste nelle loro mani e non ne desideravano piú, almeno pel momento.

Tornarono trionfanti all’accampamento, alimentarono il fuoco, e gettarono in mezzo ai tizzoni fiammeggianti uno dei rettili.

L’altro era stato capovolto, colle gambe in aria, affinché non potesse fuggire.

- Eccoci radunati all’albergo della tartaruga, - disse don Barrejo, il quale assisteva impassibile ai disperati soprassalti di quella che stava cuocendo viva nel suo guscio. - Anche in questi dannati paesi, della fame se ne prova; però offrono, di quando in quando, delle splendide rivincite.

“Fiuta, Mendoza, ed anche tu, De Gussac. La bestia frigge allegramente nel suo grasso.”

- Dopo tanto digiuno sia la benvenuta, - rispose il basco. - Almeno potrò ora allentare la mia cintura.

- Questa è un’isola veramente meravigliosa, - disse De Gussac. - Io mi ci stabilirei per sempre, se qualcuno si ricordasse di mandarmi, di quando in quando, un barile di Xeres o d'alicante.

- Io preferisco muovere alla conquista del tesoro del Gran Cacico, - rispose don Barrejo. - A te le tartarughe, a me l’oro.

Tonnerre!... Noi chiacchieriamo come scimmie rosse, non pensiamo che a prepararci delle colazioni o dei pranzi e dimentichiamo gli amici. Che i filibustieri siano sempre alle cascate?”

- Buttafuoco e Raveneau non sono uomini da abbandonarci e, se non ci vedranno giungere, manderanno gente a cercarci.

- Ed il marchese?

- Questo è un punto nero che mi cruccia.

- Possibile che quel gentiluomo faccia paura a due delle migliori lame della Guascogna e ad una spada famosa? Eppure devo confessare che non me lo scordo mai.

“Scommetterei che lo rivedremo quanto prima.”

- Se la piena non l’ha affogato assieme a tutti i suoi uomini, - disse De Gussac

- Può essere successo anche questo, ma io, amici miei, vi dico che, riempito il ventre, rimetterò in acqua la zattera.

“Non mi sentirò sicuro finché non mi troverò fra i filibustieri.”

L’indiano, armato d’un grosso piuolo, aveva spinta la testuggine fuori dal fuoco, e dopo d’aver soffiata via la cenere, con un colpo di draghinassa di don Barrejo, vibratole su un fianco, l’aperse, non senza però l’aiuto dei suoi compagni.

Il profumo che tramandò la povera bestia, ben arrostita nel suo grasso, fu tale da far fare a don Barrejo quattro salti.

- Fiuta, fiuta Mendoza!... - gridava. - Fiuta anche tu, De Gussac!...

- Preferisco divorare, - aveva risposto il basco, allentando interamente la cintura.

Se avessero avuto del pane da bagnare nell’olio profumato che friggeva ancora intorno alle carni del rettile, la colazione sarebbe stata certamente migliore.

I tre avventurieri, e soprattutto l’indiano, si rifecero, rimpinzandosi di carne squisitissima, poiché quella delle tartarughe può figurare sulle migliori tavole, malgrado la repulsione istintiva che ispira il disgraziato rettile condannato ad una vera galera fino all’ultimo giorno della sua vita.

Quando furono ben pieni, stavano per allungarsi in mezzo alle erbe, coi piedi rivolti verso il fuoco, per digerire tranquillamente l’arrosto, quando udirono verso l’alto corso del fiume echeggiare delle grida.

Don Barrejo, piú agile di tutti perché piú magro, era stato il primo a saltare in piedi, scaraventando una sequela d’imprecazioni contro i disturbatori della quiete pubblica.

- Chi sono quei signori che vengono a guastarci la digestione? - aveva gridato, dopo una sfilza di tonnerre. - Non si può dunque cacciar giú, dopo quarant’otto ore di digiuno, un pezzo di arrosto, senza che vengano a molestarci?

“Mendoza, noi metteremo alla porta quegli importuni!...”

- È come dire che li getteremo nel fiume, - aveva risposto il basco, alzandosi di cattivo umore. - Si stava cosí bene ora qui!

In pochi salti i tre avventurieri e l’indiano attraversarono il gruppo di cespugli che li divideva dalla loro zattera, e scorsero subito, non certo con molto piacere, una grossa canoa indiana, montata da sette od otto uomini e che la piena portava verso l’isola.

- Tonnerre!... - esclamò don Barrejo, facendo una brutta smorfia. - Gli spagnuoli!...

- Che siano quelli del marchese di Montelimar? - chiese De Gussac.

- Che cosa vuoi che vengano a fare qui gli altri, in questo paese infame? Preferiscono godersi la vita tranquilla della città, mio caro.

- Otto, - disse in quel momento il basco. - Non sono molti e non sono nemmeno pochi.

- Decidi, Mendoza, - disse Don Barrejo. - Fra venti minuti quegli uomini saranno qui.

“Dobbiamo impedire loro lo sbarco a colpi d’archibugio?”

- No, don Barrejo. Preferisco lasciarli prendere terra, aspettare la notte e prendere loro la canoa.

“Indio, spegni subito il fuoco, rimetti sulle sue zampe la tartaruga perché vada a farsi mangiare altrove, e scappiamo verso l’altra estremità dell’isola.”

- E se ci scoprono? - chiese De Gussac.

- Allora daremo battaglia e senza quartiere, - rispose il basco. - Suvvia, gambe!...

Non vi era un istante da perdere. La corrente del Maddalena, ancora gonfio, trascinava velocemente la pesante canoa, che gli spagnuoli stentavano a mantenere in rotta.

- Orsú, - disse don Barrejo, sospirando. - Faremo la digestione correndo, invece che colle ginocchia in aria.

“Questa corsa però me la pagheranno, per le corna del diavolo!”

Si erano messi a correre, preceduti dall’indiano, il quale aveva affermato di conoscere a fondo l’isola e di sapere dove si trovavano anche dei nascondigli. La traversata di quel pezzo di terra, gettato attraverso il Maddalena, fu piú lunga di quanto avessero prima creduto. Non era un isolone ma nemmeno un isolotto.

Sbuffando come foche, poiché si erano presi una strepitosa rivincita sulle colazioni mancate, rimpinzandosi come uruba, giunsero finalmente in un luogo ove pareva che una muraglia di verzura, formata esclusivamente da passiflore gigantesche, chiudesse il passo, e ad un segno dell’indiano sostarono.

Si trovavano su una piccola altura, quindi in buone condizioni per sorvegliare le due correnti del fiume.

- È finita la trottata, tu che senti e odi tutto? - chiese don Barrejo

- In mezzo a queste folte passiflore nessuno verrà a cercarci, se voi vi aprirete un passaggio.

- Povera la mia draghinassa!... Finirà per perdere il filo, ed allora che cosa ne farò della gloriosa arme dei miei avi?

“Senti qualche cosa?”

L’indiano scosse la testa, sorridendo.

- Che siano già sbarcati?

- Lo credo, uomo bianco. Con una corrente cosí rapida sarebbero già passati

- De Gussac, - riprese don Barrejo, dopo un breve silenzio, - tu che possiedi una arma meno gloriosa della mia, provala contro quelle piante e squarcia loro il cuore come se fosse quello del marchese di Montelimar.

L’ex-taverniere di Segovia-Nuova, quantunque ci tenesse anche lui al filo della sua draghinassa, non si fece ripetere due volte la cosa, e si mise a massacrare le passiflore, facendo cadere dall’alto una pioggia di splendidi fiori.

Bastarono pochi minuti per aprire un varco attraverso a quella massa di verzura, poiché anche l’indiano, armato del suo randello, bene o male, aiutava l’ex-taverniere. Scavatosi una specie di nido, che tappezzarono di erbe freschissime, si permisero finalmente di tirare il fiato.

- Paese cane, dove non si può nemmeno digerire un pezzo di tartaruga, - disse don Barrejo, lasciandosi cadere sull’ammasso di erbe.

- Io finirò per tornare a Panama piú magro d’un chiodo...

- Ma carico d’oro, - disse De Gussac, ironicamente.

- Non l’ho ancora in tasca, compare. Abbiamo un certo affare ora da sbrigare, che mi dà non poco da pensare.

- Quegli otto spagnuoli che sono sbarcati? - chiese Mendoza.

- Se sono armati anche essi di archibugi, non avremo molto da ridere, amico.

- Niente canne che tuonano, - disse l’indiano, il quale non perdeva una sillaba.

- Ah!... Tu hai veduto!... - esclamò don Barrejo. - Uomo meraviglioso!...

- Niente canne che tuonano, - ripeté il selvaggio figlio dei boschi.

- Allora avranno da fare con noi.

“Se si fermeranno fino a questa sera porteremo loro via la scialuppa. Vorrei però essere ben sicuro se sono sbarcati o se sono naufragati.”

- M’incarico io, - disse l’indiano. - Io non ho nulla da temere da quegli uomini, non essendo le mie tribú in guerra con loro.

- Va’, mastro Provvidenza, - disse il terribile guascone. - Tu diventi di ora in ora un uomo sempre piú prezioso.

L’indiano si gettò fra il palmito e s’allontanò senza far rumore, mentre i tre avventurieri si spingevano cautamente prima verso l’uno e poi verso l’altro braccio del Maddalena.

Gli spagnuoli dovevano aver preso proprio terra, poiché la corrente non trascinava che dei tronchi d’albero e degli enormi ammassi di radici, le quali fluttuavano come altrettante zattere.

- Se ci fosse fra di loro il marchese di Montelimar? - si chiedeva don Barrejo, mordendosi i baffi grigiastri. - La faccenda del tesoro sarebbe bella e finita.

L’assenza dell’indiano non durò piú di un’ora, e giunse al campo correndo, come se fosse inseguito. I tre avventurieri erano balzati prontamente sui loro archibugi, temendo un attacco.

- Che cosa c’è? - chiesero ad una voce.

- Sono sbarcati, - rispose l’uomo rosso.

- Non era necessario che tu ti affannassi tanto a correre, - disse don Barrejo.

- Ne ho uno alle calcagna.

- Uno di quegli uomini?

- Sí, uomo bianco.

- Sei stato dunque scoperto? - chiese Mendoza.

- No, signore. L’uomo che si avanza forse ha intenzione d'esplorare l’isola o di sparare qualche colpo di fucile.

- È lontano? - chiese De Gussac.

- Sarà qui fra poco.

- E gli altri? - domandò don Barrejo.

- Si sono accampati all’opposta estremità dell’isola, dopo d'aver messo in secco la loro canoa.

- Hanno canne che tuonano?

- Una sola che tiene l’uomo che mi segue.

I tre avventurieri si scambiarono uno sguardo, poi una parola uscí dalle loro labbra: - Prendiamolo!...

Non vi era bisogno di preparare un agguato, poiché l’esploratore o cacciatore che fosse, doveva fatalmente impegnarsi in mezzo a quei meravigliosi ammassi di passiflore, e non esistendo che un solo passaggio, quello aperto dalle draghinasse, non poteva prenderne altri se voleva avanzare. I tre avventurieri si ritrassero nel loro rifugio ed attesero impazientemente il loro uomo.

Udirono prima un colpo di archibugio, poi quel grido che non manca mai di lanciare il cacciatore quando ha messo a terra qualche volatile o qualche capo di selvaggina.

- Non è che a pochi passi da noi, - disse don Barrejo. - Non lasciamogli il tempo di sparare.

Trascorsero alcuni minuti, occupati forse dal cacciatore a raccogliere la sua selvaggina ed a ricaricare l’archibugio, poi nel palmito si udirono a scrosciare le foglie secche che coprivano il suolo.

L’uomo, ignaro del pericolo a cui andava incontro, era giunto dinanzi alla grande massa delle passiflore, e dopo d’aver esitato un po', si era cacciato nel passaggio aperto dalle draghinasse, quantunque tutti quei rami ancora freschi, sparsi al suolo, avrebbero dovuto metterlo in sospetto.

- Attenti!... - sussurrò Mendoza.

Si erano messi due da una parte e due dall’altra del rifugio. L’indiano teneva alzata la sua terribile clava.

Lo spagnuolo finalmente comparve.

Era un giovane soldato, bruno come un andaluso, tutto nervi e muscoli e gli occhi ardentissimi ed irrequieti. Aveva appena messo i piedi dentro il rifugio, quando tre fucili lo presero ad un tempo di mira, mentre don Barrejo gridava, con tono minaccioso:

- Arrenditi, o sei morto!...

Il soldato, quantunque perso alla sprovvista, tentò di fare qualche passo indietro per servirsi anche lui dell’archibugio, ma De Gussac in un baleno gli fu sopra e lo disarmò, mentre don Barrejo ripeteva:

- Arrenditi, o sei morto!...

- Volete assassinarmi? - chiese il soldato, impallidendo. - Chi siete voi? Che cosa fate qui?

- Chi siamo noi sarebbe un po' difficile a spiegarvelo, giovanotto, - rispose don Barrejo, ridendo. - Siamo uomini che non si classificano piú, ma che hanno sulla loro coscienza un bel numero di colpi di spada e d’archibugio.

“Volete sapere che cosa facciamo?

“Niente, signor mio: attendevamo che qualcuno ci portasse un po' di tabacco per scacciare la noia. Voi ne avete: io me lo prendo!”

Il terribile guascone, mentre Mendoza e De Gussac tenevano ben fermo il prigioniero, lo frugò e gli tolse una borsa ben gonfia di tabacco.

- Grazie!... - gli disse.

- Siete un ladro, - rispose lo spagnuolo, fremente.

- Io non mi offendo affatto, quantunque sia un tale uomo, in altre occasioni, da scucire il ventre, con un colpo di draghinassa, ad un insolente pari vostro.

“Pel momento penso che una buona pipata di tabacco, dopo che da una settimana e piú ne sono privo, può valere un’offesa, giovanotto.

“Badate però, che noi siamo di quei terribili filibustieri che hanno fatto tremare e piangere le colonie americane d’oltre oceano.”

Il soldato era tornato ad impallidire. Il nome dei filibustieri era troppo noto per non dare un gran fremito di terrore a qualunque persona avesse appartenuto alla nazione spagnuola.

- Mendoza, - continuò l’implacabile don Barrejo, - disarma quest’uomo e legalo. Bisogna che canti se vuole vivere.

L’indiano strappò da una pianta alcune liane e le porse a De Gussac, il quale si affrettò ad avvolgerle intorno al prigioniero.

- Ora, amico, - riprese don Barrejo, - sciogli la lingua ed apri bene gli orecchi. Ricordati, innanzi tutto, che il fiume è profondo e che la sua corrente non rende piú la preda che le si affida.

- Che cosa volete dunque da me? - chiese il giovane, impressionato da quella minaccia.

- Dirci, innanzi tutto, se fra voi si trova il marchese di Montelimar.

- No, ve lo assicuro: la sua canoa deve essere ancora molto lontana.

- Ah!... Scende il fiume con delle barche? Chi gliele ha fornite?

- Una piccola tribú di indiani pescatori.

- Che avrete, si capisce, prima sterminati.

Lo spagnuolo non rispose.

- Di quei disgraziati non m’importa, - continuò il terribile guascone, dardeggiando sul giovane uno sguardo pieno di minaccia. - Conosciamo troppo bene qual è il vostro sistema, ed il diavolo non ha messo al mondo per niente i filibustieri. Lagrima contro lagrima; colpo di spada contro colpo di spada; strage contro strage; e noi, signor mio, ne abbiamo compiute abbastanza ai vostri danni.

“Ditemi un po' come se l’è cavata il marchese contro i mangiatori di carne umana, che lo avevano assalito.”

- Vittoriosamente.

- E contro la piena?

- Un disastro...

- Continuare, - disse don Barrejo. - Qui bisogna parlare o finire in fondo al fiume.

- La piena ci ha distrutti quasi tutti, - rispose il prigioniero.

- Non vi è che una canoa dietro di noi montata dal signor marchese.

- E da quanti uomini?

- Ah!... Non so!...

- Ehi, amico, allungate la lingua, - disse don Barrejo, sguainando la draghinassa.

- Pochi.

- Il numero.

- Potete annegarmi, se vi piace, io non lo so.

- Noi non siamo dei cannibali per mandare subito all’altro mondo un giovanotto pieno di vita come siete voi. Alla vostra età forse non avevo tanto coraggio, come non ne aveva Enrico IV.

- Non so chi sia, signore.

- Il piú grande re che abbia avuto la Francia, ma ciò non vi deve interessare.

“È solo del marchese di Montelimar che pel momento dobbiamo occuparci.

“Voi dite che scende il fiume con una canoa e che la sua scorta è stata distrutta?”

- Spazzata via dall’inondazione che ci ha sorpresi sulle rive del fiume, prima che tutte le canoe fossero giunte.

- Ecco una notizia importantissima, - disse don Barrejo, colla sua solita calma ironica. - Peccato che non abbia scopato via anche S. E. l’illustrissimo marchese, però di questo affare mi occuperò io.

“Dove siete diretti?”

- Al Darien.

- Per conquistare l’eredità del Grande Cacico, è vero?

- Credo che il signor marchese abbia questa intenzione.

- Sa che dinanzi a lui ha un corpo di filibustieri, capace di contrastargli il passo e di farlo correre fino a Segovia-Nuova, se vi è rimasta una casa?

- Non lo so: si è parlato però di un gruppo di ladroni del mare, venuti dalle sponde dell’oceano Pacifico, diretto verso quelle dell’Atlantico.

“Di piú io non potrei dirvi.”

- Allora lasciate che prenda la vostra pipa e che la carichi. Se fumiamo noi, fumerete anche voi.

Il guascone, unendo i fatti alle parole, tolse al prigioniero la pipa, gliela riempí, gliela accese e si degnò di mettergliela perfino in bocca, dicendo:

- Fumate senza timore: il tabacco spagnuolo è sempre stato eccellente.

“Ah!... Contro chi avete fatto fuoco poco fa? Sarei curioso di saperlo.”

- Su un uccellaccio che è scappato via, benché gli avessi spezzata un’ala.

- Ciò non sarebbe accaduto ad un filibustiere, - disse don Barrejo. - Fumate, e noi, camerati, accendiamo i nostri camini e mandiamo giú l’arrosto di tartaruga.

I tre avventurieri si gettarono al suolo, colle ginocchia ripiegate e si misero a fumare allegramente, in attesa che la notte scendesse per tentare l’audace colpo di mano già progettato.

La giornata passò tranquillissima. L’indiano, sempre alla scoperta, aveva riveduto i sette spagnuoli seduti intorno al fuoco, occupati ad arrostire la tartaruga che gli avventurieri avevano catturata e che non aveva ancora avuto il tempo di guadagnare il fiume.

Verso il tramonto don Barrejo fece legare solidamente, al tronco d’una palma, il disgraziato prigioniero, e disse:

- Andiamo: è l’ora.

 

 

Capitolo XXIV

LA CACCIA AL MARCHESE

 

Gli astri cominciavano a fiorire in cielo, quando i quattro uomini si cacciarono in mezzo al palmito, colla ferma intenzione di portar via la canoa agli spagnuoli.

L'indiano, che udiva tutto e sentiva tutto, era dinanzi e guidava i tre avventurieri attraverso alle cupe ombre proiettate dalle altissime e foltissime piante.

Sulle sabbie che costeggiavano la macchia, le tartarughe cominciavano a ritornare e scavare frettolosamente delle ampie buche, colle robuste zampe anteriori, per seppellirvi dentro le loro uova.

Giungevano sempre in ranghi piú fitti, formando delle lunghe linee che di quando in quando si spezzavano, prendendo delle direzioni trasversali, inoltrandosi dove le dune sabbiose erano piú alte.

La luna cominciava a luccicare in cielo, tingendo le acque del Maddalena di splendidi riflessi argentei, quando l'indiano ed i suoi compagni, i quali si erano avanzati attraverso il palmito con grandi precauzioni, tenendo gli archibugi pronti a far fuoco, scorsero i fuochi del piccolo accampamento spagnuolo.

- Hai veduto dove si trova la scialuppa? - chiese don Barrejo all'indiano.

- L'ho veduta.

- Ah!... Già, mi dimenticavo che tu vedi, senti ed odi sempre, essere straordinario.

“Come potremmo avvicinarci senza farci scorgere?”

- Seguendo le dune di sabbia. Sono abbastanza alte per nascondervi se camminerete curvi.

- Qualcuno la veglierà di certo, - osservò Mendoza.

- Un colpo di draghinassa e tutto sarà finito. Scendiamo verso le dune.

Lasciarono il palmito, il quale cominciava a diradarsi, e scesero verso la riva, gettandosi in mezzo ai monticelli di sabbia formati dalle piene.

Scorgevano benissimo gli spagnuoli seduti intorno a due fuochi, colle pipe in bocca. Un odore di grasso, dovuto probabilmente alla famosa tartaruga, appestava l'aria.

Quel disgraziato rettile doveva aver fatto le spese della colazione e del pranzo. È noto però che gli spagnuoli sono frugali forse piú dei turchi, e che quando sono in campagna si contentano d'una sigaretta a mezzodí, d'una cipolla al tramonto e d'una serenata quando hanno le loro chitarre.

Don Barrejo li contò attentamente.

- Sei, - disse. - Uno è il prigioniero, e l'altro dov'è andato a cacciarsi?

“Quel settimo m'inquieta.”

- Perché, don Barrejo? - chiese De Gussac.

- Perché sono sicuro che è a guardia della canoa.

- Gliela prenderemo sotto il naso, - disse Mendoza. - Avanti, e non levate il dito dal grilletto degli archibugi.

“Vi sarà odore di polvere, ne sono sicuro.”

Tenendosi ben curvi e sempre guidati dall'indiano, si spinsero attraverso le dune, finché ebbero oltrepassati i fuochi degli spagnuoli.

La canoa stava dinanzi a loro, arenata sulla sabbia.

Un urto solo sarebbe bastato a lanciarla nel fiume.

- Vedi qualcuno? - chiese don Barrejo all'indiano, il quale non cessava di esplorare.

- Sí, un'ombra.

- Un uomo?

- Certo.

- Che veglia sulla canoa?

- Lo credo.

- Mendoza, tu sei sempre sicuro dei tuoi colpi, è vero?

- Non sarei un filibustiere, - rispose il basco.

- Spacciami quell'uomo mentre noi gettiamo nel fiume la canoa.

- Mi basta una palla sola.

Si appoggiò ad una duna di sabbia, puntò l'archibugio e mirò con estrema attenzione l'ombra umana che si scorgeva presso la canoa.

Don Barrejo e gli altri si erano slanciati, risoluti ad impegnare una feroce battaglia, pur di conquistare quel galleggiante, ben piú maneggiabile dello zatterone.

Ad un tratto un colpo di fuoco echeggiò cupamente nella notte.

Si udí un grido:

- All'armi!...

L'uomo però era caduto, fulminato dalla infallibile palla del basco.

Nel campo spagnuolo si udirono delle grida.

- Alle armi!... Alle armi!...

I due avventurieri e l'indiano, lesti come scoiattoli, avevano gettato giú in acqua la canoa ed il basco giungeva correndo.

- Ferma!... - urlano cinque o sei voci. - Ferma!...

- Sí, prendeteci, - rispose don Barrejo, afferrando un remo.

Alcuni colpi di pistola rimbombarono, troppo lontani, fortunatamente per gli avventurieri.

- Al largo!... - urlò Mendoza, prendendo l'archibugio di De Gussac, e sparando un secondo colpo.

La canoa, presa dalla corrente sempre rapidissima, balzò sulle onde e si gettò entro il braccio di destra del Maddalena.

Non aveva percorsi cento passi, quando in lontananza, a monte del fiume, si udirono a rombare dei colpi di fuoco.

Un'altra canoa, che spiccava vivamente sulle argentee acque del Maddalena, scendeva la corrente. La montavano solamente tre uomini.

- Che sia il marchese? - si chiese don Barrejo, con una certa ansietà. - Mendoza, sei sempre sicuro dei tuoi colpi?

- Sí, se messer Belzebú non ci metterà la coda, - rispose il basco.

- Io ho troppi conti da saldare con S. E. il signor marchese mio compatriotta.

- Vedremo di chiuderli con tre palle, - rispose il basco, ricaricando l'archibugio. - Sono ancora molto lontani, però sono sempre un buon tiratore anche a duemila passi. Lasciali venire.

I colpi di fuoco si succedevano sulla seconda canoa, che il fiume travolgeva in una corsa rapidissima. I tre uomini, allarmati dalle grida dei loro compagni, dovevano essersi accorti di qualche brutto tiro e sparavano all'impazzata.

Disgraziatamente non erano né filibustieri, né bucanieri, e le palle volavano ben alte.

- A te dunque, Mendoza, - disse don Barrejo, con accento selvaggio. - Il cuore mi dice che in quella barca vi è il marchese, e quel marchese che ha assassinato il mio compatriotta.

- La barca oscilla troppo.

- Compi un miracolo, camerata. Anche le navi dei filibustieri rollano e beccheggiano, eppure le palle giungono sempre a destinazione sui ponti dei galeoni.

Il basco misurò collo sguardo la distanza.

- Mille e cinquecento passi almeno, - disse poi. - Qui ci vorrebbe Buttafuoco.

“Tuttavia cercherò di accontentarti, purché vi teniate tranquilli.”

Si era disteso sul banco di poppa, appoggiando l'archibugio sul bordo. La canoa spiccava sempre nitidissima sul fiume argenteo, su cui la luna rovesciava i suoi raggi.

- Ci sei? - chiese don Barrejo, il quale pareva in preda ad una strana agitazione.

- Taci!... - rispose Mendoza. - Non mi seccare in questo momento terribile.

“Non so se il marchese si trovi in quella canoa, ma sento che la canna del mio archibugio lo cerca.

“Anch'io odio quell'uomo che ha fatto appiccare il famoso Corsaro rosso.

“Tacete tutti!...”

Don Barrejo, De Gussac ed anche l'indiano erano diventati muti e non si curavano piú della loro imbarcazione che la corrente portava sulle sue ondate violente.

Stavano curvi sul tiratore meraviglioso, spiando ogni sua mossa.

La fiumana continuava a rumoreggiare sinistramente.

Mendoza due volte alzò l'archibugio bestemmiando, contro la furia dei flutti, poi sparò.

- Mancato, - disse. - Dammi il tuo archibugio, don Barrejo e prepara anche il tuo De Gussac. Li proverò tutti tre.

“Non parlate.”

Prese il fucile che il terribile guascone gli porgeva e riprese la mira, mentre la canoa continuava a rimbalzare.

Si udí un secondo sparo seguíto da un urlo. I tre uomini erano diventati due.

- Che sia il marchese che è caduto? - chiese don Barrejo.

- La luna è splendida, eppure i miei occhi non arrivano fino a quella canoa, cosí bene da distinguere le persone.

Il guascone si volse verso l'indiano:

- Tu che vedi tutto, che senti tutto e che odi tutto, sapresti dirmi se l'uomo che è caduto è un giovane od un vecchio?

Il pelle-rossa lo guardò come si guarda un pazzo, poi scrollò le spalle dicendo, con una leggiera punta ironica:

- Io non sento e non vedo piú niente.

- Spara, Mendoza!...

- Sei preso da una vera furia di sangue? - chiese il basco.

- Là vi è il marchese.

- Chi te lo ha detto?

- Nessuno, eppure anch'io qualche volta sento come questo indiano.

In quel momento due lampi balenarono sulla prora della canoa.

Si rispondeva alla feroce provocazione del basco, però, come abbiamo detto, solo i filibustieri ed i bucanieri potevano sparare a tanta distanza, con qualche probabilità di successo.

La mira però era stata abbastanza esatta, poiché gli avventurieri udirono distintamente il miagolío dei grossi proiettili usati in quell'epoca.

- Rispondi, dunque, - disse don Barrejo.

- Calma, compare, - disse Mendoza. - Se vuoi provare tu, ti cedo il posto.

- In questo momento non saprei fare assolutamente nulla.

- Vivaddio, quel marchese ti ha scombussolato, mio povero amico.

- Lo confesso. Proviamo il tuo fucile.

- Sarà forse meglio, - rispose Mendoza.

Tornò ad allungarsi sul banco e mirò a lungo i due uomini che montavano la canoa e che ormai non rispondevano piú al fuoco come se avessero esaurite le loro munizioni. Lo sparo si ripercorse lungamente sotto le nere boscaglie che fiancheggiavano il fiume, facendo saltare fuori dall'acqua parecchi caimani. Mendoza si era passata una mano sulla fronte, la quale si era coperta di sudore.

- Eppure, - disse, - io sono uno dei migliori archibugieri della filibusteria e quasi mai ho mancato ai miei bersagli umani.

- C'è dunque il diavolo in quella barca!... - esclamò don Barrejo, profondamente impressionato.

- Sí, vi è quel demonio di marchese là dentro, - rispose il basco, con voce alterata. - De Gussac, datemi il vostro archibugio.

Dopo un minuto un altro sparo echeggiò, ed i tre avventurieri e l'indiano mandarono un grido di trionfo.

Un altro era caduto nel fondo della scialuppa e probabilmente per non rialzarsi piú mai.

Il terzo rimaneva ritto a prora, come se volesse sfidare il fuoco. Il suo vestito tutto nero spiccava sinistramente fra la gran pioggia lunare.

- Ancora un colpo, Mendoza, - disse don Barrejo.

Il basco osservò attentamente quell'uomo il quale pareva che assumesse, di momento in momento, almeno agli occhi degli avventuri, delle proporzioni gigantesche.

- Quello non cadrà, - disse. - Il diavolo deve proteggerlo.

Sparò tre colpi provando tutti gli archibugi, ma l'uomo nero rimase immobile sulla prova della scialuppa. Nessun proiettile l'aveva probabilmente sfiorato.

Mendoza lasciò cadere l'ultimo archibugio, dicendo:

- Solo il ferro potrà uccidere quell'uomo. Non oso piú far fuoco.

In quel momento avvenne un urto che fece cadere gli avventurieri gli uni su gli altri.

- Che cosa c'è ancora? - chiese don Barrejo all'indiano, il quale era stato piú lesto ad alzarsi.

- Ci siamo arenati su un altro isolotto, - rispose l'uomo rosso, - e mi pare che la prora si sia sfondata, poiché vedo entrare dell'acqua.

- È questa la notte fatale degli ultimi filibustieri!... - esclamò il basco.

L'indiano aveva detto il vero.

La canoa, troppo vecchia e troppo tarlata, non aveva resistito ad un secondo arenamento, e la sua prora si era spaccata contro un masso emergente fra le sabbie dell'isolotto.

- Sbarchiamo, - disse don Barrejo. - Vedremo di accomodarla piú tardi, se ci sarà possibile.

La tirarono in secco perché la corrente non la portasse via, e balzarono sulla sabbia. Quell'isolotto non misurava che un centinaio di metri di lunghezza su cinquanta di larghezza, e sul suo suolo vegetavano magramente dei puglices.

I tre avventurieri si erano stretti l'uno contro l'altro, fissando intensamente la scialuppa montata dall'uomo nero.

La scialuppa, abbandonata a se stessa, veniva spinta verso l'isolotto. Doveva fatalmente arenarsi.

Passarono dieci o quindici minuti, poi l'investimento sulle sabbie successe. L'uomo che la montava non aveva nemmeno traballato alla scossa. Sbarcò lentamente, senza affrettarsi, e mosse incontro ai tre avventurieri, che lo guardavano con crescente spavento, dicendo con voce ironica:

- Era tempo che vi raggiungessi.

- Il marchese Montelimar!... - avevano esclamato i filibustieri, retrocedendo.

- Sí, sono proprio io, - rispose il vecchio gentiluomo, incrociando le braccia sul petto e guardandoli bene in viso. - Osereste ora assassinarmi?

- Signor marchese, - disse don Barrejo, - anche voi avete tentato di appiccarmi, e sarei già partito da tempo per l'altro mondo, senza l'aiuto d'un mio compatriotta.

- Che io ho ucciso, - disse il gentiluomo, freddamente. - Chi tradisce deve pagare.

- Sul corpo però di quel disgraziato sergente io ho pronunciato un giuramento.

- Quale? - chiese il marchese, sorridendo sempre ironicamente.

- Di vendicare un giorno la sua morte.

- Nessuno ve lo impedisce, signor mio. Ho una spada anch'io al fianco, ed i Montelimar sono sempre stati abili spadaccini.

- Non come i piccoli nobiluzzi della Guascogna, - disse don Barrejo, il quale aveva ripresa tutta la sua audacia. - Ed ora ve lo proverò.

“Signor marchese, avete dinanzi a voi tre buoni spadaccini che si misureranno uno ad uno contro di voi.

“Tanto peggio per chi cade.”

- Ah!... Mi offrite una cavalleresca partita d'armi!...

“Non vi credevo tanto gentiluomo.”

- Cosí imparerete meglio a conoscere i guasconi, se non sarà troppo tardi per voi, signor di Montelimar. Io voglio provare l'acciaio di Francia contro il rinnegato che impugnerà una Toledo.

- E finissima, amico.

- Tanto meglio.

- E bucherà terribilmente.

- Ah!... Bah!... La vedremo, signor marchese, - disse don Barrejo.

Poi, facendo un leggiero inchino, aggiunse:

- Domando di provare la mia draghinassa guascone contro la vostra Toledo.

Il marchese sfoderò la sua spada la quale, percossa dalla luna, mandò un lampo abbacinante.

- Sarete il primo che farete il grande viaggio, - disse.

- Basta con le chiacchiere, signor marchese: battiamoci fino alla morte.

“Fatemi largo, amici, e se io cadrò, cercate, colle vostre spade, di vendicarmi.”

Si erano messi in guardia, a cinque passi l'uno dall'altro.

Il fiume rumoreggiava lungo le sponde dell'isolotto; gli uccelli notturni lanciavano attraverso i boschi il loro grido malinconico e spaurito; la luna, nella pienezza del suo splendore, declinava lentamente dietro le vette dell'alta sierra.

De Gussac e Mendoza si erano messi da parte, tenendo le spade in pugno, per pervenire qualunque sorpresa da parte del marchese.

L'indiano, appoggiato alla sua clava, guardava con viva curiosità i combattenti. Fu il marchese che pel primo portò una terribile botta al guascone, gridandogli:

- Assaggia questa!... È dei Montelimar!...

Don Barrejo che, come abbiamo detto, aveva ripreso tutto il suo sangue freddo dinanzi al pericolo, fu pronto alla parata e rispose con una fulminea stoccata di seconda, gridando:

- È questa è dei guasconi.

I merletti che orlavano la giubba di seta del marchese, volarono in brandelli, all'altezza della cintura.

- Ah!... - esclamò il gentiluomo, con il suo irritante sorriso sardonico. - Non credevo che i guasconi fossero cosí forti.

- Oh!... Ne sentirete ben altre delle stoccate, signor marchese, - rispose don Barrejo, rimettendosi prontamente in guardia. - Nel mondo sono due le terre che creano i migliori spadaccini: l'Italia e la Guascogna, ed io ho l'onore di essere figlio di quest'ultima.

“Quando vorrete, vi aspetto.”

Il Montelimar, invece di assalire, stese la sua superba lama di Toledo, dirigendo la punta contro don Barrejo e batté due volte, coi piedi, l'invito.

- Potreste aspettarmi un anno, signor marchese, - disse il guascone, - perché io quando mi batto ho la buona abitudine di aspettare sempre l'attacco dell'avversario, e vi confesso che non ho mai avuto da pentirmene.

“La vostra guardia è splendida ma non potrà durare fino al sorgere del sole.”

- Ostinato!... - urlò il marchese.

- Signor mio, difendo la mia pelle.

Il marchese scattò, portando a don Barrejo un colpo di terza, che se l'avesse côlto l'avrebbe mandato subito a passeggiare fra i celesti cimiteri dei guasconi, se il taverniere d'El Moro non si fosse salvato, saltando indietro.

- Mi scappi? - ruggí il marchese.

- Niente affatto, signor di Montelimar, - rispose don Barrejo. - Cerco di conservare la mia pelle per vedere se la torricella del mio miserabile castelluccio si erge ancora orgogliosa o se è diroccata.

“Non so però se voi rivedrete le grosse torri del castello dei Montelimar”

- Tanto forte vi credete?

- Diavolo!... Ve ne sono altri due dietro di me, coi quali dovrete, cavallerescamente, fare i conti, se io avrò la disgrazia di cadere. Ciò però io non credo, almeno per ora, poiché ho conosciuto il giuoco dei Montelimar.

- Lo credete? Ebbene, aspettate!...

Il marchese si era bruscamente curvato verso terra, come per raccogliere una manata di sabbia e scagliarla negli occhi del suo avversario.

Mendoza, accortosene a tempo, si era slanciato innanzi colla spada tesa, gridando:

- Alto là, signor marchese!... Qui si disputano delle vite, ma non si devono assassinarle vigliaccamente.

“Se toccate ancora la sabbia vi giuro che la mia spada vi passerà attraverso il corpo fino alla guardia.”

- Voi siete in quattro, - disse il marchese, con voce rauca.

- Uno si batte e gli altri tre stanno guardandovi.

Il marchese si morse le labbra a sangue e si rimise in guardia.

Don Barrejo non si era mosso: aspettava l'attacco su una parata di seconda.

- Orsú, signor marchese, - disse. - Riprendiamo il nostro divertimento?

- Quando vorrete, se vi spingerete all'attacco.

- Se vi ho detto che non ne ho l'abitudine. Assalite, ed io mi difenderò. Siete d'altronde padronissimo d'infilzarmi come un beccafico.

- Ah!... Non volete muovervi?... - urlò il marchese, esasperato.

- No!... - Rispose don Barrejo.

Il marchese fece balenare in aria, tre o quattro volte, la sua spada, come se cercasse un buon punto dove immergerla senza il pericolo d'un arresto.

Don Barrejo, fermo come una rupe, aspettava.

Mendoza e De Gussac si erano avvicinati, per non perdere nulla di quel terribile combattimento che doveva finire colla morte dell'uno o dell'altro avversario.

Vedendo il guascone affatto tranquillo e padrone assoluto del suo ferro, cominciavano a sperare in una vittoria.

Il marchese, dopo quei molinelli, aveva attaccato risolutamente, a corpo perduto, spingendosi audacemente sotto la draghinassa che gli minacciava il petto.

Per qualche minuto vi fu uno scambio di stoccate, date e parate abilmente da una parte e dall'altra, poi il marchese, che non era riuscito ad aprirsi un varco attraverso la draghinassa del guascone, balzò indietro, dicendo con voce un po' alterata:

- Siete ben forte.

- Tutti i guasconi sono cosí, - rispose don Barrejo.

- Oh!... Non cantate però ancora vittoria. Ho ben altri colpi da tirare e che vi faranno sudar sangue.

- Potreste anche ingannarvi, signor marchese. Anche i guasconi hanno le loro bòtte segrete e finora non ne ho usata alcuna.

- Che cosa aspettate, dunque?

- Il buon momento.

- Vedremo se ve lo lascerò scegliere.

Per la seconda volta il marchese si spinse all'assalto, con una foga che un giovanotto gli avrebbe invidiata, e ritentò di far passare la punta della sua spada sulla draghinassa.

Fatica inutile: il suo ferro incontrava sempre il ferro dell'avversario, tenuto da una mano veramente poderosa.

- Avanti le bòtte dei guasconi, - urlò, esasperato. - Vediamo una buona volta!...

Attaccava sempre con furore, deciso, a quanto pareva, a farsi uccidere, ma anche ad uccidere prima di cadere.

Per un altro minuto i ferri scrosciarono, lampeggiando ai raggi della luna, poi il guascone, che fino allora si era limitato sempre a parare, per ben conoscere il giuoco dell'avversario, si spinse a sua volta innanzi, e dopo d'aver fatto un arresto, portò sul marchese un colpo di prima, forzandogli il ferro.

Montelimar aveva dato indietro, comprimendosi, con una mano, il petto.

- Signor marchese, - disse don Barrejo, - siete ferito, mi pare.

- Bah!... Una semplice graffiatura che ora vi farò pagare cara.

- Volete riposarvi un momento?

- Un Montelimar non accetta simili generosità da un pari vostro.

- Signore!... Ho uno stemma anch'io.

- Che avete trascinato nel fango, imbrancandovi coi filibustieri. Se sono questi i piccoli gentiluomini della Guascogna, vi faccio i miei complimenti.

Don Barrejo era diventato pallidissimo e aveva piantati i suoi occhi in quelli del marchese.

Mendoza e De Gussac non fiatavano, attendendo, con angoscia, l'ultima stoccata. L'indiano conserva la sua solita impassibilità.

Questa volta fu il guascone, che contrariamente alle sue abitudini, si gettò impetuosamente contro il marchese, vibrandogli tre o quattro stoccate l'una dietro l'altra, che lo costrinsero a rompere.

- Bisogna finirla!... - urlò ferocemente don Barrejo.

Il marchese, dinanzi alla furia di quegli attacchi, continuava a rompere, mentre a pochi passi da lui rumoreggiava il fiume.

Pareva che non si fosse accorto che aveva alle spalle un altro nemico.

Don Barrejo continuava a caricare. Dai due ferri, poderosamente percossi, si sprigionavano, di quando in quando, delle scintille.

Se il guascone però era famoso, anche il marchese era uno spadaccino da far paura. Indietreggiava ma parava sempre, con rapidità fulminea, ribattendo le bòtte del suo avversario.

Ad un tratto mandò un grido di furore.

Aveva messo il piede sinistro in acqua e si trovava contro il fiume. Con un assalto furioso tentò di riacquistare il posto perduto, quando una terribile stoccata gli squarciò il cuore.

Il guascone aveva fatto il suo colpo.

Il marchese rimase un momento diritto, con gli occhi sbarrati, il volto congestionato, poi si lasciò andare dentro il fiume.

- Morto!... - esclamarono Mendoza e de Gussac, accorrendo.

- Questo Montelimar non ce lo rivedremo piú mai dinanzi, - rispose don Barrejo, con voce alterata.

La corrente si era impadronita del cadavere. Lo fece girare due o tre volte su sé stesso, poi un gorgo inghiottí il disgraziato gentiluomo. In quell'istesso momento la luna si era offuscata come si fosse abbrunata per la morte del terribile vecchio.

I tre avventurieri sostarono a lungo sulla riva del fiume, colla speranza di veder rimontare a galla il cadavere e seppellirlo fra la sabbia dell'isolotto, e cosí sottrarlo alla voracità dei caimani, già molto numerosi sul Maddalena.

- Il diavolo se l'è portato via, - disse De Gussac.

Né don Barrejo, né Mendoza risposero. Quei due forti uomini, che avevano sfidato il fuoco di tante battaglie, parevano costernati.

L'indiano nel frattempo aveva rimessa a galla la scialuppa del marchese, dicendo:

- Uomini bianchi, partiamo: io odo il rombo delle cascate.

“Domani mattina, e forse prima, noi vi giungeremo.”

I tre avventurieri presero posto nell'imbarcazione, senza scambiarsi una parola. L'indiano aveva preso le pagaie e guidava con mano sicura, essendo gli uomini rossi quasi tutti insuperabili battellieri.

Avevano percorso duecento passi, seguendo il filo, ancora gonfio, dalla corrente, quando scorsero, attraverso la luce lunare che era tornata a scintillare purissima, uno stormo di uccellacci neri.

- Gli urubu, - disse De Gussac. - Hanno fiutato il cadavere del marchese.

Quasi nell'istesso momento, a pochi passi da loro, un gorgo spingeva alla superficie il gentiluomo, facendolo roteare su sé stesso rapidamente.

- È dunque il demonio quell'uomo!... - urlò don Barrejo, levando la draghinassa. - Dovevo tagliargli la testa!...

Il cadavere era nuovamente scomparso, mentre gli urubu, delusi nelle loro speranze, si innalzavano nella purissima atmosfera, strepitando.

 

 

Capitolo XXV

IL TESORO DEL GRAN CACICO

 

L'indomani, assai prima dello spuntare del sole, la scialuppa si fermava sulla riva, sulla quale fiammeggiavano innumerevoli fuochi.

Le cateratte del Maddalena non erano che a poche centinaia di passi ed i salti d'acqua, spaventosi a vedersi, producevano un fragore tale da impressionare qualunque uomo per quanto fosse stato coraggioso.

I filibustieri stavano là, con Buttafuoco, Raveneau de Lussan e la contessina di Ventimiglia, tutti occupati a costruire, con dei rami e dei giunchi, dei grandi panieri.

Invano avevano cercato di oltrepassare la cascata, seguendo le rive. Rupi spaventevoli e abissi senza fondo li avevano arrestati proprio quando si trovavano a pochi passi dal Darien.

L'accoglienza fatta ai tre prodi, dopo tanti giorni d'assenza, come si può immaginare, fu calorosissima. Quello però che piú gradirono fu una stretta di mano della contessina.

- Ora siamo liberi, - disse don Barrejo a Raveneau ed a Buttafuoco, - poiché il marchese è morto e conduciamo con noi un suddito del defunto Cacico.

“Non tardiamo piú oltre ad entrare nel Darien, ora che nessuno ci ostacolerà la marcia.”

- Quando avremo discesa la cascata, non perderemo né un giorno né un minuto, - rispose il capo dei filibustieri. - Io non avevo previsto un cosí grande ostacolo.

- Sperate di superarlo?

- Lo speriamo mercé certi panieri di mia invenzione. La discesa sarà però spaventosa e vi posso dire che molti dei miei uomini preferirebbero ammazzarsi piuttosto che subire una cosí tremenda prova.

- Se vorrete saremo io e Mendoza a fare pei primi la prova. Siamo buonissimi nuotatori e anche uomini da sapercela cavare sempre, anche nelle piú disastrose condizioni.

- Ho veduto come siete giunti qui dopo tante avventure, - rispose Raveneau. - Vi calcolavamo già morti.

- Noi!...

- Impiccati dal marchese di Montelimar.

- Mentre, signor Raveneau, il marchese ha dovuto fare i conti colla mia draghinassa, in un duello cavalleresco, come si usa nel nostro paese.

“Se la sorte gli è stata contraria, io non so che cosa farci.”

- I guasconi sono sempre guasconi, in qualunque angolo del mondo si trovino, - disse Buttafuoco, il quale assisteva al colloquio. - Quel Montelimar, d'altronde, ci aveva già dati troppo fastidi.

“Sia pace alla sua anima.”

Intanto la fabbricazione dei panieri procedeva rapidissima. Erano specie di ceste, profonde un metro e mezzo, e della circonferenza di uno, rinforzate con liane.

Ognuna doveva contenere due uomini.

Prima però di affidarsi alla terribile cascata, i filibustieri, che in fondo ci tenevano alla loro pelle, specialmente ora che stavano per mettere le mani sulle favolose ricchezze del Gran Cacico, avevano fatto una serie di esperimenti per vedere se potevano fidarsi di quei galleggianti di nuova specie.

Ne avevano cosí lanciati cinque o sei, mettendovi in fondo dei grossissimi sassi che potessero, su per giú, pesare quanto due uomini ed avevano constatato che avevano tutti disceso felicemente la cascata, rovesciandosi solo dopo il salto.

Essendo i filibustieri tutti abilissimi nuotatori, d'un bagno non si preoccupavano.

Al momento però di tentare la grande prova, un vero spavento aveva invaso tutti quegli uomini che pur erano abituati a guardare in viso la morte.

Quel grande salto di piú di venti metri e che finiva poi in una rapida, era tale da impressionare tutti. Era soprattutto il rombo spaventevole, che saliva dall'abisso, che dava una forte scossa agli animi.

I panieri erano pronti, abbastanza bene verniciati con resine di pino, ma nessun uomo si presentava per entrarvi.

Fortunatamente vi erano i due guasconi senza paura e Mendoza.

- Giacché gli altri non si decidono, proviamo noi, - aveva detto il primo. - Dopo tutto non si tratterà di prendere che un brutto bagno, è vero, Mendoza?

Il basco fece una smorfia.

- E se i panieri si spaccano contro le roccie e noi venissimo scaraventati attraverso alla cascata senza piú nessun rifugio?

- Tu avrai mille ragioni, compare, ed io ne ho altrettante. Vuoi che torniamo indietro ora che il Darien sta dinanzi a noi?

“Io credo che tutta questa faccenda finirà, come al solito, benissimo.

“De Gussac parte coll'indiano e tu con me.”

- Volete proprio dare l'esempio? - chiese Raveneau, il quale pareva pure in preda ad una profonda impressione di terrore.

- Ma sí, signor mio, i guasconi ed i baschi vanno sempre avanti a tutti.

- Se riuscite, vi raccomando di stare attenti alla contessa di Ventimiglia che s'imbarcherà con Buttafuoco.

- La pescheremo quasi al volo, ve lo assicuriamo, - rispose don Barrejo.

Poi, alzando la voce, gridò:

- Imbarcate!...

Due panieri forniti di pertiche, erano stati messi in acqua.

Il guascone numero uno e Mendoza salirono nel primo, facendolo affondare col loro peso fino a metà; De Gussac e l'indiano montarono sull'altro.

I filibustieri, entusiasmati da tanta prova di coraggio, avevano gridato per tre volte:

- Urrah per la Guascogna e per la Biscaglia!

La contessina di Ventimiglia, assai commossa, aveva salutato i quattro audaci, facendo sventolare il suo fazzoletto.

- Via!... - gridò don Barrejo, prendendo una delle due pertiche. - Andiamo a vedere che cosa si trova sotto la cascata.

I panieri furono lasciati andare e trascinati rapidamente verso il salto, il quale ruggiva spaventosamente lanciando cortine d'acqua polverizzata.

I quattro uomini cercavano di dirigersi alla meglio e soprattutto di non perdere l'equilibrio, essendo quei panieri formati di scorza d'albero leggiero.

Ad un tratto, quando meno se l'attendevano, si trovarono sopra il salto. Nessuno aveva potuto trattenere un grido di orrore nel contemplare lo spaventoso spettacolo.

L'acqua della fiumana si precipitava, ruggendo, attraverso i canali, come fosse ansiosa di uscire da quella strettoia e di riprendere il suo corso tranquillo. I due panieri rotearono un po', presi dalle controcorrenti, poi furono scaraventati con grande impeto.

Decisamente i guasconi ed il basco avevano una fortuna straordinaria, poiché si trovarono, senza sapere il come, sotto la rapida ed ancora dentro i panieri, i quali avevano meravigliosamente resistito alla terribile prova.

Si spinsero verso la riva, manovrando furiosamente le pertiche, e di là fecero segno ai filibustieri che li guardavano dall'alto delle rocce, di tentare a loro volta la prova.

Fu quello il segnale delle partenze.

Sotto la direzione di Buttafuoco si formarono parecchie piccole flottiglie, collegate fra loro con forti liane, affinché gli uomini potessero portarsi aiuto a vicenda.

Il gran salto ingoiava panieri ad ogni istante, poiché ormai tutti avevano fretta di raggiungere il basso della rapida.

Non tutti però uscivano salvi e alcuni rimanevano sfracellati in fondo alla cascata insieme alle persone che li montavano. Altri invece si rovesciavano e i filibustieri, perché valenti nuotatori, riuscivano ancora a salvarsi, perdevano però il frutto del loro bottino che dalle sponde del Pacifico avevano gelosamente conservato.

Raveneau de Lussan, nelle sue memorie, fa una descrizione emozionante che mette i brividi.

I piú arditi della banda, - scriveva, - tutto che avvezzi a sfidare ogni sorta di pericoli, tremavano come fanciulli gettando gli occhi su quei mostruosi salti da dove l'acqua si scaraventava, con impeto irrefrenabile, giú nel profondo.

All'avvicinarsi di esse era d'uopo d'immensi sforzi da parte dei naviganti, per declinare alla sponda piú vicina.

Se ciò riusciva prendevano i panieri, che erano piú o meno malmenati, e ne levavano le poche provviste e le armi che avevano potuto conservare; se sfuggivano, i filibustieri si gettavano a nuoto aiutati dai compagni che li avevano preceduti.

Dopo due ore, tutta la banda si trovava accampata sul margine d'un bosco, fra grandi falò prontamente accesi per asciugare le polveri, innanzi tutto, e la carne secca, l'unico commestibile che possedevano, avendo ormai consumato ogni cosa.

La contessa di Ventimiglia, la quale aveva affrontata la terribile prova con grande animo insieme a Buttafuoco, si trovava nel campo.

Come ne avevano l'abitudine, i piú rinomati filibustieri si radunarono a consiglio per decidere sul da farsi.

Prevalse subito l'opinione di mandare l'indiano, con una scorta di dodici uomini armati, nei grandi villaggi delle tribú del Gran Cacico, per avvertirle che l'erede attesa era finalmente giunta e che aspettava l'omaggio dei suoi sudditi alla frontiera del suo stato.

Era d'altronde l'unica decisione da prendersi, potendo quei fieri guerrieri allarmarsi per l'avanzata di tanta gente e tendere, nelle grandi foreste, delle disastrose imboscate.

L'indiano, avvertito dalla decisione presa, partí senza indugio, fiero di guidare una scorta di dodici uomini bianchi armati tutti delle canne che tuonano.

Per tre giorni il campo rimase senza notizie della piccola spedizione, e già Raveneau e Buttafuoco cominciavano ad inquietarsi, quando verso il mezzodí del terzo, l'indiano ed i filibustieri si mostrarono, accompagnati da sessanta guerrieri armati d'archi e di rompi-costole e guidati dall'yunko, il piú vecchio e reputato stregone di tutte le tribú.

La lingua spagnuola era famigliare anche ai selvaggi, i quali non potevano trafficare con nessun altro popolo, pena l'incendio dei villaggi ed il sequestro delle derrate, quindi Raveneau e Buttafuoco s'intesero subito col potente individuo che dalla morte del Gran Cacico guidava le tribú.

La contessina di Ventimiglia fu condotta sotto una capanna di frasche e mostrò a tutti i guerrieri il tatuaggio che portava sulla spalla destra, formato da un triangolo con sette stelle racchiudenti un serpentello rosso.

La prova ormai era chiara, lampante, poiché il misterioso tatuaggio, conosciuto solo dagli stregoni della nazione e dai piú famosi guerrieri, non poteva in nessun modo essere stato falsificato, specialmente da una donna che giungeva dai mari dove il sole sorgeva.

- Tu sei quella che noi da tanto tempo aspettavamo, - disse l'yunko alla contessina. - D'altronde anche senza quel segno tu possiedi i lineamenti e gli occhi ardenti del defunto Cacico.

“Noi tutti siamo quindi pronti ad obbedirti.”

- La raccolta delle uova d'oro è assicurata, - mormorò don Barrejo, il quale si trovava presente alla prova con Buttafuoco e Raveneau. - La fortuna della mia taverna è assicurata.

I guerrieri costruirono una specie di lettiga con rami d'albero e liane, vi gettarono sopra le pelli di giaguaro e di coguaro che portavano dietro le spalle ed alzarono la reginetta, mandando il loro formidabile urlo di guerra.

Tutti i filibustieri li accompagnavano, impazienti di vedere le favolose ricchezze del Gran Cacico.

La traversata dei grandi boschi fu compiuta felicemente. In ogni villaggio ove la contessina giungeva, riceveva subito l'omaggio dei nuovi sudditi, ed i filibustieri avevano viveri in grande quantità.

- Questa è una vera marcia trionfale, - disse don Barrejo a Mendoza ed a De Gussac. - Vorrei che durasse sei mesi almeno.

“Non credevo che questi selvaggi, che fino a pochi anni fa erano ancora dei formidabili mangiatori di carne umana, fossero diventati cosí gentili.

“Ah!... Quei Ventimiglia hanno avuto sempre una fortuna indiavolata.”

- Tu però non vorresti essere stato né il Corsaro Verde, né il Rosso, - gli rispose il basco, - poiché non saresti qui a riempirmi gli orecchi delle tue eterne chiacchiere.

- Colle mie chiacchiere ti ho condotto però ben lontano. Parlano molto i guasconi, ma agiscono anche molto.

- Ed i baschi no, forse?

- Uhm!... Uhm!... - fece don Barrejo, ridendo.

- Furfante, quando avrai aperto un nuovo albergo verrò a trovarti e farò il possibile per tagliarti un orecchio.

- Diventi un antropofago, compare? È vero che siamo sulla terra degli ex-mangiatori di carne umana.

Il buon basco credette opportuno rispondere con un'allegra risata, alla quale fece eco anche De Gussac.

L'indomani la truppa giungeva al grande carbet della nazione, ossia al grosso villaggio che teneva, sotto di sé, con pugno di ferro, tutti gli altri minori dispersi in quell'immenso paese.

Le accoglienze, come si può immaginare, furono entusiastiche.

Migliaia e migliaia di guerrieri scortarono la nipote del defunto Gran Cacico, dando segni della piú pazza gioia, fino alla grande capanna reale.

I filibustieri furono allogati in altre dimore, accordando loro il diritto di mettere le mani su tutti i viveri che vi si trovavano. Se ne approfittassero si potrebbe fare a meno di dirlo.

Alla presenza di tutti i capi dei villaggi, il terzo giorno del suo arrivo, perché cosí voleva la consuetudine, la contessina ed i filibustieri venivano condotti entro una spaziosa caverna, dove si trovava l'oro a monti.

Erano milioni di piastre, in pepite ed in polvere, che il Gran Cacico aveva lasciato alla nipote.

Fu un caso, se don Barrejo, vedendosi dinanzi a cosí colossali ricchezze, non impazzí.

Si trattava ora di trasportare fino alla costa quel tesoro, ma la gente non mancava per preparare casse o vuotare alberi e trasformarsi poi in portatori.

Il golfo del Messico d'altronde era vicino ed i filibustieri potevano approfittare dei corsi d'acqua, avendo messo gl'indiani a loro disposizione un numero sufficiente di barche per contenerli tutti ed il tesoro insieme.

Dopo tre altri giorni la contessina, ormai troppo civilizzata per vivere in mezzo a quei selvaggi, nominava il suo successore nella persona d'un famoso guerriero che era stato intimo amico del Gran Cacico.

L'ora della partenza finalmente suonò. L'eredità, rinchiusa in tronchi d'albero scavati accuratamente, fu imbarcata su della grosse piroghe montate da robusti battellieri indigeni, che non temevano le rapide.

Migliaia d'indiani, profondamente commossi, scortarono fino al fiume la loro reginetta che non dovevano certo piú rivedere.

La separazione fu dolorosa per tutti. Anche i rudi filibustieri, abituati a trattare gl'indiani come bestie feroci, apparivano commossi non meno dei selvaggi.

Cinque giorni piú tardi le imbarcazioni salutavano finalmente le acque del gran golfo messicano.

La grande traversata dell'istmo, cosí pericolosa in quei tempi, era stata compiuta con pochissime perdite d'uomini, rimasti per la maggior parte sotto la terribile cascata.

Furono mandati dei filibustieri a visitare le baie della costa e la fortuna che fino allora li aveva protetti, non mancò nemmeno all'ultimo momento, poiché fu scovata una nave olandese che una tempesta aveva costretta a cercare un rifugio contro le furie dei venti e del mare.

Fu subito noleggiata ed avviata verso la Giamaica, porto allora aperto a tutte le nazioni e dove era piú facile trovare degli imbarchi per l'Europa, poiché quella fertilissima isola manteneva frequenti rapporti colla madre patria.

Un milione di piastre fu messo a disposizione dei filibustieri da parte della contessina alla quale ne rimanevano molti altri.

A don Barrejo ed a Mendoza ne erano toccate abbastanza per mettere su l'albergo che sognavano, avendo deciso di dare per sempre un addio alle avventure e di mettersi in società anche con De Gussac.

La storia è finita.

La contessina di Ventimiglia dopo qualche giorno s'imbarcava per l'Europa con una scorta di filibustieri i quali non sospiravano che il momento di far ritorno ai loro paesi.

I due guasconi ed il basco s'imbarcavano su una caravella per raggiungere qualche porto dell'istmo e di là rientrare la traversata, attraverso però a paesi noti e molto popolati.

Colla partenza di Buttafuoco e di Raveneau de Lussan, finí la razza di uomini tanto singolari e tanto formidabili, né vi fu piú congrega dei Fratelli della Costa, né sul golfo del Messico, né sull'Oceano Pacifico, né piú gente filibustiera, sebbene per molti anni ancora s'udisse, nei mari dell'America Centrale, parlare di pirati che qualche volta emularono colla loro arditezza, i terribili combattenti che tanto male avevano recato alla Spagna.

Una partita si era formato un rifugio nell'isola della Provvidenza, che è una delle Bermude e due donne fra essi si resero singolarmente celebri, avendo diviso sempre valorosamente coi loro compagni le fatiche ed i pericoli, per puro amore di bottino. Furono entrambe inglesi.

Vestivano gli abiti del loro sesso, unendovi i lunghi calzoni da marinaio; portavano sciolti i lunghi capelli, al fianco una sciabola, sotto il petto due pistole e negli abbordaggi usavano una specie d'azza della forma stessa che avevano usata in guerra gl'inglesi nei tempi di mezzo. La storia ha ricordato i loro nomi: Maria Read ed Anna Bonay, però non ha detto come finirono.

Probabilmente finirono appiccate insieme ai loro compagni.