IL MALMANTILE RACQUISTATO

 

di

 

PERLONE ZIPOLI (Lorenzo Lippi)

 

con gli Argomenti di Antonio Malatesti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FIRENZE

 

G. BARBÉRA, EDITORE

______

 

1861.

 

 

AVVERTENZA.

 

Quando Salvator Rosa lamentava il traviamento degl'ingegni poetici con quel suo celebre detto che le metafore avean consumato il sole, gli spiriti allegri dei veri begli umori toscani incominciavano a sentire non poco fastidio di certe svaporate piacevolezze e di un artifiziato modo di ridere e voler far ridere che ancor prevaleva. Gli anagrammi, i bisticci, i riboboli, i monnini, la lingua jonadattica, e la maccheronica, che per qualche tempo avean formato la delizia di molte menti volgari, se eran cose non ancora cadute in discredito, riconoscevansi tuttavia non esser la vera e natural fonte del ridicolo e del burlesco. In questo tempo Lorenzo Lippi scriveva il suo Malmantile, e dove pure avesse voluto, gli sarebbe stato impossibile tenere una via affatto nuova in questo genere. Egli dunque, abbandonate le scimunitaggini patenti, prese nel dettare il suo bizzarro poema, dei modi proverbiali più vulgati e più veramente ridevoli; ma non sì però che la sua lingua restasse affatto immune di quelle maniere artifiziose e convenzionali, che se sono accettate per qualche tempo, non giungono mai ad esser parte e patrimonio della favella nazionale. Questo fece che il Malmantile, per essere inteso in ogni sua frase, non dico già fuori di Toscana, ma fuori di Firenze, e forse anche in Firenze stesso, ebbe bisogno di commento, appena uscito alla luce. Principal ragione di ciò furono quei rimasugli (il nostro autore direbbe quei spiragli) di lingua jonadattica che il Poeta non seppe o non volle o non potè del tutto evitare.

Molti non sanno (e in questo non deploriamo davvero la loro ignoranza) che cosa sia questa lingua jonadattica. Onde, ci è forza darne una qualche idea, perchè siano più facilmente intese alcune espressioni di questo caro poemetto, le qual per buona ventura sono abbastanza rare. Consisteva pertanto questa pretesa lingua jonadattica nell'adoperare le parole più strane, o anche le comuni, in un senso affatto diverso da quello che hanno, senza che corra la minima analogia o attenenza tra l'idea espressa dalla parola adoperata, e l'idea che si vuole esprimere, purchè però una o due sillabe della voce che si adopra trovinsi anche nella parola che si dovrebbe adoprare se non si parlasse in lingua jonadattica. Citeremo un solo esempio che leggesi anche nel Lippi. Per dire che un tale aveva finito tutto il suo avere, cercavasi una parola che avesse la sillaba fi, e trovato Fillíde, si diceva: Il tale ha fatto Fillide. Lunghe scritture o cicalate, come gli autori stessi le chiamavano, ci restano ancora di queste scimunitaggini, le quali, benchè prestissimo cadessero in meritata dimenticanza, lasciarono tuttavia nel comune linguaggio una qualche orma di sè in certe locuzioni proverbiali universalmente accettate, del cui significato è impossibile rendersi una ragione. Tale è per esempio, il modo anche oggi comunissimo, Uscir del seminato. Noi lo adoperiamo come equivalente di Uscir di tèma: in origine però esso valeva, come può vedersi al c. I st. 28 Uscir di senno. E perchè mai aveva questo valore? Perchè seminato e senno cominciano con due lettere uguali. Men degna di derisione era certo la lingua furbesca o zerga, nella quale almeno fra la parola adoperata e la sua corrispondente in lingua comune correva una qualche analogia.

Il Malmantile, dunque, altro di jonadattico non contiene che queste poche frasi proverbiali. Ma e per queste e per molte altre maniere di lingua, che sono o furono solo toscane, e alcune anche fiorentine soltanto, questo graziosissimo poemetto non potrebbe essere inteso in ogni sua parte per tutta Italia, se non fosse accompagnato di note e dichiarazioni.

È celebre forse quanto il Malmantile, o almeno egualmente noto fra i letterati, il commento che ne fece il Minucci, accresciuto e talvolta rettificato dal Biscioni; e sparso qua e là di argute osservazioncelle del Salvini. Questo commento considerato in sè stesso è uno stupendo lavoro di arte filologica, ma considerato come dichiarazione del Malmantile è sproporzionato ed esuberante; è tale, che fa rifuggire dalla lettura del poema chiunque gli studi filologici non fa sua delizia, Mossi da questo pensiero, abbiamo creduto di provvedere al comodo di molti, ristringendo quanto era possibile il sullodato commento. Abbiamo seguíto quasi sempre l'interpretazione di quei due celebri espositori e dove lo credevamo opportuno, per ragioni che sarà facile intendere ad ogni luogo, abbiamo citato i loro nomi, spezialmente se riportavamo le loro stesse parole. Nel dichiarare voci e maniere, ci è parso meglio essere abbondanti che scarsi; ma dico abbondanti nel numero non nella lunghezza delle dichiarazioni,

A molti Toscani parrà strano che siansi spiegate certe parole e frasi che sono di uso comunissimo in Toscana: ma credo che mi bisogni appena di far considerare che ai non Toscani ho principalmente pensato di render servigio «nel dichiarare, (dirò colle modeste parole del Minucci) oppure confondere ed intrigare quello che nella presente opera ho stimato poco intelligibile fuori della nostra città di Firenze.»

Precede al Poema la vita che scrisse del Lippi il Baldinucci; la quale sebbene, si diffonda in cose artistiche più che l'indole di questo libro non comporti, ha nondimeno, abbondanti notizie sul Malmantile, e ritrae, meglio di ogni altra la natura e l'ingegno del nostro Poeta; come quella che fu dettata da chi lo ebbe familiare amico.

 

 

ANTELMO SEVERINI

 

 

VITA

DI LORENZO LIPPI

SCRITTA

DA FILIPPO BALDINUCCI.

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Nacque Lorenzo Lippi, pittore e cittadino fiorentino, l'anno 1606. Il padre suo fu Giovanni Lippi, e la madre Maria Bartolini. Attese ne' primi anni della fanciullezza alle lettere umane; ma poi, stimolato da una molto fervente inclinazione che egli aveva avuto dalla natura alle cose del disegno, deliberò, senza lasciar del tutto le lettere, di darsi a quello studio: e per ciò fare, si accomodò appresso a Matteo Rosselli, pittore non solo di buon nome, ma altrettanto pratico nel suo mestiere, e caritativo nel comunicare a' giovani la propria virtù, ed insieme con esso ogni buon costume civile e cristiano. Era in questo tempo il giovanetto Lorenzo di spirito sì vivace e focoso, che con esser egli applicato a vari divertimenti, tutti però virtuosi e propri di quell'età, cioè di scherma, saltare a cavallo e ballare, ed anche alla frequenza dell'accademie di lettere; seppe contuttociò dare tanto di tempo al principale intento suo, che fu il disegno e la pittura, che in breve lasciatisi indietro tutti gli altri suoi condiscepoli, arrivò a disegnar sì bene al naturale, che i disegni, usciti di sua mano in quella età, stanno al paragone di molti de' principali maestri di quel tempo. In somma disegnava egli tanto bene, che se e' non fosse stato in lui un amor fisso, che egli ebbe sempre intorno alla semplice imitazione del naturale, poco o nulla cercando quel più che anche senza scostarsi dal vero può l'ingegnoso artefice aggiugner di bello all'opera sua, imitando solamente il più perfetto, con vaghezza di abbigliamenti, varietà e bizzarria d'invenzione, avrebbe egli senza fallo avuta la gloria del primo artefice che avesse avuto ne' suoi tempi questa patria, siccome fu stimato il migliore nel disegnare dal naturale. A cagione dunque di tal suo genio alla pura imitazione del vero, non volle mai fare studio sopra le opere di molti gran maestri, stati avanti di lui, che avessero tenuta maniera diversa, ma un solo ne elesse, in tutto e per tutto conforme al suo cuore: e questo fu Santi di Tito, celebre pittor fiorentino, disegnatore maraviglioso e bravo inventore; ma per ordinario tutto fermo ancora esso nella sola imitazione del vero. Delle opere e disegni di costui fu il Lippi così innamorato, che fino nell'ultima sua età si metteva a copiarne quanti ne poteva avere de' più belli: ed io lo so, che più volte gli prestai per tale effetto certi bellissimi putti, alcuno de' quali (così buon maestro come egli era) non ebbe difficultà di porre in opera quasi interamente, senza punto mutarli. Ammirava il Rosselli suo maestro questo suo gran disegno accompagnato anche da un piacevole colorito: e frequentemente gli diceva alla presenza di altri: Lorenzo, tu disegni meglio di me. Gli faceva, con sua invenzione, disegnare, cominciare, e talvolta finire affatto di colorire alcune delle molte opere, che gli erano tuttavia ordinate: e fra quelle, che uscirono fuori per fatte dal Rosselli, che furono quasi interamente di mano di lui con sola invenzione del maestro, si annoverano i due quadri, che sono nella parte più alta di quella cappella de' Bonsi di San Michele dagli Antinori, per la quale aveva fatto il Rosselli la bellissima tavola della Natività del Signore: e rappresentano, uno il misterio della Visitazione di santa Lisabetta, e l'altro l'Annunziazione di Maria. Ma perchè una pittura ottimamente disegnata, e più che ragionevolmente colorita, tuttochè manchevole di alcuna dell'altre belle qualità, fu sempremai in istima appresso agl'intendenti; acquistò il Lippi tanto credito, che gli furono date a fare molte opere, che si veggono per le case di diversi gentiluomini e cittadini. Fra le altre una gran tavola di una Dalida e Sansone per Agnolo Galli: pel cavaliere Dragomanni, a concorrenza di Giovanni Bilivert, di Ottavio Vannini, e di Fabrizio Boschi, tutti celebri pittori, e allora maestri vecchi, fece un bel quadro da sala: uno pel marchese Vitelli: e pel marchese Riccardi, nel suo casino di Gualfonda, colorì uno spazio di una volta d'una camera, di sotto in su: e pel Porcellini speziale dipinse la favola d'Adone, ucciso dal porco cignale: e fece anche altri quadri di storie, e di mezze figure, che lunga cosa sarebbe il descrivere. Partitosi poi dal maestro, crebbe semprepiù il buon concetto di lui, onde non mai gli mancò da operare. Per uno, che faceva arte di lana, fece un'Erodiade alla tavola di Erode, che fu stimata opera singolare: e l'anno 1639, per la cappella degli Eschini colorì la bella tavola del sant'Andrea in San Friano: e altri molti quadri e anche ritratti al naturale.

Era egli già pervenuto all'età di quaranta anni in circa, quando si risolvè di accasarsi colla molto onesta e civile fanciulla Elisabetta, figliuola di Giovan Francesco Susini, valente scultore e gettatore di metalli discepolo del Susini vecchio, e di Lucrezia Marmi, cugina di Alfonso di Giulio Parigi, architetto e ingegnere del serenissimo Granduca Ferdinando II. Non era ancor passato un anno dopo il suo sposalizio, che al nominato Alfonso Parigi, suo nuovo parente, fu inviata commissione d'Ispruck dalla gloriosa memoria della serenissima arciduchessa Claudia, di mandar colà al servizio di quell'Altezza un buon pittore, onde il Parigi, conoscendo il valore di Lorenzo, diede a lui tale occasione. Si pose egli in viaggio: e pervenutovi finalmente, e ricevuto con benigne dimostrazioni da quella amorevole principessa, si mise ad operare in tutto ciò che gli fu ordinato: e fecevi molti ritratti di principi, dame e cavalieri di quella corte, e altre pitture. E perchè Lorenzo non solamente per una certa sua acutezza nei motti, e per alcune parole piacevoli, che senza nè punto nè poco dar segno di riso, con quel suo volto, per altro in apparenza serio e malinconico, profferiva bene spesso all'occasioni., rendeva amenissima e desiderabile la conversazion sua: e anche perchè egli aveva già dato principio alla composizione della bizzarra leggenda, di cui appresso parleremo, intitolandola la Novella delle due Regine, che poi ridusse ad intero poema, col leggerla ch'ei faceva nell'ore del divertimento a quella Altezza e con certo piacevole e insieme rispettoso modo suo proprio nel conversare co' grandi, seppe guadagnarsi a gran segno la grazia di quella principessa, alla quale, così volendo ella medesima, la dedicò, colla lettera che ci pose a principio di essa, che comincia: Ati figliuolo di Creso. Dimorò il Lippi in quelle parti circa sei mesi, e non diciotto, come altri scrisse; ma essendo in quei medesimi tempi seguíta la morte della Principessa, egli ben favorito e ricompensato se ne tornò alla patria: dove non lasciando mai di fare opere bellissime in pittura, seppe dare il suo luogo e 'l suo tempo alla continuazione del suo poema. La prima cagione di questo assunto suo fu quella che ora io sono per dire, per notizia avuta da lui medesimo.

Aveva il Lippi, fino dalla fanciullezza, avuto in dono dalla natura un'allegra, ma però onesta vivacità e bizzarria, con una singolare agilità di corpo, derivata in lui non solo dal non essere soverchiamente carnoso, ma dall'essersi indefessamente esercitato per molti anni nel ballare, schermire, nelle azioni comiche, ed in ogni altra operazione, propria di uno spirito tutto fuoco, come era il suo; ma non lasciava per questo di quando in quando di esercitare il suo ingegno nella composizione di alcun bel sonetto e canzone in istile piacevole. Coll'avanzarsi in lui l'età, e accrescersi le fatiche del pennello, insieme col pensiero della casa, si andarono anche diminuendo molto il tempo e l'abilità agli esercizi corporali, ma col cessar di questi si andava sempre più augumentando in lui la curiosità de' pensieri, tutti intenti al ritrovamento di un buono e bello stile di vaga poesia. Aveva egli, come si è accennato, non solamente qualche parentela, ma ancora grande amicizia e pratica col nominato Alfonso Parigi, che possedeva una villa in sul poggio di Santo Romolo, sette miglia lontano da Firenze sopra la strada pisana, in luogo detto la Mazzetta, posseduta oggi da Bernardino degli Albizzi, gentiluomo dotato di ottimi talenti e di graziosi costumi: la qual villa è non più di un miglio lontana da quel castello di Malmantile, che oggi per essere in tutto e per tutto vòto di abitatori e di abitazioni, benchè conservi intatte le antiche mura, non ha però di castello altro che il nome. Andava bene spesso il Lippi in villa del Parigi: e nel passare un giorno, andando a spasso, da quel castello, vennegli capriccio, com'egli era solito a dirmi, di comporre una piccola leggenda in istile burlesco la quale dovesse essere, come sogliamo dir noi, tutto il rovescio della medaglia della Gerusalemme Liberata, bellissimo poema del Tasso: e dove il Tasso elettosi un alto e nobilissimo soggetto per lo suo poema, cercò di abbellirlo co' più sollevati concetti e nobili parole, che gli potè suggerire l'eruditissima mente sua; il Lippi deliberò di mettere in rima certe novelle, di quelle che le semplici donnicciuole hanno per uso di raccontare a' ragazzi: ed avendo fatta raccolta delle più basse similitudini, e de' più volgari proverbi e idiotismi fiorentini; di essi tessè tutta l'opera sua, fuggendo al possibile quelle voci, le quali altri, a guisa di quel rettorico atticista ripreso da Luciano ne' suoi piacevolissimi Dialoghi, affettando ad ogni proposito l'antichità della toscana favella, va ne' suoi ragionamenti senza scelta inserendo. Fu sua particolare intenzione il far conoscere la facilità del parlar nostro: e che ancora ad uno, che non aveva (come esso) altra eloquenza che quella che gli dettò la natura, non era impossibile il parlar bene. Ora, perchè spesso accade, che anche le grandissime cose da basso e talvolta minutissimo cominciamento traggono i loro principii, egli, che da prima non avendo altro fine, che dare alquanto di sfogo al suo poetico capriccio, e passar con gusto le ore della veglia, aveva avuto intenzione di imbrattar pochi fogli, de' quali anche già si era condotto quasi al destinato segno, fu necessitato partire per Germania al servizio, come abbiam detto, della serenissima arciduchessa: e con tale sua gita venne ad incontrare congiuntura più adeguata, per dilatare alquanto l'opera sua; perchè, essendo egli colà forestiero e senza l'uso di quella lingua, e perciò non avendo con chi conversare, talvolta, o stanco dal dipingere, o attediato dalla lunghezza de' giorni o delle veglie, si serrava nella sua stanza, e si applicava alla leggenda finchè la condusse a quel segno che gli pareva abbisognare per dedicarla alla serenissima sua signora siccome fece colla citata lettera. Tornatosene poi alla patria, ed avendo fatto assaporare agli amici il suo bel concetto, gli furono tutti addosso con veementi e vive persuasioni, acciocchè egli dovesse darle fine, non di una breve leggenda come egli si era proposto ma di uno intero e bene ordinato poema.

Uno di coloro, che a ciò fare forte lo strinsero, fu il molto virtuoso Francesco Rovai; a persuasione del quale vi aggiunse la mostra dell'armata di Baldone. Agli ufizi efficacissimi del Rovai si aggiunsero quelli di altri amici, e particolarmente di Antonio Malatesti, autore della Sfinge, e de' bei Sonetti, che poi dopo la sua morte sono stati dati alle stampe, intitolati: Brindis de' Ciclopi. Grandissimi furono ancora gli stimoli, che egli ebbe a ciò fare da Salvator Rosa, non meno rinomato pittore, che ingegnoso poeta. Da questo ebbe il Lippi il libro, intitolato: Lo Cunto de li Cunti, ovvero Trattenemiento de li Piccerille, composto al modo di parlare napolitano, dal quale trasse alcune bellissime novelle: e, messele in rima, ne adornò vagamente il suo poema. Chi queste cose scrisse, il quale ebbe con lui intrinseca dimestichezza, e in casa del quale il Lippi lesse più volte in conversazione d'amici quanto aveva finito, a gran segno l'importunò dello stesso: ed ebbe con lui sopra le materie, che e' destinava di aggiungervi, molti e lunghi ragionamenti; tantochè egli finalmente si risolvè di applicarvisi por davvero. Ciò faceva la sera a veglia con suo grandissimo diletto, solito a dire al nominato scrittore, che in tale occasione bene spesso toccava a lui il fare la parte di chi compone e quella di chi legge; perchè nel sovvenirli i concetti, e nell'adattare al vero i proverbi, non poteva tener le risa. E veramente è degno il Lippi di molta lode, in questo particolarmente, di aver saputo, per dir così, annestare a' suoi versi i proverbi, e gli idiotismi più scuri: e quelli adattare a' fatti sì propri, che può chicchessia, ancorchè non pratico delle proprietà della nostra lingua, dal fatto medesimo, e dal modo, e dalla occasione in che sono portati, intender chiaramente il vero significato di molti di loro. E ciò sia detto, oltr'a quanto si potrebbe dire in sua lode, e de' suoi componimenti. Per un giocondissimo divertimento, e ricreazione, nell'ordinazione di cui non ischifò i concetti pure di chi tali cose scrive: aggiunsevi molti episodi col canto dell'Inferno: e finalmente in dodici cantari terminò il bel poema del Malmantile Racquistato, al quale volle fare gli argomenti per ogni Cantare il già nominato Antonio Malatesti.

L'allegoria del suo Poema fu, che Malmantile vuol significare in nostra lingua toscana, una cattiva tovaglia da tavola; e che, chi la sua vita mena fra l'allegria de' conviti, per lo più si riduce a morire fra gli stenti. Nè è vero ciò, che da altri fu detto, che egli per beffa anagrammaticamente vi nominasse molti gentiluomini, ed altri suoi confidenti: perchè ciò fece egli per mera piacevolezza, con non ordinario gusto di tutti loro, i quali con non poca avidità ascoltando dall'organo di lui le proprie rime, oltre modo goderono di sentirsi leggiadramente percuotere da' graziosi colpi dell'ingegno suo. Chi vorrà sapere altri accidenti, occorsi nel tempo che il Lippi conduceva quest'opera, legga quanto ha scritto il dottor Paolo Minucci nelle sue eruditissime Note fatte allo stesso Poema, per le quali viene egli, quanto altri immaginar si possa, illustrato ed abbellito.

Non voglio però lasciar di dire in questo luogo, come un solo originale di quest'opera uscì dalla penna del Lippi, messo al pulito, che dopo sua morte restò appresso de' suoi eredi: ed una accuratissima copia del medesimo, riscontrata con ogni esattezza da esso originale, fu appresso del cavaliere Alessandro Valori, gentiluomo di quelle grandi qualità e doti, di che altrove si è fatta menzione. Questo cavaliere era solito alcune volte fra l'anno di starsene per più giorni in alcuna delle sue ville d'Empoli vecchio, della Lastra, o altra, in compagnia di altri nobilissimi gentiluomini, e del virtuoso cavaliere Baccio suo fratello, dove soleva anche frequentemente comparire Lionardo Giraldi proposto d'Empoli, che all'integrità de' costumi e affabilità nel conversare, ebbe fino da' primi anni congiunto un vivacissimo spirito di poesia piacevole, in stile bernesco, come mostrano le molte e bellissime sue composizioni: ed a costoro fece sempre provare il Valori, oltre il godimento di sua gioconda conversazione, effetti di non ordinaria liberalità, con un molto nobile trattamento di ogni cosa, con cui possa, e voglia un animo nobile e generoso, onorare chichessia nella propria casa. Con questi era bene spesso chiamato il Lippi, e non poche volte ancora lo scrittore delle presenti notizie, che in tale occasione volle sempre essere suo camerata. Veniva Lorenzo ben provvisto colla bizzarria del suo ingegno e col suo poema; con quella condiva il gusto del camminare a diporto, il giuoco, e l'allegria della tavola, mediante i suoi acutissimi motti: e con questo faceva passare il tempo della vegghia con tanto gusto, che molti, che sono stati soliti di godere di tale conversazione, ed io non meno di essi, non dubito di affermare di non aver giammai per alcun tempo veduto giorni più belli.

Ma tornando al poema, ne son poi a lungo andare uscite fuori altre moltissime copie di questa bell'opera, tutte piene di errori; laonde il già nominato dottor Paolo Minucci volterrano, soggetto di quella erudizione che è nota, e che ci ha dato saggio di essere uno de' più leggiadri ingegni del nostro tempo, avendo trovato modo di averla tale quale uscì dalla penna dell'autore, ha poi fatto, che noi l'abbiamo finalmente veduta data alla luce, e dedicata al serenissimo cardinale Francesco Maria di Toscana, coll'aggiunta delle eruditissime Note, che egli vi ha fatte per commissione della gloriosa memoria del serenissimo cardinale Leopoldo, acciocchè meglio si intendano fuori di Toscana alcune parole, detti, frasi, e proverbi, che si trovano in essa, poco intesi altrove che in Firenze.

Non voglio per ultimo lasciar di notare, quanto fu solito raccontare l'abate canonico Lorenzo Panciatichi, cavaliere di quella erudizione che a tutti è nota: e fu, che con occasione di aver con altri cavalieri viaggiato a Parigi, fu ad inchinarsi alla maestà del Re, il quale lo ricevè con queste formali parole: Signore abate, io stavo leggendo il vostro grazioso Malmantile: e raccontava pure l'abate stesso, che la maestà del Re d'Inghilterra fu un giorno trovato con una mano posta sopra una copia di questo libro, che era sopra una tavola: e tutto ciò seguì molti anni prima, ch'e' fosse dal Minucci dato alle stampe.

Tornando ora a parlare di pitture, molte furono le opere, che fece il Lippi; il quale finalmente pervenuto all'età di cinquantotto anni, per l'indefesso camminare, ch'e' fece un giorno, com'era suo ordinario costume, anche nell'ore più calde, e sotto la più rigorosa sferza del Sole, parendogli una tal cosa bisognevole alla sua sanità, avendo anche quella mattina preso un certo medicamento, assalito da pleuritide con veemente febbre, con straordinario dolore degli amici, e con segni di ottimo cristiano, come egli era stato in vita, finì il corso de' giorni suoi: e fu il suo corpo sepolto nella chiesa di Santa Maria Novella nella sepoltura, di sua famiglia. Lasciò due figliuoli maschi, e tre femmine: il primo de' maschi si chiamò Giovan Francesco, che vestì l'abito della Religione Vallombrosana, e Antonio, che vive al presente in giovanile età. Delle femmine, la prima ha professato nel convento di San Clemente di Firenze: la seconda vestì l'abito religioso nel Monte a San Savino: e l'altra fu maritata a Gio. Giacinto Paoli, cittadino Fiorentino, che premorì al marito senza figliuoli.

Fu il Lippi persona di ottimi costumi. amorevole e caritativo; perlochè meritò di essere descritto nella venerabile Compagnia della Misericordia, detta volgarmente de' Neri, che ha per istituto il consolare e aiutare i condannati alla morte: ed in essa fu molto fervoroso. Non fu avido di roba, o interessato: ma se ne visse alla giornata col frutto delle sue fatiche, e di quel poco che gli era restato di patrimonio. Ma perchè tale è l'umana miseria, che a gran pena si trova alcuno, per altro virtuoso, che alla propria virtù non congiunga qualche difetto, possiamo dire che il Lippi, più per una certa sua natural veemenza d'inclinazione che per altro, in questo solo mancasse, e facesse anche danno a sè stesso, in essere troppo tenace del proprio parere in ciò che spetta all'arte, cioè d'averne collocata la perfezione nella pura e semplice imitazione del vero, senza punto cercar quelle cose, che senza togliere alle pitture il buono e 'l vero, accrescono loro vaghezza e nobiltà: la qual cosa molto gli tolse di quel gran nome, e delle ricchezze, che egli avrebbe potuto acquistare, se egli si fosse renduto in questa parte alquanto più pieghevole all'altrui opinioni. In prova di che, oltre a quanto io ne so per certa scienza, per altri casi occorsi, raccontommi un gentiluomo di mia patria, che avendo avuto una volta dì oltre i monti commissione di far fare quattro tavole da altare a quattro de' più rinomati pittori d'Italia; egli una ne allogò, se bene ho a mente, al Passignano, una al Guercino da Cento, ed una ad altro celebre pittore di Lombardia, che bene non mi si ricorda, e una finalmente al Lippi: ed a questo la diede con patto, ch'egli si dovesse contentare di dipignerla secondo quella invenzione che egli gli avrebbe fatto fare da altro valoroso artefice, sì quanto al numero e all'attitudine delle figure, quanto al componimento, abbigliamento, architetture. e simili: e dissemi di più il gentiluomo, che fatta che fu l'invenzione in piccolo disegno, il Lippi si pose a operare, e a quella in tutto e per tutto si conformò con gli studi delle figure: e finalmente condusse un'opera, che riuscì, a parere di ognuno, la più bella di tutte le altre. Potè tanto in Lorenzo quest'apprensione di voler poco abbigliare le sue invenzioni, che non diede mai orecchio ad alcuno che fosse stato di diverso parere: e al dottore Giovambatista Signi, celebre medico, che avendogli fatto fare una Juditta colla testa di Oloferne si doleva ch'e' l'avesse vestita poveramente e poco l'avesse abbigliata; rispose doversi lui contentare ogni qualvolta egli per far quella figura più ricca, le aveva messo in mezzo al petto un gioiello di sì grossi diamanti, che sarebbero potuti valere trentamila scudi: ed esser quell'altro adornamento solo di pochi cenci e di quattro svolazzi. Dirò più, che questo suo gusto tanto fermo nella prima imitazione fece sì che poco gli piacquero le pitture di ogni altro maestro, che avesse diversamente operato, fussesi pure stato quanto si volesse eccellente: e si racconta di lui cosa che pare assolutamente incredibile, ma però altrettanto vera, e fa: che egli passando di Parma al suo ritorno d'Ispruck, nè meno si curò di punto fermarsi per vedere la maravigliosa cupola e le altre diversissime pitture che sono in quella città, di mano del Coreggio. E sia ciò detto per mostrar quanto sia vero che a quel professore di queste belle arti, che intende di giugnere a maggiori segni della virtù, della stima e dell'avere, fa di mestieri talvolta, ricredendo il proprio parere, agli esempi di coloro accostarsi, che a giudizio universale de' più periti già hanno ottenuto il possesso di eccellenza sopra di ogni altro artefice.

 

 

 

PRIMO CANTARE

Argomento

Marte, sdegnato perchè il Mondo è in pace,

corre, e dal letto fa levar la suora:

e in finto aspetto, e con parlar mendace

mandala a svegliar l'ire in Celidora.

Fa la mostra de' suoi Baldone audace:

indi all'imbarco non frappon dimora:

e per via narra con che modo indegno

Bertinella occupato avea il suo Regno.

 

1

Canto lo stocco e 'l batticul di maglia,

onde Baldon sotto guerriero arnese,

movendo a Malmantile aspra battaglia,

fece prove da scriverne al paese,

per chiarir Bertinella e la canaglia

che fu seco al delitto in crimenlese,

del fare a Celidora sua cugina,

per cansarla del regno, una pedina.

2

O Musa che ti metti al Sol di state

sopra un palo a cantar con sì gran lena,

che d'ogn'intorno assordi le brigate,

e finalmente scoppi per la schiena;

se anch'io, sopr'alle picche dell'armate,

vòlto a Febo, con te vengo in iscena,

acciocch'io possa correr questa lancia,

dammi la voce, e grattami la pancia.

3

Alcun forse dirà ch'io non so cica,

e ch'io farei il meglio a starmi zitto.

Suo danno; innanzi pur; chi vuol dir dica:

fo io per questo qualche gran delitto?

S'io dirò male, il Ciel la benedica;

a chi non piace, mi rincari il fitto.

Non so s'e' se la sanno questi sciocchi,

ch'ognun può far della sua pasta gnocchi.

4

Mi basta sol se Vostra Altezza accetta

d'onorarmi d'udir questa mia storia

scritta così come la penna getta,

per fuggir l'ozio, e non per cercar gloria:

se non le gusta, quando l'avrà letta,

tornerà bene il farne una baldoria;

chè le daranno almen qualche diletto

le monachine quando vanno a letto.

5

Offerta gliel'avea già, lo confesso;

ma sommene anche poi morse le mani,

perchè il filo non va nè ben nè presso,

e versi v'è che il Ciel ne scampi i cani.

Ma poi ch'ella la vuole, ed io ho promesso,

non vo' mandarla più d'oggi in domani;

chè chi promette, e poi non la mantiene,

si sa, l'anima sua non va mai bene.

6

Ma che? siccome ad un che sempre ingolla

del ben di Dio, e trinca del migliore,

il vin di Brozzi, un pane e una cipolla

talor per uno scherzo tocca il cuore;

così la vostra idea, di già satolla

di que' libron che van per la maggiore,

forse potrà, sentendosi svogliata,

far di quest'anche qualche corpacciata.

7

Già dalle guerre le provincie stanche,

non sol più non venivano a battaglia;

ma fur banditi gli archi e l'armi bianche

ed eziam il portare un fil di paglia:

vedeansi i bravi acculattar le panche,

e sol menar le man sulla tovaglia;

quando Marte dal ciel fa capolino,

come il topo dall'orcio al marzolino:

8

chè d'averlo non v'è nè via nè modo,

se dentr'ad un mar d'olio non si tuffa:

e reputa il padron degno d'un nodo,

che lo lascia indurire e far la muffa,

così Marte, che vede l'armi a un chiodo

tutt'appiccate, malamente sbuffa,

che metter non vi possa su le zampe,

e che la ruggin v'abbia a far le stampe.

9

Sbircia di qua di là per le cittadi

nè altre guerre o gran campion discerne,

che battaglie di giuoco a carte e a dadi,

e stomachi d'Orlandi alle taverne.

Si volta, e dà un'occhiata ne' contadi,

che già nutrivan nimicizie eterne;

e non vede i villan far più quistione,

in fuor che colla roba del padrone.

10

Ond'ei, che in testa quell'umor si è fitto,

che l'uom si crocchi pur giusta sua possa;

senza picchiar nè altro, giù sconfitto

l'uscio a Bellona manda in una scossa.

Niun fïata perciò, non sente un zitto,

perch'ella dorme, e appunto è in sulla grossa;

poichè la sera avea la buona donna

cenato fuora e preso un po' di nonna.

11

Le scale corre lesto come un gatto:

poi dal salotto in camera trapassa:

e vede sopra un letto malrifatto,

ch'ell'è rinvolta in una materassa;

sta cheto cheto, e con due man di piatto

batte la spada sopr'ad una cassa:

la qual s'aperse, ed ei, vistevi drento

robe manesche, a tutte fece vento.

12

Ma non fa sì che la sorella sbuchi,

di modo ch'ei la chiama e le fa fretta:

la solletica, e dice: Ovvía, fuor bruchi:

lo spedalingo vuol rifar le letta.

S'allunga e si rivolta come i ciuchi

ella, che ancor del vino ha la spranghetta:

e fatto un chiocciolin sull'altro lato,

le vien di nuovo l'asino legato.

13

Oh corna! disse il re degli smargiassi:

e intanto le coperte avendo preso,

le ne tira lontan cinquanta passi;

ma in terra anch'egli si trovò disteso;

o che per la gran furia egli inciampassi;

o ch'elle fusson di soverchio peso;

basta ch'ei battè il ceffo, e che gli torna

in testa la bestemmia delle corna.

14

Ella svegliata allora escì del nidio:

e dicendo che 'n ciò gli sta il dovere,

e ch'ei non ha nè garbo nè mitidio,

non si può dalle risa ritenere;

cosa ch'a Marte diede gran fastidio:

ma perch'ei non vuol darlo a divedere,

si rizza e froda il colpo che gli duole:

poi dice che vuol dirle due parole.

15

Dì' pur, la dea risponde, ch'io t'ascolto:

hai tu finito ancora? ovvía dì' presto;

ma prima di quei panni fa' un rinvolto,

e gettalo in sul letto, ch'io mi vesto.

Quello non sol, ma quanto aveva tolto

di quella cassa, ei rende, e mette in sesto:

e postosi a seder su la predella,

con gravità dipoi così favella.

16

Sirocchia, male nuove; poichè in terra

veggiam ch'all'armi più nessuno attende;

onde il nostro mestiere, idest la guerra,

che sta in sul taglio, non fa più faccende.

Sai che la Morte ne molesta e serra,

che la sua stregua anch'ella ne pretende;

e se non se le dà soddisfazione,

la ci farà marcir 'n una prigione.

17

Bisogna qui pigliar qualche partito,

se noi non vogliam ir nella malora:

ed un ce n'è, ch'è buono arcisquisito,

qual è, che si risvegli Celidora,

c'ha dato un tuffo nello scimunito,

mentre di Malmantil si trova fuora;

e passandola sempre in piagnistei,

pigra si sta, come non tocchi a lei.

18

Ma come quella, pare a me, che aspetta

che le piovano in bocca le lasagne,

senza pensare un Jota alla vendetta,

la sua disgrazia maledice, e piagne.

Or mentre ch'ella in arme non si metta

per racquistar lo scettro e sue campagne,

molto male per noi andrà il negozio,

che muoiam di mattana e crepiam d'ozio.

19

Chi sa? forse costei se ne sta cheta,

perch'ella vede esser legata corta;

che s'ell'avesse un dì gente e moneta,

tu la vedresti uscir di gatta morta;

ma qui Baldon farà dall'A alla Zeta;

so quel ch'io dico, quando dico tórta:

ritrova tu costei, sta' seco in tuono;

chè quant'al resto, anch'io farò di buono.

20

Vattene dunque, e in abito di mago,

dopo il formar gran circoli e figure,

conchiudi e dille che tu se' presago

che presto finiran le sue sciagure:

e quel tuo corazzon pelle di drago,

imbottito d'insulti e di bravure,

mettile indosso; chè vedra'la poi

far lo spavaldo più che tu non vuoi.

21

Bellona, che ha il medesimo capriccio

di far braciuole, va col sarrocchino

e col bordone e un bel barbon posticcio,

sembrando un venerabil pellegrino:

e fatto di parole un gran piastriccio,

esser dicendo astrologo e indovino,

che vien di quel discosto più lontano,

la ventura le fa sopr'alla mano.

22

Ove dopo mostrato ogni accidente

di tutta la sua vita pel passato,

soggiunge che per via d'un suo parente

in breve tempo riavrà lo Stato;

però si metta in arme, chè un presente

le fa d'un panceron, che, ancorchè usato,

ripara i colpi ben per eccellenza:

e poi piglia da lei grata licenza.

23

Già il termine di un anno era trascorso

che Celidora avea perduto il regno;

quando non pur le spiacque il caso occorso,

ma volle un tratto ancor mostrarne segno.

Perciò richiesto ai convicin soccorso,

che un piacer fatto non avrian col pegno,

e tenevano il lor tanto in rispiarmo,

ch'egli era giusto, come leccar marmo;

24

fece spallucce a Calcinaia e a Signa;

ma la pania al suo solito non tenne,

perchè terren non v'era da por vigna.

Calò nel piano, e ad Arno se ne venne,

ove Baldon facea nella Sardigna

vele spiegare e inalberare antenne,

fermato avendo lì, come buon sito,

d'armati legni un numero infinito.

25

Costui, quando Bellona fu inviata

a Celidora, come già s'intese,

da Marte avea avuto una fardata,

che lo tenne balordo più d'un mese:

e gli messe una voglia sbardellata

di far battaglia e mille belle imprese;

ond'egli, entrato in fregola sì fatta,

fece toccar tamburo a spada tratta.

26

Poichè pedoni egli ebbe e gente in sella

tanta, che al fin si chiama soddisfatto;

render volendo il regno alla sorella,

e farle far bandiera di ricatto,

destinò muover guerra a Bertinella,

che a lei già dato avea lo scacco matto:

così con quell'armata e quei disegni,

in Arno messe i sopraddetti legni.

27

Ov'anco in breve Celidora arriva

con armi indosso, ed altre da far fette;

perchè una volta al fin fattasi viva,

ha risoluto far le sue vendette;

chè l'usbergo incantato della diva

l'ha fatta diventar l'ammazzasette:

ed alle risse incitala talmente,

ch'ella pizzica poi dell'insolente.

28

Non così tosto al campo si conduce,

come la suora vuol del dio soldato,

la Marfisa di nuovo posta in luce,

ch'ell'esce affatto fuor del seminato:

e col brando, che taglia, com'ei cuce,

da far proprio morire un disperato,

vuol trucidar ognun, ognun vuol morto:

e guai a quello che la guarda torto.

29

Se guarda, è dispettosa e impertinente:

e sempre vuol che stia la sua di sopra.

Talor affronta per la via la gente,

cercando liti, quasi franchi l'opra.

Ne venga, dice, pur chi vuol nïente;

perocchè chi mi dà che far, mi sciopra.

Giunta, in questa, in un campo pien di cavoli,

n'affettò tanti, che Beati Pavoli.

30

Così piena di fumi, e d'umor bravi,

che te l'hanno cavata di calende,

rivolge l'occhio al popol delle navi,

là dove Brescia romoreggia e splende:

e va per infilarne sette ottavi;

ma nel pensar dipoi, che, se gli offende,

far non potrebbe lor se non mal giuoco,

gli vuol lasciar campare un altro poco.

31

Alfin, deposto un animo sì fiero,

in genio cangia appoco appoco l'ira:

e come un orsacchin che appiè d'un pero

a bocca aperta i pomi suoi rimira;

ferma, impalata quivi come un cero,

fissando in loro il sguardo, sviene e spira:

nè può vivere alfin, se non domanda

ove l'armata vada, e chi comanda.

32

S'abbocca appunto con Baldone stesso:

e sentendo ch'egli ha tai gente fatte,

per rimettere in sesto ed in possesso

una cugina sua, ch'è per le fratte;

ben ben lo squadra, e dice: Egli è pur desso!

Orsù, ch'io casco in piè, come le gatte:

ed esclama dipoi: Quest'è un'azione

che veramente è degna di Baldone.

33

Maravigliato allora il sir d'Ugnano;

e chi sei, disse, tu, che sai il mio nome?

Io ti conosco già di lunga mano,

ella rispose, e acciò tu sappia il come,

Celidora son io del re Floriano,

fratello d'Amadigi di Belpome:

e con tutto che già sieno anni Domini

ch'io non ti viddi, so come ti nomini.

34

S'ell'è, dic'ei, così, noi siam cugini:

e subito si fan cento accoglienze:

ed ella a lui ne rende mill'inchini;

egli altrettante a lei fa riverenze.

Così fanno talor due fantoccini

al suon di cornamusa per Firenze;

che l'uno incontro all'altro andar si vede,

mosso da un fil, che tien chi suona, al piede.

35

Poichè le fratellanze e i complimenti

furon finiti, a lei fece Baldone

quivi portar un po' di sciacquadenti,

o volete chiamarla colazione.

Or mentre ch'ella scuffia a due palmenti,

pigliando un pan di sedici a boccone,

si muove il campo, e sott'alla sua insegna

ciascun passa per ordine a rassegna.

36

E per il primo viensene in campagna

Pappolone, il marchese di Gubbiano:

colui che nel conflitto della Magna

estinse il Gallo e seppellì il Germano.

È la sua schiera numerosa e magna:

e perch'egli è soldato veterano,

ha nell'insegna una tagliente spada

ch'è in pegno all'osteria di Mezzastrada.

37

Bieco de' Crepi, duca d'Orbatello,

mena il suo terzo, che ha il veder nel tatto;

cioè, perch'ei da un occhio sta a sportello,

soldati ha preso c'hanno chiuso affatto.

Son l'armi loro il bossolo e il randello:

non tiran paga, reggonsi d'accatto:

soffiano, son di calca, e borsaiuoli,

e nimici mortal de' muricciuoli.

38

La strada i più si fanno col bastone;

altri la guida segue d'un suo cane;

chi canta a piè d'un uscio un'orazione,

e fa scorci di bocca e voci strane;

chi suona il ribecchin, chi il colascione;

così tutti si van buscando il pane.

Han per insegna il diavol de' Tarocchi,

che vuol tentar un forno pien di gnocchi.

39

Dietro al Duca, che ognun guarda a traverso,

vanno cantando l'aria di Scappino:

ma non giunsero al fin del terzo verso,

che venuto alla donna il moscherino,

fatto a Bieco un rabbuffo a modo e a verso,

gli disse: S'io v'alloggio, dimmi Nino;

perch'io non veddi mai in vita mia

pigliare i ciechi, fuor che all'osteria.

40

Signora, rispos'egli, benchè cieca,

fu però sempre simil gente sgherra:

con quel batocchio zomba a mosca cieca,

senza riguardo, come dare in terra:

sott'ogni colpo intrepida s'arreca,

che non vede i perigli della guerra:

è cieca, è ver; ma pure il pan pepato

è più forte, se d'occhi egli è privato.

41

Ovvia, diss'ella, tira innanzi il cocchio,

e se costoro a guerreggiar son atti,

tienteli pure, e non mi stare a crocchio;

mentr'egli è tempo qui di far di fatti.

Va' dunque, o forte e invitto bercilocchio,

chè i nemici da te saran disfatti;

perchè in veder la tua bella figura,

cascan morti, senz'altro, di paura.

42

Ne segue intanto Romolo Carmari,

cavalier di valore e di gran fama;

ma sfortunato, perchè co' danari,

giocando, egli ha perduto anco la dama.

Colle pillole, date a' suoi erari,

l'affetto evacuò l'Arpia ch'egli ama;

talchè, senz'un quattrino, ammartellato

alla guerra ne va per disperato.

43

Dopo un'insegna nera, che v'è drento

Cupido morto con i suoi piagnoni,

marciar si vede un grosso reggimento

ch'egli ha d'innumerabili Tritoni:

al cui arrivo ognun per lo spavento

si rincantuccia ed empiesi i calzoni:

e da lontano infin dugento leghe

s'addoppiano i serrami alle botteghe.

44

Or comparisce Dorïan da Grilli,

che nella guerra è così buon soggetto,

che metterebbe gli Ettori e gli Achilli,

e quanti son di loro, in un calcetto.

Scrive sonetti, canta ognor di Filli;

e, buon compagno, piacegli il vin pretto;

rubato, per insegna, ha nel Casino

il quattro delle coppe, che ha il Monnino.

45

Fra Ciro Serbatondi, il sir di Gello,

che in Pindo a Mona Clio sostiene il braccio;

Egeno de' Brodetti, e Sardonello

Vasari ch'è padron di Botinaccio,

conducon tanta gente, ch'è un flagello,

da far che le pagnotte abbiano spaccio:

di cui (perchè il mestar diletta a ognuno)

si pigliano il comando a un dì per uno.

46

Di foglio per impresa, un bel cartone

insieme colla pasta egli hanno messo,

dei lor fantocci, i quali da Perlone

soglion copiare, o disegnar dal gesso.

Nel mezzo v'han dipinto d'invenzione

l'impresa lor, nella quale hanno espresso

sulle tre ore il venticel rovaio,

che ha spento il lanternone a un bruciataio.

47

Nanni Russa del Braccio, ed Alticardo

conducon quei di Brozzi e di Quaracchi,

che, perchè bevon quel lor vin gagliardo,

le strade allagan tutte co' sornacchi.

Hanno a comune un lor vecchio stendardo,

da farne a' corvi tanti spauracchi:

e dentro per impresa v'hanno posto

gli spiragli del dì di Ferragosto.

48

Gustavo Falbi, cavalier di petto,

con Doge Paol Corbi or n'incammina

gl'incurabili tutti, e 'l lazzeretto,

gente che uscía di far la quarantina.

Van molti a grucce, in seggiola, e nel letto;

perchè non son ancor netta farina,

fan per impresa in un lenzuol che sventola,

un pappino rampante ad una pentola.

49

Bel Masotto Ammirato anch'egli passa,

lindo garzon, d'ogni virtù dotato:

che può, de' soldi avendo nella cassa,

pisciare a letto, e dire: Io son sudato;

ma per l'ipocondria che lo tartassa,

ei si dà a creder d'essere ammalato;

ma e' mangia, beve, e dorme il suo bisogno,

(Ch'è sino a vespro) e poi si leva in sogno.

50

Collo scenario in mano e il mandafuora,

va innanzi a' nobil suoi commilitoni;

Pancrazio, Pedolino e Leonora

lo seguon con un nugol d'istrioni,

c'hanno un'insegna non finita ancora;

perchè Anton Dei con tutti i suoi garzoni,

in cambio di sbrigar quella faccenda,

è ito al Ponte a Greve a una merenda.

51

Don Panfilo Piloti move il passo,

chè, tracchè per usanza mai sta cheto,

or ch'ei fa moto, fa sì gran fracasso,

ch'io ne disgrado il diavol 'n un canneto.

Assorda il mondo più d'ogn'altro il grasso

Papirio Gola, ch'appunto gli è dreto:

il qual vestì di lungo, e fu guerriero;

perocchè poco gli fruttava il clero.

52

E n'ha fatto con esso de' rammanzi,

che un po' di campanile non gli alloga:

e questa è la cagion, che là tra' lanzi

da soldato n'andò 'n Oga Magoga:

nè quivi essendo men tirato innanzi,

posò la spada, e ripigliò la toga:

e per lo meglio si risolse alfine

tornare a casa a queste stiacciatine.

53

Al che tra molti commodi s'arroge

quel ber del vin, ch'è troppo cosa ghiotta.

Qua birre, qua salcraut, qua cervoge;

a casa mia dicea, del vin s'imbotta;

però finianla: Cedant arma togæ:

io non la voglio, in quanto a me, più cotta:

guerreggi pur chi vuol, s'ammazzi ognuno,

ch'io per me non ho stizza con nessuno.

54

Così rinunzia l'armi a Giove, e stima

d'essere il più liet'uom che calchi terra:

pensa stato mutar cangiando clima;

ma trovata l'Italia tutta in guerra,

è forzato ferrarsi più che prima:

«Ecco il giudizio uman come spess'erra!»

crede tornar tra genti quiete e gaie,

e fugge l'acqua sotto le grondaie.

55

Tra Don Panfilo e lui uno squadrone

dal Pontadera aspettano e da Vico,

che parte per la via vanno a Vignone,

e parte fanno un sonno a piè d'un fico.

Costoro empion di rena un lor soffione;

e quando sono a fronte all'inimico,

gliela schizzan nel viso; ed in quel mentre

gli piglian gli altri la misura al ventre.

56

L'insegna di costoro è un montambanco,

che ha di già dato alli suoi vasi il prezzo;

e detto che son buoni al mal del fianco;

e strolagato, e chiacchierato un pezzo:

ma trovandosi al fin sudato e stanco,

e non avendo ancor toccato un bezzo,

si scandolezza ed entra in grande smania;

poi dice ch'e' si parte per Germania.

57

Uomini bravi quanto sia la Morte,

Scandicci n'ha mandati e Marignolle;

gente che si può dir ch'abbia del forte,

poich'ella ammazza gli agli e le cipolle.

Sue lance i pali son, targhe le sporte,

archibusi le man, le palle zolle:

va ben di mira, e colpo colpo imbreccia,

massime quand'altrui vuol dar la freccia.

58

Vien comandata da Strazzildo Nori,

ch'è chimico, poeta e cavaliere:

ed è quei che in un quadro co' colori

fece quei fichi che divenner pere.

E perchè questo è il re de' bell'umori,

per dimostrar quanto gli piaccia il bere,

ha per impresa un Lanzo a due brachette,

che il molle insegna trar dalle mezzette.

59

Morbido Gatti, Enrigo Vincifredi

a far venire innanzi ecco son pronti

i fanti che ne dà il Ponte a Rifredi,

che mille sono annoverati e conti.

Han certi santambarchi fino a' piedi,

che chiaman il zimbel di là da' monti,

e paion con la spada in sulle polpe

un che faccia lo strascico alla volpe.

60

Nell'insegna han ritratto un uom canuto,

che troppo avendo il crin (per esser vecchio)

fioccoso e lungo, un fanciullino astuto

dietro gli grida: Gli abbrucia il pennecchio.

Da questa schiera qui s'è provveduto

gran ceste, piene d'uova e di capecchio,

con fasce, pezze e taste, accomodate

per farsi alle ferite le chiarate.

61

È General di tutta questa mandra

Amostante Laton, poeta insigne;

canta improvviso come una calandra:

stampa gli enigmi, strolaga e dipigne.

Lasciò, gran tempo fa, le polpe in Fiandra,

mentre si dava il sacco a certe vigne.

Fortuna, che l'avea matto provato,

volle ch'ei diventasse anche spolpato.

62

Passati tutti con baule e spada,

serransi in barca come le sardelle.

Gli affretta il duca, e chi lo tiene a bada

o ferma un passo, guai alla sua pelle;

ch'ei lo bistratta, comechè ne vada

giù la vinaccia e il sangue a catinelle:

e benchè lesto ciaschedun rimiri,

non gli dà tanto tempo ch'ei respiri.

63

Perciò imbarcati tutti in un momento,

poichè Baldon facea così gran serra,

si spiegaron l'insegne e vele al vento.

Quando le navi si spiccâr da terra,

ed egli allora entrò in ragionamento

di quel che lo spingeva a far tal guerra;

ma per contarla più distesa e piana,

incominciò così dalla lontana.

64

Risiede Malmantil sovra un poggetto:

e chiunque verso lui volta le ciglia,

dice che i fondatori ebber concetto

di fabbricar l'ottava maraviglia.

L'ampio paese poi, che egli ha soggetto,

non si sa (vo' giuocare) a mille miglia:

v'è l'aria buona, azzurra oltramarina:

e non vi manca latte di gallina.

65

Il re di questo regno, giunto a morte,

la mia cugina qui, che fu sua Donna

(Non avendo figliuoli, o altri in Corte

propinqui più), lasciò donna e madonna;

ma come volle la sua trista sorte,

un certo diavol d'una Mona Cionna,

figliuola d'un guidone ignudo e scalzo,

ne venne presto a farle dar lo sbalzo.

66

Gobba e zoppa è costei, orba e mancina,

ha il gozzo, e da due sfregi il viso guasto:

scorse in Firenze ognor la cavallina

ne' lupanari, con gran pompa e fasto:

e perchè ossequi avea sera e mattina,

e il titol di Signora a tutto pasto,

fatta arrogante, alfine alzò il pensiero

a voler questi onori da dovero.

67

Così la mira ad alto avendo messa,

a' suoi frustamattoni un dì ricorsa,

bramar dice una grazia, e che in essa

non si tratta di scorporo di borsa,

ma perchè aspira a farsi Principessa,

desidera da loro esser soccorsa,

col loro aiuto, volendo, e consiglio

provar, se a Malmantil può dar di piglio.

68

Pronto è ciascuno, e vuol tra mille stocchi

esporre il ventre, come un paladino;

chè, per servire a dame, tali allocchi

cercan l'occasïon col fuscellino;

ma non si parli o tratti di baiocchi,

perchè non hanno un becco d'un quattrino,

e credon, promettendo Roma e Toma,

di spacciar l'oro della bionda chioma.

69

Era tra' molti suoi più fidi amanti

un ciarlon, che però detto è il Cornacchia:

ed è di quei pittor che i viandanti

collo stioppo dipingono alla macchia:

e perchè nella lingua ha il suo in contanti,

molto si vanta, assai presume e gracchia:

e finalmente colorisce e tratta

questo negozio come cosa fatta.

70

Scrive un viglietto poi segretamente

ad un compagno suo capobandito;

dicendo, che veduta la presente,

il suo bagaglio subito ammannito,

di notte tempo meni la sua gente

a Rimaggio, alla Svolta del Romito;

ma vada alla spezzata e pe' tragetti:

e senza pensar altro ivi l'aspetti.

71

Andò la carta: e quei ch'ebbe l'intesa,

come quel che invitato era al suo giuoco,

andonne e guidò seco a quell'impresa

cent'uomin, colle lor bocche di fuoco.

Quivi il Cornacchia e quella buona spesa

di Bertinella giunsero fra poco,

anch'eglino con grossa e folta schiera

d'una gente da bosco e da riviera.

72

Dopochè insieme tutti fur costoro,

si fece de' più degni una semblea,

del come, discorrendo fra di loro,

sorprendere il castello si dovea;

onde il Cornacchia, in mezzo al concistoro

rizzato in piè, con gran prosopopea,

ed una toccatina di cappello,

in tal modo cavò fuora il limbello:

73

Io so che a un ignorante, a un idiota

l'esser il primo a favellar non tocca;

ma perdonate a questa zucca vota,

Signori, s'io vi rompo l'uova in bocca.

Scricchiola sempre la più trista ruota;

così la lingua mia più rozza e sciocca

v'infastidisce, è ver, ma v'assicura

che Malmantile è nostro a dirittura.

74

Credete a me: ciascun si stia nascosto

in queste macchie, in questi boschi intorno:

ed io da voi frattanto mi discosto,

nè questa notte farò più ritorno.

Rivedrenci colà doman sul posto;

perchè, vicino al tramontar del giorno,

vi farò cenno; or voi ponete mente,

e poi venite via allegramente.

75

Parte il Cornacchia, e corre presto presto

da certi suoi amici contadini,

da' quali le lor bestie piglia in presto,

e carica più some di buon vini:

e di soppiatto, come fante lesto,

cavò di tasca certi cartoccini

pieni d'alloppio: e dentro al vin gli pone,

quello impepando senza discrizione.

76

Così carreggia: e giunto a Malmantile,

all'aprir della porta la mattina,

scarica in piazza il vino: ed un barile

a regalar ne manda alla regina.

Poi vende il resto a prezzo tanto vile,

che ognun ne compra: e infin chi n'ha in cantina,

per rivenderlo altrui il fiasco attacca:

si cala al buon mercato, a quella macca.

77

Due o tre fiaschi davane a quattrino,

ed a' poveri davalo a isonne;

talchè tutti tuffandosi a quel vino

s'imbriacaron come tante monne:

e subito dal grande al piccolino,

tanto degli uomin, quanto delle donne,

cascaro in sonnolenza sì gagliarda,

che desti non gli avrebbe una bombarda.

78

Quando il Cornacchia vedde il suo disegno

già riuscito, andò sopr'alle mura,

ed a' compagni fece il detto segno;

che bene avendo al tutto posto cura,

saliro al poggio senz'alcun ritegno,

senza sospetto aver, senza paura:

dietro al Cornacchia, lor guidone e scorta,

dentro al castello entraron per la porta.

79

E perchè ognun dormiva come un tasso,

la donna fece farne una funata,

e condursegli a' piedi a baciar basso,

e renderle il tributo ognun pro rata.

A Celidora poi restata in Nasso,

cioè da' suoi vassalli rinnegata,

giacchè tutti voltato avean mantello,

comandò che baciasse il chiavistello.

80

Ella ubbidì, temendo ancor di peggio:

e benchè fosse un pezzo in là di notte,

il pigliarsene subito il puleggio

un zucchero le parve di tre cotte.

Così finito il solito corteggio,

con due strambelli e un par di scarpe rotte,

trista e strascina poi, per la boccolica

un tozzo mendicava all'accattolica.

81

Intanto Bertinella del Reame

garbatamente fecesi padrona:

e de' villaggi e d'ogni suo bestiame

prese il possesso in petto ed in persona;

poi per letizia cavalieri e dame

regalò di confetti e di pattona:

e segue ogn'anno di mandarne attorno,

«per la dolce memoria di quel giorno».

82

Tostochè v'ebbe fitto il capo, volle

che ognun serrasse il traffico e il negozio,

donando a ciascheduno entrate e zolle,

acciò se la passasse da buon sozio,

ed allegro, a piè pari, ed in panciolle,

senza briga vivesse in pace e in ozio.

Ognun vi s'arrecò di buona gana;

chè la poca fatica a tutti è sana.

83

Così mai sempre in feste ed in convito

tirano innanzi questi spensierati:

nè moverebbon, per far nulla, un dito,

bench'ei credesson d'essere impiccati.

Non teme della corte chi è fallito;

chè tutti i giorni a lor son ferïati:

non v'è giustizia nè il bargel va fuora,

se non per gastigar chiunque lavora.

84

Ma, s'io non erro, il tempo è già vicino

che n'ha a venir la piena de' disturbi;

mentre doman, per fare un buon bottino,

andremo a dar addosso a questi furbi.

Così panno sarà di Casentino:

nè si lamenti alcuno, o si sconturbi;

chè chi nuoce al compagno in fatti o in detti,

deve saper che chi la fa, l'aspetti.

85

Qui tacque il duca: e subito rattacca,

col dire alla cugina in voce bassa,

che, perch'egli ha la bocca asciutta e stracca

il soggiungere a lei qualcosa lassa.

Non ho che dir, gli rispond'ella, un'acca;

oltrechè la sarebbe carne grassa.

Di' piuttosto in che mo' noi siam parenti,

ch'io non paia a costor degl'Innocenti.

86

Ed io, che non ne ho gran cognizione,

e sempre me ne sono stata a detta,

(Chè tutta la mia gente andò al cassone,

come tu sai, ch'io ero fanciulletta)

t'udirò volentieri. Allor Baldone

soggiunse: Or or ti servo: e a tanta fretta,

perchè non gli moría la lingua in bocca,

ricominciò quest'altra filastrocca.

 

 

SECONDO CANTARE

Argomento

De' due gran figli del signor d'Ugnano

prodigioso il natal narra Baldone:

come s'acquista moglie Florïano,

e vien dall'Orco poi fatto prigione:

come Amadigi libera il germano,

e il mostro spaventoso a terra pone:

e dice al fin, che l'un di questi dui

fu padre a Celidora, e l'altro a lui.

 

1

Era in Ugnano il duca Perïone

che sempre all'altarin fidecommisso

faceva notte e dì tanta orazione

e tante carità, ch'era un subisso:

nè per altro era tutto bacchettone

che per un suo pensiero eterno e fisso

d'aver prole; perchè della sua schiatta

non v'era, morto lui, nè can nè gatta.

2

Così durò gran tempo: ma da zezzo,

vedendo ch'ei non era esaudito,

essendo omai con gli anni in là un pezzo,

a mangiar cominciò del pan pentito:

e quant'ei far solea posto in disprezzo,

senza voler più dar del profferito

gettatosi all'avaro ed al furfante,

cambiò la dïadema in un turbante.

3

Di poi tutto diverso e mal disposto

in modo degli Dei faceasi beffe,

che s'egli udia trattarne, avria piuttosto

voluto sul mostaccio uno sberleffe.

La moglie un miglio si tenea discosto:

e dov'ei dava ai poveri a bizzeffe,

quando picchiavan poi, dalla finestra

facea lor dare il pan colla balestra.

4

La plebe, i grandi ed ogni lor ministro,

che il duca così buono avean provato,

mentre fu scudo ad ogni lor sinistro,

ed in lor pro sarebbesi sparato;

vedutolo così mutar registro,

e diventare un Turco rinnegato,

eran talmente d'animo cattivo,

che l'avrebbon voluto ingoiar vivo.

5

Avvenne, che già inteso un negromante,

che un uom, com'era quei, sì giusto e magno,

faceva novità sì stravagante,

un atto volle far da buon compagno:

e per ridurlo all'opre buone e sante,

non per speranza di verun guadagno,

fintosi un baro, a dargli andò l'assalto,

un po' di ben chiedendo per Sant'Alto.

6

Rispose Perïone: Fratel mio,

se tu te lo credessi, tu t'inganni:

tu vuoi ch'io doni per l'amor di Dio,

nè sai ch'io piglierei per San Giovanni.

Se t'hai bisogno, che posso far io?

che son Fra Fazio, che rifaccia i danni?

e che pensi, che qua ci sia la cava?

non è più tempo che Berta filava.

7

Signor, soggiunse il mago, mi sa male

di veder che un sì gran limosiniere,

ed uom tanto benigno e liberale,

caduto sia nel mal del miserere.

Or basta; chi del mio fa capitale,

diss'egli, fa la zuppa nel paniere:

però va' in pace, tu co' tuoi bisogni,

perchè per me tu mangerai dei sogni.

8

Come, replicò quei, se e' si cicala

che tu daresti via fin la gonnella;

vedendomi spedato e per la mala,

potrai avere il granchio alla scarsella?

Poichè tu gratti il corpo alla cicala,

disse il duca, io levai questa cannella,

per quel ch'io ti dirò; perchè se già

donai, non era tutta carità.

9

E' non batteva la mia fine altrove,

che ad aver, prima ch'io serrassi gli occhi,

in ricompensa un dì, piacendo a Giove,

della mia donna quattro o sei marmocchi;

ma finalmente, dopo mille prove

di dar il lustro a' marmi co' ginocchi,

tenendo gli occhi in molle e il collo a vite,

e le nocca col petto sempre in lite,

10

io l'ebbi bianca a femmine ed a maschi;

ond'io, sbraciar volendo a bel diletto,

mi risolvei levar quel vin da' fiaschi,

e non dar più quanto un puntal d'aghetto;

perchè po' poi, diss'io, gli è me' ch'io caschi

dalle finestre prima che dal tetto:

e il cavarmi di mano adesso un pelo,

sarebbe un voler dare un pugno in cielo.

11

Che pagheresti, disse lo stregone,

se la tua moglie avesse il ventre pregno?

Se ciò fosse, rispose Perïone,

ancorch'io non ne faccia alcun disegno

e tal voglia appiccata abbia all'arpione,

io ti vorrei donar mezzo il mio regno.

Soggiunse quei: Non vo' pur una crazia,

ma solamente la tua buona grazia.

12

Altro da te non aspettar ch'io chieda,

nè che alcuno interesse mi predomini;

perchè, quantunque abietto altri mi veda,

io ho in cul la roba e schiavo son degli uomini.

Or basta: se tu brami d'aver reda

che il regno dopo te governi e domini,

commetti al Mosca, al Biondo e a Romolino,

che un cuor ti portin d'asino marino.

13

Et ordina di poi, che se ne cuoca

la terza parte in circa arrosto o lessa;

ch'in tutti i modi è buona; e danne un poca

in quel modo a mangiare alla duchessa.

Presa che l'ha, gli è fatto il becco all'oca;

chè subito ch'in corpo se l'è messa,

senzachè tu più altro le apparecchi,

dottela pregna infin sopr'agli orecchi.

14

Oh questa, disse il duca, è veramente

da pigliar colle molle! che un somaro

possa col cuore ingravidar la gente!

vedi, non ti son finto; io non la paro.

Orsù il provar non ha a costar nïente:

e quando mi costasse anco ben caro,

vo' farlo per veder se ciò riesce;

però si mandi al mar per questo pesce.

15

Benchè fusse costui come una pina

tanto largo, ignorante e discortese;

per non balzare un tratto alla berlina,

i pescatori vennero in paese:

così pescando lungo la marina,

questo benedett'asino si prese:

e il cuor 'n un bel bacino inargentato,

a suon di pive al duca fu portato.

16

Ed egli, preso il prelibato cuore,

lo diede al cuoco: al qual, mentre lo cosse,

si fece una trippaccia, la maggiore

che a' dì de' nati mai veduta fosse.

Le robe e masserizie a quell'odore

anch'elle diventaron tutte grosse;

e in poco tempo a un'otta tutte quante

fecer d'accordo il pargoletto infante.

17

Allor vedesti partorire il letto

un tenero e vezzoso lettuccino;

di qua l'armadio fece uno stipetto;

la seggiola di là un seggiolino;

la tavola figliò un bel buffetto;

la cassa un vago e piccol cassettino;

e il destro un canteretto mandò fuore,

che una bocchina avea tutta sapore.

18

Il cuoco anch'egli poi non fu minchione;

perchè, bucar sentitosi in un fianco,

si vedde prima uscirne uno stidione;

di poi un guatterin in grembiul bianco,

che in far vivande saporite e buone

fu subito squisito e molto franco:

e in quel che 'l padre stette sopr'a parto,

cucinò in corte a lui, al terzo e al quarto.

19

La duchessa, che 'l cuore avea inghiottito,

cotto ch'ei fu con ogni circostanza,

anch'ella con gran gusto del marito

stampò due bamboccioni d'importanza:

grazie e bellezze aveano in infinito,

e così grande e tanta somiglianza,

tanto eran fatti uguali ed a capello,

che non si distinguea questo da quello.

20

Crebbero insieme, ed all'adolescenza

pervenuti, mangiaro il pane affatto.

Nel far santà, nel far la riverenza,

ebbero il corpo a maraviglia adatto.

Tra lor non fu mai lite o differenza;

ma d'accordo volevansi un ben matto.

L'Infante Florïano uno ebbe nome:

e qull'altro Amadigi di Belpome.

21

Arrivati che furono ambeduoi

a conoscere omai il pan da' sassi,

e saper quante paia fan tre buoi;

sebben dal padre avevan degli spassi,

vedendosi già grandi impiccatoi,

ed a soldi tenuti bassi bassi,

ostico gli pareva e molto strano;

ed in particolare a Florïano.

22

Dimodochè sdegnato, come ho detto,

che il duca per la sua spilorceria

ognor viepiù tenevalo a stecchetto,

un dì si risolvette d'andar via;

ma tacquelo, per fare il giuoco netto,

fuor che al fratello, al qual 'n una osteria

disse (veduto avendo a un fiasco il fondo)

volersene ramingo andar pel mondo.

23

Amadigi a distorlo tutto un giorno

s'arrabbiò, s'aggirò come un paleo:

ma perchè quanto più gli stava intorno,

egli era più ostinato d'un Ebreo;

tu vuoi ir, disse, è vero? o va' in un forno:

e dopo un grande e lungo piagnisteo,

orsù, vanne, diss'egli, io me n'accordo;

ma lasciami di te qualche ricordo.

24

Allor per soddisfarlo Florïano,

acciocchè più tener non l'abbia in ponte,

con un baston fatato, ch'avea in mano,

toccò la terra e fece uscir un fonte.

E disse: quindi poi, benchè lontano,

vedrai s'io vivo o s'io sono a Caronte;

perchè quest'acqua ognor di punto in punto

in che grado io sarò diratti appunto.

25

Se al corso di quest'acqua porrai cura,

tutto il corso vedrai di vita mia:

mentr'ella è chiara, cristallina e pura,

di' pur ch'io viva in festa ed allegria;

ed all'incontro, se è torbida e scura,

ch'ella mi va come dicea la Cia:

ma quand'ella del tutto ferma il corso,

di' ch'io sia ito a veder ballar l'orso.

26

Ciò detto, in capo il berrettin si serra,

mette man, chiude gli occhi e stringe i denti:

e dà sì forte una imbroccata in terra,

che 'l ferro entrovvi fino a' fornimenti.

In quel che i grilli e i bachi di sotterra

sgombrano tutti i loro alloggiamenti,

pullula fuori un cesto di mortella,

e di nuovo Florian così favella:

27

Fratel mio caro, questa pianta ancora,

com'io la passi, ti darà ragguaglio:

cioè, mentr'ell'è verde, anch'io allora

son vivo, fresco e verde come un aglio;

e quand'ella appassisce e si scolora,

anch'io languisco od ho qualche travaglio:

in somma, s'ella è secca, leva i moccoli,

per farmi dire il requie scarpe e zoccoli.

28

Poichè queste parole ebbe finito,

dal suo caro Amadigi si licenza:

il qual rimase tutto sbigottito,

perocchè gli dolea la sua partenza;

quando in sella Florian di già salito,

senza gran doble o lettre di credenza,

andonne a benefizio di natura,

con due servi, cercando la ventura.

29

E il primo giorno fece tanta via,

che i suoi lacchè, spedati e conci male,

si rimasero, l'uno all'osteria,

e l'altro scarmanato allo spedale;

ond'ei più non avendo compagnia,

sebbene accanto avea spada e pugnale,

per non aver paura in andar solo,

cantava, ch'e' pareva un rusignolo.

30

Così nuove canzoni ognor cantando,

con una voce tremolante in quilio

e qualche trillettin di quando in quando,

alle stelle n'andava e in visibilio:

onde a' timori al fin dato di bando,

tirava innanzi il volontario esilio;

e giunto a Campi, lì fermar si volle

a bere, e far la zolfa per B molle.

31

A Campi, ora spiantato alla radice,

dominava in quei tempi Stordilano;

sebben Turpino scrive, ed altri dice

ch'ei regnasse in un luogo più lontano.

Ebbe una figlia, detta Doralice,

che aveva un occhio che uccidea 'l cristiano:

ma quel che più tirava la brigata,

è l'esser sola e ricca sfondolata.

32

Come io dissi, Florian nella cittade

entrò per rinfrescarsi e toccar bomba:

ma il gran frastuono che in quelle contrade

d'armi, di bestie e d'uomini rimbomba;

il sentir su pe' canti delle strade

tutti a cavallo risuonar la tromba;

ed il voler saperne la cagione,

lo fecero mutar d'opinïone.

33

Era già scavalcato ad una ostessa,

per far, siccome ei fece, un conticino:

nè altro ebbe che pane e capra lessa,

che fitta anche gli fu per mannerino.

Bevve al pozzo una nuova manomessa;

perchè il vinaio avea finito il vino.

Fece conto, e pagò ben volentieri:

poi chiese il fin di tanti strombettieri.

34

Ella rispose: e come? non lo sai?

se per Campi non è altro discorso,

che avendo il re una figlia, ch'oggimai

abbraccerebbe un uom, prima che un orso:

e perchè reda ell'è, bella e d'assai,

di pretendenti avendo un gran concorso,

bandire ha fatto, acciò nessun si lagni,

che in giostra, chi la vuol, se la guadagni.

35

Ma che occorre che in ciò più mi distenda,

mentre la cosa è tanto divulgata?

però lasciami andare, ch'io ho faccenda,

avendo sopra un'altra tavolata.

Dice Florian che a' suoi negozi attenda,

scusandosi d'averla scioperata:

e rimessa la briglia al suo giannetto,

come un pardo saltovvi su di netto.

36

Tocca di sproni e vanne, e giunge in piazza,

dov'egli ha inteso che s'ha a far la giostra,

che per veder il popol vi s'ammazza;

e appunto i cavalier facean la mostra.

Sedeva il re, presente la ragazza,

che quanto adorna e bella si dimostra,

tanto è confusa, avendo a aver consorte,

non a suo mo', ma qual vorrà la sorte.

37

Florian in contemplar faccia sì bella,

dove quel crudo balestrier d'Amore

tira frecciate come la rovella,

sentissi anch'esso traforare il cuore:

e com'uomo di marmo in su la sella

restò perplesso e pieno di stupore;

scorgendo Amor, le Grazie, e in un raccolto

le Trombe, e il non plus ultra di un bel volto.

38

Poffar, dicea, che bella creatura!

quell'ostessa davvero avea ragione;

perch'ella è bella fuor d'ogni misura:

per me non saprei darle eccezïone.

Capperi! può ben dir d'aver ventura

quello a cui tocca così buon boccone;

ma s'ella s'ha da vincer colla lancia,

oggi è quando ci arrischio anch'io la pancia.

39

O per tutt'oggi beccomi su moglie

nobile, ricca e bella; o veramente

vi lascio l'ossa. S'ella coglie, coglie;

se no, a patire: o Cesare, o nïente.

Ciò detto, salta in campo, e un'asta toglie;

intruppandosi là dov'ei già sente

che appunto il re sollecita, e commette

che pe' primi si tirin le bruschette.

40

Come volontaroso Florïano,

senza chieder licenza o cosa alcuna,

si fece innanzi: e postovi la mano,

di trarne la più lunga ebbe fortuna.

Poco dopo il Marchese di Soffiano

simile a quella anch'egli ne trasse una;

ond'essi, come pria fu destinato,

furono i primi a correr lo steccato.

41

Piglian del campo, e al cenno del trombetta

si vanno incontro colla lancia in resta.

Il Marchese a Florian l'avea diretta

per chiapparlo nel mezzo della testa;

ma quei ch'è furbo, a un tempo fa civetta

e aggiusta lui, dicendo: assaggia questa.

Perchè gli diede sì spietata botta,

ch'egli andò giù come una pera cotta.

42

In quanto a sposa, omai questo è ascolto:

s'ei toccò terra, ancor la voglia sputi.

Così Florian dicea: nè stette molto

che il secondo ne viene a spron battuti,

che mette lui per morto, anzi sepolto;

ma il giovane, che dà di quei saluti,

gli mostra, in avviarlo per le poste,

l'error di chi fa i conti senza l'oste.

43

Comparso il terzo in testa della lizza,

s'affronta seco, e passalo fuor fuora:

soggiunge il quarto, ed egli te l'infizza;

sbudella il quinto, e fredda il sesto ancora;

all'altro mondo il settimo indirizza;

l'ottavo e il nono appresso investe e fora:

e così a tutti, con suo vanto e fama,

cavò di testa il ruzzo della dama.

44

Il re si rallegrò con Florïano:

sceso di sedia poi colla figliuola,

gli fece allor allor toccar la mano,

come nel bando avea data parola;

ond'ogni altro ne fu mandato sano:

ed ei nelle dolcezze infino a gola,

ben pasciuto, servito e ringraziato,

rimase quivi a godere il papato.

45

Tre dì suonaro a festa le campane:

ed altrettanti si bandì il lavoro:

e il suocero, che meglio era del pane,

un uom discreto ed una coppa d'oro,

faceva con gli sposi a Scaldamane,

talora a Mona Luna, e Guancial d'oro:

e fece a' Paggi recitare a mente

Rosana, e la regina d'Orïente.

46

L'andare, il giorno, in piazza a' Burattini

ed agli Zanni, furon le lor gite;

ogni sera facevansi festini

di giuoco, e di ballar veglie bandite:

e chi non era in gambe nè in quattrini

da trinciarle e da fare ite e venite,

dicea novelle, o stavale a ascoltare,

o facea al Mazzolino o alla Comare.

47

Altri più là vedevansi confondere

a quel gioco chiamato gli Spropositi;

che quei ch'esce di tèma nel rispondere,

convien che 'l pegno subito depositi.

Ad altri piace più Capanniscondere;

hanno altri vari umor, vari propositi,

perchè ognuno ad un mo' non è composto;

però chi la vuol lessa e chi arrosto.

48

Chi fa le Merenducce in sul bavaglio;

chi coll'amico fa a Stacciaburatta;

chi all'Altalena, e chi a Beccalaglio;

va quello a predellucce, un s'acculatta.

Per tutti in somma sempre vi fu taglio

di star lieto così in barba di gatta:

e tra Floriano, il re e la figliuola

non fu che dir 'n un anno una parola.

49

Non fu tra lor fin qui nulla di guasto;

se non che Florïan vòlto alle cacce,

avendone più volte tocco un tasto

e sentendosi dar sempre cartacce,

dispose alfin di non voler più pasto;

nè curando lor preghi nè minacce,

fece invitar dai soliti bidelli

per l'altro dì i Piacevoli e i Piattelli.

50

Benchè il suocero allora e la consorte

maledicesser questo suo motivo,

dicendogli che là fuor delle porte

un Orco v'è sì perfido e cattivo,

che persèguita l'uomo insino a morte,

e che l'ingoierebbe vivo vivo;

con genti ed armi uscì sull'aurora,

gridando: andianne, andianne, eccola fuora.

51

Senza veder nè anche un animale,

frugò, bussò, girò più di tre miglia:

pur vedde un tratto correre un cignale

feroce, grande e grosso a maraviglia;

ond'ei che, il dì, dovea capitar male,

si mosse a seguitarlo a tutta briglia;

non essendo informato che in quel porco

si trasformava quel ghiotton dell'Orco,

52

che apposta presa avea quella sembianza:

e gli passò, fuggendo, allor d'avanti,

per traviarlo, sol con isperanza

d'aver a far di lui più boccon santi.

Così guidollo fino alla sua stanza,

dov'ei pensò di porgli addosso i guanti:

poi non gli parve tempo; perchè i cani

avrian piuttosto lui mandato a brani.

53

Però, volendo andare sul sicuro,

non a perdita più che manifesta;

perchè a roder toglieva un osso duro,

mentre non lo chiappasse testa testa,

gli sparì d'occhio, e fece un tempo scuro

per incanto levar, vento e tempesta,

e gragnuola sì grossa comparire,

che avrebbe infranto non so che mi dire.

54

Il cacciator, che quivi era in farsetto,

e dal sudore omai tutto una broda;

avendo un vestituccio di dobretto,

ed un cappel di brucioli alla moda;

per non pigliar al vento un mal di petto

o altro, perchè il prete non ne goda,

non trovando altra casa in quel salvatico

che quella grotta, insáccavi da pratico.

55

A tal gragnuola, a venti così fieri,

ch'ogni cosa mandavano in rovina,

tal freddo fu, che tutti quei quartieri

se n'andavano in diaccio e in gelatina:

ed ei, ch'era vestito di leggieri

nè ma' meglio facea la furfantina,

non più cercava capriuolo o damma,

ma da far, s'ei poteva, un po' di fiamma.

56

Trovò fucile ed esca e legni vari,

onde un buon fuoco in un cantone accese:

e in su due sassi, posti per alari,

sopra un altro sedendo, i piè distese.

Così con tutti i comodi a cul pari,

dopo una lieta, il crògiolo si prese:

essendosi a far quivi accomodato,

metre pioveva, come quei da Prato.

57

L'Orco frattanto con mille atti e scorci

affacciatosi all'uscio, ch'era aperto,

pregò Florian con quel grugnin da porci,

tutto quanto di fango ricoperto,

che, perch'ella veniva giù co' gli orci,

ricever lo volesse un po' al coperto;

ritrovandosi fuora scalzo e ignudo

a sì gran pioggia e a tempo così crudo.

58

Ebbe il giovane allora un gran contento

d'aver di nuovo quel bestion veduto:

e facendogli addosso assegnamento,

quasi in un pugno già l'avesse avuto,

rispose: volentieri: entrate drento;

venite, che voi siate il ben venuto;

chè, dopo il fuggir voi l'umido e il gielo,

fate a me, ch'ero sol, servizio a cielo.

59

Sì, eh? soggiunse l'Orco; fate motto!

voler ch'io entri dove son due cani?

credi tu pur, ch'io sia così merlotto?

se non gli cansi, ci verrò domani.

S'altro, dice il garzon, non ci è di rotto,

due picche te gli vo' legar lontani.

E preso allora il suo guinzaglio in mano,

legò in un canto Tebero e Giordano.

60

Poi disse: or via venite alla sicura.

Rispose l'Orco: io non verrò nè anco:

guarda la gamba! perch'io ho paura

di quella striscia ch'io ti veggo al fianco.

Allor Florian cavossi la cintura,

ed impiattò la spada sotto un banco.

Disse l'Orco, vedutala riporre:

io ti ringrazierei, ma non occorre.

61

E lasciata la forma di quel verro,

presa l'antica e mostruosa faccia,

con due catene saltò là di ferro,

e lo legò pel collo e per le braccia,

dicendo: cacciatore, tu hai pres'erro:

perchè, credendo di far preda in caccia,

alfin non hai fatt'altro che una vescia,

mentre il tutto è seguito alla rovescia.

62

Rimasto ci sei tu, come tu vedi,

senza bisogno aver di testimoni:

e perchè con levrieri e cani e spiedi

far me volevi in pezzi ed in bocconi;

così, perch'ella vadia pe' suoi piedi,

farassi a te, nè leva più, nè poni;

acciocchè procurando l'altrui danno,

per te ritrovi il male ed il malanno.

63

Ed io, ch'ebbi mai sempre un tale scopo

d'accarezzar ognun, benchè nimico,

come la gatta quando ha preso il topo,

che, sebbene è tra lor quell'odio antico,

scherza con esso alquanto, e poco dopo

te lo sgranocchia come un beccafico;

così, perchè più a filo tu mi metta,

voglio far io, e poi darti la stretta.

64

Così spogliollo tutto ignudo nato:

e veduto ch'egli era una segrenna,

idest asciutto e ben condizionato,

snello, lesto e leggier come una penna;

lo racchiuse, e lo tenne soggiornato

perch'ei facesse un po' miglior cotenna;

perocchè a guisa poi di mettiloro

voleva dar di zanna al suo lavoro.

65

Amadigi, che andava per diporto

due volte il giorno almeno a rivedere

la fonte e la mortella che nell'orto

lasciò Florian per tante sue preghiere;

trovato il cesto spelacchiato e smorto,

e l'acque basse, puzzolenti e nere,

qui, dice, fratel mio, noi siam sul curro

d'andare a far un ballo in campo azzurro.

66

E piangendo diceva: o tato mio,

se tu muori (che ver sarà pur troppo),

s'ha dire anche di me, te lo dich'io,

itibus, come disse Prete Pioppo.

Così, senza dir pure al padre addio,

monta sovra un cavallo, e di galoppo

uscì d'Ugnano, molto bene armato:

e seco un cane alano avea, fatato.

67

E cavalcando colla guida e scorta

del suo fedele ed incantato alano,

che innanzi gli facea per la più corta

la strada per lo monte e per lo piano;

a Campi giunse, dove sulla porta

la morte si leggea di Florïano:

chè, perchè fu creduta da ognuno,

era la corte e tutto Campi a bruno.

68

L'apparir d'Amadigi agli abitanti

raddolcì l'agro de' lor mesti visi,

che, per la somiglianza, a tutti quanti

parve il lor re creduto a' Campi Elisi;

perciò, per buscar mance e paraguanti,

andaron molti a darne al re gli avvisi,

altri alla figlia: ed ambi a questi tali

perciò promesser mille bei regali.

69

Doralice, brillando a tai novelle,

a rinfronzirsi andossene allo specchio;

si messe il grembiul bianco e le pianelle,

il vezzo al collo e i ciondoli all'orecchio:

e non potendo star più nella pelle,

saltò fuor di palazzo innanzi al vecchio;

ed incontro correndo al suo cognato:

ecco Florian, dicea, risuscitato.

70

Noi vi facevam morto: o giudicate

se la carota ci era stata fitta!

Pur noi ci rallegriam, che voi tornate

a consolar la vostra gente afflitta.

Domandar non occorre come state,

perchè vo' avete buona soprascritta:

e siete grasso e tondo come un porco,

per le carezze fattevi dall'Orco.

71

M'immagino così; perch'io non v'ero:

tu sai com'ella andò, che fosti in caso:

so ben che mi dirai che non fu vero;

ma la bugia ti corre su pel naso.

Or basta: tu ritorni sano e intero,

(Chè a pezzi tu dovevi esser rimaso)

per la Dio grazia, e sua particolare,

perchè te l'ha voluta risparmiare.

72

Dunque, s'ei fa così, gli è necessario

ch'ei non sia là quel furbo che un lo tiene;

anzi tutto il rovescio ed il contrario,

mentre egli tratta i forestier sì bene.

Ed io, che già l'avea sul calendario,

gli voglio, in quanto a me, tutto il mio bene,

perch'ei non t'ingoiò; sebben da un lato

ti stava bene, avendolo cercato.

73

Così nel mezzo a tutta la pancaccia,

ch'è quivi corsa e forma un giro tondo,

la sua caponeria gli butta in faccia,

e quel ch'ei ne cavò po' poi in quel fondo:

giacchè, diceva, coll'andare a caccia

a dispetto di tutto quanto il mondo,

cavasti, senza fare alcun guadagno,

due occhi a te, per trarne uno al compagno.

74

Mio padre te lo disse fuor de' denti,

ed io pur te lo dissi a buona cera,

non una volta, ma diciotto o venti,

che l'Orco ti faria qualche billera;

ma tu volesti fare agli scredenti,

perchè te ne struggei come la cera:

e quasi un rischio tal fosse una lappola,

volesti andarvi, e desti nella trappola.

75

Amadigi alla donna mai rispose,

e fece il sordo ad ogni suo quesito;

ma sibbene attingea da queste cose

quanto a Florian poteva esser seguito:

e venne immaginandosi, e s'appose,

che ella fosse sua moglie, ei suo marito:

e ch'egli, essendo tutto lui maniato,

fosse pel suo fratel da ognun cambiato.

76

Ma perch'ei non credea veder mai l'ora

d'avere il suo fratello a salvamento,

dà un ganghero a tutti, e torna fuora

dietro al suo can, veloce come il vento:

ned era un trar di mano andato ancora

a caccia all'Orco, ch'ei vi dette drento,

come il fratel vedendo un bel cignale;

ma non fu quanto lui dolce di sale.

77

Chè seguitollo anch'ei per quelle strade

donde ei conduce l'uomo alla sua tana:

ove, mentre diluvia e dal ciel cade

e broda e ceci, il cristianello intana;

ed egli tanto poi lo persuade,

ch'ei lega i cani, e posa Durlindana.

Avendo avuto innanzi la lezione,

si stette sempre mai sodo al macchione.

78

E quando l'Orco poi venne anco a lui

a dar parole con quei tempi strani,

ed all'uscio facea Pin da Montui,

affinchè 'l cane e l'arme egli allontani,

ei disse: su piccin, piglia colui:

e chiappata la spada con due mani,

si lanciò fuora, e quivi a più non posso

gli cominciò a menar le man pel dosso.

79

E mentre che or di punta ed or di taglio

di gran finestre fa, di lunghe strisce,

più presto che non va strale a berzaglio

il can s'avventa anch'egli, e ribadisce;

talchè tutto forato come un vaglio

il pover'Orco al fin cade, e basisce:

e lì tra quelle rupi e quelle macchie

rimase a far banchetto alle cornacchie.

80

Amadigi dipoi fece pulito;

perchè, trovato avendo il suo fratello

con una barba lunga da romito

e più lordo e più unto d'un panello,

lavatolo e rimessogli il vestito,

ch'era ancor quivi tutto in un fardello,

lo ricondusse a Campi, ove la moglie,

di lui già pregna, appunto avea le doglie.

81

Corse la levatrice, ed in effetto

fra mille oimè, se' soldi, e doglien'ora,

partorìgli una bella piscialletto,

che fusti tu, poi detta Celidora:

e maritata al re, come s'è detto,

di Malmantil, del qual tu sei signora:

ne sei, e ne sarai, io lo raffibbio;

sebben non puoi per or dir come il nibbio.

82

Ma presto come lui, potrai dir mio.

Or senti pur: basito Perïone,

anco Amadigi subito tuo zio

venne a tôr donna, e n'ebbe un bel garzone,

che Baldo fu chiamato: e quel son io,

che poi cresciuto detto son Baldone.

Or eccoti dal primo al terzo grado

narrato tutto il nostro parentado.

 

 

TERZO CANTARE

Argomento

Vengon d'Arno a seconda i legni Sardi:

sbarcan le genti, e vanno a Malmantile;

ma per vari accidenti i più gagliardi

non fan quel tanto, che di guerra è stile.

Arma i suoi Bertinella, alza stendardi,

e mostra in debol corpo alma virile,

nascon grandi scompigli in quella piazza,

e ognun si fugge in veder Martinazza.

 

1

Un che sia avvezzo a starsene a sedere

senza far nulla colle mani in mano,

e lautamente può mangiare e bere

e in festa e 'n giuoco viver lieto e sano;

se gli son rotte l'uova nel paniere,

considerate se gli pare strano:

ed io lo credo, chè a un affronto tale

al certo ognun la 'ntenderebbe male.

2

E pur chi vive, sta sempre soggetto

a ber qualche sciroppo che dispiace;

perchè al mondo non v'è nulla di netto,

e non si può mangiar boccone in pace.

Or ne vedremo in Malmantil l'effetto;

che immerso ne' piacer vivendo a brace,

non pensa che patir ne dee la pena,

e che fra poco s'ha a mutare scena.

3

Era in quei tempi là quando i Geloni

tornano a chiuder l'osterie de' cani,

e talun che si spaccia i milïoni,

manda al presto il tabì pe' panni lani;

ed era appunto l'ora che i crocchioni

si calano all'assedio de' caldani,

ed escon colle canne e co' randelli

i ragazzi a pigliare i pipistrelli.

4

Quando in terra l'armata colla scorta

del gran Baldone a Malmantil s'invia;

onde un famiglio, nel serrar la porta,

sentì romoreggiar tanta genìa.

Un vecchio era quest'uom di vista corta,

che l'erre ognor perdeva all'osteria;

talchè tra il bere e l'esser ben d'età,

non ci vedeva più da terza in là.

5

Per questo mette mano alla scarsella,

ov'ha più ciarpe assai d'un rigattiere;

perchè vi tiene infin la faverella

che la mattina mette sul brachiere.

Come suol far chi giuoca a cruscherella,

due ore andò alla cerca intere intere:

e poi ne trasse in mezzo a due fagotti

un par d'occhiali affumicati e rotti.

6

I quali sopra il naso a petronciano

colla sua flemma pose a cavalcioni;

talchè meglio scoperse di lontano

esser di gente armata più squadroni.

Spaürito di ciò, cala pian piano,

per non dar nella scala i pedignoni:

e giunto a basso, lagrima e singozza,

gridando quanto mai n'ha nella strozza.

7

Dicendo forte, perchè ognun l'intenda:

all'armi all'armi, suonisi a martello:

si lasci il giuoco, il ballo e la merenda,

e serrinsi le porte a chiavistello;

perchè quaggiù nel piano è la tregenda,

che ne viene alla volta del castello;

e se non ci serriamo o facciam testa,

mentre balliamo, vuol sonare a festa.

8

In quel che costui fa questa stampita,

e che ne' gusti ognun pur si balocca,

l'armata finalmente è comparita

già presso a tiro all'alta biccicocca.

Quivi si vede una progenie ardita

che si confida nelle sante nocca:

e se ne viene all'erta lemme lemme

col Batti e 'l Tessi e tutto Biliemme.

9

Tra questi guitti ancora sono assai

(Oltre a marchesi, principi e signori)

uomin di conto, e grossi bottegai,

banchieri, setaiuoli e battilori;

v'è lanaiuoli, orefici e merciai,

notai, legisti, medici e dottori:

in somma quivi son gente e brigate

d'ogni sorta, chiedete e domandate.

10

Sul colle compartisce questa gente

Amostante con tutti gli ufiziali:

tra' quali un grasso v'è convalescente,

ch'aveva preso il dì tre serviziali,

e appunto al corpo far allor si sente

l'operazione e dar dolor bestiali;

talchè gridando senz'alcun conforto,

in terra si buttò come per morto.

11

Il nome di costui, dice Turpino,

fu Paride Garani; e il legno prese,

perch'ei voleva darne un rivellino

a un suo nimico traditor francese,

che per condurlo a seguitar Calvino

lo tira pe' capelli al suo paese,

e per fuggirne a' passi la gabella,

lo bolla, marchia, e tutto lo suggella.

12

Disse Amostante, visto il caso strano,

a Noferi di casa Scaccianoce:

per ser Lion Magin da Ravignano,

che il venga a medicar, corri veloce;

io dico lui, perchè ce n'è una mano,

che infilza le ricette a occhio e croce,

o fa sopr'all'infermo una bottega,

e poi il più delle volte lo ripiega.

13

Gloria cerca Lion più che moneta;

perocch'ei bada al giuoco e fa progresso:

per l'acqua in Pindo va come poeta;

onde a' malati dà le pappe a lesso.

Gli è quel che attende a predicar dïeta,

e farebbe a mangiar coll'interesso;

ma perchè già tu n'hai più d'uno indizio,

va' via, perchè l'indugio piglia vizio.

14

Noferi vanne, e sente dir ch'egli era

con un compagno entrato in un fattoio,

ov'egli ha per lanterna, essendo sera,

l'orinal fitto sopra a un schizzatoio,

e di fogli distesa una gran fiera,

ha bello e ritto quivi il suo scrittoio;

sicchè presto lo trova, e in sull'entrata

dell'unto studio gli fa l'ambasciata.

15

Ei, che alla cura esser chiamato intende,

risponde, avere allora altro che fare;

perchè una sua commedia ivi distende,

intitolata Il Console di Mare:

e che se l'opra sua colà s'attende,

un buon suggetto è quivi suo scolare,

di già sperimentato; ed in sua fece

avría mandato lui: e così fece.

16

Era quest'uomo un certo medicastro,

che al dottorato suo fe piover fieno:

e perch'ei vi patì spesa e disastro,

è stato sempre grosso con Galeno.

E giunto là: vo' far, disse, un impiastro;

onde, se il mal venisse da veleno,

presto vedremo: intanto egli si spogli,

e siami dato calamaio e fogli.

17

Mentre è spogliato, per la pestilenza

ch'egli esala, si vede ognun fuggire:

pervenne una zaffata a Sua Eccellenza,

che fu per farlo quasichè svenire:

confermata però la sua credenza,

rivolto a' circostanti prese a dire:

questo è veleno, e ben di quel profondo:

sentite voi ch'egli avvelena il mondo?

18

Rispose il General commosso a sdegno:

come veleno? oh corpo di mia vita!

e dove è il vostro naso e il vostro ingegno?

lo vedrebbe il mio bue ch'egli ha l'uscita.

A ciò soggiunse il medico: buon segno:

segno, che la natura invigorita,

a' morbi repugnante, adesso questo

a' nostri nasi manda sì molesto.

19

Vedendo poi, che il flusso raccappella,

come quello che ha in zucca poco sale,

comincia a gridar: guardia, la padella,

e (quasi fosse quivi uno spedale)

chiama gli astanti, gl'infermieri appella,

il cerusico chiede e lo speziale:

e venuto l'inchiostro, al fin si mette

a scrivere una risma di ricette.

20

Dove diceva (dopo milïoni

di scropoli, di dramme e libbre tante)

che, giacchè questo mal par che cagioni

stemperamento forte, umor piccante,

per temperarlo, Recipe in bocconi

colla, gomma, mèl, chiara e diagrante.

Quindici libbre in una volta sola

di sangue se gli tragga dalla gola.

21

Acciocchè tiri per canal diverso

l'umor, che tende al centro, ut omne grave;

chè se durasse troppo a far tal verso,

dir potrebbe l'infermo: addio, fave.

Poi tengasi due dì capo riverso,

legato ben pe' piedi ad una trave:

se questo non facesse giovamento,

composto gli faremo un argomento.

22

Però presto bollir farete a sodo

un agnello, o capretto, in un pignatto:

'N un altro vaso, nello stesso modo,

un lupo, per insin che sia disfatto;

poi fate un servizial col primo brodo,

e col secondo un altro ne sia fatto:

farà questa ricetta operazione

senz'alcun dubbio, ed ecco la ragione:

23

questi animali essendo per natura

nimici come i ladri del bargello,

ritrovandosi quivi per ventura,

il lupo correrà dietro all'agnello;

l'agnello, che del lupo avrà paura,

ritirando s'andrà su pel budello:

così va in su la roba e si rassoda,

e i due contrari fan che 'l terzo goda.

24

Ciò detto, rivoltossi al mormorío

di quelle ambrette, ove a mestar si pose;

e, perch'elle sapean di stantío,

teneva al naso un mazzolin di rose.

Soggiunse poi: costui vuol dirci addio;

chè queste flemme putride e viscose

mostran, che benaffetto agli ortolani

ei vuol ire a 'ngrassare i petronciani.

25

In quel che questo capo d'assiuolo

ne dice ognor dell'altra una più bella,

Tosello Gianni, il quale è un buon figliuolo,

mosso a pietà, con una sua coltella

tagliate avea le rame d'un querciuolo;

sopr'alle quali a foggia di barella

fu Paride da certi contadini

portato a' suoi poder quivi vicini.

26

Fu del Garani ascritto successore

Puccio Lamoni, anch'ei grande ingegnere,

bravissimo guerrier, saggio dottore,

cortigiano, mercante, e taverniere.

Dicon ch'ei nacque al tempo delle more,

perch'egli è di pel bruno e membra nere;

or qua di Cartagena eletto duce,

il fior de' mammagnuccoli conduce.

27

L'armata avea tra gli altri un cappellano

dottor, ma il suo saper fu buccia buccia;

perocch'egli studiò col fiasco in mano,

ed era più buffon d'una bertuccia.

Faceva da pittore, da Tiziano;

ma quanto fece mai, n'andava a gruccia:

ebbe una chiesa, e quivi a bisca aperta

si giuocò fino i soldi dell'offerta.

28

Franconio si domanda Ingannavini:

e fu pregato, come il più valente,

perch'egli sapea leggere i Latini,

a far quattro parole a quella gente.

Egli, che aveva in casa il Coltellini

già fatta una lezione e salla a mente,

subito accetta, e siede in alto solio,

senza mettervi su nè sal nè olio.

29

Sale in bigoncia con due torce a vento,

acciò lo vegga ognun pro tribunali:

ove, mostrar volendo il suo talento,

fece un discorso e disse cose tali,

che ben si scorse in lui quel fondamento,

che diede alla sua casa Giorgio Scali:

e piacque sì, che tutti di concordia

si messero a gridar misericordia.

30

Il tèma fu di questa sua lezione,

quand'Enea, già fuor del suo pollaio,

faceva andare in fregola Didone,

come una gatta bigia di gennaio:

e che se i Greci, ascosi in quel ronzone,

in Troia fuoco diedero al pagliaio,

e in man d'Enea posero il lembuccio,

ond'ei fuggì col padre a cavalluccio;

31

così, dicea, la vostra e mia regina

qui viva e sana, e della buona voglia,

cacciata fu dall'empia concubina

tre dita anch'ella fuor di quella soglia;

però, se un tanto ardire e tal rapina

parvi che adesso gastigar si voglia,

v'avete il modo, senza ch'io lo dica.

Io ho finito: il ciel vi benedica.

32

Poichè da esso inanimite furo

le schiere, si portarono a' lor posti:

e già sdraiato ognun, lasso, e maturo

in grembo al sonno gli occhi aveva posti;

quando a un tratto le trombe ed il tamburo

roppe i riposi e i sonni appena imposti;

ma svanì presto così gran fracasso,

chè 'l fiato al trombettier scappò da basso.

33

E questo cagionò, che incollorito

il Generale di cotanta fretta,

con occhi torvi minacciò col dito,

mostrando voler farne aspra vendetta.

Seguì, che un ufizial suo favorito,

che più d'ogn'altro meno se lo aspetta,

toccò la corda con i suoi intermedi

de' tamburini e trombettieri a' piedi.

34

Alla corda così vuol che s'attacchi,

perchè d'arbitrio e senza consigliarsi

facea venir all'armi, allorchè stracchi

bisogno avevan più di riposarsi:

ed eran mezzi morti, e come bracchi

givano ansando inordinati e sparsi:

e con un fior di lingue e orrenda vista

soffiavan, ch'i'ho stoppato un alchimista.

35

Amostante non solo era sdegnato

che di suo capo e propria cortesia,

senza lasciar che l'uom riabbia il fiato,

ei volesse attaccar la batteria;

ma perchè seco aveva concertato,

ch'egli stesso, che sa d'astrologia,

vuol, prima che 'l nimico si tambussi,

veder che in Cielo sien benigni influssi.

36

Omai la fama, che riporta a volo

d'ogni intorno le nuove e le gazzette,

sparge per Malmantil, che armato stuolo

vien per tagliare a tutti le calzette.

Già molti impauriti e in preda al duolo,

non più co' nastri legan le scarpette,

ma con buone e saldissime minuge,

perchè stien forti ad un rumores fuge.

37

In tal confusïone, in quel vilume,

all'udir quei lamenti e quegli affanni,

a molti ch'eran già dentro alle piume,

lo sbucar fuori parve allor mill'anni:

chi per vestirsi riaccende il lume,

perocch'al buio non ritrova i panni;

chi nudo scappa fuori, e non fa stima

che dietro gli sia fatto lima lima.

38

Perchè s'egli ha camicia o brache o vesta,

non bada che gli facciano il baccano;

bensì del tristo avviso afflitto resta,

onde più d'un poi giuoca di lontano:

chi torna indietro a fasciarsi la testa,

e chi si tinge con il zafferano;

chi dice che una doglia gli s'è presa,

per non avere a ire a far difesa.

39

Altri, che fugge anch'ei simil burrasca,

finge l'infermo, e vanne allo spedale:

e benchè sano ei sia com'una lasca,

col medico s'intende o col speziale;

perchè all'uno ed all'altro empie la tasca

acciò gli faccian fede ch'egli ha male:

ed essi questo e quel scrivon malato:

e chi più dà, lo fan di già spacciato.

40

Sicchè con queste finte e con quest'arte

costor, che usan la tazza e non la targa,

servir volendo a Bacco e non a Marte,

che non fa sangue, ma vuol che si sparga,

d'uno stesso voler la maggior parte

trovan la via di starsene alla larga;

ed il restante, non sì astuto e scaltro,

comparisce, perch'ei non può far altro.

41

Mentre in piazza si fa nobil comparsa,

anche in palazzo armata la regina,

con una treccia avvolta, e l'altra sparsa,

corre alla malmantilica rovina;

benchè ne' passi poi vada più scarsa,

perchè all'uscio da via mai s'avvicina.

Da sette volte in su già s'è condotta

fino alla soglia, ma quel sasso scotta.

42

Viltà l'arretra, onor di poi la 'nvita

a cimentar la sua bravura in guerra:

l'esorta l'una a conservar la vita,

l'altro a difender quanto può la terra.

Pur, fatto conto di morir vestita,

voltossi a bere; e divenuta sgherra

(Perocchè Bacco ogni timor dilegua)

dice: o de' miei, chi mi vuol ben mi segua.

43

Dietro a' suoi passi mettesi in cammino

Maria Ciliegia, illustre damigella:

tutto lieto la segue il Ballerino,

che canta il titutrendo falalella;

va Meo col paggio; zoppica Masino,

corre il Masselli, e il capitan Santella;

molti e molt'altri amici la seguiro,

e più mercanti, c'hanno avuto il giro.

44

La segue Piaccianteo suo servo ed aio,

che in gola tutto quanto il suo si caccia:

le cacchiatelle mangia col cucchiaio,

ed è la distruzion della vernaccia.

Già misurò le doppie collo staio;

finita poi, che fu quella bonaccia,

pel contagio portò fin la barella:

ed ora in corte serve a Bertinella.

45

Comanda la padrona ch'egli scenda,

e stia giù fuori con gli orecchi attenti

fra quelle schiere, finch'ei non intenda

a che fine son là cotante genti;

ma quegli, al qual non piace tal faccenda,

se la trimpella e passa in complimenti:

e perchè a' fichi il corpo serbar vuole,

prorompe in queste o simili parole:

46

Alta Regina, perchè d'obbedire

più d'ogni altro a' tuoi cenni mi do vanto,

colà n'andrò; ma, come si suol dire,

come la serpe quando va all'incanto:

non ch'io fugga il pericol di morire,

perch'io fo buon per una volta tanto,

ma perchè, s'io mi parto, non ti resta

un uom, che sappia dov'egli ha la testa.

47

Non ti sdegnar s'io dico il mio pensiero;

chè possibil non è ch'io taccia o finga:

e, s'e' n'andasse il collo, sempre il vero

son per dirti, e chi l'ha per mal, si cinga.

Ti servirò di cor vero e sincero,

senza interesse d'un puntal di stringa,

e non come in tua corte sono alcuni

adulator, che fanno Meo Raguni.

48

Io dunque, che non voglio esser de' loro,

ma tengo l'adular pessimo vizio,

soggiungo, e dico, per ridurla a oro,

che mal distribuito è questo ufizio,

e che non può passar con tuo decoro;

poichè, mostrando non aver giudizio,

un tuo aio ne mandi a far la spia,

quasi d'uomin tu avessi carestia.

49

Manda manda a spiar qualche arfasatto,

o un di quei che piscian nel cortile:

questo farà il mestier come va fatto,

senza sospetto dar nel campo ostile;

ostile dico, mentre costa in fatto,

che cinto ha d'armi tutto Malmantile.

Tal gente si può dire a noi contraria,

perchè non vien quassù per pigliar aria.

50

E perch'ei non vorrebbe uscir del covo,

soggiunge dopo queste altre ragioni;

ma quella, che conosce il pel nell'uovo,

s'accorge ben che son tutte invenzioni;

però, senza più dirglielo di nuovo,

lo manda fuori a furia di spintoni;

e mentre ei pur volea 'mbrogliar la Spagna,

gli fa l'uscio serrar sulle calcagna.

51

Sperante resta alla Regina intorno,

spianator di pantondo riformato:

gridan le spalle sue remo e Livorno,

ed ha un culo che pare un vicinato:

la pala nella destra tien del forno,

nella sinistra un bel teglion marmato

in cambio di rotella, che gli guarda

da' colpi il magazin della mostarda.

52

De' Rovinati anch'ei passò la barca;

perchè la gola, il giuoco, e il ben vestire

gli aveano il pane, la farina e l'arca

in fumo fatto andar come elisire;

talchè cantando poi, come il Petrarca,

«Amore, io fallo, e veggo il mio fallire»

al giuoco del Barone e alla Bassetta

giuocava, apparecchiando alla Crocetta.

53

Fu dalle dame amato in generale

(Io dico dalle prime della pezza);

poi Bertinella stavane sì male,

ch'ella fece per lui del ben bellezza;

perchè, spesa la roba, e concia male,

fatta più bolsa d'una pera mezza,

potea di notte, quanto a mezzo giorno,

andar sicura per la fava al forno.

54

Ma poi, venuta quasi per suo mezzo

a porsi sopr'al capo la corona,

e lasciati di già gli stenti e il lezzo,

profumata si sta nella pasciona;

ne 'mpazza affatto, e non lo vede a mezzo:

e pospostane lei, ch'è la padrona,

e Martinazza, ch'è la salamistra,

Sperante sempre va in capo di listra.

55

Or perch'egli è di nidio e navicello,

e forte e sodo come un torrione,

gli dà l'ufizio e titol di Bargello,

colla solita sua provvisïone;

perchè, se in questo caso alcun ribello

si scuopre, facil sia farlo prigione;

acciò sul letto poi di Balocchino

se gli faccia serrare il nottolino.

56

Fa in tanto nel castel toccar la cassa,

e inalberar la 'nsegna del carroccio;

e comandante elegge della massa

il nobil cavalier Maso di Coccio,

che 'n fretta alla rassegna se ne passa,

colle schiere però fatte a babboccio;

che ad una ad una accomoda e dispone

sotto sua guida e sotto suo campione.

57

Il primo è il Furba, nobile stradiere,

che non giuoca alla buona e meno a' goffi;

a' noccioli bensì si fa valere,

perch'ei dà bene i buffi, e meglio i soffi.

Il secondo è il Vecchina, il gran barbiere,

che vuol che ognor si trinchi e si sbasoffi;

e dove a mensa metter può la mano,

si fa la festa di San Gimignano.

58

Dalle fredde acque il Mula i fanti approda

a spiaggia militar fra fronde e frasche:

ha nobil bardatura tinta in broda

di cedri e di ciriege d'amarasche.

Co' pescatori al Mula ora s'accoda

Dommeo, treccon de' ghiozzi e delle lasche.

Pericol Pallerino anch'ei ne mette

dugento suoi, armati di racchette.

59

Melicche, cuoco, all'ordine s'appresta;

per giannettina ha in mano uno stidione,

ed un pasticio per visiera in testa,

con pennacchio di penne di cappone;

un candido grembiul per sopravvesta

gli adorna il culo e l'uno e l'altro arnione;

una zana è il suo scudo; e nell'armata

conduce tutta Norcia e la vallata.

60

L'unto Sgaruglia con frittelle a josa

alla squadra de' cuochi ora soggiugne

quella de' battilani assai famosa,

gente, che a bere è peggio delle spugne:

a cui battiem, diceva, la calcosa,

ch'affeddeddieci là, dove si giugne,

noi non abbiamo a scardassar più lana,

ma s'ha far sempre la Lunediana.

61

Conchino di Melone ecco s'affaccia,

che, l'osteria tenendo degli Allori,

col fine e saldo d'un buon pro vi faccia

ha dato un frego a tutt'i debitori;

che tutti allegri e rubicondi in faccia,

cantando una canzone a quattro cori,

di gran coltelli e di taglieri armati,

si son per amor suo fatti soldati.

62

Scarnecchia, che di guerra è un ver compendio,

l'eroe degli arcibravi, e dico poco,

a cui dovrebbe dar piatto e stipendio

chiunque governa in qualsivoglia loco,

perchè, quando seguisse qualche incendio,

ei fa il rimedio per guarir dal fuoco,

mena gente avanzata a mitre e a gogne,

da vender fiabe, chiacchiere e menzogne.

63

Rosaccio con altissime parole,

movendo il piè, racconta che a pigione,

fa per quel mese dar la casa al sole,

e nel Zodiaco alloga lo Scorpione:

così sballando simil ciance e fole,

si tira dietro un nugol di persone.

Fa per impresa, in mezzo all'intervallo

di due sue corna, un globo di cristallo.

64

Sopra un letto ricchissimo fiorito

portar Pippo si fa del Castiglione,

ove coperto sta tutto vestito,

chè in tal modo lo scalda al suo padrone;

e pur, se in arme ei non fu gran perito,

guerrier comodo è almen nel padiglione.

Questo impera dal morbido piumaccio

a quelli del mestier di Michelaccio.

65

A gire a Batistone adesso tocca,

gran gigante da Cigoli, di quelli

che vanno a côrre i ceci colla brocca,

e batton colle pertiche i baccelli:

per sue bellezze Amore ha sempre in cocca,

per ferir dame, i dardi ed i quadrelli;

fa il cavaliere nelle cavalcate,

e va spesso furiero alle nerbate.

66

Cento suggetti egli ha della sua classe,

anch'eglino pigmei distorti e brutti;

fanti, che nacquer nelle Magne basse;

ma sebben son piccini, e' vi son tutti.

Mangian spinaci, arruffan le matasse,

ed ha più vizi ognun di sei Margutti:

cosa è questa, che va pel suo diritto,

chè non è in corpo storto animo dritto.

67

Piena di sudiciume e di strambelli,

gran gente mena qua Palamidone,

che il giorno vanne a Carpi ed a Borselli,

e la notte al Bergel porta il lancione:

maestro de' bianti e de' monelli,

e' veste la corazza da bastone;

perch'egli, quanto ogni altro suo allievo,

è tutto il dì figura di rilievo.

68

Comparisce frattanto un carro in piazza

da Farfarel tirato e Barbariccia,

ubbidïenti al cenno della mazza,

soda, nocchiuta, ruvida e massiccia,

con che la formidabil Martinazza

a lor, ch'è ch'è, le costole stropiccia.

E quei demòni in forma di camozza

van tirando a battuta la carrozza.

69

Costei è quella strega maliarda,

che manda i cavallucci a Tentennino,

ed egli un punto a comparir non tarda,

quand'ella fa lo staccio o il pentolino;

come quand'ella s'unge e s'inzavarda

tutta ignuda nel canto del cammino,

per andar sul barbuto sotto il mento

colla granata accesa a Benevento.

70

Ove la notte al Noce eran concorse

tutte le streghe anch'esse sul caprone,

i diavoli e col bau le bilïorse,

a ballare e cantare e far tempone;

ma quando presso al dì l'ora trascorse,

fa di mestieri battere il taccone:

come a costei, che or viensene di punta,

e in su quel carro nel castello è giunta.

71

E la cagion si è, ch'ella ne vada

adesso a casa tutta in caccia e in furia,

l'aver veduto dentro alla guastada

un segno, che le ha data cattiv'uria;

perchè vi scorse una sanguigna spada,

che alla sua patria minacciava ingiuria;

perciò, se nulla fosse di quel regno,

ne viene anch'essa a dare il suo disegno.

72

Fuggì tutta la gente spaventata

all'apparir dell'orrido spettacolo;

la piazza fu in un attimo spazzata,

pur un non vi rimase per miracolo.

Così correndo ognuno all'impazzata,

si fa l'un l'altro alla carriera ostacolo;

chi dà un urton, quell'altro dà un tracollo,

chi batte il capo, e chi si rompe il collo.

73

Figuriamci vedere un sacco pieno

di zucche o di popon sopra un giumento,

che, rottasi la corda, in un baleno

ruzzolan tutti fuor sul pavimento,

e nell'urtarsi batton sul terreno;

chi si percuote, e chi s'infrange drento,

chi si sbuccia in un sasso, e chi s'intride,

ed un altro in due parti si divide.

74

Così fa quella razza di coniglio;

che, nel fuggir la vista di quel cocchio,

chi si rompe la bocca o fende un ciglio,

e chi si torce un piede e chi un ginocchio;

a talchè, nel veder quello scompiglio,

io ho ben preso, dice, qui lo scrocchio,

mentre a costor così comparir volli:

sapeva pur chi erano i miei polli.

75

Scese dal carro poi, per impedire

così gran fuga e rovinosa fola;

ma quei viepiù si studiano a fuggire,

e mostra ognun se rotte ha in piè le suola;

chè finalmente, come si suol dire,

chi corre corre, ma chi fugge vola;

ond'ella, benchè adopri ogni potere,

vede che farà tordo a rimanere.

76

Perciò si ferma strambasciata e stracca;

ritorna in dietro, ed un de' suoi caproni

dalla carretta subito distacca,

e gli si lancia addosso a cavalcioni;

così correndo, tutta si rinsacca,

perchè quel diavol vanne balzelloni.

Pur dicendo: arri là, carne cattiva,

lo fruga sì, che al fin la ciurma arriva.

 

 

QUARTO CANTARE

Argomento

I guerrier di Baldon son mal disposti,

perchè la fame in campo gli travaglia.

Il Fendesi, e Perlon lasciano i posti,

non vedendo arrivar la vettovaglia.

Psiche non tiene i suoi pensieri ascosti

a Calagrillo, cavalier di vaglia,

che promette aiutar la damigella,

e poscia ascolta una gentil novella.

 

1

Omnia vincit Amor, dice un testo;

e un altro disse, e diede più nel segno:

Fames Amorem superat; e questo

è certo, e approva ognun c'ha un po' d'ingegno;

perchè, quantunque Amor sia sì molesto,

che tutt'i martorelli del suo regno

dicano ognora: ahi lasso! io moro, io pèro;

e' non si trova mai che ciò sia vero.

2

Non ha che far nïente colla Fame,

che fa da vero, purch'ella ci arrivi;

posson gli amanti star senza le dame

i mesi e gli anni, e mantenersi vivi;

ma se due dì del consueto strame

i poveracci mai rimangon privi,

e' basta; chè de fatto andar gli vedi

a porre il capo dove il nonno ha i piedi.

3

Talchè si vien da questi effetti in chiaro,

che d'Amore la Fame è più potente;

ond'è che ognun di lui più questa ha caro,

e quando alle sue ore ei non la sente,

lamentasi, e gli pare ostico e amaro.

Perciò riceve torto dalla gente,

mentre ciascun la cerca e la desia,

e s'ella viene, vuol mandarla via.

4

Anzi la scaccia, come un animale

sul buon del desinare e della cena:

per questo ella talor, che l'ha per male,

più non gli torna; ovver per maggior pena

in corpo gli entra in modo e nel canale,

che non l'empierebb'Arno colla piena;

come vedremo che a Perlone ha fatto,

che a questo conto grida come un matto.

5

Desta l'Aurora omai dal letto scappa,

e cava fuor le pezze di bucato;

poi batte il fuoco, e cuocer fa la pappa

pel suo giorno bambin ch'allora è nato.

E Febo, ch'è il compar, già colla cappa

e con un bel vestito di broccato,

che a nolo egli ha pigliato dall'Ebreo,

tutto splendente viensene al corteo.

6

Nè per ancora le Ugnanesi genti

hanno veduto comparire in scena

la materia che dà il portante a' denti,

e rende al corpo nutrimento e lena;

perciò molti ne stanno malcontenti,

che son usi a tener la pancia piena:

e ben si scorge a una mestizia tale,

che la mastican tutti più che male.

7

È tra costoro un certo girellaio,

che per l'asciutto va su i fuscellini,

male in arnese, e indosso porta un saio

che fu sin del Romito de' Pulcini.

Ci è chi vuol dir ch'ei dorma in un granaio,

perc'ha il mazzocchio pien di farfallini:

è matto in somma; pur potrebbe ancora

un dì guarirne, perchè il mal dà in fuora.

8

E perch'ei non avea tutt'i suoi mesi,

fu il primo ad esclamare e far marina,

forte gridando: oimè! ch'io vado a Scesi

pel mal che viene in bocca alla gallina.

Onde Eravano e don Andrea Fendesi,

che abbruciavano insieme una fascina,

e per cibare i lor ventri di struzzoli

cercavan per le tasche de' minuzzoli,

9

mentre di gagnolar giammai non resta

costui ch'è senza numero ne' rulli,

anzi rinforza col gridare a testa,

lasciano il fuoco e i vani lor trastulli:

e per vedere il fin di questa festa,

se ne van discorrendo grulli grulli

del bisogno ch'essi han che 'l vitto giunga,

perchè sentono omai sonar la lunga.

10

Così domandan chi sia quei ch'esclama,

e mette grida ed urli sì bestiali.

Gli è detto: questo è un tale che si chiama

Perlone, dipintor de' miei stivali;

un uom, che al mondo acquistasi gran fama

nel far de' ceffautti pe' boccali:

e con gl'industri e dotti suoi pennelli

suo nome eterno fa negli sgabelli.

11

Si trova in basso stato, anzi meschino;

ma benchè il furbo ne maneggi pochi,

giuocherebbe in su' pettini da lino,

chè un'ora non può viver ch'ei non giuochi.

Ma s'ei vincesse un dì pur un quattrino,

in vero si potrebbon fare i fuochi;

perchè, giuocando sempre giorno e notte,

farebbe a perder colle tasche rotte.

12

Giuocossi un suo fratel già la sua parte,

suo padre fu del giuco anch'egli amico;

però natura qui n'incaca l'arte,

avendo ereditato il genio antico.

Costui teneva in man prima le carte,

che legato gli fosse anche il bellico;

e pria che mamma, babbo, pappa e poppe,

chiamò spade, baston, danari e coppe.

13

Ma perchè voi sappiate il personaggio

che ciò racconta, è il Franco Vicerosa,

cavaliero, del qual non è il più saggio,

scrittor sublime in verso quanto in prosa;

dipinge, nè può farsi da vantaggio,

generalmente in qualsivoglia cosa;

vince nel canto i musici più rari,

e nel portare occhiali non ha pari.

14

È suo amico, ed è pur seco adesso,

Salvo Rosata, un uom della sua tacca;

perocchè anch'ei si abbevera in Permesso,

e pittor, passa chiunque tele imbiacca;

tratta d'ogni scienza ut ex professo,

e in palco fa sì ben Coviel Patacca,

che, sempre ch'ei si muove o ch'ei favella,

fa proprio sgangherarti le mascella.

15

Or perchè Franco ed egli ogni maniera

proccuran sempre di piacere altrui,

di Perlone dan conto, e dove egli era

di conserva n'andâr con gli altri due;

là dove minchionando un po' la fiera,

il Franco disse lor: questo è colui

che in zucca non ha punto; anzi ragionasi

d'appiccargli alla testa un appigionasi.

16

Spiacque il suo male ad ambi tanto tanto:

e mentre ei piange ch'e' si getta via,

il pietoso Eravan pianse al suo pianto,

verbigrazia, per fargli compagnia.

Poi tutto lieto postosegli accanto,

per cavarlo di quella frenesia,

di quelle strida e pianto sì dirotto,

che fa per nulla il bietolon mal cotto,

17

se forse, dice, tu sei stato offeso,

che fai tu della spada, il mio piloto?

A che tenere al fianco questo peso,

per startene a man giunte come un boto?

Se al corpo alcun dolor t'avesse preso,

gli è qua chi vende l'olio dello Scoto:

se t'hai bisogno d'oro, io ti fo fede

che qualsivoglia banca te lo crede.

18

Dopo Eravano poi nessun fu muto;

chè ognun gli volle fare il suo discorso,

offerendo di dargli ancora aiuto,

mentre dicesse quanto gli era occorso;

ond'ei, che avrebbe caro esser tenuto

d'aver piuttosto col cervello scorso,

alzando il viso, in loro gli occhi affisa,

e sospirando parla in questa guisa:

19

Non v'è rimedio, amici, alla mia sorte:

il tutto è vano, giacchè la sentenza

è stabilita in ciel della mia morte,

che vuol ch'io muoia, e muoia in mia presenza.

Già l'alma stivalata in sulle porte

omai dimostra d'esser di partenza;

e già col corpo tutt'i sentimenti

le cirimonie fanno e i complimenti.

20

Mutar devo mestier, se avvien ch'io muoia,

di soldato cioè nel ciabattino;

perocchè mi convien tirar le cuoia,

per gir con esse a rincalzare il pino.

Un'altra cosa ancor mi dà gran noia:

ed è, che sotto son come un cammino;

e che innanzi a Minòs e agli altri giudici

rappresentar mi debba co' piè sudici.

21

Ma ecco omai l'ora fatale è giunta,

ch'io lasci il mio terrestre cordovano;

già già la Morte corre, che par unta,

verso di me colla gran falce in mano;

spinge ella il ferro nel bel sen di punta,

ond'io mancar mi sento a mano a mano;

però lo spirto e il corpo in un fardello

tiro fuor della vita e vo all'avello.

22

Ormai di vita son uscito, e pure

non trovo al mio penar quiete e conforto.

O cielo, o mondo, o Giove, o creature,

dite, se udiste mai così gran torto?

Se Morte è fin di tutte le sciagure,

come allupar mi sento, ancorchè morto?

E come, dove ognuno esce di guai,

mi s'aguzza il mulino piucchè mai?

23

Va' a dir che qua si trovi pane o vino

o altro da insegnar ballare al mento:

se non si fa la cena di Salvino,

quanto a mangiare, e' non c'è assegnamento.

O ser Isac, o Abramo, o Iacodino,

quando v'avete a ire al monumento,

voi l'intendete, che nel cataletto

con voi portate il pane ed il fiaschetto.

24

Orbè, compagni, olà dal cimitero,

se 'l ciel danari e sanità vi dia,

empiete il buzzo a un morto forestiero,

o insegnategli almeno un'osteria.

Sebben voi fate qui sempre di nero,

perchè di carne avete carestia,

è tale l'appetito che mi scanna,

che un diavol cotto ancor mi parrà manna.

25

Sebben non c'è da far cantare un cieco,

di questa spada all'oste fo un presente,

che ad ogni mo', da poi ch'ella sta meco,

mai battè colpo o volle far nïente.

Per una zuppa dolla ancor di greco.

Ma che gracch'io? qui nessun mi sente.

Che fo? se i morti son di pietà privi,

meglio sarà ch'io torni a star tra' vivi.

26

Qui tacque, e per fuggir la via si prese,

facendo sempre il Nanni ed il corrivo;

perch'egli è un di que' matti alla sanese,

c'han sempre mescolato del cattivo.

Per aver campo a scorrere il paese,

ne fece poi di quelle coll'ulivo,

mostrando ognor più dar nelle girelle;

e tutto fece per salvar la pelle.

27

Perch'uno, che il soldato a far s'è messo,

mentre dal campo fugge e si travia,

sendo trovato, vien senza processo

caldo caldo mandato in Piccardia.

Però s'ei parte, non vuol far lo stesso,

ma che lo scusi e salvi la pazzia;

onde minchion minchion, facendo il matto,

se ne scantona che non par suo fatto.

28

Il Fendesi a scappare anch'ei fu lesto,

con gli altri tre correndo a rompicollo;

volendo risicar prima un capresto,

e morir collo stomaco satollo,

che restar quivi a menarsi l'agresto,

ed allungare a quella foggia il collo.

Il danno certo è sempre da fuggire;

s'egli avvien peggio poi, non c'è che dire.

29

Lasciam costoro, e vadan pure avanti

cercando il vitto lì per quel contorno;

che se fame gli caccia, e' son poi fanti

da battersi ben ben seco in un forno;

perchè d'un gran guerrier convien ch'io canti,

mezzo impaniato, perch'egli ha d'intorno

una donna straniera in veste bruna,

che s'affligge e si duol della fortuna.

30

Calagrillo è il guerriero, e via pian piano

cavalcando ne va con festa e gioia,

ognor tenendo il chitarrino in mano,

perchè il viaggio non gli venga a noia.

È bravo sì, ma poi buon pastricciano;

e' farebbe servizio infino al boia:

venga chi vuol, a tutti dà orecchio,

sebben e' fosse il Bratti Ferravecchio.

31

Poichè bella è colei che si dispera

sempre piangendo senz'alcun ritegno,

e vanne, come io dissi, in cioppa nera

per dimostrar di sua mestizia il segno,

perciò con viso arcigno e brutta cera

par un Ebreo ch'abbia perduto il pegno;

e di quanto l'affligge e la travaglia,

Calagrillo il campion quivi ragguaglia.

32

Signore, incominciò, devi sapere,

ch'io ebbi un bel marito; ma perch'io

dissi chi egli era contro al suo volere,

già per sett'anni n'ho pagato il fio;

perch'egli allor, per farmela vedere,

stizzato meco se n'andò con Dio

in luogo, che a volerlo ritrovare

la carta vi volea da navicare.

33

E quando poi io l'ho bell'e trovato,

Martinazza, ch'è sempre lo scompiglia,

fa sì, che pur di nuovo m'è scappato,

ed in mia vece all'amor suo s'appiglia.

Tal ch'io rimango cacciator sgraziato:

scuopro la lepre, e un altro poi la piglia.

Ti dico questo, perchè avrei voluto

che tu mi dessi a raccattarlo aiuto.

34

Ei le promette e giura che 'l marito

le renderà; però non si sgomenti:

e se non basterà quel c'ha smarrito,

quattro e sei, bisognando, e dieci e venti.

Ed ella lo ringrazia, e del seguito

di tante sue fatiche e patimenti

(Fatta più lieta per le sue promesse)

così da capo a raccontar si messe:

35

Cupido è la mia cara compagnia,

ricco garzon, sebben la carne ha ignuda;

anzi non è: t'ho detto una bugia;

perch'ei non mi vuol più cotta nè cruda.

Ma senti pure, e nota in cortesia:

quando la madre sua, ch'era la druda

del fiero Marte, idest la Dea d'Amore,

gravida fu di questo traditore,

36

perch'una trippa avea, che conveniva

che dalle cigne omai le fosse retta,

cagion, che in Cipro mai di casa usciva,

se non con due braccieri ed in seggetta;

pur sempre con gran gente e comitiva,

com'a Regina, com'ell'è, s'aspetta;

i paggi addietro e gli staffier dinanzi,

e dagl'inlati due filar di Lanzi;

37

essendo così fuori una mattina

per suoi negozi e pubbliche faccende,

urtò per caso una vacca trentina,

e tocca appena, in terra la distende;

ond'ella, dopo un'alta rammanzina,

perch'una lingua ell'ha che taglia e fende:

va', che tu faccia, quando ne sia otta,

un figliuol, dice, in forma d'una botta.

38

E così fu; chè in vece d'un bel figlio,

di suo gusto e di tutt'i terrazzani,

un rospo fece come un pan di miglio,

che avrebbe fatto stomacare i cani;

che poi, cresciuto, fecesi consiglio

di dargli un po' di moglie; ma i mezzani

non trovaron mai donna nè fanciulla,

che saper ne volesse o sentir nulla.

39

Se non che i miei maggiori finalmente,

mio padre che 'l bisogno ne lo scanna,

con un mio zio ch'andava pezïente,

e un mio fratello anch'ei povero in canna,

sperando tutti e tre d'ungere il dente

e dire: o corpo mio, fátti capanna,

e riparare ad ogni lor disastro,

me gli offeriro, e fecesi l'impiastro.

40

Fu volentier la scritta stabilita;

io dico sol da lor, che fan pensiero

di non aver a dimenar le dita,

ma ben di diventar lupo cerviero.

E perchè e' son bugiardi per la vita,

dimostrano a me poi 'l bianco pel nero;

dicendomi, che m'hanno fatta sposa

d'un giovanetto, ch'è sì bella cosa.

41

Soggiunsero di lui mill'altre bozze;

ma quando da me poi lo veddi in faccia

con quella forma e membra così sozze,

pensate voi se mi cascò le braccia:

anzi nel giorno proprio delle nozze,

che a darmi ognun venia il buon pro vi faccia,

ogni volta, con mio maggior dolore,

sentivo darmi una stoccata al cuore.

42

Non lo volevo; pur mi v'arrecai,

veduto avendo ogni partito vinto;

ma perchè non è il diavol sempre mai

cotanto brutto com'egli è dipinto,

quand'io più credo a gola esser ne' guai,

ecco al mio cuore ogni travaglio estinto;

vedendo ch'ei lasciò, sendo a quattr'occhi,

la forma delle botte e de' ranocchi.

43

E molto ben divenne un bel garzone,

che m'accolse con molta cortesia;

ma subito mi fa commissïone,

ch'io non ne parli mai a chicchessia,

perch'io sarò, parlandone, cagione

ch'ei si lavi le man de' fatti mia,

e per nemmen sentirmi nominare

si vada vivo vivo a sotterrare.

44

E perchè quivi ancora avrà paura

ch'io non vada a sturbargli il suo riposo,

avrà sopr'ad un monte sepoltura

che mai si vedde il più precipitoso,

ed alto poi così fuor di misura,

che non v'andrebbe il Bartoli ingegnoso;

oltrechè innanzi ch'io vi possa giugnere,

ci vuol del buono, e ci sarà da ugnere.

45

Poichè una strada troverò nel piano,

che veder non si può giammai la peggio;

poi, giunta a piè del monte alpestre e strano,

con due uncini arrampicar mi deggio,

menando all'erta or l'una or l'altra mano

come colui che nuota di spasseggio;

ed anche andar con flemma e con giudizio

s'io non me ne vogl'ire in precipizio.

46

Scosceso è il monte, in somma, e dirupato;

e 'l viaggio lunghissimo e diserto.

Così disse Cupido smascherato,

dopo cioè ch'ei mi si fu scoperto;

ond'io promessi di non dir mai fiato,

e che prima la morte avria sofferto,

che trasgredir d'un punto in fatti o in detti

i suoi gusti, i suoi cenni, i suoi precetti.

47

Nè tal cosa a persona avrei scoperta;

ma perchè tuttavia la gente sciocca

ridea del rospo e davami la berta,

ed io che quand'ella mi viene in cocca

non so tenere un cocomero all'erta,

mi lasciai finalmente uscir di bocca

che quel non era un rospo, ma in effetto

un grazïoso e vago giovanetto.

48

E che, se lo vedesson poi la notte

quando in camera meco s'è serrato

e getta via la scorza delle botte,

ch'un Sole proprio par pretto sputato,

le male lingue forse starian chiotte

che sì de' fatti altrui si danno piato;

perocchè non si può tirare un peto,

che il comento non voglian fargli dreto.

49

Le ciglia inarca e tien la bocca stretta

chiunque da me tal maraviglia ascolta;

ma quel che importa, a sordo non fu detta;

chè Vener che ogni cosa avea ricolta,

per veder s'ella è vera o barzelletta,

poichè a dormire ognun se l'era colta,

entra in camera e vien pian piano al letto,

e trova il tutto appunto come ho detto.

50

E nel vedere in terra quella spoglia

che per celarsi al mondo il giorno adopra,

di levargliela via le venne voglia,

acciò con essa più non si ricuopra;

così la prende, e poi fuor della soglia

fa un gran fuoco e ve la getta sopra:

nè mai di lì si volle partir Venere,

insinchè non la vedde fatta cenere.

51

Fu questa la cagion d'ogni mio male;

perchè quando Cupido poi si desta,

si stropiccia un po' gli occhi e dal guanciale

per levarsi dal letto alza la testa,

e va per rivestirsi da animale,

nè trovando la solita sua vesta,

si volta verso me, si morde il dito,

e nello stesso tempo fu sparito.

52

Non ti vo' dir com'io restassi allora,

che mi sovvenne subito di quando

il primo dì mi si svelò, che ancora

mi fece l'espressissimo comando

che in alcun tempo io non la dessi fuora;

ed io son ita, sciocca, a fare un bando:

e poi mi pare strano e mi scontorco,

s'egli è in valigia ed ha comprato il porco.

53

Sospesa per un pezzo me ne stetti,

ch'io aspettava pur ch'ei ritornasse;

a cercarne per casa poi mi detti,

per le stanze di sopra e per le basse.

Guardo su pel cammin, giro in su i tetti,

apro gli armari e fo scostar le casse;

nè trovandolo mai, al fin mi muovo

per non fermarmi finch'io non lo trovo.

54

Scappo di casa, e via vo sola sola;

nè son lontana ancora una giornata,

ch'io sento dire: aspettami figliuola.

Mi volto, e dietro veggomi una Fata;

e perch'ella mi diede una nocciuòla,

quest'è meglio, diss'io, d'una sassata.

Di ciò ridendo, un'altra sua compagna

mi pose in mano anch'ella una castagna.

55

Ed io, che allora avrei mangiato i sassi,

m'accomodai per darvi su di morso;

ma fummi detto ch'io non la stiacciassi,

se un gran bisogno non mi fosse occorso.

Vergognata di ciò, con gli occhi bassi

il termine aspettai del lor discorso;

poi, fatte le mie scuse e rese ad ambe

mille grazie, le lascio, e dolla a gambe.

56

Ripongo la nocciuòla e la castagna,

e rimetto le gambe in sul lavoro

per una lunga e sterile campagna

disabitata più che lo Smannoro.

Dopo cinqu'anni giunta a una montagna,

mi si fe' innanzi un grande e orribil toro,

che ha le corna e i piè tutti d'acciaio,

e tira, che correbbe nel danaio.

57

E come cavalier che al saracino

corre per carnovale o altra festa,

verso di me ne viene a capo chino,

colla sua lancia biforcata in testa.

Io già colle budella in un catino

addio, dicevo al mondo, addio chi resta;

addio Cupído, dove tu ti sia,

a rivederci ormai in pellicceria.

58

O mamma mia, che pena e che spavento

ebbe allor questa mezza donnicciuola!

Tremavo giusto come un giunco al vento;

chè quivi mi trovavo inerme e sola.

Pur, come volle il cielo, io mi rammento

del dono delle Fate; e la nocciuòla

presa per caso, presto sur un sasso

la scaglio; ella si rompe, e n'esce un masso.

59

Tal pietra per di fuori è calamita,

e ripiena di fuoco artifiziato.

Ormai arriva il toro, ed alla vita

con un lancio mi ven tutto infuriato:

ma perchè dietro al masso ero fuggita,

il ribaldo riman quivi scaciato;

chè in esso dando la ferrata testa,

in quella calamita affisso resta.

60

Sfavilla il masso al batter dell'acciaro,

e dà fuoco al rigiro ch'è nascosto;

ed egli, a' razzi ch'allor ne scapparo,

un colpo fatto aver vede a suo costo,

perchè non vi fu scampo nè riparo

ch'ei tra le fiamme non si muoia arrosto.

Ed io, scansato il fuoco e ogni altro affronto,

lieta mi parto e tiro innanzi il conto.

61

Più là ritrovo un grand'uccel grifone,

e topi assai che giran come pazzi,

perch'egli, entrato in lor conversazione,

gli becca, graffia e ne fa mille strazzi.

Di lor mi venne gran compassïone,

e vo per ovviar ch'ei non gli ammazzi;

ma quei mi sente al moto, e in piè si rizza,

e per cavarsi vien con me la stizza.

62

Questo animale ha il busto di cavallo,

di bue la coda, e in sulle spalle ha l'ale;

il capo e il collo giusto come il gallo,

e i piè di nibbio vero e naturale;

gli artigli di fortissimo metallo,

grandi, grossi e adunchi in modo tale,

che non vedesti, quando leggi o scrivi,

mai de' tuo' dì i più bei interrogativi.

63

Son appuntati poi, che a far più acuto

un ago altrui darebbe delle brighe;

talchè, se al viso fossemi venuto,

con essi mi lasciava assai più righe

d'un libro di maestro di liuto

e d'una stamperia di falsarighe,

con farmi a liste come le gratelle,

da cuocervi le triglie e le sardelle.

64

Or per tornare: in quel ch'io ho timore

che 'l mio grifo sia scherzo del grifone,

la castagna, ch'i'ho in tasca, caccio fuore,

la rompo, e n'esce subito un lione,

che mi scemò non poco il batticuore;

perch'egli in mia difesa a lui s'oppone,

e mostrògli or coll'ugna ed or co' denti,

in che mo' si gastigan gl'insolenti.

65

L'uccello anch'egli, che non ha paura,

gli rende molto ben tre pan per coppia;

ma quel, che aver del suo nulla si cura,

il contraccambio subito raddoppia;

e ben ch'ei voglia star seco alla dura,

l'afferra e stringe tanto, ch'egli scoppia;

di poi garbatamente gli riseca

gli stinchi su' nodelli e me gli reca.

66

Metto uno strido, e mi ritiro in dreto,

io, c'ho paura allor, ch'ei non m'ingoi;

ma quegli, ch'è un lione il più discreto

che mai vedesse il mondo o prima o poi,

ciò conoscendo, tutto mansueto

gli lascia in terra, e va pe' fatti suoi.

Ed io gli prendo allora, essendo certa

d'averne aver bisogno in sì grand'erta;

67

là dove non si può tenere i piedi,

ma bisogna che l'uom vada carponi.

Perciò con quegli uncini poi mi diedi

a costeggiar il monte brancoloni:

e convenne talor farsi da piedi,

battendo giù di grandi stramazzoni,

perchè non v'è dove fermare il passo;

cagion, che spesso mi trovai da basso.

68

Tutti quei topi via ne vengon ratti,

e furon per mangiarmi dalla festa;

perocchè dalle granfie io gli ho sottratti

di quella bestia a lor tanto molesta.

Così vo rampicando come i gatti

sull'aspro monte dietro alla lor pesta,

sopportando fatiche, stenti e guai,

e fame e sete quanto si può mai.

69

Pur finalmente in capo a due altr'anni

giungemmo al luogo tanto desiato.

Ma non finiron qui mica gli affanni,

perchè di muro il tutto è circondato;

e qui s'aggiunge ancor male a malanni,

ch'io trovo l'uscio, ma 'l trovo diacciato.

pensa se allor mi venne la rapina,

e s'io dicevo della violina.

70

Ora tu sentirai, che 'l dare aiuto

a tutti quanti sempre si conviene;

perchè giammai quel tempo s'è perduto,

che s'è impiegato in far altrui del bene.

Non dico sol all'uomo, ma anche a un bruto

che forse immondo e inutile si tiene,

e che tu non lo stimi anche una chiosa;

perocch'ognuno è buono a qualche cosa.

71

Se tu giovi al compagno, allor tu fai

(Quasi gli presti roba) un capitale;

anzi talor, per poco che gli dài,

ti rende più sei volte che non vale.

Ma non si dee ciò pretender mai,

perch'ell'è cosa che starebbe male;

questo è un censo, il quale a chi lo prende

richieder non si può, s'ei non lo rende.

72

Guarda s'ell'è così: io, per la mia

pietà di prender di quei topi cura,

da lor vinta restai di cortesia

e n'ebbi la pariglia coll'usura;

perocchè in questa zezza ricadía,

ch'io ho d'aver trovata clausura,

eglino tutti sul cancel saliro

e si fermaro, ove è la toppa, in giro.

73

E gli denti appiccando a quel legname

come se 'n bocca avessero un trapáno,

presto presto vi fecero un forame,

da porre il fiasco e vendere il trebbiano;

talchè, in terra cascando ogni serrame,

spalanco l'uscio di mia propria mano

e passo dentro, e resto pur confusa,

perch'ancor quivi è un'altra porta chiusa.

74

Ma parve giusto come bere un uovo

a' topi farvi il consueto foro.

E dopo questa a un'altra, e poi di nuovo

infino a sette fanno quel lavoro;

quando fra verdi mirti mi ritrovo,

che fan corona a una cassa d'oro,

ch'è a piè d'un tempio ch'è dipinto a graffio,

e a prima faccia tien quest'epitaffio:

75

Cupído Amor, che tanti ha sbolzonato,

bersaglio qui si giace della morte:

ei, ch'era fuoco, il naso ora ha gelato,

se i cuor legò, prigione è in queste porte.

Hallo trafitto, morto e sotterrato

quella cicala della sua consorte;

nè sorgerà, se pria colma di pianto

non sarà l'urna che gli è qui da canto.

76

Non ti vo' dire adesso, se in quel caso

mi diventaron gli occhi due fontane,

e feci come chi s'è rotto il naso,

che versa il sangue e corre al lavamane.

Così cors'io a piangere a quel vaso,

durando a lagrimar sei settimane;

e per aver quel più voglia di piagnere

mi diedi pugna sì, ch'io m'ebbi a infragnere.

77

Quando veddi ch'egli era poco meno

in su che all'orlo ed esser a buon porto,

volli, innanzi ch'e' fosse affatto pieno

e che 'l marito mio fosse risorto,

lavarmi il viso e rassettarmi il seno,

acciò sì lorda non m'avesse scorto.

Perciò mi parto, e cerco se in quel monte

per avventura fosse qualche fonte.

78

In quel ch'io m'allontano, com'io dico,

Martinazza, che era in Stregheria,

passò di là portata dal nimico,

chè non potette star per altra via;

e perchè sempre fu suo modo antico

di far per tutto a alcun qualche angherìa,

lesse il pitaffio, squadrò l'urna, e tenne

che lì fosse da farne una solenne.

79

Se qua, dice fra sè, Cupído dorme,

vo' risvegliarlo, per veder un tratto

s'egli è come si dice, e se conforme

a quel che da' pittori vien ritratto;

sebben chi lo fa bello, e chi deforme:

basta; mi chiarirò com'egli è fatto.

Per questo ad empier mettesi quel vaso,

a cui poco mancava ad esser raso.

80

Coll'animo di piagner vi s'arreca;

ma ponza ponza, lagrima non getta:

si prova a far cipiglio e bocca bieca,

nè men questa è però buona ricetta.

Al fin si pone a un fumo che l'accieca,

sicchè per forza a piangere è costretta;

onde la pila in mezzo quarto d'ora

restò colma, e Cupído scappò fuora.

81

Quand'ella verso lui voltò le ciglia,

e vedde quella sua bella figura

disposta e grazïosa a maraviglia

che più non si può far 'n una pittura,

gli s'avventa di subito e lo piglia;

e senza ricercar della cattura,

da' suo' staffieri tenebrosi e bui

portar se ne fa via con esso lui.

82

Fermossi a Malmantile, e per marito

lo volle, e già le nozze han celebrate.

Come sai tu, dirai, tutto il seguìto?

Lo so, chè me lo dissero le Fate,

quelle che mi donâr quel ch'hai sentito;

che in due aquile essendo trasformate,

perchè lassù i' facea degli sbavigli,

m'han trasportata qua ne' loro artigli.

 

 

QUINTO CANTARE

Argomento

Vuol con gl'incanti dar la Maga aita

in Malmantile al popolo assediato;

ma dagli spirti è così mal servita,

che tra' nimici è il suo saper beffato.

Vien Calagrillo, e a duellar la 'nvita:

e lo 'nvito è da lei tosto accettato.

Il Fendesi, e altri due, com'è usanza,

sparir di Piaccianteo fan la pietanza.

 

1

E' si trova talun che è sì capone,

che ad una cosa che si tocca e vede,

e che di più l'afferman le persone,

vuol essere ostinato e non la crede;

un altro è poi sì tondo e sì minchione,

che se le beve tutte e a ognun dà fede;

e ci son uomin tanto babbuassi,

che crederebbon ch'un asin volassi.

2

Gli estremi non fur mai degni di lode:

ci vuol la via di mezzo; e chi ha cervello,

se vere o false novitadi egli ode,

a crederle al compagno va bel bello:

le crede, s'elle son fondate e sode;

ma s'elle star non possono a martello,

non le gabella mica di leggieri,

come fa il Duca a certi messaggieri.

3

Ma perchè chi m'ascolta intenda bene,

tornare a Martinazza mi bisogna:

la qual dianzi lasciai, se vi sovviene,

che in sul Caprinfernal, pigra carogna,

quel popolaccio ha aggiunto e lo ritiene

dal fuggir via con tanta sua vergogna;

perchè, quando per lei la raffigura,

rallenta il corso e piscia la paura.

4

E quivi, coll'affanno in sulla pena,

tutto lamenti, condoglienze e strida,

tremando forte come una vermena,

la prega, perchè in lei molto confida

e perchè addosso giunta gli è la piena

e lì tra lor non è capo nè guida,

a far in mo', se si può far di manco,

ch'ei non s'abbia a cacciar la spada al fianco.

5

Ella risponde allor, ch'è di parere

che il pigliar l'arme faccia di mestiero;

che per la patria par che sia dovere

il farsi bravo, e diventar guerriero;

sebben fra tanto vuole un po' vedere,

s'ella con Gambastorta e Baconero

trovar potesse il modo che costoro

vadano a far il bravo a casa loro.

6

Ciò detto, balza in casa, e colà drento

per ugnersi dispogliasi in capelli;

e cacciatasi addosso quant'unguento

aveva ne' suoi fetidi alberelli,

un gran circolo fa nel pavimento,

e con un vaso in man, scritti e cartelli,

borbottando parole tuttavia,

che nè men si direbbono in Turchia,

7

fa un salto a piè pari in mezzo al segno;

e quivi avendo all'ordine ogni cosa

per mandare ad effetto il suo disegno,

grida così con voce strepitosa:

O colaggiù dal sotterraneo regno

cornuti mostri e gente spaventosa,

filigginosi abitator di Dite,

badate a me, le mie parole udite.

8

Vi prego, vi scongiuro e vi comando

per la forza e virtù di questi incanti;

per quest'acqua che a gocce in terra spando

dagli occhi distillata degli amanti;

per questa carta, ov'è stampato il bando

di quella porcheria de' guardinfanti

che di portar le donne han per costume,

ricettacol di pulci e sudiciume;

9

per gl'imbrogli vi chiamo e l'invenzioni,

che ritrova il legista ed il notaio,

quando per pelar meglio i buon pippioni,

gli aggira, che nè anche un arcolaio:

orsù, pezzi di sacchi di carboni,

per quei ladri del sarto e del mugnaio

che ti voglion rubare a tuo dispetto,

uscite fuor, venite al mio cospetto.

10

Tutto l'Inferno a così gran parole

vien sibilando e intorno le saltella,

come dall'alba al tramontar del sole

fa quel ch'è morso dalla tarantella.

Domandale Pluton quel ch'ella vuole,

chè stridendo ogni dì lo dicervella;

e lui, ch'or mai ha dato nelle vecchie,

fa ire in giù e in su come le secchie;

11

ed a far ch'ei si pigli quella stracca

senza cagion, gli par ch'ell'abbia il torto;

perchè dalla profonda sua baracca

a Malmantil non è la via dell'orto.

Corpo!... (dic'ella, ed al celon l'attacca)

a venire insin qui tu sarai morto!

Ma senti, il mio Pluton, non t'adirare,

chè venir non t'ho fatto sine quare;

12

ma perchè tu mi voglia far piacere

di darmi Baconero e Gambastorta,

perch'io mi vo' dell'opra lor valere

in cosa che mi preme e che m'importa.

Plutone allor quei due fa rimanere,

e la strada si piglia della porta

seguìto da' suoi sudditi, che tutti

posson fondar la Compagnia de' Brutti.

13

Lascian Plutone e corron dalla druda

i due spirti, aspettando il suo decreto:

ed ella allor, che fa da Cecco Suda

per far sì che Baldon dia volta a dreto,

ed anche, se si può, ch'ei vada a Buda,

gli prega che le dian qualche segreto,

di far, senz'altre guerre ovver contese,

che quelle genti sfrattino il paese.

14

Io ho, dice un di lor, bell'e trovato

un'invenzion, che ci verrà ben fatto;

perchè il duca Baldone è innamorato

della Geva di corte, e ne va matto:

ma la furba lo tiene ammartellato,

e due tavole dar vorrebbe a un tratto,

tenendo il piè in due staffe, amando lui,

e parimente il duca di Montui.

15

Però, se noi finghiam ch'ella gli scriva

che 'l suo rivale (adesso ch'egli ha inteso

ch'ei s'è partito) colla gente arriva

per volergliela su levar di peso;

e che se proprio è ver che per lei viva,

com'ei spesso giurò, d'amore acceso;

e se gli è cara; lo dimostri, e prenda

ed armi e bravi, e corra e la difenda.

16

Vedrai che 'l duca torna allotta allotta,

correndo a casa come un saettone

con quanta ciurma ch'egli ha qua condotta,

per voler ammazzar bestie e persone.

Or dunque tu, che sei saputa e dotta

che non la cedi manco a Cicerone,

scrivi la carta; chè tu sai che noi

siam tutti un monte d'asini e di buoi.

17

Non ti do contro, rispond'ella, a questo,

ed ho gusto che voi vi conoschiate.

Orsù, dice il demonio, scrivi presto

due parole in tal genere aggiustate.

Sì, dic'ella; ma vedi, io mi protesto,

ch'io non portai mai lettere o imbasciate.

Scrivi soggiunge quei; chè, quanto al porta,

eccomi lesto qui con Gambastorta.

18

E per dare al negozio più colore,

in forma voglio ir io d'una comare

della sua Geva, detta Mona Fiore,

confidente del duca in ogni affare.

Gambastorta verrà da servitore,

che mostri di venirmi a accompagnare;

e già per questo ho fatte far di cera

due palle, una ch'è bianca, e l'altra nera.

19

Quand'un tien questa nera in una branca,

di subito d'un uom prende figura;

e s'ei vi chiude quell'altra ch'è bianca,

in femmina si muta e trasfigura.

Sicchè riguarda ben s'altro ci manca,

e distendi mai più questa scrittura;

chè 'l mio compagno ed io qua per viaggio

ci muterem l'effigie e il personaggio.

20

La nera a lui darò, ch'altrui lo faccia

parere un uom di venerando aspetto;

la bianca terrò io, che membra e braccia

della donna mi dia che già t'ho detto.

La strega qui gli dice ch'ei si taccia,

perch'ella scrive, e guasto le ha un concetto;

ma lo scancella, e mettelo in postilla:

così piega la carta e la sigilla.

21

Le fa la soprascritta e poi finisce,

a piè d'un ghirigoro, in propria mano;

e con essa quel diavolo spedisce

alla volta del principe d'Ugnano:

là dove l'un e l'altro comparisce

con una delle dette palle in mano,

credendo l'un rappresentar la Fiore,

e l'altro il servo; ma sono in errore.

22

Chè Baconero, il quale è un avventato,

nel dar la palla all'altro di nascosto,

senza guardarla prima, avea scambiato

e preso un granchio e fatto un grand'arrosto.

Perciò quand'a Baldone egli è arrivato,

dice cose dal ver troppo discosto;

mentr'egli afferma d'esser donna, e sembra

uomo alla barba, all'abito e alle membra.

23

E Gambastorta, anch'ei balordo e stolto,

mentr'apparir si crede un uom dabbene,

alla favella, alla presenza e al volto

per una fasservizi ognun la tiene.

Il foglio intanto il Duca avea lor tolto;

e veduto lo scritto e quel contiene,

resta certo di quanto era indovino,

che i furbi vorrian farlo Calandrino.

24

E poichè gli hanno detto che la Geva

a lui gli manda con quel foglio apposta,

ma prima che da loro ei lo riceva,

hann'ordine d'averne la risposta;

e soggiunto, che mentr'ella scriveva,

gettava gocciolon di questa posta

per il trambusto grande ch'ella ha avuto,

come potrà sentir dal contenuto;

25

egli è, dic'egli, un gran parabolano,

chi dice ch'ella ha scritto la presente;

quand'ella non pigliò mai penna in mano,

e so di certo ch'ella n'è innocente.

Che poi tu sia la Fiore, che in Ugnano

a me fu molto nota e confidente,

e tu sia uom, a dirla in coscïenza,

a me non pare, e nego conseguenza.

26

I buon compagni a una risposta tale

guardansi in viso; e in quel sendosi accorti

ch'egli hanno equivocato e fatto male,

restan quivi allibbiti e mezzi morti;

ed alle gambe avendo messo l'ale,

fuggon, ch'e' par che 'l diavol se gli porti,

con una solennissima fischiata

di Baldone e di tutta la brigata.

27

Adesso a Calagrillo me ne torno

che va marciando al suon del suo strumento,

colla dolente Psiche ognor d'attorno,

ch'ad ogni quattro passi fa un lamento.

Ha camminato tutto quanto il giorno,

e domandato cento volte e cento

la via di Malmantile, e similmente

di Martinazza, e se v'è di presente.

28

Dà in un, ch'al fin la mette per la via,

con dirle che quest'orrida befana,

che già d'un tozzo aveva carestia

e stava come l'erba porcellana,

in oggi ha di gran soldi in sua balía

ed ha una casa come una dogana;

e nella corte è in grado, e giunta a segno,

ch'ell'è il totum continens del regno.

29

Che la padrona il tutto le comparte,

come se in Malmantil sien due regine;

anzi il bando si manda da sua parte,

perch'ella soffia il naso alle galline.

Così, poich'ebbe dato libro e carte,

entra nell'un vie un, che non ha fine

costui, che quivi s'è posto a bottega

a legger sopra il libro della strega.

30

Quest'altro, che non cerca da costui

di questi cinque soldi, avendo fretta,

poich'egli ha inteso quel che fa per lui,

sprona il cavallo tutto a un tempo e sbietta.

La donna, che trovare il suo colui

di giorno in giorno per tal mezzo aspetta,

per non lo perder d'occhio e ch'ei le manchi,

segue la starna e le va sempre ai fianchi.

31

Quando al castello al fin sono arrivati,

là dove altrui assordano l'orecchie

gli strepiti dell'armi e de' soldati,

che d'ogn' intorno son più delle pecchie,

domandan soldo; ed a Baldon guidati,

che avendo del guerrier notizie vecchie,

gli va incontro, l'accoglie e riverisce,

ed egli a lui coll'armi s'offerisce.

32

Ma piacciati, soggiunse, ch'io ti preghi

per questa donna rimaner servito,

che questo ferro pria per lei s'impieghi,

per conto qua d'un certo suo marito.

A tanto cavalier nulla si nieghi,

risponde a ciò Baldon tutto compìto.

Tu se' padrone, fa' ciò che tu vuoi,

non ci van cirimonie fra di noi.

33

Ti servirò di scriverti alla banca;

e in tanto per adesso ti consegno

il gonfalon di questa ciarpa bianca,

chè tra le schiere è il nostro contrassegno;

talchè libero il passo e scala franca

avrai, per dar effetto al tuo disegno,

che non so qual si sia nè lo domando;

però va' pur, ch'io resto al tuo comando.

34

Ei lo ringrazia; e gito più da presso,

ove sta chiuso di Psiche il bel Sole,

ad essa dice: in quanto al tuo interesso,

fin qui non ti ho servito, e me ne duole;

chè tu non pensi, avendoti promesso,

ch'io faccia fango delle mie parole;

e che il mio indugio e il non risolver nulla

sia stato un voler darti erba trastulla.

35

Ovver ch'io me la metta in sul liuto,

o ti voglia tener l'oche in pastura,

come quel che ci vada ritenuto

per mancanza di cuore o per paura;

perchè, siccome avrai da te veduto,

non ho sin qui trovata congiuntura

di chi m'indirizzasse qua al castello,

per poterne cavar cappa o mantello.

36

Risponde Psiche a questa diceria:

Io non entro, signore, in questi meriti.

Non ho parlato mai, nè che tu sia

tardo, o spedito, ovver che tu ti periti.

Quel che tu fai, tutt'è tua cortesia;

per tal l'accetto, e 'l Ciel te lo rimeriti,

con darti in vita onor, fama e ricchezza,

sanità dopo morte ed allegrezza.

37

Sta' quieta, le dic'egli, e ti conforta,

ch'io voglio adesso dar fuoco al vespaio.

Così, col corno, il quale al collo porta,

chiama la guardia, ovvero il portinaio.

Non è sì presto il gatto in sulla porta

quand'ei sente la voce del beccaio,

quanto veloce a questo suon la ronda

sopr'alle mura accostasi alla sponda.

38

Un par d'occhiacci, orlati di savore,

così addosso ad un tratto gli squaderna,

che par quando il Faina alle sei ore

in faccia mi spalanca la lanterna;

e medïante un certo pizzicore

ch'ei sente al collo, i pizzicotti alterna,

ond'alle dita egli ha fatti i ditali

d'intorno a innumerabili mortali.

39

Non tanto s'abburatta per la rogna

e pe' bruscol che vanno alla goletta,

quanto che dir non può quel che bisogna,

ch'ei tartaglia e scilingua anche a bacchetta.

Qual il quartuccio le bruciate fogna,

nè senza quattro scosse altrui le getta,

tal si dibatte, e a vite fa la gola

ogni volta ch'ei manda fuor parola.

40

Bu bu bu bu, comincia, chè 'l buon giorno

vorrebbe dar al cavalier, ch'ei tiene

il corrier, medïante il suon del corno,

del popol d'Israel ch'or va or viene.

Van le parole a balzi e per istorno,

prima ch'al segno voglian colpir bene:

pur pinse tanto, che gli venne detto:

Buon dì, corrier: che nuova c'è di Ghetto?

41

Rispose l'altro, tal parola udita:

D'esser corriere già negar non posso,

perch'io l'ho corsa a far questa salita;

ma quanto al Ghetto io non la voglio addosso.

Non ho che far con gente Israelita:

ben ti farà il mio brando il cappel rosso,

e col darti sul viso un soprammano

d'Ebreo farà mutarti in Siciliano.

42

Ma che vo il tempo qui buttando via,

in disputar con matti e con buffoni?

Il trattar teco, credomi che sia

come a' birri contar le sue ragioni;

nè dissi mal, perch'hai fisionomia

d'un di color che ciuffan pe' calzoni:

e l'esser tu costì, par ch'ella quadri,

chè i birri sempre van dove son ladri.

43

Ben che voi siate come cani e gatti,

ch'essi non han con voi gran simpatia,

perchè peggio de' diavol sete fatti,

usando nel pigliar più tirannia.

Dell'alma sola quei son soddisfatti;

ma voi col corpo la portate via.

Or basta, se tra voi tant'odio corre,

meglio a' lor danni ti potrò disporre.

44

Or dunque tu, che sei così pietoso,

che pigli i ladri, acciò Mastro Bastiano

sul letto a tre colonne almo riposo

dia lor del tanto lavorar di mano;

perch'a qualunque ladro il più famoso

Martinazza in rubar non cede un grano,

che non uccella a pispole, ma toglie

Cupído a questa donna, ch'è sua moglie;

45

lo stesso devi oprar che a lei sia fatto

mentr'a costei non renda il suo consorte,

a cui (perch'ei consente in tal baratto)

questa potrebbe far le fusa torte;

ed ei si cerca esser mandato un tratto

sull'asin con due rócche dalla Corte.

Sicchè, se tu nol sai, ti rappresento

che un disordine qui ne può far cento.

46

Però se voi adesso, a cui s'aspetta,

costà non impiccate questa troia,

io stesso vo' pigliarmi questa detta,

e farle il birro, e in sulle forche il boia,

mentre però Cupído non rimetta;

ma se lo rende, non vi do più noia.

Va' dunque, e narra a lei quanto t'ho detto,

ch'io qui t'attendo e la risposta aspetto.

47

La ronda, che far lite non si cura,

e vuol riguardar l'armi dalle tacche,

quantunque ad alto sia sopr'alle mura

molto lontana e già in salvummeffacche,

non vuol tenersi mai tanto sicura,

che rilevar non possa delle pacche.

Però, veduto avendo il ciel turbato,

tace, ch'ei pare un porcellin grattato.

48

Lascia la sentinella, e caracolla

giù pel castello, dando questa nuova;

e benchè il maggioringo della bolla

gli abbia promesso, mentre ch'ei si mova,

di fargli porre a' piedi la cipolla,

cercando della morte in bella prova,

vuol avvisar di ciò Mona Cosoffiola,

ch'è per basire a questa battisoffiola.

49

Ella insieme le schiere ha già ridotte

di genti, che non vagliono un pistacchio;

cioè di quelle a cui fece la notte

col suo carro sì grande spauracchio.

Ed or quivi parare, e dar le botte

insegna lor, che non ne san biracchio;

ma quand'innanzi a lei costui si ferma

così tremante, la cavò di scherma.

50

Mentre del fatto poi le dà contezza,

con quella ambascia e lingua di frullone

fa (perchè nulla mai si raccapezza)

chi lo sente morir di passïone;

ma quella, ch'a sentirlo è forse avvezza,

lo 'ntende un po' così per discrezione;

e qui finiscon le lezion di guerra,

perch'ella non dà più nè in ciel nè in terra.

51

Tutto in un tempo vedesi cambiare

l'amante ingelosita Martinazza;

or ora è bianca, come il mio collare,

or bigia, or gialla, or rossa, or paonazza;

or più rossa del c... d'uno scolare

dopoch'egli ha toccata una spogliazza.

In somma ella ha sul viso più colori,

che in bottega non han cento pittori.

52

Rabbiosa il capo verso il ciel tentenna,

quasi col piede il pavimento sfonda;

or si gratta le chiappe, or la cotenna,

or dice al messaggero che risponda,

or lo richiama, mentr'egli è in Chiarenna:

grida, e minaccia, e par che si confonda;

mille disegni entro al pensier racchiude,

i enne inne, e nulla mai conchiude.

53

Il guardo al fine in terra avendo fiso,

'N un vasto mare ondeggia di pensieri,

e lagrime diluvia sopra il viso,

grosse come sonagli da sparvieri,

che lavandole il collo lordo e intriso,

laghi formano in sen di pozzi neri;

al fin tornata in sè, colla gonnella

s'asciuga, e al messagger così favella:

54

Torna, e rispondi a questo scalzagatto,

che si crede ingoiar colle parole,

ch'io non so quel ch'ei dice; e s'egli è matto,

non ci posso far altro, e me ne duole.

Poi, circa alla domanda ch'egli ha fatto:

che gli darò Cupído, e ciò ch'e' vuole,

se colla spada in mano ovver coll'asta

prima di guadagnarlo il cor gli basta.

55

Però, se in questo mentre umor non varia,

domani al far del dì facciami motto;

e s'io gli farò dar le gambe all'aria,

quella sua landra ha da pagar lo scotto;

ma se la sorte, forse a me contraria,

vuol ch'a me tocchi andar col capo rotto,

prenda Cupído allor, ch'io gli prometto

lasciarglielo segnato e benedetto.

56

Ciò detto, parte: e quei, ch'era uomo esperto

(Essendo stato cavallaro, e messo),

al cavaliere ad unguem fa il referto

di quel che Martinazza gli ha commesso.

Ed in viso vedendolo scoperto,

quest'ha bisogno, dice, d'un buon lesso;

perch'egli è duro, e non punto pupillo:

lo conosco bensì, gli è Calagrillo.

57

Ma qui la dama e Calagrillo resti;

quest'altro giorno rivedremgli poi.

Il passo meco ora ciascuno appresti

per giungere il Fendesi e gli altri duoi,

che seguitaron, come voi intendesti,

Perlon che se n'andò pe' fatti suoi;

chè troveremgli, se venir volete,

più presto assai di quel che vi credete.

58

Chè giò giò se ne vanno giù nel piano

sbattuti, com'io dissi, dalla fame:

ma non son iti ancora un trar di mano,

che senton razzolar tra certo strame;

perciò coll'armi subito alla mano

corron dicendo: qui c'è del bestiame;

sicchè quando crediamo di trar minze,

il corpo forse caverem di grinze.

59

Curiosi quel che fosse di vedere

dentr'a una stalla inabitata entraro.

E vedder, ch'era un uom posto a giacere

sopr'alla paglia a guisa di somaro;

accanto aveva da mangiare e bere,

e gli occhi distillava in pianto amaro;

e tra i disgusti e il vin, ch'era squisito,

pareva in viso un gambero arrostito.

60

Questo è quel Piaccianteo già sublimato

al grado onoratissimo di spia:

quel che, per soddisfar tanto al palato,

ha fatto in quattro dì Fillide mia;

e lì colla sua spada s'è impiattato,

dell'onor della quale ha gelosia;

chè avendola fanciulla mantenuta,

non gli par ben che ignuda sia tenuta.

61

Ma perchè un uom più vil mai fe natura,

si pente esser entrato in tal capanna;

perocchè a starvi solo egli ha paura,

che non lo porti via la Trentancanna:

e perchè tutto il giorno quant'e' dura,

egli ha il mal della lupa che lo scanna,

non va mai fuor, s'a cintola non porta

l'asciolver col suo fiasco nella sporta.

62

Ovunque egli è, d'untumi fa un bagordo,

ch'ognor la gola gli fa lappe lappe;

strega le botti, di lor sangue ingordo,

e le sustanze usurpa delle pappe;

aggira il beccafico, e pela il tordo,

e a' poveri cappon ruba le cappe;

e prega il ciel che faccia che gli agnelli

quanti le melagrane abbian granelli.

63

Vedendo quivi comparir repente

l'insolite armi, sbigottisce il ghiotto;

e dal timor ch'egli ha di tanta gente,

trema da capo a piè, si piscia sotto.

Con tutto ciò digruma allegramente,

e spesso spesso bacia il suo barlotto;

e acciò stremata non gli sia la vita,

non dice pur: degnate, o a ber gl'invita.

64

Ma i cavalier famosi a quel plebeo,

che non profferì lor della rovella,

furon per insegnare il galateo,

con battergli giù in terra una mascella.

Chi sei? diss'un di loro: e Piaccianteo,

ch'è un pover uom risponde; e in quella cella

molt'anni in astinenza ha consumati

per penitenza de' suoi gran peccati.

65

E quei soggiunge: mi rallegro, e godo

che voi facciate bene, e vi son schiavo:

ma se 'l patire è fatto a questo modo,

penitente di voi non è più bravo;

tal ch'io per me vi mando a corpo sodo,

non nel settimo ciel, ma nell'ottavo;

donde a' mondani, e a me, che sono il capo

pisciar potrete a vostra posta in capo.

66

Ma perch'al certo Vostra Reverenza,

ch'è stenuata come un carnovale,

avrà fatta fin or tant'astinenza

che basti a soddisfare a ogni gran male;

or può lasciar a noi tal penitenza,

acciò baciam la terra del boccale,

per più mondi accostarci a questi avanzi

delle reliquie ch'ell'ha qui dinanzi.

67

Qual madre che ripara il suo figliuolo

ch'è sopraggiunto da mordaci cani,

ei cuopre tutto col suo ferraiuolo;

ed eglino gli danno in sulle mani,

e col lazzo del Piccaro Spagnuolo,

che dalla mensa vuol tutti lontani,

acciò poi a tal cosa non arrivi,

con due calci lo fan levar di quivi.

68

Così fan carità di più rigaglie,

oltr'ad un'oca grossa arciraggiunta;

ma vedendo più in là fra quelle paglie

d'un pezzo d'arme luccicar la punta,

e del giaco scappare alcune maglie

da quella sua casacca unta e bisunta,

insospettiron, com'un'altra volta

potrà sentir chi volentier m'ascolta.

 

 

SESTO CANTARE

Argomento

Nel tenebroso centro della terra,

ove regna Plutone, entra la strega:

e vuol, che seco, per finir la guerra

di Malmantile, entri l'Inferno in lega:

fanno concilio i mostri di sotterra,

ove ciascun buone ragioni allega:

certa al fin le promette l'assistenza:

rend'ella grazie, e fa di lì partenza.

 

1

Miser chi mal oprando si confida

far alla peggio, e ch'ella ben gli vada;

perchè chi piglia il vizio per sua guida,

va contrappelo alla diritta strada;

e benchè qualche tempo ei sguazzi e rida

col vento in poppa in quel che più gli aggrada,

e' vien poi l'ora ch'ei n'ha a render conto,

e far del tutto, dondola, ch'io sconto.

2

Di chi credi, lettor, tu qui ch'io tratti?

Tratto di Martinazza, iniqua strega,

c'ha più peccati che non è de' fatti,

e pel demonio ogni ben far rinnega.

Di darsi a lui già seco ha fatto i patti,

acciò ne' suoi bagordi la protega;

ma state pur, perchè tardi o per tempo

lo sconterà: da ultimo è buon tempo.

3

Non si pensi d'averne a uscir netta:

s'intrighi pur col diavol, ch'io le dico,

se forse aver da lui gran cose aspetta,

che nulla dar le può; ch'egli è mendico:

e quand'ei possa, non se lo prometta;

perch'ei, che sempre fu nostro nimico,

nè può di ben verun vederci ricchi,

una fune daralle che l'impicchi.

4

Orsù tiriamo innanzi, ch'io ho finito,

perch'a questi discorsi le persone

non mi dicesser: questo scimunito

vuol farci qualche predica o sermone.

Attenti dunque. Già v'avete udito

l'incanto, ch'ella fece a petizione

di quei del luogo, ch'ebbero concetto

scacciarne il duca; ma svanì l'effetto.

5

Ella, ch'in tanto avuto avea sentore

che quei due spirti sciocchi ed inesperti

avean dinanzi a lui fatto l'errore,

sicchè da esso furono scoperti,

se la digruma, che ne va il suo onore,

mentre gli accordi fatti ed i concerti

riusciti alla fin tutte panzane,

con un palmo di naso ne rimane.

6

Ma non si sbigottisce già per questo,

chè vuol cansar quell'armi dalle mura.

A' diavoli, da' quali ebbe il suo resto,

e che gliel'hanno fatta di figura,

vuol, dopo il far che rompano un capresto,

squartare, e poi ridurre in limatura;

perchè non fu mai can che la mordesse,

che del suo pelo un tratto non volesse.

7

Basta, ch'ella se l'è legata al dito,

e l'ha presa co' denti, e se n'affanna;

talch'andarsene in Dite ha stabilito,

perchè ne vuol veder quanto la canna,

ed oprar che Baldon resti chiarito

ch'ambisce in Malmantil sedere a scranna.

Or mentre a questa volta s'indirizzi,

potrà fare un viaggio e due servizzi.

8

Giù da Mammone andar vuole in persona,

chè più non è dover, ch'ella pretenda,

che sua bravicornissima corona

salga a suo conto a ogni poco, e scenda.

Chieder grazie e dar brighe non consuona,

e chi ha bisogno, si suol dir, s'arrenda;

per questo a lei tocca a pigliar la strada,

perch'alla fin convien che chi vuol vada.

9

Perciò s'acconcia, e va tutta pulita,

col drappo in capo e col ventaglio in mano,

a cercar chi la 'nformi della gita;

nè meglio sa, che Giulio Padovano,

che l'ha su per le punte delle dita,

e più di Dante, e più del Mantovano;

perch'eglino vi furon di passaggio,

e questo ogni tre dì vi fa un viaggio.

10

Onde a trovarlo andata via di vela,

dimanda (perchè in Dite andar presume)

che luoghi v'è, che gente e che loquela;

ed ei di tutto le dà conto e lume.

E poi per abbondare in cautela,

volendola servire insino al fiume,

le porge un fardellin piccolo e poco

di robe, che laggiù le faran giuoco.

11

Così la maga se ne va con esso,

che l'introduce in una bella via,

tutta fiorita sì, che al primo ingresso

par proprio un paradiso, un'allegria;

ma non più presto l'uomo il piè v'ha messo,

ch'ella diventa un'altra mercanzia,

per i gran morsi e le punture acerbe

che fanno i serpi, ascosi tra quell'erbe.

12

Entravi Martinazza, e sente un tratto

due e tre morsi a' piè, dove calpesta;

perciò bestemmia, che non par suo fatto,

e dice: o Giulio mio, che cosa è questa?

Ed ei, ridendo allora come un matto:

non è nulla, rispose, vien pur lesta,

che pensi tu, ch'io sia privilegiato?

anch'io mi sento mordere, e non fiato.

13

Questa è la via, che mena a Casa calda,

perch'ella è allegra, o almeno ella ci pare;

perchè a martello poi non istà salda,

la scorre ognor gente di male affare:

le serpi sono ogni opera ribalda,

ch'ella ci fa, le quali a lungo andare

di quanto ha fatto, scavallato, e scorso

ci fa sentire al cuor qualche rimorso.

14

Ma se ravvista un tratto del suo fallo,

bada a tirar innanzi alla balorda,

perch'il vizio rifiglia e mette il tallo,

vien sempre più a aggravarsi in sulla corda.

Il male invecchia al fine e vi fa il callo;

sicchè venga un serpente pure, e morda,

ch'ella non sente nè meno un ribrezzo:

così peggio che mai la dà pel mezzo.

15

Nella neve si fa lo stesso giuoco;

chè l'uom sul primo diacciasi le dita,

poi quel gran gelo par che manchi un pco,

e sempre più nell'agitar la vita;

al fine ei si riscalda come un fuoco,

sicchè non la farebbe mai finita;

nè gli darebbe punto di spavento,

quand'ei v'avesse ancora a dormir drento.

16

Or tu m'hai inteso: rasserena il volto;

chè tu vedrai, tirando innanzi il conto,

(Perchè di qui a poco non ci è molto)

che delle serpi non farai più conto.

Ma dimmi, che ha' tu fatto del rinvolto?

L'ho qui, dic'ella, sempre lesto e pronto.

Sta ben, soggiunge Giulio, adunque corri,

perchè qui non è tempo da por porri.

17

Resta, dic'ella, omai; ch'io ti ringrazio

dell'instruzion, ch'appunto andrò seguendo;

promissio boni viri est obligatio,

dic'egli: t'ho promesso, e però intendo

ancor seguirti questo po' di spazio;

e quivi con un tibi me commendo,

all'in qua ripigliando il mio cammino,

ti lascio, com'io dissi, al colonnino.

18

Ed essa allora abbassa il capo, e tocca,

sebben de' serpi ell'ha qualche paura;

pur via zampetta, e fatto del cor ròcca,

va calcando la strada alla sicura;

sicch'ella non si sente aprir la bocca,

perchè non è più morsa, o non lo cura.

Giunti alla fine al gran fiume infernale,

restò la donna, ed ei le disse: Vale.

19

Questo è il famoso fiume d'Acheronte,

ove s'imbarca ognun che quivi arriva.

S'affaccia anch'essa; ma il nocchier Caronte

da poi che tratto ognuno ebbe da riva,

sta' indietro (grida a lei con torva fronte),

chè qua non passa mai anima viva;

ond'ella, messi fuor certi baiocchi,

gli getta un po' di polvere negli occhi.

20

Ed egli, che da essa ebbe il sapone

e che si trovò lì come il ranocchio

preso dalla medesima al boccone,

mentr'ella saltò in barca, chiuse l'occhio.

La strega fra quell'anime si pone:

quai colle brache son fino al ginocchio,

dovendo a' soprassindaci di Dite

presentar de' lor libri le partite.

21

Piangendo, come quando uno ha partito

le cipolle fortissime malige,

passan quel fiume, e poi quel di Cocito,

ultimamente la palude Stige

che a Dite inonda tutto il circuito

e in sè racchiude furbi e anime bige;

ove Caronte al fin sendo arrivato,

sbarcò tutti: ed ognun fu licenziato.

22

Ch'entrar dovendo in Dite, e salta e gira,

che par quando mi barbera la trottola;

andar non vi vorrebbe e si ritira,

grattandosi belando la collottola;

pur finalmente forza ve lo tira,

come fa il peso al grillo una pallottola;

così ne van quell'anime nefande,

chi dal piccin tirata, e chi dal grande.

23

Per la gran calca nel passar le porte

convenne a ognuno andarne colla piena;

ma la strega non ebbe tanta sorte,

chè tienla il can che quivi sta in catena.

E perchè per tre bocche abbaia forte,

ella dice: ti dia la Maddalena.

E intanto trova il pane e in pezzi il taglia,

e in tre gole, ch'egli apre, gliene scaglia.

24

Il mostro, che mangiato avria Salerno,

chè quanto a masticar quei ser saccenti

voglion (perch'egli è guardia dell'Inferno)

tenerlo sobrio, acciò non s'addormenti;

ond'è ridotto per il mal governo

sì strutto, che e' tien l'anima co' denti;

perch'egli è ossa e pelle, e così spento,

ch'ei par proprio il ritratto dello stento.

25

Sicchè, quand'ei si sente il tozzo in bocca,

perchè la fame quivi ne lo scanna,

l'ingozza, che nè manco non gli tocca

nè di qua nè di là giù per la canna;

ma subito gli venne il sonno in cocca,

ond'ei s'allunga in terra a far la nanna;

chè il papavero e il loglio, ch'è in quel pane,

farìa dormir un orso, non ch'un cane.

26

Or mentre fa il sonnifero il suo corso,

la donna, che più là facea la scorta

(Perocchè avea timor di qualche morso),

vedendo che la bestia come morta

sdraiata dorme, e russa com'un orso,

legno da botte fa verso la porta;

e poi, bench'ella fosse alquanto stracca,

dà una corsa, e in Dite anch'ella insacca.

27

Perchè d'alloro ha sotto alcune rame,

vien fatta a' gabellier la marachella;

tal ch'un di lor, ch'arrabbia dalla fame,

fermate, dice, olà: che roba è quella?

Ti gratterai, dic'ella, nel forame,

perch'io non ho qui roba da gabella,

se non un po' d'allòr, ch'a Proserpina

porto, perch'ella fa la gelatina.

28

S'ell'è, come voi dite, a questo modo,

ei le risponde, andate pur, madonna;

perch'altrimenti c'entrerebbe il frodo,

e voi stareste in gogna alla colonna.

Orsù correte pria che freddi il brodo,

chè la regina poi sarebbe donna

da farci per la stizza e pel rovello

buttar a piè la forma del cappello.

29

La maga senza dir più da vantaggio,

mentr'egli aspetta un po' di mancia e intuona,

ripiglia prontamente il suo viaggio,

e incontra Nepo già da Galatrona,

ch'avendo dato là di sè buon saggio,

in oggi è favorito e per la buona;

perchè Breusse in oltre a' premi e lode

l'ha di più fatto diavolo a due code.

30

Or che gli arriva all'improvviso addosso

il venir della maga, ch'è il suo cuore,

lui mago, pur tagliatole a suo dosso,

le spedisce per suo trattenitore.

Mentr'il petardo col cannon più grosso

sentesi fargli strepitoso onore,

cavalier Nepo, com'io dissi dianzi,

col riverirla se gli affaccia innanzi.

31

E perchè a Benevento essa di lui,

com'ei di lei, avuto avea notizia,

non prima si riveggon, ch'ambedui

rifanno il parentado e l'amicizia.

Tra' diavoli poi van ne' regni bui;

e perchè Martinazza v'è novizia,

e non intende il gracidar ch'e' fanno,

l'interpetre fa egli e il torcimanno.

32

Per via l'informa e le dà molti avvisi

d'usanze e luoghi, e intanto di buon trotto

la guida a' fortunati campi Elisi,

dove si mangia e beve a bertolotto;

e tra quei rosolacci e fioralisi

si passa il tempo in far di quattro e d'otto:

chi un balocco e chi un altro elegge,

chè lì non è un negozio per la legge.

33

Quivi si vede un prato, ch'è un'occhiata,

pien di mucchietti d'un'allegra gente;

che vada pure il mondo in carbonata,

non si piglia un fastidio di nïente;

ma, com'io dico, tutta spensierata

ballonza, canta, e beve allegramente,

come suol far la plebe agli Strozzini,

o sul prato del Pucci, o del Gerini.

34

Quivi si fa al pallone e alla pillotta:

parte ne giuoca al sussi e alle murelle:

colle carte a primiera un'altra frotta

i confortini giuoca e le ciambelle:

altri fanno a civetta, altri alla lotta:

chi dice indovinelli, e chi novelle:

chi coglie fiori, e un altro un ramo a un faggio

ha tagliato, e con esso canta maggio.

35

Più là un branco ha messo l'oste a sacco,

sicchè tutti dal vin già mezzi brilli,

mentre la gira, fan brindisi a Bacco:

altri giuoca a te te con paglie o spilli:

altri piglia o dispensa del tabacco:

altri piglia le mosche, un altro grilli:

e tutti quanti in quei trastulli immersi

si tengono il tenor, si vanno a' versi.

36

La donna resta lì trasecolata,

vedendo quanto bene ognun si spassa;

e perchè Nepo l'ha di già informata,

non ragiona di lor, ma guarda e passa.

Per tutta la città vien salutata,

e infin le stanghe e ogni forcon s'abbassa;

ed ella, or qua or là voltando inchini,

pare una banderuola da cammini.

37

Perocchè tutti quanti quei demòni,

per vederla n'uscian di quelle grotte,

ronzando com'un branco di moscioni,

che s'aggirin d'attorno a una botte;

saltellan per le strade e su' balconi,

com'al piover d'agosto fan le botte:

e fan, vedendo sue sembianze belle,

«voci alte, e fioche, e suon di man con elle».

38

Così fra quel diabolico rombazzo

la strega se ne va collo stregone;

sicch'alla fine arrivano al palazzo,

là dove s'abboccaron con Plutone.

Ma perchè tra di loro entrò nel mazzo

scioccamente il Mandragora buffone,

che in quel colloquio fe sì gran frastuono,

che finalmente ognuno uscì di tuono,

39

perciò passano in casa, e colà drento

tirato colla strega il re da banda,

le dà la benvenuta, e poi, che vento

l'ha spinta in quelle parti le domanda.

Ella, per conseguir ogni suo intento,

gli dice il tutto, e se gli raccomanda

ch'ei voglia a Malmantil, ch'omai traballa,

far grazia anch'ei di dare un po' di spalla.

40

Sta' pur, dic'ei, coll'animo posato,

ch'a servirti mo mo vo' dar di piglio.

Io già, come tu sai, aveo imprunato;

ma il tutto è andato poi in iscompiglio.

Orsù, fra poco adunerò il senato,

e sopra questo si farà consiglio;

acciò batta Baldon la ritirata,

e tu resti contenta e consolata.

41

Io ti ringrazio sì, ma non mi placo,

perciò, gli rispond'ella, di maniera,

ch'io non voglia pigliar la spada e 'l giaco,

chè in bugnola son più di quel ch'io m'era.

Così con quei due spirti avendo il baco,

soggiunge, perch'a lor vuol far la pera,

io l'ho con quei briccon, furfanti indegni,

c'hanno sturbato tutt'i miei disegni.

42

Dico di Gambastorta, il tuo vassallo,

e di quel pallerin di Baconero,

che fa nel giuoco con due palle fallo,

scambiando il color bianco per lo nero:

error, che nol farebbe anch'un cavallo.

Ma e' vien ch'egli strapazzano il mestiero;

che s'egli andasse un po' la frusta in volta,

imparerebbon per un'altra volta.

43

Risponde il re: facciam quanto ti piace;

ma ti verranno a chieder perdonanza,

sicchè tu puoi con essi far la pace;

però t'acquieta, e vanne alla tua stanza.

Non penso di restar già contumace,

s'io non ti servo, perch'io fo a fidanza.

Dunque ti lascio, e sono al tuo piacere,

fatti servir da questo cavaliere.

44

Nepo la mena allora alle sue stanze,

che i paramenti avean di cuoi umani

ricamati di fignoli e di stianze,

e sapevan di via de' Pelacani:

ove gli orsi, facendo alcune danze,

dan la vivanda e da lavar le mani:

volati al cibo alfin, come gli astori,

sembrano a solo a sol due toccatori.

45

Fiorita è la tovaglia e le salviette

di verdi pugnitopi e di stoppioni,

saldate con la pece, e in piega strette

infra le chiappe state de' demòni.

Nepo frattanto a macinar si mette,

e cheto cheto fa di gran bocconi,

osservando Caton, ch'intese il giuoco,

quando disse: in convito parla poco.

46

Fa Martinazza un bel menar di mani;

ma più che il ventre, gli occhi al fin si pasce;

e quel pro fàlle, che fa l'erba a' cani,

chè il pan le buca e sloga le ganasce;

perchè reste vi son come trapàni,

nè manco se ne può levar coll'asce;

crudo è il carnaggio, e sì tirante e duro,

che non viene a puntare i piedi al muro.

47

Talchè s'a casa altrui suol far lo spiano

e caseo barca e pan Bartolommeo,

freme, chè lì non può staccarne brano;

pur si rallegra al giunger d'un cibreo,

fatto d'interïora di magnano,

e di ventrigli e strigoli d'Ebreo;

e quivi s'empie infino al gorgozzule,

e poi si volta e dice: acqua alle mule.

48.

 

Prezïosi liquori ecco ne sono

Portati ciascheduno in sua guastada,

Essendovi acqua forte, e inchiostro buono,

Di quel proprio ch'adopera lo Spada.

Ella, che quivi star voleva in tuono,

E non cambiar, partendosi, la strada,

Perchè i gran vini al cerebro le danno,

Ben ben l'annacqua con agresto e ranno.

 

 

49.

E fatte due tirate da Tedesco,

La tazza butta via subito in terra,

Perocch'ell'è di morto un teschio fresco,

Che suona, e tre dì fa n'andò sotterra.

Nepo, che mai alzò viso da desco,

Che intorno ai buon boccon tirato ha a terra,

Anch'egli al fine, dato a tutto il guasto,

«La bocca sollevò dal fiero pasto.»

 

 

50

Lasciati i bicchier voti e i piatti scemi,

Vanno al giardino pieno di semente

Di berline, di mitere e di remi

E di strumenti da castrar la gente.

Risiede in mezzo il paretaio del Nemi

D'un pergolato, il quale a ogni corrente

Sostien, con quattro braccia di cavezza,

Penzoloni, che sono una bellezza.

 

 

51.

Spargon le rame in varia architettura

Scheretri bianchi, e rosse anatomie;

Gli aborti, i mostri e i gobbi in sulle mura

Forman spalliere in luogo di lumie;

D'ugna, di denti e simile ossatura

Inseliciate son tutte le vie;

'N un bel sepolcro a nicchia il fonte butta

Del continuo morchia e colla strutta.

 

 

52.

Le statue sono abbrustolite e scure

Mummie, dal mar venute della rena;

Che intorno intorno in varie positure

In quei tramezzi fan leggiadra scena.

Su' dadi i torsi, nobili sculture,

(Perché in rovina il tutto il tempo mena)

Ristaurati sono, e risarciti

Da vere e fresche teste di banditi.

 

 

53.

In terra sono i quadri di cipolle,

Ove spuntano i fior fra foglie e natiche;

Sonvi i ciccioni, i fignoli e le bolle

Le posteme, la tigna e le volatiche;

V'è il mal francese entrante alle midolle,

Ch'è seminato dalle male pratiche:

I cancheri, le rabbie e gli altri mali,

Che vi mandano gli osti e i vetturali.

 

 

54.

Pesche in su gli occhi sonvi azzurre e gialle;

Gli sfregi, fior per chi gli porta pari;

I marchi, che fiorir debbon le spalle

Al tagliaborse e ladri ancor scolari;

Le piaghe a masse, i peterecci a balle;

Spine ventose, e gonghe in più filari;

V'è il fior di rosolía, e più rosoni

D'ortefica, vaiuolo e pedignoni.

 

 

55.

Si maraviglia, si stupisce e spanta

Martinazza in veder sì vaghi fiori;

E rimirando or questa or quella pianta,

Non sol pasce la vista in quei colori,

Ma confortar si sente tutta quanta

Alla fragranza di sì grati odori.

E di non côrne non può far di meno

Un bel mazzetto, che le adorni il seno.

 

 

56.

Alla ragnaia al fin si son condotti,

Di stili da toccar la margherita;

Ove de' tordi cala e de' merlotti

Alla ritrosa quantità infinita,

Che son poi da Biagin pelati e cotti,

Sgozzando de'più frolli una partita;

Altra ne squarta; e quella ch'è più fresca,

Nello stidione infilza alla turchesca.

 

 

57.

Veduto il tutto, Nepo la conduce

Al bagno, ov'ogni schiavo e galeotto

Opra qualcosa: un fa le calze, un cuce;

Altri vende acquavite, altri il biscotto;

Chi per la pizzicata, che produce

Il luogo fa tragedie in sul cappotto;

Un mangia, un soffia nella vetriuola;

Un trema in sentir dir: fuor camiciuola.

 

 

58.

Vanno più innanzi a' gridi ed a' romori

Che fanno i rei legati alla catena,

Ove a ciascun, secondo i suoi errori

Dato è il gastigo e la dovuta pena.

A' primi, che son due proccuratori,

Cavar si vede il sangue d'ogni vena;

E questo lor avvien, perchè ambidui

Furon mignatte delle borse altrui.

 

 

59.

Si vede un nudo, che si vaglia e duole,

Perocchè molta gente egli ha alle spalle,

Come sarebbe a dir tonchi e tignuole,

Punteruoli, moscion, tarli e farfalle;

Talchè pe' morsi egli è tutto cocciuole,

E addosso ha sbrani e buche come valle;

Ed è poi fiagellato per ristoro

Con un zimbello pien di scudi d'oro.

 

 

60.

Quei, dice Nepo, è il re degli usurai,

Che pel guadagno scorticò il pidocchio

Un servizio ad alcun non fece mai,

Se non col pegno, e dandoli lo scrocchio;

Il gran se gli marcì dentro a' granai,

Chè nol vendea, se non valea un occhio;

Così fece del vino, ed or per questo

Gl'intarla il dosso e da' suoi soldi è pesto.

 

 

61.

Un altro ad un balcon balla e corvetta,

Chè un diavol colla sferza a cento corde,

Che un grand'occhio di bue ciascuna ha in vetta,

Prima gli dà cento picchiate sorde;

Con una spinta a basso poi lo getta

In cert'acque bituminose e lorde,

Che n'esce poi, ch'io ne disgrado gli orci

O peggio d'un norcin, mula de' porci.

 

 

62.

Dice la maga: questa è un po'ariosa,

Quand'ella vedde simìl precipizio;

Costui ha fatto qualche mala cosa;

Pur non so nulla, e non vo' far giudizio.

Domanda a Nepo, fattane curiosa,

Tal pena a chi si debba, ed a qual vizio.

Ed ei, che per servirla è quivi apposta,

Prontamente così le dà risposta:

 

 

63.

Quei fu zerbino, e d'amoroso dardo

Mostrando il cuor ferito e manomesso;

Credeva il mio fantoccío con un sguardo

Di sbriciolar tutto il femmineo sesso;

Ma dell'occhiate sue ben più gagliardo

Or sentene il riverbero e il riflesso;

E com'e' già pensò far alle dame,

Dalla finestra è tratto in quel litame.

 

 

64.

Si vede un ch'è legato, e che gli è posto

In capo un berrettin basso a tagliere;

E il diavol, colpo colpo da discosto

Con la balestra gliene fa cadere.

Il misero sta quivi immoto e tosto,

Battendo gli occhi a' colpi dell'arciere;

Che s'e' si muove punto o china o rizza,

Per tutto v'è un cultello che l'infizza.

 

65.

Qui Nepo scopre la di lui magagna,

Mostrando ch'e' fu nobile e ben nato,

E sempre ebbe il pedante alle calcagna;

Contuttociò voll'esser mal creato,

Perchè, se e' fosse stato il re di Spagna,

Il cappello a nessun mai s'è cavato:

Però, s'e' fu villano, ora il maestro

Gl'insegna le creanze col balestro.

 

 

66.

In oggi questa par comune usanza,

Martinazza risponde al Galatrona;

Stanno i fanciulli un po' con osservanza,

Mentre il maestro o il padre gli bastona.

Se e' saltan la granata, addio creanza;

Par ch'e' sien nati nella Falterona;

Ma per la loro asinità superba,

Son poi fuggiti più che la mal'erba.

 

 

67.

Ma chi è quel c'ha i denti di cignale,

E lingua cosi lunga e mostruosa?

Si vede che son fuor del naturale;

A me paion radici, o simil cosa.

Nepo rispose: quello è un sensale,

Che si chiamò il Parola; ma la glosa

Uom di fandonie dice e di bugie,

Perchè in esse fondò le senserie.

 

 

68.

Ora, per queste sue finzioni eterne

Ch'egli ebbe sempre nella mercatura,

Lucciole dando a creder per lanterne,

Sbarbata gli han la lingua e dentatura

Ma in bocca avendo poi di gran caverne,

Perchè non datur vacuum in natura,

Gli hanno a misterio in quelle stanze vote

Composto denti e lingua di carote.

 

 

69.

Quell'altro ch'all'ingiù volta ha la faccia,

E un diavol legnaiuolo in sul groppone

Gli ascia il legname sega ed impiallaccia,

Facendolo servir per suo pancone;

Un di coloro fu, ch'alla pancaccia

Taglian le legne addosso alle persone:

Sicchè del non tener la lingua in briglia

Così si sente render la pariglia.

 

 

70.

Vedi colui ch'al collo ha un orinale,

Cieco, rattratto, lacero e piagato?

Ei fu governator d'uno spedale,

Ov'ei non volle mai pur un malato.

Ora, per pena, ogni dolore e male

Che gl'infermi v'avrebbono portato,

Mentr'alla barba lor pappò sì bene,

Sopr'al suo corpo tutto quanto viene

 

 

71.

Chi è costui ch'abbiamo a dirimpetto,

Dice la donna, a cui quegli animali

Sbarban colle tanaglie il cuor del petto?

Nepo risponde: questo è un di quei tali

Che non ne pagò mai un maladetto.

Tenne gran posto, fe spese bestiali;

Ma poi per soddisfare ei non avría

Voluto men trovargli per la via.

 

 

72.

Colui, c'ha il viso pesto e il capo rotto

Da quei due spirti in feminili spoglie,

Uom vile fu, ma biscaiuolo e ghiotto,

Che si volle cavar tutte le voglie;

Ogni sera tornava a casa cotto

E dava col baston cena alla moglie.

Or, finti quella stessa, quei demoni

Sopra di lui fan trionfar bastoni.

 

 

73.

Riserra il muro, che c'è qui davanti,

Donne, che feron già, per ambizione

D'apparir gioiellate e luccicanti,

Dar il cul al marito in sul lastrone;

Or le superbe pietre e i diamanti

Alla lor libertà fanno il mattone,

Perocchè tanto grandi e tanti furo,

C'han fatto per lor carcere quel muro.

 

 

74.

Ma sta' in orecchi, chè mi par ch'e' suoni

Il nostro tabellaccio del Senato,

Sicchè e' mi fa mestier ch'io t'abbandoni,

Perocch'io non voglio essere appuntato.

A veder ci restavano i lioni,

Ma non posso venir, ch'io son chiamato:

Ed ecco appunto i diavoli co' lucchi;

Però lascia ch'io corra e m'imbacucchi.

 

 

75.

Dice la maga: vo' venire anch'io

Perch'il veder più altro non m'importa,

Ed in questa città così a bacío,

A dirla, mi par d'esser mezza morta.

Voglio trattar col re d'un fatto mio,

Ed andarmene poi per la più corta.

Ed ei le dice in burla: se tu parti,

Va' via in un'ora, e torna poi in tre quarti.

 

 

76.

Tu vuoi, gli rispos'ella, sempre il chiasso.

Nel consiglio così ne va con esso,

Ove ciascun l'onora e dàlle il passo,

Sbirciandola un po' meglio e più da presso.

Ella baciando il manto a Satanasso,

Lo prega ad osservar quanto ha promesso;

Ei gliel conferma, e perchè stia sicura,

Per la palude Stige glielo giura.

 

 

77.

Ed ella, per offerta così magna,

Ringraziamenti fattigli a barella,

Dice ch'ormai sbrattar vuol la campagna.

E tornar a dar nuove a Bertinella.

Pluton le dà licenza, e l'accompagna

Fino alla porta, e lì se ne sgabella;

Ond'ella in Dite a un vetturin s'accosta,

Che la rimeni a casa per la posta.

 

 

78.

Il re, fatta con lei la dipartenza,

Al salon del Consiglio se ne torna;

Onde ciascuno alla real presenza

Alza il civile, e abbassa giù le corna.

Salito alla sua sbieca residenza

Di stracci e ragni a drappelloni adorna,

Voltando in qua e in là l'occhio porcino,

Si spurga, e butta fuora un ciabattino.

 

 

79.

Spiegar volendo poi quanto gli occorre,

Comincia il suo proemio in tal maniera:

Voi, che di sopra al Sole in queste forre

Cadesti meco all'aria oscura e nera,

Onde noi siam quaggiù 'n fondo di torre

«Gente, a cui si fa notte avanti sera;»

Voi, ch'in malizia, in ogni frode e inganno

«Siete i maestri di color che sanno;»

 

 

80

Sebben foste una man di babbuassi

Minchioni e tondi piucchè l'O di Giotto;

Ma poi nel bazzicar taverne e chiassi,

S'è fatto ognun di voi sì bravo e dotto

Che in oggi è più cattivo di tre assi,

E viepiù tristo d'un famiglio d'Otto;

Voi dunque, benchè pazzi cittadini,

Nel vitupero ingegni peregrini;

 

 

81

Siete pregati tutti in cortesia

Da Martinazza, nostra confidente,

Poichè Baldone ancor cerca ogni via

D'entrar in Malmantil con tanta gente,

Ad oprar, ch'egli sbandi e trucchi via;

Però ciascun di voi liberamente

Potrà dir sopra questo il suo parere

Del modo che e' ci fosse da tenere.

 

 

82.

Cominci il primo: dite, Malebranche,

Quel ch'e' vi par che qui v'andasse fatto.

Levato il tòcco, e sollevate l'anche,

Allor quel diavol'n un medesmo tratto

Un capitombol fa sopr'alle panche,

Beppe andava e veniva dalla casa alla stalla. Suo figlio Tonino, un ragazzo quindicenne, strigliava il cavallo, rientrava con un fascio di sarmenti, portava l'erba per i conigli.

Le figliole che dormivano in camera con noi, nel letto accanto al nostro, di giorno erano sempre nei campi. Si sentivano chiamare e chiamarsi di lontano.

- Rosa-anna! Marti-ina! Lu-ci-ia!

Erano tre, a scala: diciotto, sedici, quattordici anni.

Molto spesso ce ne partivamo a esplorare i dintorni del Molino.

Si passava il ponticello sull'acqua: al di là si biforcavano due viottoli; uno si inerpicava su in alto, l'altro si perdeva scendendo fra l'erba umida.

Io sceglievo il viottolo in salita, anche se era stretto e sassoso e ad ogni passo i rovi e gli arbusti ci impedivano il cammino.

Qualche volta Lia si ribellava:

- Ma Isa! Dove mi porti? - diceva, - mostrandomi un ginocchio sgraffiato o un dito punto da un rovo, che sanguinava.

Ma io sentivo un'ansia di arrampicarmi sempre più in alto. Non guardavo quello che mi circondava, godevo a respirare quell'aria fine, a sentire accelerarsi i battiti del cuore. Era il gusto di sentirsi ancora viva, libera, come gli uccelli che ci volteggiavano sul capo. Volevo assaporarlo fino in fondo, con l'avidità quasi dolorosa dell'affamato che teme di vedersi portar via all'improvviso il piatto che ha davanti.

Mia sorella forse non mi capiva. A volte diceva sorridendo: - Sono un po' stanca, Isa! Mi pare che per oggi abbiamo scavallato abbastanza.

Eppure non era ancora abbastanza per me, ma rientravo anch'io per compiacerla.

La casa era silenziosa in quelle ore pomeridiane. Sul pavimento appena lavato, i mattoni imbevuti d'umido si asciugavano lentamente, le brocche di rame lucevano nella penombra.

Tutti erano fuori per i campi.

Nella nostra stanza, Lia sedeva al tavolino con un libro dinanzi e leggeva. Dalla lentezza con cui voltava le pagine, capivo che spesso il suo pensiero vagava lontano, ma appariva quieta, in pace. A volte coglievo un sorriso sulle sue labbra dischiuse, come se dialogasse con qualcuno in segreto... Rimaneva là per delle ore, finché veniva sera. L'ombra invadeva la stanza, ma lei non dava segno di accorgersene.

Allora io, senza far rumore, scappavo fuori da sola. Non potevo più restare chiusa là dentro, un'ansia irresistibile mi spingeva ad uscire.

Respiravo l'odore dell'erba, più fresco, più intenso.

La casa spariva nell'oscurità, solo un filo di fumo dal camino si levava nel cielo di un azzurro spento.

Il silenzio della sera era appena interrotto da qualche voce che chiamava di lontano:

- Ohe! Rosanna!

- In do' sei Martina?

Sulla via dell'alberaia, gli uccelli si posavano a mezza strada sui rami nudi dei pioppi: di là volavano al cipresso. Il loro cinguettio cresceva d'intensità ed era tutto un balenare di ali che s'infrascavano, fino a che cessava lo svolazzare, il cinguettio si faceva man mano più sommesso, s'illanguidiva in un pispiglio fievole, e taceva.

Si sentiva solo in lontananza il canto monotono del chiù.

Una sera io seguitavo a vagare fra le ombre: sul mio capo correvano le nuvole, velando e svelando una sottile falce di luna.

Chiù... chiù... chiù...

Provavo uno struggimento, misto quasi a paura, come se il chiù mi invitasse a inoltrarmi per la campagna solitaria. Un'ansia, quasi un bisogno di tentare l'ignotoN="JUSTIFY">A acconsentire a un atto perentorio.

 

 

 

88.

Perchè sempre de jure pria si cita

L'altra parte a dedur la sua ragione;

Poi s'ella è in mora, viensi a un'inibita,

E non giovando, alla comminazione

Che in pena caschi delle forche a vita.

E se la parte innova lesïone,

Allor può condennarsi, avendo osato

Di far, causa pendente, un attentato.

 

 

89.

Sommelo anch'io, che in altro tribunale

Si tien, dice Pluton, cotesto stile;

Ma qui, dove s'attende al criminale

S'esclude ogni atto e ogni ragion civile.

Ma sia com'ella vuole, o bene o male,

Io vo' levar quest'uom da Malmantile;

Però chetiamci, e dica il Calcabrina:

E quei si rizza, e verso il re s'inchina.

 

 

90.

E poic'ha fatte riverenze in chiocca,

Co' suoi piè lindi a pianta di pattona,

Si soffia il naso, e spazzasi la bocca

E posta in equilibrio la persona,

Come quel che si pensa dare in brocca,

Tutto sfrontato dice: alta Corona,

Circa l'ordingo, pur si metta in opra;

Perch'io concorro e affermo quanto sopra.

 

 

91.

 

Ma in vece di quel cappio da beltresca,

Ch'è il tossico de' ladri, si provvegga

Una bilancia o rete per la pesca,

Con una lunga fune che la regga.

E perchè 'l fatto meglio ci riesca,

Si tinga tutta, acciocchè non si vegga;

E in terra, quanto ell'apre, ivi si spanda,

Fino che'l porco vengane alla ghianda.

 

 

 

92.

Perchè, s'e' muovon l'armi, di ragione,

Se dal capo l'esercito è condotto,

Innanzi a tutti marcerà Baldone.

E quand'ei giunga ed ha la rete sotto,

Fate che leste allor sien più persone

A farla tirar su coll'avannotto,

Operando in maniera ch'egli insacchi

In luogo, ove si vede il sole a scacchi.

 

 

93.

Questo, dice Plutone, ha più disegno.

Ma il cancellier di nuovo s'attraversa,

Con dire: o laccio o rete abbia quel legno

È tutta fava, et idem per diversa;

Perchè manco il Cipolla a questo segno

Concede il molestar la parte avversa.

Se poi comandi, anch'io non me ne parto,

Lodando il suspendatur collo squarto.

 

 

94.

Qui, dice il re, si dà sempre in budella,

Sicchè mi cascan le braccia e l'ovaia;

Mentre costui a ogni cosa appella,

E co' suoi punti mena il can per l'aia.

Gli ha sempre più ritorte che fastella;

Ma e' non lo crede, s'ei non va a Legnaia.

Orsù dite costà voi, Cappelluccio:

Ed ei si rizza, e cavasi il cappuccio.

 

 

95.

E disse: io dico, che direi, o sire,

Poichè da te ch'io dica mi vien detto;

Ma dir non oso, ch'io non ho che dire,

Se non dir quanto qui quest'altro ha detto;

Perch'ei l'ha detto con sì terso dire,

Ch'io sto per dir che mai s'udì tal detto:

Però dico ch'a dir non mi dà il cuore,

E lascio dire a un altro dicitore.

 

 

96.

Anch'io l'ho detto che tu sei un buffone,

Risponde il re; e intanto Libicocco

Tagliare ad Arno l'argine propone,

Acciò nel campo l'acqua abbia lo sbocco.

E come vuoi, risponde allor Plutone,

Mandar Arno all'insù, viso di sciocco?

E poi dal fiume d'Arno a Malmantile

V'è un ghiandellino. Dica Baciapile.

 

97.

Questo, che fa il baséo, ma è tristo e accorto,

E perch'egli è auditor d'ipocrisia,

Veste cilizio, e con un viso smorto

Canta sempre laldotti per la via,

Risponde a occhi bassi e collo torto:

Fate motto di là in cancelleria.

E qui va in mezzo, bacia terra, e in fine

Tornando al luogo, piovon discipline.

 

 

98.

Vòltati, dice il re, spropositato!

S'alcuna cosa qui non hai proposta,

Come vuoi tu, buaccio, che 'l Senato

Vada in cancelleria per la risposta?

Pur sento, rispond'ei, ch'in magistrato

Così dir s'usa, ed io l'ho detto apposta;

Ma s'io vi scandolezzo e alcun m'incolpa

D'errore in questo, io me ne rendo in colpa.

 

 

99.

Non occorre brunir co' labbri i sassi,

Dice Plutone, ossaccia senza polpe,

E fare il torcicollo, e, ovunque passi,

Seminar discipline e dir tue colpe;

Ch'io so, che chi per lepre ti comprassi,

Avrebbe almen tre quarti della volpe;

Però va' a siedi, e segua il Tiritera.

E quei s'assetta e parla in tal maniera:

 

 

100.

Io, che sono un insano e ignaro ognora;

Perchè saper supir non voglio o vaglio,

Dico: ch'al duca, perchè a' muri ei mora,

Tosto in testa si dia pel meglio un maglio,

Finchè lo spirto sporti al foro fora,

Dond'ei fa i peti, e pute d'oglio e d'aglio;

Acciò l'accia sull'aspo doppo addoppi

La Parca, e il porco colla stoppa stoppi.

 

 

101.

Ben tu puzzi di Pazzo ch'è un pezzo,

Disse Pluton, bestiaccia, per bisticcio:

Perch'io per me non so nè raccapezzo

Quel che tu voglia dir nel tuo capriccio;

Ma non son re, s'io non te ne divezzo:

E perchè tu non temi grattaticcio,

Mentre stima non fai delle bravate,

Quest'altra volta le saran pecciate.

 

 

102.

Or via seguite. Qui lo Scamonea

Si rizza in viso tutto insanguinato

Perch'ei, ch'è un fastidioso, appunto avea

Fatto a' graffi con un che gli era allato;

Però colla bisunta sua giornea

La qual traluce come ciel stellato,

Sicch'ella un Argo par fatto alla macchia,

Si netta, al Re s'inchina e così gracchia:

 

 

103.

Io non so, se Baldon sogna o frenetica,

Perchè, s'ei vuol sturbar la nostra pratica,

Fa male i conti, e colla sua aritmetica

Nel zero l'ho fra l'una e l'altra natica

Poichè, se un bacchio il capo a lui solletica,

Sbrattar l'armata non sarà in gramatica,

Che tutta a brache piene, ancorchè stitica,

Tremando andranne come paralitica.

 

 

104.

Olà, dove siam noi? (dice Plutone)

E che sì, scorrettaccio, ch'io ti zombo.

Darò ben io sul capo a te il forcone,

Sicchè alle stelle n'anderà il rimbombo.

Guarda quel che tu di', porco barone,

E va' più lesto e col calzar dei piombo;

Sta' ne' termini, e parla con giudizio,

Chè per mia fè ti privo dell'ufizio.

 

 

105.

S'alza Scorpione allora, e vien da esso

D'Astolfo il corno orribile proposto,

Che gli eserciti, dice, in fuga ha messo

Conforme scrive e accerta l'Ariosto.

Si rallegra Plutone, e dice: adesso

Non ci sarà dal cancelliere opposto,

Perchè ci calza bene; e certo questa

Cosa del corno a me va per la testa.

 

 

106.

Risponde sogghignando Ciappelletto

(Ch'in tal modo si chiama il cancelliere):

Voi già m'avete per dottore eletto,

E non ch'io serva qua per candelliere,

Per mio debito dunque io son costretto

A dire all'occorrenze il mio parere.

Su, dice il re, dottor de' miei stivali,

Metti anche il corno in termini legali.

 

 

107

Vuoi forse darci qualche eccezïone?

Stiamo in decretis; di' peto vestito;

Va ben, risponde il sere, ch'ei propone

Cosa, che non deprava ordine o rito.

Sonate un doppio, disse allor Mammone,

Ch'ei la passò; facciam dunque il partito

Perch'ella segua di comun consenso,

E ognun favorirà siccome io penso.

 

 

108.

Vanno le fave attorno ed i lupini,

E sentesi stuonato e fuor di chiave,

Alle panche, gridar, tavolaccini;

Raccogliete pel numero, e le fave

Pigliate in man; chè questi cittadini,

Che in simil luogo star dovrian sul grave,

Rendono, il capo avendo pien di baie,

Male i partiti e mangian le civaie.

 

 

109.

Vanno i donzelli, ognun dalla sua banda;

Ma perchè ne ricevon mille scherzi,

Che più nessuno ardisca il re comanda,

Se non vuol che a pien popolo si sferzi.

Di nuovo attorno i bossoli si manda,

Da vincersi il partito pe' due terzi;

E cercate alla fin tutte le panche,

Fu vinto, non ostante cento bianche.

 

 

SETTIMO CANTARE.

 

ARGOMENTO.

 

Paride, dopo aver molto bevuto,

Entra d'andar al campo in frenesia;

E come il sonno avea pel ber perduto,

Perde nel gir di notte anche la via.

Cade in un fosso, onde a donargli aiuto

Corron le Fate, e gli usan cortesia;

Vien condotto in un antro, e per diporto

La storia gli è narrata di Magorto.

 

 

1

Vino tempera te, disse Catone,

Perchè si dee berne a modo e a verso;

E non come colà qualche trincone,

Che giorno e notte sempre fa un verso;

Ond'ei si cuoce, e perchè ci va a Girone,

La favola divien dell'universo:

E vede poi, morendo in tempo breve,

Ch'è ver, che chi più beve, manco beve.

 

 

2.

Se il troppo vino fa che l'uom soggiace

A tal error di tanto pregiudizio,

Chi non ne beve, e quello a cui non piace

A questo conto dunque ha un gran giudizio;

Anzichè no, sia detto con sua pace,

Perch'ogni estremo finalmente è vizio;

E se di biasmo è degno l'uno e l'altro,

Questo ha il vantaggio, al mio parer, senz'altro.

 

 

3

Perchè se quel s'ammazza e non c'invecchia

Ed è burlato il tempo di sua vita,

Almen sente il sapor di quei ch'ei pecchia,

E tien la faccia rossa e colorita.

Burlar anche si fa chi va alla secchia,

E insacca senza gusto acqua scipita,

Che lo tien sempre bolso e in man del fisico,

Il qual l'aiuta a far morir di tisico.

 

 

4.

Però sia chi si vuole, egli è un dappoco

Chi 'mbotta al pozzo come gli animali;

S'avvezzi a ber del vino appoco appoco,

Ch'ei sa, che l'acqua fa marcire i pali;

Ma, com'io dico, si vuol berne poco:

Basta ogni volta cinque o sei boccali:

Perch'egli è poi nocivo il trincar tanto,

Com'udirete adesso in questo Canto.

 

 

5.

Omai serra gli ordinghi e le ciabatte

Chiunque lavora e vive in sul travaglio,

E difilato a cena se ha batte

A casa, o dove più gli viene il taglio.

Chi dal compagno a ufo il dente sbatte;

Tanti ne va a taverna, ch'è un barbaglio;

Parte alla busca; e infin, purchè si roda,

Per tutto è buona stanza, ov'altri goda.

 

 

6.

E Paride, ch'anch'egli si ritrova

A corpo voto in quelle catapecchie,

D'Amor chiarito figlio d'una lova,

Che svaligiar gli ha fatto le busecchie,

Dice al villan: Va' a comprarmi dell'uova,

Ecco sei giuli, tônne ben parecchie;

Piglia del pane, e sopra tutto arreca

Buon vino, sai! non qualche cerboneca.

 

 

7.

E se t'avanza poi qualche quattrino,

Spendilo in cacio; non mi portar resto.

Messer sine, rispose il contadino,

Io torrò, s'io ne trovo, ancor cotesto.

E partendo gli ride l'occhiolino,

Sperando aver a far un po' d'agresto;

Ma facendo i suoi conti per la via,

S'accorge ch'e' non v'è da far calía.

 

 

8.

All'oste se ne va per la più corta,

E l'uova, il pane, e 'l cacio, e 'l vin procaccia

E fatto un guazzabuglio nella sporta,

Le quattro lire slazzera e si spaccia.

L'altro l'aspetta a gloria, e in sulla porta,

Per veder s'egli arriva, ognor s'affaccia;

E per anticipare, il fuoco accende,

Lava i bicchieri e fa l'altre faccende.

 

 

9.

Perch'egli è tardi ed ha voglia di cena,

Poích'ogni cosa ha bell'e preparato,

Si strugge e si consuma per la pena,

Che lì non torna il messo nè il mandato;

Ma quand'ei vedde colla sporta piena

Giunger al fine il suo gatto frugato.

Oh ringraziato, dice, sia Minosse,

Ch'una volta le furon buone mosse.

 

 

10.

Chiappa le robe, e mentre ch'ei balocca

In cuocer l'uova, e il cacio ch'è stupendo,

Sente venirsi l'acquolina in bocca,

E far la gola come un saliscendo.

Sbocconcellando intanto, il fiasco sbocca,

E con due man alzatolo, bevendo,

Dice al villan, che nominato è Meo

Orsù ti fo briccone, addio, io beo.

 

 

11.

Così per celia cominciando a bere,

Dagliene un sorso e dagliene il secondo,

Fe sì, che dal vedere e non vedere

Ei diede al vino totalmente fondo.

A tavola dipoi messo a sedere,

Lasciato il fiasco voto sopra il tondo,

Voltossi a' dieci pan da Meo provvisti,

E in un momento fece repulisti.

 

 

12.

Dieci pan d'otto, e un giulio di formaggio

Non gli toccaron l'ugola: e s'inghiotte

Due par di serque d'uova e da vantaggio;

Poi dice: o Meo, spilla quella botte

Che t'hai per l'opre, e dammi il vino assaggío;

Io vo' stasera anch'io far le mie lotte,

Bench'io stia bene, sia ripieno e sventri,

Perchè mi par ch'una lattata c'entri.

 

 

13.

Il rustico, che dar del suo non usa,

Non saper, dice dove sia il succhiello;

Che per casa non v'è stoppa nè fusa,

E che quel non è vin, ma acquerello.

Ci vuol, risponde Paride altra scusa.

E rittosi, di canna fa un cannello;

E in sulla botte posto a capo chino,

Con esso pel cocchiume succia il vino.

 

 

14.

E perch'è buono, e non di quello il quale

È nato in sulla schiena de' ranocchi,

A Meo, che piuttosto a carnovale

Che per l'opre lo serba, esce degli occhi,

E bada a dire: ovvia! vi farà male;

Ma quegli, che non vuol ch'ei lo 'nfinocchi,

Ed è la parte sua furbo e cattivo,

Gli risponde: oh tu sei caritativo!

 

15.

Non so, se tu minchioni la mattea,

Lasciami ber, ch'io ho la bocca asciutta;

Che diavol pensi tu poi ch'io ne bea?

Io poppo poppo, ma il cannel non butta.

Risponde Meo: poffar la nostra Dea

Che s'ei buttasse, la beresti tutta;

Oh discrezione! s'e' ce n'è minuzzolo.

Paride beve, e poi gli dà lo spruzzolo.

 

 

16.

Non vi so dir se Meo allor tarocca.

Ma l'altro, che del vin fu sempre ghiotto,

Di nuovo appicca al suo cannel la bocca,

E lascia brontolare. e tira sotto;

Ma tanto esclama, prega, e dàgli, e tocca,

Ch'ei lascia al fin di ber, già mezzo cotto;

Dicendo, ch'ei non vuoi che il vin lo cuoca;

Ma che chi lo trovò non era un'oca.

 

 

17.

Poichè dal cibo e da quel vin che smaglia

Si sente tutto quanto ingazzullito,

Risolve ritornare alla battaglia,

Donde innocentemente s'è partito

Chè scusa non gli pare aver che vaglia

Che non gli sia a viltade attribuito.

Così ribeve un colpettino, e incambio

D'andare a letto, s'arma e piglia l'ambio.

 

 

18.

Senza lume nè luce via spulezza,

E corre al buio, che nè anche il vento:

Non ha paura mica della brezza,

Perch'egli ha in corpo chi lavora drento;

Per la mota sibben si scandolezza,

Chè, dando il cul in terra ogni momento,

Quanto più casca e nella memma pesca,

Tanto più sente ch'ell'è molle e fresca.

 

 

19.

Dopoch'ei fu cascato e ricascato,

Per non sentir quel molle e fresco ancora,

Chè'l vino, e quanto dianzi avea ingubbiato,

Opra di dentro sì ma non di fuora,

Giunto al mulin, dal mezz'in giù sbracciato

Si sciaguatta i calzoni in quella gora,

Per dopo nella casa di quel loco

Farsegli tutti rasciugare al foco.

 

 

20.

Mentre si china, dando il culo a leva,

E' fece un capitombolo nell'acqua;

Ond'avvien ch'una volta ei l'acqua beva

Sopra del vin, che mai per altro annacqua.

Quanto di buon si è, che s'ei voleva

Lavare i panni, il corpo anche risciacqua:

E divien l'acqua sì fetente e gialla,

Che i pesci vengon tutti quanti a galla.

 

 

21.

Le regole ben tutte a lui son note,

Che insegnò, per nuotar bene, il Romano:

Distende il corpo, gonfie fa le gote.

Molto annaspa col piede e colla mano.

Intanto si conduce fra le ruote,

Che fan girando macinare il grano;

Ben se n'avvede, e già mette a entrata

Di macinarsi, e fare una stiacciata.

 

 

22.

In questo che il meschin già si presume

D'andar a far la cena alle ranocchie,

Aprir vede una porta, e in chiaro lume

Sventolar drappi e campeggiar conocchie;

Chè le Naiadi ninfe di quel fiume,

Coronate di giunchi e di pannocchie,

Corrono ad aiutarlo, infin ch'a riva.

Là dove il dì riluce in salvo arriva.

 

 

23.

E vede all'ombra di salcigne, frasche,

Fra le più brave musiche acquaiuole,

Parte di loro al suon di bergamasche,

Quinte e seste tagliar le capriuole.

Chi tien che queste ninfe sien le lasche,

Chi le sirene ed altri le cazzuole.

Io non so chi di lor dia più nel buono,

E le lascio nel grado ch'elle sono.

 

 

24.

Ognun si tenga pure il suo parere;

O quelle o altre, a me non fa farina.

Bastivi per adesso di sapere

Che queste non son bestie da dozzina;

E s'ella non m'è stata data a bere,

Elle son Fate c'han virtù divina;

E che sia il vero, fede ve ne faccia

Il Garani scampato dalla stiaccia.

 

 

25.

Il quale così molle e sbraculato

Il cadavero par di mona Checca,

Ch'essendo stato allor disotterrato,

Abbia fatto alla morte una cilecca.

Si scuote e trema sì, ch'io ho stoppato

Per San Giovanni il carro della Zecca;

E mentr'ei si dibatte e il capo serolla,

Il pavimento e i circostanti ammolla.

 

 

26.

Ma le Fate, che specie son di pesce

Ed hanno il corpo a star nell'acqua avezzo,

Più che l'esser bagnate a lor rincresce

Il vederlo così fradicio mezzo;

Perciò lo spoglian; ma perchè riesce,

Quando un vuol far più presto, stare un pezzo,

Per trattenerlo, mentr'or questa or quella

L'asciuga, una contò questa novella.

 

 

27.

Furo un tratto una dama e un cavaliero

Moglie e marito, in buono e ricco stato,

Che fatti vecchi contro ogni pensiero,

Dopo d'aver qualche anno litigato

La grinza pelle con un cimitero,

Convenne loro al fin perdere il piato,

E senza appello aver a far proposito

Di dar per sicurtà l'ossa in deposito.

 

 

28.

Lasciaron due figliuoli, i più compiti

Che 'l mondo avesse mai sulle sue scene;

Perch'essi avevan tutt'i requisiti

Dovuti a un galantuomo e a un uom dabbene;

Aggiunto che di soldi eran gremiti

(Chè questo in somma è quel che vale e tiene);

Stavan d'accordo in pace ed in amore.

Ed eran pane e cacio, anima e cuore.

 

 

29.

Cosa che fare in oggi non si suole,

perchè i fratelli s'han piuttosto a noia:

E se lor han due cenci o terre al sole,

All'un mill'anni par che l'altro muoia.

E questo è il ben ch'al prossimi si vuole!

E siam di così perfida cottoia,

Che sebben fosser anche al lumicino,

E' non si sovverrebbon d'un lupino.

 

 

30.

Perch'e' sono una man di mozzorecchi;

Al contrario costor, di chi io favello,

I quai di cortesia furon due specchi

E trattavan ciascun da buon fratello,

S'avrebbon portat'acqua per gli orecchi.

E si servian di coppa e di coltello:

E per cercar dell'uno il bene stare,

L'altro voluto avrebbe indovinare.

 

 

31.

Essendo un giorno insieme ad un convito.

Quand'appunto aguzzato hanno il mulino

E mangian con bonissimo appetito,

Non so come, il maggior detto Nardino.

Nell'affettar il pan tagliossi un dito,

Sicch'egli insanguinò il tovagliuolino;

E parvegli sì bello a quel mo intriso,

Ch'ei si pose a guardarlo fiso fiso.

 

32.

E resta a seder lì tutto insensato,

Ch'ei par di legno anch'ei come la sedia;

Può far, tanto nel viso è dilavato,

Colla tovaglia i simili in commedia.

E mirando quel panno insanguinato

Ormai tant'allegria muta in tragedia;

Mentre nel più bel suon delle scodelle

Si vede ognun riposar le mascelle.

 

 

33.

E tutti quei che seggon quivi a mensa,

i servi, i circostanti ed ogni gente,

Corrongli addosso, chè ciascun si pensa

Che venuto gli sia qualch'accidente;

Nè sanno che il suo male è in quella rensa,

Com'appunto fra l'erba sta il serpente;

Rensa non già, ma lensa, onde il suo cuore

Preso al lamo col sangue aveali Amore.

 

 

34.

Che gli par di veder, mentre in quel telo

Contempla in campo bianco i fior vermigli,

Un carnato di qualche Dea di cielo

Composta colassù di rose e gigli.

E sì gli piace, e tanto gli va a pelo.

Che finalmente, mentrech'ei non pigli

Una moglie d'un tal componimento.

Non sarà de' suoi di mai più contento.

 

 

35.

E già se la figura nel pensiero

E bianca e fresca e rubiconda e bella,

Co' suoi capelli d'oro e l'occhio nero,

Che più nè men la mattutina stella

E come ch'ei la vegga daddovero,

Divoto se le inchina e le favella,

E le promette, s'egli avrà moneta,

Di pagarle la Fiera all'Improneta.

 

 

36.

E vuol mandarle il cuore in un pasticcio,

Perch'ella se ne serva a colazione;

E gli s'interna sì cotal capriccio

E tanto se ne va in contemplazione,

Che il matto s'innamora come un miccio

D'un amor che non ha conclusïone,

Ma ch'è fondato, come udite, in aria

D'una bellezza finta e immaginaria.

 

 

37.

Così a credenza insacca nel frugnuòlo,

Ma da un canto egli ha ragion da vendere;

Che s' egli è ver ch'Amor vuol esser solo

Rivale non è qui con chi contendere.

Ma Brunetto il fratel che n'ha gran duolo,

Poichè 'l suo male alcun non può comprendere,

Tien per la prima un'ottima ricetta,

Per rimandarlo a casa, una seggetta.

 

 

38.

Ove condotto e messolo in sul letto,

Il medico ne venne e lo speziale,

Chiamati a visitarlo; ma in effetto

Anch'essi non conobbero il suo male.

Disperato alla fin di ciò Brunetto

Col gomito appoggiato in sul guanciale,

A cald'occhi piangendo più che mai:

Io vo saper, dicea, quel che tu hai.

 

 

39.

Ei che vagheggia sotto alle lenzuola

Il gentil volto e le dorate chiome,

Ne anche gli risponde una parola

Non che gli voglia dir nè che nè come.

Replica quello e seccassi la gola;

Lo fruga, tira e chiamalo per nome:

Ed ei pianta una vigna e nulla sente;

Pur tanto l'altro fa, ch'ei si risente.

 

 

40.

Dicendo: fratel mio, se tu mi vuoi

Quel ben che tu dicei volermi a sacca,

Non mi dar noia, va' pe' fatti tuoi,

Perchè il mio mal non è male da biacca;

Al quale ad ogni mo' trovar non puoi

Un rimedio che vaglia una patacca;

Perch'egli è stravagante ed alla moda,

Chè non se ne rinvien capo nè coda.

 

 

41.

Vedi, soggiunse l'altro, o ch'io m'adiro,

O pur fa' conto ch'io lo vo' sapere;

Hai tu quistione? hai tu qualche rigiro?

Tu me l'hai a dire in tutte le maniere.

Nardin rispose, dopo un gran sospiro:

Tu sei importuno poi più del dovere;

Ma da che devo dirlo, eccomi pronto.

Così quivi di tutto fa un racconto.

 

 

42.

Brunetto, udito il caso e quanto e' sia

Il suo cordoglio, anch'ei dolente resta,

Sebben, per fargli cuor, mostra allegria

Ma, come io dico, dentro è chi la pesta;

Perch'in veder sì gran malinconia

Ed un umor sì fisso nella testa,

In quanto a lui gli par che la succhielli

Per terminare il giuoco a' Pazzerelli.

 

 

43.

E conoscendo, ch'a ridurlo in sesto

Ci vuol altro che 'l medico o 'l barbiere,

Vi si spenda la vita e vada il resto,

Vuol rimediarvi in tutte le maniere.

E quivi si risolve presto presto

D'andar girando il mondo, per vedere

Di trovargli una moglie di suo gusto,

Com'ei gliel'ha dipinta giusto giusto.

 

 

44.

Perciò d'abiti e soldi si provvede,

E dà buone speranze al suo Nardino;

E preso un buon cavallo e un uomo a piede,

Esce di casa, e mettesi in cammino,

Sbirciando sempre in qua e in là se vede

Donna di viso bianco e chermisino;

E se ne incontra mai di quella tinta,

Vuol poi chiarirsi s'ella è vera o finta.

 

 

45.

Perch'oggidì non ne va una in fallo

Che non si minii o si lustri le cuoia.

E dov'ell'ha un mostaccio infrigno e giallo

Ch'ella pare il ritratto dell'Ancroia,

Ogni mattina innanzi a un suo cristallo

Quattro dita vi lascia su di loia;

E tanto s' invernicia, impiastra e stucca,

Ch'ella par proprio un angiolin di Lucca.

 

 

46.

Di modo ch'ei non vuol restarvi còlto,

Ma starvi lesto e rivederla bene;

E per questo una spugna seco ha tolto

E sempre in molle accanto se la tiene,

Con che passando ad esse sopra il volto,

Vedrà s' il color regge o se rinviene;

Ma gira gira, in fatti ei non ritrova

Suggetto che gli occorra farne prova.

 

 

47.

Dopo che tanto a ricercare è ito

Che i calli al culo ha fatto in sulla sella.

Giunse una sera al luogo d'un romito

Che a restar l'invitò nella sua cella;

A lui parve toccar il ciel col dito,

Per non aver a star fuori alla stella,

Il passar dentro ed egli e il servitore

Ringraziando il buon uom di tal favore.

 

 

48.

Vestia di bigio il vecchio macilente,

Facendo penitenza per Macone;

E perch'ei fu nell'accattar frequente,

Per nome si chiamò fra Pigolone.

Costui, com'io diceva, allegramente

In cella raccettò le lor persone;

Spogliò il cavallo, gli tritò la paglia,

Sul desco poi distese la tovaglia.

 

 

49.

E gli trovò buon pane e buon formaggio

Tutto accattato, ed erbe crude e cotte,

E del vino fiorito quanto un maggio

Ch'egli è di quel delle centuna botte;

Di che spesso ciascun pigliando a saggio,

Stettero a crocchio insieme tutta notte.

E perchè per proverbio dir si suole:

La lingua batte dove il dente duole,

 

 

50.

Brunetto, che teneva il campanello,

Dice chi sia, e che di casa egli esce

Non per suo conto, ma d'un suo fratello

Del quale infino all'anima gl'incresce,

Perchè gli pare uscito di cervello;

Non si sa s'ei si sia più carne o pesce.

Così piangendo in far di ciò memoria,

Per la minuta contagli la storia.

 

 

51.

Sta Pigolone attento a collo torto

Ad ascoltarlo, e poich'egli ha finito:

Figliuol, risponde a lui, dátti conforto

E sappi che tu sei nato vestito;

Chè qui è l'uom salvatico Magorto,

Ch'è un bestione, un diavol travestito;

Che, se tu lo vedessi, uh egli è pur brutto!

Basta, a suo tempo conterotti il tutto.

 

 

52.

Egli ha un giardino posto in un bel piano,

Ch'è ognor fiorito e verde tutto quanto;

Giardiniero non v'è nè ortolano,

Chè d'entrarvi nessun può darsi vanto.

Da per sè lo lavora di sua mano

E da sè lo fondò per via d'incanto,

Con una casa bella di stupore,

Che vi potrebbe star l'Imperadore.

 

 

53.

Ma io ti vo' dar adesso un'abbozzata

Qui presto presto della sua figura:

Ei nacque d'un Folletto e d'una Fata

A Fiesol 'n una buca delle mura,

Ed è sì brutto poi, che la brigata

Solo al suo nome crepa di paura.

Oh questo è il caso a por fra i Nocentini

E far mangiar la pappa a quei bambini.

 

 

54.

Oltrech'ei pute come una carogna,

Ed è più nero della mezzanotte,

Ha il ceffo d'orso e il collo di cicogna,

Ed una pancia come una gran botte.

Va in su i balestri ed ha bocca di fogna

Da dar ripiego a un tin di méle cotte;

Zanne ha di porco, e naso di civetta,

Che piscia in bocca e del continuo getta.

 

 

55.

Gli copron gli occhi i peli delle ciglia,

Ed ha cert'ugna lunghe mezzo braccio;

Gli uomini mangia, e quando alcun ne piglía

Per lui si fa quel giorno un Berlingaccio

Con ogni pappalecco e gozzoviglia;

Ch'ei fa prima coi sangue il suo migliaccio,

La carne assetta in vari e buon bocconi,

E della pelle ne fa maccheroni.

 

 

56.

Dell'ossa poi ne fa stuzzicadenti,

Niente in somma v'è che vada male;

Sicchè, Brunetto figliuol mio, tu senti

Ch'egli è un cattivo ed orrido animale.

Ora torniamo a' suoi scompartimenti,

Ove son frutte buone quanto il sale,

Vaghe piante, bei fiori ed altre cose,

Com'io ti potrei dir, maravigliose,

 

57.

Ma lasciando per or l'altre da parte,

Cocomeri vi son dì certa razza,

Che chi ne può aver uno e poi lo parte,

Vi trova una bellissima ragazza;

Che, per esser astuta la sua parte,

Diratti che tu gli empia una sua tazza

A un di quei fonti lì sì chiari e freddi

Ma se la servi, a Lucca ti riveddi.

 

 

58.

Tu puoi far conto allor d'averla vista,

Perchè mentr'ella beve un'acqua tale,

Ti fuggirà in un subito di vista

E tu resterai quivi uno stivale.

Se tu non l'ubbidisci, ella, ch'è trista,

Vedendo che il pregare e il dir non vale,

Intorno ti farà per questo fine

Un milion di forche e di moine,

 

 

59.

E se di compiacerla poi ricusi,

Dirà che tu buon cavalier non sia,

Mentre conforme all'obbligo non usi

Servitù colle dame e cortesia;

Ma lascia dire e tien gli orecchi chiusi,

Non ti piccar di ciò, sta' pure al quia;

Gracchi a sua posta; tu non le dar bere

Acciò non fugga, e poi ti stia il dovere.

 

 

60.

Con questa, che sarà fatta a pennello

Come tu cerchi, leverai dal cuore

Ogni doglia ogni affanno al tuo fratello,

Ed io te n'entro già mallevadore;

Vientene dunque meco e sta' in cervello,

Cammina piano, e fa' poco romore;

Che se e' ci sente a sorte o scuopre il cane

Non occor'altro, noi abbiam fatto il pane.

 

 

61.

Zitti dunque, nessun parli o risponda;

Andiamo, ch'e' s'ha a ir poco lontano.

Così va innanzi e l'altro lo seconda,

E il servitor gli segue anch'ei pian pìano;

Ma quel demonio che va sempre in ronda,

Gli sente e gli vuol vincer della mano;

Perchè gli aspetta, e il vecchio ch'alla siepe

Vien primo, chiappa su come di' pepe.

 

 

62.

A casa lo strascina e te lo ficca

'N un sacco e colla corda ve lo serra;

E fatto questo, a un canapo l'appicca

Che vien dal palco giù vicino a terra;

E per pigliar il resto della cricca,

Esce poi fuora; ma nel fatto egli erra,

Chè, quand'ei prese quello, gli altri due

Ad aspettarlo avuto avrian del bue.

 

 

63.

Ed oggimai si trovano in franchigia;

Sicchè Magorto quivi ne rimane

Un bel minchione, e n'è tanto in valigia,

Che nè manco daria la pace a un cane.

Sfogarsi intende e a quella veste bigia

Vuole un po' meglio scardassar le lane;

Perciò su verso il bosco col pennato

A tagliar un querciuol va difilato.

 

 

64.

Brunetto, che l'osserva di nascosto,

Vedutolo partire, entra nell'orto

E corre a casa, di veder disposto

Quel ch'é del vecchio, s'egli è vivo o morto.

Così chiuso in quel sacco il trova posto,

Chè 'l poverin, trovandosi a mal porto,

E trema, e stride, e par che giù pel gozzo

Egli abbia una carrucola da pozzo.

 

 

65.

Ed ei le corde al sacco a un tratto sciolte,

E fatto quel meschino uscirne fuore,

Che lo ringrazia e bacia mille volte

E fa un salto poi per quell'amore,

Vi mette il can che guarda le ricolte,

Dandogli aiuto ed egli e il servitore.

E poi con piatti e più vasi di terra,

Due fiaschi di vin rosso, e lo riserra.

 

 

66.

E l'attacca alla fune in quella guisa,

Ch'egli era prima, e poi di quivi sfratta;

E del fatto crepando delle risa,

Di nuovo con quegli altri si rimpiatta;

Quando Magorto, in giù viene a ricisa

Con una stanga in man cotanto fatta;

Perchè gli par mill'anni con quel tronco

Di far vedere altrui ch'ei non è monco.

 

 

67.

Arriva in casa, e sbracciasi, e si mette,

Serrato l'uscio, con quel suo randello

Sopr'a quel sacco a far le sue vendette,

Suonando, quant'ei può sodo a martello.

Il Romito che stava alle velette,

Perchè l'uscio ha di fuora il chiavistello,

Andò, benchè tremando, e con spavento

Che avea di lui; e ve lo serrò drento.

 

 

68.

Ed ei ch'è in sulle furie, non vi bada,

Chè insin ch'ei non si sfoga non ha posa.

Sta intanto il vecchio all'uscio fermo in strada

Ad origliare per udir qualcosa;

E sente dire: o leccapeverada,

Carne stantia, barba piattolosa,

Ribaldo, santinfizza e gabbadei,

Ch'a quel d'altri pon cinque e levi sei!

 

 

69.

Guardate qui la gatta di Masino

Che riprendeva il vizio ed il peccato,

Se il monello ha le man fatte a oncino,

Per gire a sgraffignar poi vicinato!

Ma quel c'hai tolto a me, ladro assassino,

Non dubitar, ti costerà salato;

Chè tante volte al pozzo va la secchia,

Ch'ella vi lascia il manico o l'orecchia.

 

 

70.

Poi sente ch'egli, dopo una gran bibbia

D'ingiurie dà nel sacco una percossa

Che tutte le stoviglie spezza e tribbia,

E ch'ei diceva: orsù, gli ho rotto l'ossa;

E che di nuovo un'altra ne raffíbbia,

E che, facendo il via la terra rossa,

Soggiunge: oh quanto sangue ha nelle vene!

Questo ghiottone a me, beeva bene!

 

 

71.

Bench'ei creda finita aver la festa,

Tira di nuovo e dà vicino al fondo.

Ed il suo cane acchiappa in sulla testa

Che fa urti che van nell'altro mondo;

Ond'egli stupefatto assai ne resta,

Dicendo: qui è quando io mi confondo;

Se tutt'il sangue egli ha di già versato,

Come a gridar può egli aver più fiato?

 

 

72.

Brunetto in questo mentre col suo fante

Avea di già, scorrendo pel giardino,

Il luogo ritrovato e quelle piante

Ov'è colei che chiede il suo Nardino.

E già l'ha tratta fuor bell'e galante,

Che non si vedde mai il più bel sennino;

E con un suo bocchin da sciorre aghetti

Chiede da ber; ma non già se l'aspetti.

 

 

73.

Perch'ei del certo in quanto a contentarla

Non ci ha nè meno un minimo pensiero;

E però quante volle ella ne parla,

Muta discorso e la riduce al zero;

Ma perch'ella è mozzina, e colla ciarla

Le monache trarría del monastero,

Vede che s'ella bada troppo a dìre,

Si lascerebbe forse convertire;

 

 

74.

Però per non cadere in questo errore,

La piglia a un tratto e se la porta in strada;

Ed al vecchio fa dir pel servitore

Che più tempo non è di stare a bada

E ch'ei ne venga, ch'ei l'aspetta fuore,

Acciò con essi anch'egli se ne vada;

Che lì non vuoi lasciarlo nelle peste,

Ma condurlo al paese alle lor feste.

 

75.

Così di là poi tutti fer partita,

Ma più d'ogn'altro allegra la fanciulla;

Perchè non prima fu dell'orto uscita,

Ch'ogni incanto ogni voglia in lei s'annulla.

Anzi a' lor preghi in sul caval salita,

Senza più ragionar di ber nè nulla,

Va sempre innanzi agli altri un trar di mano

Fiera e bizzarra come un capitano.

 

 

76.

Brunetto si ridea di Pigolone,

Perch'ei parea nel viso un fico vieto,

E menava a due gambe di spadone,

Come egli avesse avuto i birri dreto.

E la donna diceva: Giambracone,

Che la duri! ed il vecchio mansueto,

Che si vedeva fatto il lor zimbello:

Dagli pur, rispondea, ch'egli è sassello.

 

 

77.

Così scherzando, com'io dico, in briglia

Ne vanno senza mai sentirsi stanchi;

E sempre ognun più calda se la piglia,

Perchè il timor gli spinge e sprona i fianchi

Perciò, dopo aver fatte molte miglia,.

E che lor parve un tratto d'esser franchi,

Tutti affannati per sì lunga via,

D'accordo si fermaro a un'osteria.

 

78.

Dove il padron, che intende fare a pasto,

Trova gran roba per parer garbato;

Ch'ei tien che a far non abbian troppo guasto,

Ma e' non sa ch'e' non hanno desinato.

Ben se n'accorge alfin ch'ei v'è rimasto,

Quando in sul desco poi non restò fiato,

E che quella per lui è una ricetta,

Che il guadagno va dietro alla cassetta.

 

 

79.

Magorto intanto, finalmente stracco,

Di menar il randello a quel partito,

Sciolto ed aperto avendo omai quel sacco

Per cucinar la carne del romito,

Ed in quel cambio vistovi il suo bracco

Tra cocci e vetri macolo e basito,

Resta maravigliato in una forma,

Ch'ei, non sa s'ei sia desto o s'ei si dorma.

 

 

80.

S'io percossì quel vecchio mariuolo,

Com'ho io fatto, disse, un canicidio?

So ch'io lo presi e lo serrai qua solo,

Chè gnun potea vedermi o dar fastidio;

Non so s'io sono il Grasso Legnaiuolo

A queste metamorfosi d'Ovidio,

Che sono in ver meravigliose e strane

Poichè un romito mi diventa un cane.

 

81.

Cane infelice, povero Melampo,

Che netto qua tenei quanto si scerne!

Chi più farà la guardia al mio bel campo

Adesso che t'hai chiuse le lanterne?

Io ho una rabbia addosso ch'io avvampo,

Con quel vecchiaccio barba d'Oloferne

Che al certo fatto m'ha così bel giuoco;

Che dubbio? metterei le man nel fuoco.

 

 

82.

Oimè! le mie stoviglie e il vin di Chianti

Ch'io tolsi in dar la caccia a un vetturale,

A cagion di quel tristo graffiasanti

In un tempo e versato e ito male.

Giuro al ciel ch'io non vo' ch'ei se ne vanti;

E s'ei non vola, può far capitale

Ch'io voglia ritrovarlo; e s'ei c'incappa

Che mi venga la rabbia s'ei mi scappa.

 

 

83.

Lo troverò bensì, perch'io vo' ire

Qua intorno per veder s'io lo rintraccio.

Così corre alla porta per uscire,

Ma ei non può farlo perch'e' v'è il chiavaccio.

Lo squote e sbatte per voler aprire,

Ed or v'attacca l'uno or l'altro braccio.

Noiato alfine vanne e corre ad alto,

E da' balconi in strada fa un salto.

 

 

84.

Ma perchè ei vede quivi le pedate

Volte al giardino e poi verso la via,

Che Brunetto e quegli altri avean lasciate

Quando v'entraro e quando andaron via,

Insospettito lascia andare il frate

Ed entra nel giardino, e a quella via

Scorge quel suo cocomero diviso,

Ch'è stato il fargli un fregio sopr'al viso.

 

 

85.

Poichè levata gli han quella figliuola

Che in esso, com' io ho detto, si trovava,

Per la stizza non può formar parola;

Si sgraffia, batte i denti e fa la bava;

E spalancando poi tanto di gola,

Urla, bestemmia il ciel, minaccia e brava,

Dicendo: o Macometto e tu comporti

Che si facciano al mondo questi torti?

 

 

86.

In quanto a te, chi ti pisciasse addosso,

So ben che tu non ne faresti caso;

Ma io che da miei dì mai bevvi grosso,

E le mosche levar mi so dal naso,

Saprò ben io a costor fare il cul rosso:

Credilo pur; perchè s'e' si dà il caso,

Che si darà senz'altro, ch'io gli arrivi,

Io me gli vo' di posta ingoiar vivi.

 

 

87.

Ma dove col cervel son io trascorso?

Più bue di me non è sotto le stelle;

Perch'innanzi ch'io abbia preso l'orso

Vo', come si suol dir, vender la pelle.

Fatti ci voglion qui, perchè il discorso

Fuorchè a i sensali, non fruttò covelle;

E mal per chi ha tempo e tempo aspetta:

Chè mentre piscia il can, la lepre sbietta.

 

 

88.

E però prima che a viola a gamba

Una fuga mi suonin di concerto,

A casa Pigolon vogl'ir di gamba

Che vi sarà co' complici del certo.

Così conchiuso, corre ch'ei si sgamba,.

E come un bracco va per quel deserto,

Tutti quanti quei luoghi a uno a uno

Cercando, s'ei vi scopre o sente alcuno.

 

 

89.

Quel della cella del romito è il primo,

Ove trovando il passo e porto franco,

Intana drento e non vi scorge nimo,

Fruga e rifruga in qua e in là, nè anco;

Sgomina ciò che v'è da sommo a imo,

Ma tutto invano; ond'egli al fine stanco

Se n'esce colle man piene di vento,

Ma dieci volte più di mal talento.

 

 

90.

Entrò nel bosco e ogni contrada scorse

E in somma ne cercò per mari e monti;

E vedde senza metterla più in forse,

Il pigiato esser lui al far de' conti;

Onde nel fine all'arti sue ricorse,

Chè pur vuol vendicar sì grandi affronti

Così v'arriverò po' poi in quel fondo,

Se voi foste, dicea, di là dal mondo.

 

 

91.

E poichè fatti egli ha certi suoi incanti

Che gli riescon bene e vanno a vanga,

Andate, dice, o stummia di furfanti,

Poich'a pianger volete ch'io rimanga.

Che sieno in casa vostra eterni pianti,

Tal che ciascuno e fino al gatto pianga.

E così poi di quanto aveva detto

Nè più nè manco ne seguì l'effetto.

 

 

92.

Poichè Brunetto e le sue camerate

Pagaron l'oste (il quale assai contese,

Perchè le gole lor disabitate

Gli eran parute care per le spese),

Partiron, e poi dopo altre fermate,

Ei le condusse salve al suo paese;

E giunto a casa, ringraziando il cielo

Entra in sala, e di posta fa un belo.

 

 

93.

Entra la donna col romito appresso,

E, cominciaro a piangere ambedui;

Entra il famiglio e anch'egli fa lo stesso,

Senza saper perchè, nè men per chi.

Trovan Nardino ancor di male oppresso

E sbietolar lo veggono ancor lui;

L'astante che porgevagli l'orzata,

Pur ne faceva la sua quattrinata.

 

 

94.

Nardin vede colei bell'e vezzosa

Com'appunto l'aveva nel pensiero.

E dice: benvenuta la mia sposa;

Voi mi piacete a fè da cavaliero;

Ma voi piangete? ditemi una cosa,

Voi ci venite a malincorpo, è e' vero?

Non vogliate risponder ch'e' non sia,

Perchè voi mi diresti una bugia.

 

 

95.

Mettete pur così le mani innanzi,

Rispond'ella, signor, per non cadere;

Mentre temendo ch'io non mi ci stanzi,

Specorate sì ben, ch'egli è un piacere:

Ch'io mi vi levi, ditemi, dinanzi,

Chè voi non mi potete più vedere,

Senza darmi la burla, ch'io m'acquieto,

E senza replicar do volta a dreto.

 

96.

Nè sossopra la man non volterei,

Chè l'andare e lo star, mi son tutt'una;

E bench'al mondo io sia come gli Ebrei

Che non han terra ferma o patria alcuna,

Andrò pensando intanto a' fatti miei,

Per veder di trovar miglior fortuna;

Perchè, come dìceva Mona Berta,

Chi non mi vuol, segn'è che non mi merta.

 

97.

Ed ei risponde: oimè! Signora mia!

Non vi levate in barca così presto;

S'io non v'ho detto o fatto villanía,

Perchè venite voi a dirmi questo?

Abbiate un po' più flemma in cortesia,

Ch'ogni cosa andrà bene in quanto al resto;

Voi siete bella ed anco di più sposa,

Però non vogliat'esser dispettosa.

 

98.

Ella soggiunge, ed egli ribadisce:

Ella non cede, ed ei risponde a tuono:

Pur gli acquieta Brunetto, e al fin gli unisce,

Sicchè l'un l'altro chiedesi perdono;

Ma non per questo il lagrimar finisce,

Ch'ognora in casa e fuora e ovunque sono,

Perchè sempre si smoccica e si cola,

Hanno a tenere agli occhi la pezzuola.

 

99.

Vivono in somma in un continuo pianto;

Piangono i servi e piangon gli animali;

Onde il guazzo per terra è tale e tanto,

Che e' portan tutti quanti gli stivali.

Ma torniamo a Magorto, che frattanto,

Per saper quel che sia di questi tali

E dove la sua figlia si ritrovi,

Ha fatto al consueto incanti nuovi.

 

100.

E veduto ch'ell'è tra buona gente

Moglie d'un ricco e nobil baccalare

E che giammai le può mancar nïente

Perch'ella è in una casa come un mare,

Non vi so dir s'ei gongola e ne sente

Contento grande e gusto singolare;

Di modo ch'ei si pente, affligge e duole

Di quanto ha fatto, e risarcir lo vuole.

 

101.

Perciò, per un suo cogno se ne corre,

E nell'orto lo porta dove è un frutto

C'ha i pomi d'oro, e ne comincia a corre

Durando fin che l'ebbe pieno tutto.

E poichè dentro più non ne può porre,

Sapendo che 'l suo aspetto è molto brutto,

Si lava, ripulisce e raffazzona,

E rimbellisce tutta la persona.

 

102.

E presa addosso poi quella sua cassa

Ch'è tanto grave ch'ei vi crepa sotto,

Si mette in via, e presto se ne passa

Ov'è la figlia e il flebile raddotto,

Che al suo venire ogni mestizia lassa

Mutando in riso il pianto sì dirotto;

E versa i pomi in mezzo della stanza

Poi si sberretta in termin di creanza.

 

103.

E dice ch'egli è il padre della sposa,

E che di lui non abbiano spavento;

Perch'egli omai scordato d'ogni cosa,

L'antico sdegno totalmente ha spento.

Anzi, come persona generosa,

Vuol dare agli sponsali il compimento,

Ch'è quello che la sposa abbia la dote,

E che non vadia a marito a man vote.

 

104.

E perchè qualsivoglia donnicciuola

Porta la dote ed il corredo appresso,

Acciocch'in quella casa la figliuola

Possa mostrar d'aver qualche regresso,

Nè che gli abbian a aver quel calcio in gola

Che un picciolo nè anche v'abbia messo,

La vuol dotar conforme al grado loro

Con quel gran monte di bei pomi d'oro.

 

105.

Gli sposi allor brillando con Brunetto

Gli rendon grazie e fan grata accoglienza;

Ed ordinato un grande e bel banchetto

Reiterâr le nozze in sua presenza.

Ed egli poi al fin con ogni affetto

Riverì tutti e volle far partenza,

Lodandosi del furto del romito,

Che sì grand'allegrezza ha partorito.

 

 

 

 

 

OTTAVO CANTARE.

 

 

ARGOMENTO.

 

Dalle sue Fate Paride vestito,

Vede la galleria di quell'albergo:

D'un'avventura grande è poi avvertito,

E appresso ha un libro che non parla in gergo,

Con una spada d'un acciar forbito;

Ond'ei piglia licenza, e volta il tergo.

Vien Piaccianteo condotto al generale,

Che non gli volle far nè ben nè male.

 

1.

Vorrei che mi dicesse un di costoro

Che giostran, tutta notte per le vie,

Che gusto v'è; perchè, a ridurla a oro,

Non v'è guadagno e son tutte pazzie;

Poichè, lasciando ch'e' non è decoro,

L'aria cagiona cento malattie.

Mille disgrazie possono accadere,

Mille malanni, diavoli e versiere.

 

2

Sapete ch'e' s'inciampa e ch'e' si casca

Si può in cambio d'un altro esser offeso;

O dar in un, se t'hai moneta in tasca,

Ch'alleggerir ti voglia di quel peso;

Manca in qual mo' si può correr burrasca:

Però vi giuro, ch'io non ho mai inteso

La fin di questi tali, e tengo a mente

Quel ch'un tratto mi disse un uom valente.

 

3.

La notte, disse, è un vaso di Pandora,

Che versa affronti, risichi e tracolli;

Perocchè nel suo tempo sbucan fuora

Tutti i ribaldi, ladri e rompicolli;

Onde sia ben riporsi di buon'ora:

E deve esempio l'uom pigliar da' polli,

Che l'un di loro al più vale un testone,

E pria che 'l Sol tramonti, si ripone.

 

4.

Ed egli che d'un mondo assai più vale,

Sta fuori tutta notte, o diacci o piova

E gira al buio come un animale,

Cercando di Frignuccio in bella prova;

Nè fia gran fatto poi se gli avvien male,

Chè ben sapesti che chi cerca trova.

Ed eccovene in Paride il riscontro,

In modo che non v'è da dargli contro.

 

5.

Perchè le son tutte cose provate

E vere, che non v'è spina nè osso;

E non si trovan poi sempre le Fate,

Chè vengano a levarti il mal da dosso;

Come al Garani, quand'a gambe alzate

Andato era la notte giù nel fosso,

Che, mentre conteggiava colla morte,

Da esse ebbe un favor di quella sorte.

 

6.

Or questi vuol che pur di lui discorra,

Onde di nuovo a' atti suoi ritorno.

Le ninfe, che 'l vedean batter la borra,

Tutte li son co' panni caldi attorno

E già tra loro par che si concorra

Di fargli dare una scaldata in forno;

Ma perchè questo in danno suo risulta,

Dir volle il suo parere anch'ei in consulta.

 

7.

Che terminò di non farn'altro; ond'esse

Lo feron rivestire a spese loro;

Una camicia nuova una gli messe,

C'ha dal collo e da man trina e lavoro;

L'altra il giubbone, un'altra le brachesse,

Tutto di un ricco e nobil quoio d'oro;

Un'altra gli ravvia la capelliera

E gli mette, il benduccio e la montiera.

 

8.

A spasso poi lo menan per la mano

A veder la lor bella abitazione,

Ma poi più buona, benchè sia in pantano,

Perchè a pagar non hanno la pigione;

La quale è un negozio odioso e strano,

Quando quell'insolente del padrone

Ti picchia a casa e con sì poca grazia

Chiede il semestre, ch'e' non vè una crazia.

 

9.

Circa questo, pensiero elle non hanno.

Nè di fare altre spese, come accade

Ad ogni galantuomo a capo d'anno

D'acconci tasse e lastrichi di strade.

Il vento, e il freddo non può far lor danno,

Perch'il tetto, che scorre e mai non cade,

L'inverno su i pilastri di corallo

Si ferma e forma un palco di cristallo,

 

10.

Di state il Sole giù ne' lor quartieri

Non può col frugnolone aver l'ingresso;

Tal ch'elle stanno bene e volentieri.

E godono, un pacifico possesso.

Paride intanto infra tazze e bicchieri,

E di più sorte vini e frutte appresso,

Con esse ritrovandosi in cantina,

Volle provarne almeno una trentina.

 

11

Nè per questo alterato egli ne resta;

O venga ch'egli è avvezzo in Alemagna,

O che quel vin faccia a salvar la testa,

Ed in quel cambio dia nelle calcagna;

Ragion che quadra bene e quella e questa,

Perch'ei non urta mai chi l'accompagna,

Ma sempre in tuono, e dritto com'un fuso

Con esse per le scale torna suso.

 

12.

Ov'egli entrato in una bella sala

Ch'ella sia l'accademia si figura;

Perchè vi son l'aratolo e la pala,

Strumenti da studiar l'agricoltura:

Di lì poi salgon sopr'a un'altra scala

Di baston congegnati infra due mura.,

Donde, arpicando come fan le gatte,

Vanno a passar per certe cateratte.

 

13.

Ma qui la Musa vuol ch'io mi dichiari.

Circa al descriver queste loro stanze;

Chè s'io vi pongo addobbi un po' ordinari,

Non son per dir bugie nè stravaganze;

Perchè le ninfe han solo i necessari,

Nè voglion pompe nè moderne usanze,

Per insegnare a noi ch'abbiam le borie

Di quadri, e letti d'oro, e tante storie.

 

14.

Ch'ognun vuol far il principe al dì d'oggi;

Sebben chi la volesse rivedere

Molti si veggon far grandezze e sfoggi,

Che sono a specchio poi col rigattiere.

Il lusso è grande e già regna in su i poggi,

E son nelle capanne le portiere.

E tra cannelli insin qualsivoglia unto

Ha i suoi stipetti e seggiole di punto.

 

15.

Orsù, perch'ío non caschi nella pena

De' cinque soldi, ecco ritorno a bomba

A brache d'or, che nel salire arrena

Per quella scala che va su per tromba

Perchè, sebbene ci fa il Mangia da Siena

Gli è disadatto e pesa ch'egli spiomba;

E colle ninfe a correr non può porsi,

Massime lì, che v'è un salir da orsi.

 

16.

Elle di già, com'io diceva adesso,

Uscite son di sopra a stanze nuove,

Aspettando che faccia anch'ei l'istesso

Ch'appunto com'il gambero si muove;

Onde convien poi loro andar per esso.

Ed aiutarlo fin che piacque a Giove,

Che quasi manganato e per strettoio

Passasse ad alto il cavalier di quoio,

 

17.

'N un dormitorio grande, ma diverso,

Ove ciascuna in proprio ha la sua cella,

Che sta, com'io dirò, per questo verso,

Se non erra Turpin che ne favella,

Una stanga a mezz'aria evvi a traverso,

Dov'ella tien le calze e la gonnella,

Il penzol delle sorbe e del trebbiano,

E quel che più le par di mano in mano.

 

18.

Più giù da banda un tavolin si vede

Che su i trespoli fa la ninna nanna,

E fa spalliera al muro, ove si vede

Una stoia di giunchi e sottil canna.

Evvi una madia zoppa da un piede,

E il filatoio colla sua ciscranna;

Non v'è letti, se non un per migliaio

Chè tutte quante dormono al pagliaio.

 

19.

Paride guarda e par che gliene goda;

Chè la gente alla buona e positiva

Sempre gli piacque, e la commenda e loda.

In questo mentre a un'altra porta arriva,

E nel sentir un certo odor di broda

Che tutto lo conforta e lo ravviva,

Entra di punta, perchè s'indovina

Che quella sia senz' altro la cucina.

 

20.

Dal che sentitosi allegare i denti

Sì pensa che vi sien grand'apparecchi;

Ma trova in ozio tutti gli strumenti

E i piatti ripuliti come specchi:

Teglie e padelle, inutili ornamenti

Star appiccate al muro per gli orecchi;

Ed anche son per starvi più d'un poco,

Perchè il gatto a dormir vede in sul fuoco.

 

21.

Ond'egli offeso molto se ne tiene,

Ch'una mentita per la gola tocca;

Ma quelle che s'avveggon molto bene

Ch'egli ha l'arme di Siena impressa in bocca,

Gli accennan ch'ei vedrà se il corpo tiene;

Ed ei ghignando allor più non balocca,

E con esse ne va di compagnia

Per ultimo a veder la galleria.

 

22.

Di maiolica nobil di Faenza

Ivi le soglie sono e i frontespizi;

Quivi son quadri di gran conseguenza

Di principi ritratti e di patrizi,

Originali fatti già in Fiorenza

Da quel che gli vendea sotto gli Ufizi;

Ed evvi dello stesso una sibilla,

Ed una bella cittadina in villa.

 

23.

Di cartapesta mensole e sgabelli

Intorno intorno innalzan, sopra al piano

Statue eccellenti di quei Prassitelli,

Ch'a i sassi danno il moto in Settignano;

Cedano i Buonarruoti e i Donatelli

A quel basso rilievo di lor mano,

Ch'a' Padri Scalzi pur si vede ancora

Sull'arco della porta per di fuora.

 

24.

Sicchè quest'opre che non hanno pari,

Quanto i suddetti quadri c'han del vago,

Non si posson pagar mai con danari,

Perchè son gioie che non hanno pago.

Uno scaffale v'è di libri vari,

Ch'eran la libreria di Simon Mago,

Ch'abbellita. di storie e di romanzi,

Fu poi venduta lor dal Pocavanzi.

 

25.

Evvi un tomo fra gli altri scritto a penna,

Ch'a me par bello e piace sine fine

Ove si legge in carta di cotenna

Tradotte le libréttine in sestine;

E che Galeno e il medico Avicenna

In musica mettean le medicine;

Però, se il corpo sempre a chi le piglia.

Gorgheggia e canta non è meraviglia.

 

26.

Un ve n'è in rima che La Sfinge è detto,

Scelta d'enigmi che non hanno uguali;

Perch'ognuno è distinto in un sonetto

Che il poeta ha ripien tutto di sali:

Perch'ei, che sa che è sale, ebbe concetto,

Acciocchè i versi suoi sieno immortali

E i vermi dell'obblio non dien lor noia,

Porgli fra sale e inchiostro in salamoia.

 

27.

Altri poemi poi vi sono ancora,

Ed hanno caparrato alla Condotta

Grillo, il Giambarda, Ipolito e Dianora,

I sette Dormienti, e Donna Isotta,

E un certo Malmantil, che s'e' va fuora,

Ecco subito bell'e messe in rotta

Le Dee col Bambi, che l'ha chiesto, e vuole.

Farne all'acciughe tante camiciuole.

 

28.

Evvi anch'un libro di segreti, il quale

Giova a chi legge e insegna di bei tratti

E infra gli altri, a far che le cicale

Cantin, senza che 'l corpo se le gratti;

E a far che i tordi magri, coll'occhiale

Guardandogli, divengan tanto fatti.

Descrive poi moltissimi rimedi

Per chi patisce de' calli de'piedi.

 

29.

S'io vi narrassi tutto il continente,

Costui, diresti, ha i lucidi intervalli;

Pur vo' contarven'una solamente

Ch'è vera, nè crediate ch'io sfarfalli,

Racconta d'una tal parturïente

Che una carrozza fece a sei cavalli,

E ch'una voglia fu che avea avuta;

Ed io lo crederò senza disputa.

 

30.

Perchè la donna, come altera e vana,

Sopr'agli sfoggi ognor pensa e vaneggia;

E bench'ell'abbia un ceffo di befana,

Pomposa e ricca vuol che ognun la veggia:

Perciò colei ebbe la voglia strana

Della grandezza dell'aver la treggia

Ancorchè tutte, perchè il cervel gira,

Le girelle vorrian, chè 'l sangue tira.

 

31.

Ma basti circa i libri quanto ho detto;

Perch'io, che negli studi non m'imbroglio

E questi mai nè altri non ho letto,

Chè forse i fatti lor saper non voglio,

A qualche error non voglio star soggetto,

Chè pur troppi n'ho fatti sopr'al foglio;

E poi perchè son tanti e tanti i tomi

Che né anco so dir d'un terzo i nomi.

 

32.

Però seguiam con Paride le Dee

A veder cose belle e stravaganti

E prima troverem di gran miscee:

Corpi di mummie ed ossa di giganti:

Essere in corpo a un pesce due galee,

Impietrite con tutt'i naviganti,

Legni, li quali esse han per tradizione

Che fur fatti del giuggiol di Nerone.

 

33.

Chiuse in un vaso poi vedrem le gotte

Ch'ebbe quel vecchio chioccia di Sileno;

E l'asta che fu, dicon, di Nembrotte,

Con che volle infilzar l'arcobaleno;

Benchè si creda più di Don Chisciotte:

E veramente non può far di meno,

Perchè in vetta, nel mezzo della lama,

V'è scritto Dulcinea ch'era sua dama.

 

34.

Pende dal palco un secco gran serpente

Che quasi al coccodrillo s'assomiglia;

E dicon che la coda solamente

Per la lunghezza arriva a cinque miglia;

Ma quel che più curioso di nïente

È certo, è una grandissima conchiglia

Ove fra minuta alga e poca rena

Sta congelato un uovo di balena.

 

35.

Evvi un mantice, il qual per via d'ingegni

Soffiando fa girare uno strumento

D'un arcolaio a ventiquattro legni,

Invenzion nuova d'orivolo a vento;

Perch'ogni stecca ha i suoi numeri e segni

Che mostran l'ore, e' quarti e ogni momento.

Chi vi dipana sa quant'ei lavora,

Ch'al fin d'ogni gomitol suona l'ora.

 

36.

Una sfera bellissima si vede

Ch'è sopr'a un ben tornito piedistallo,

Che per giustezza tutte l'altre eccede,

O sien fatte di legno o di metallo;

Vada pure e sotterrisi Archimede

Con quella sua ch'ei fece di cristallo,

Ch'e' bisogna guardarla e starsi addietro,

Perchè si rompe giusto come il vetro.

 

37.

Chè questa, che con ogni diligenza

Di purgate vesciche fu commessa,

Se per disgrazia o per inavvertenza

Perquote o cade, ell'è sempre la stessa.

E se 'l cristallo ha in sè la trasparenza,

La vescica al diafano s'appressa;

Ed è un corpo che giammai non varia,

E quel si cangia ognor secondo l'aria.

 

38.

Se in Grecia fatta fu la cristallina

E questa di vesciche vien da Troia,

Che a Fiesol fa portata a Catilina

La notte ch'ei fuggì verso Pistoia;

Ch'ei non giunse nè anco alla mattina,

Ch'il poveraccio vi tirò le quoia;

Sicchè due capitan sue camerate

La presero, e la diedero alle Fate.

 

39.

Mentre s'ammira così bel lavoro

E vi si fanno su cento argomenti,

Paride guarda, e vede una di loro

Cavarsi un occhio, la parrucca e i denti,

E dargli a un'altra, perchè in tutto il coro

Delle naiadi ch'ivi son presenti,

O fuora, chè pur anche son parecchi,

Han sol quei denti, un occhio e due cernecchi.

 

40.

Peroch'elle son cieche e vecchie tutte,

E loro i denti son di bocca usciti;

Ma non per questo ell'appariscon brutte

Ch'ell'hanno volti belli e coloriti;

E se mangiar non posson carne e frutte,

Elle s'aiutan con de' panbolliti,

Perchè quei denti, come l'occhio e i ricci,

Non hanno più virtù, ch'e' son posticci.

 

41.

Gli portan per bellezza solamente

Una per volta, acciocchè per la via

S'ell'ha ir fuora a vista della gente,

Asconda ogni difetto e mascalcía;

Ma il tenergli la legge non consente

Se non un'ora, e poi a quella via

A riportargli a casa vien costretta,

Acciocch'un'altra dopo se gli metta.

 

42.

Così per osservar le lor vicende,

Questa ch'io dico se gli cava adesso,

Già ritornata dalle sue faccende

Perch' il portargli più non l'è permesso

Ond'a quell'altra gli consegna e rende,

Cedendo ogni ragion e ogni regresso,

Perchè in quest'ora a ornarsi ad essa tocca

La fronte e il capo, e riferrar la bocca.

 

43.

Piena di cibi intanto una credenza

Vien pari pari aperta spalancata.

E fatta da vicin la riverenza,

Parole pronunziò di questa data:

Cavalier, se tu vuoi far penitenza,

E in parte a noi piacere e cosa grata,

Ho munizion da caricar la canna,

E poi da bere un vino ch'è una manna.

 

44.

Credilo a me ch'egli è del glorïoso;

Però qua dentro, via, distendi il braccio,

Chè troverai del buono e del gustoso

Se tu volessi ben del castagnaccio.

Paride fece un po' del vergognoso;

Ma nel veder le bombole nel ghiaccio

Mandò presto da banda la vergogna,

E fece come i ciechi da Bologna.

 

45.

Levatagli poi via la calamita

Di quel buon vino e massime del bianco,

Gli fataron le Dee tutta la vita,

Dalla basetta infuor del lato manco;

Sicchè, in quanto ad aver taglio o ferita

In altra parte, era sicuro e franco:

Poi dangli un brando colla sua cintura,

E del trattarlo l'intavolatura.

 

46.

E perchè il tempo ormai era trascorso

Che inviarlo dovean di quivi altrove,

Prima in sua lode fatto un bel discorso,

Che l'agguagliava a Marte, al Sole e a Giove,

Figliuol dissero, quanto t'è occorso

Fin qui stanotte, e il come e il quando e il dove

A noi palese è tutto per appunto,

Anzi sei qui per opra nostra giunto.

 

47.

Acciò tu vada incontro a un'avventura,

pro d'un, pover uomo questa notte.

Questo è un tal, cognominato il Tura,

Ch'in Parïon gonfiava le pillotte.

Era in bellezze un mostro di natura,

sicchè tutte le donne n'eran cotte;

E lasciando i rocchetti ed i cannelli,.

Per lui, ch'è ch'è, facevano a' capelli

 

48.

Non ch'ei ne desse loro occasïone,

Come qualche Narciso inzibettato,

Ch'una cuffia ch'e' vegga a un verone,

Di posta corre a far lo spasimato;

Anzi è un di quei ch'al mondo sta a pigione,

A bioscio nel vestire e sciamannato;

Ch'addosso i panni ognor tutti minestra

Tirati gli parean dalla finestra.

 

49.

Ed esse eran capone; ma chiarite,

Alfin lasciando quel suo cuor di smalto,

Fecer come la volpe a quella vite

Ch'aveva sì bell'uva e tanto ad alto,

Che dopo mille prove, anzi infinite,

Arrivar non potendovi col salto

Gli è, me', disse, ch'io cerchi altra pastura,

Chè questa ad ogni mo' non è matura.

 

50.

Così non la saldò già Martinazza;

La qual non vi trovando anch'ella attacco,

Poichè gran tempo andata ne fu pazza.

Avendo il terzo e quarto e ognuno stracco,

Condurre un giorno fecelo alla mazza;

E per via d'un che le teneva il sacco,

Avvezzo a tosar pecore ed agnelli,

Mentr'ei dormiva, gli tagliò i capelli.

 

51.

Quei capelli, ch'un tempo avea chiamati

Del suo fascio mortal funi e ritorte,

Le bionde chiome, o Dio! quei crini aurati,

Che ricoprivan tante piazze morte

Onde scoperti furo i trincerati,

Ove il nimico si facea sì forte;

Perchè, per quanto un autore accenna,

Lo rimondaron fino alla cotenna.

 

52.

E così Martinazza ebbe il suo fine,

Volendo vendicarsi per tal via;

Perocchè buona parte di quel crine.

Ch'alcun non se n'avvedde, leppò via;

E fabbriconne al Tura le rovine,

Con una potentissima malía,

Che registrata in Dite al protocollo

In un lupo rapace trasformollo.

 

53.

E questo lupo raggirar si vede

Intorno a un montuoso casamento

D'una gente, che mentre move il piede

Sopra alla terra v'è rinvolta drento.

Di questa cosa il tempo non richiede

Così per ora fartene un comento;

Perch'egli è tardi, e pria che tu l'intenda,

Spedir devi lassù questa faccenda.

 

54.

Or dunque vanne, e perchè tu non faccia

Qualche marron ma venga a arar dritto,

Acciò tal magistero si disfaccia,

Perchè scattando un pel tu avresti fritto,

In questo libro qui faccia per faccia

L'ordine e il modo si ritrova scritto;

Portalo teco, e acciocchè tu discerna,

Perch'egli è buio, to' questa lanterna.

 

55.

Egli la prende con il libro insieme,

Dicendo che varrassi dell'avviso:

E che d'incanti e diavoli non teme,

Perch'egli è uom che sa mostrare il viso.

Si parte, e perchè al campo andar gli preme

In due parti vorrebbe esser diviso:

Pur vuol servírle, perch'ei si figura

Che non ci vada gran manifattura.

 

56.

Considerando poi nel suo cervello

Che s'a quel luogo a bambera s'invia,

Potrebbe andar a Roma per Mugello

Perch'ei non si rinvien dov'ei si sia,

Ricerca nel suo mastro scartabello

Di quei paesi la geografia;

Ma quel, per quanto noi potrem comprendere,

Non si vorria da lui lasciare intendere.

 

57.

Fu Paride persona letterata

Che già studiato avea più d'un saltero;

Ma poi non ne volendo più sonata,

Alla scuola studiò di Prete Pero;

Però, s'ei non ne intende boccicata,

È da scusarlo; e poi, per dire il vero,

Lettere ed armi van di rado unite,

Perc'han di precedenza eterna lite.

 

58.

Ma benchè la lettura sia fantastica

A un che si può dir non sa nïente,

E ch'altro di vìrtù non ha scolastica

Che pelle pelle l'alfabeto a mente,

Tanto la biascia, strologa e rimastica,

Ch'a cómpito leggendo, finalmente

Il sunto apprende, e fra l'altre sue ciarpe

Ripone il libro, e sprona poi le scarpe.

 

59.

Così cammina, e a quel castello arriva;

Passa dentro, lo gira e si stupisce

Che quivi non si vede anima viva,

Perch'a quell'ora in casa ognun poltrisce.

Ma perchè non è tempo ch'io descriva

Quanto col Tura a Paride sortisce,

Con buona grazia vostra farem pausa,

Per diffinir di Piaccianteo la causa.

 

60.

Che da quei tristi, com'io dissi dianzi,

Fatto, mentre pappava, assegnamento

D'insaccarsi per lor quei pochi avanzi,

Toccò de' piè nell'arsenal del vento.

Di poi gli stessi sel cacciaro innanzi

Giusto come il villano il suo giumento.

Pungolandolo come un animale,

Finchè lo spinser dove è il generale.

 

61.

Appunto il generale a far s'è posto

Alle minchiate, ed è cosa ridicola

Il vederlo ingrugnato e maldisposto,

Perchè gli è stata morta una verzicola.

Le carte ha dato mal, non ha risposto,

E poi di non contare, anco pericola,

Sendo scoperto aver di più una carta,

Perchè di rado, quando ruba, scarta.

 

62.

Costoro alfine se gli fanno avanti,

Per dirgli del prigion c'hanno condotto;

Ma e' posson predicar ben tutti quanti,

Perch'egli, ch'è nel giuoco un uomo rotto

E perde una gran mano di sessanti

E gliene duole e non ci può star sotto,

Lor non dà retta, e a gagnolare intento,

Pietosamente fa questo lamento:

 

63.

Che t'ho io fatto mai, fortuna ria,

Che t'hai con me sì grande inimicizia,

Mentre tu mi fai perder tuttavia

Che e' non mi tocca pure a dir Galizia?

Questo non si farebbe anche in Turchia,

L'è proprio un'impietade un'ingiustizia.

Vedi, non lo negar, che tu l'hai meco;

E poi se n'avvedrebbe Nanni cieco.

 

64.

Ma se volubil sei quanto sdegnosa,

Facciam la pace, manda via lo sdegno;

E se tu sei de' miseri pietosa,

Danne col farmi vincer qualche segno.

«Fu il vincer sempre mai lodevol cosa,

«Vincasi per fortuna o per ingegno;»

Perciò de' danni miei restando sazia,

La fortuna mi sia, non la disgrazia.

 

65.

Ma che gracch'io? forse che tai preghiere

Mi faran, dopo così gran disdetta,

Vincer la posta o porre a cavaliere?

Sì, sì; ma basta poi non aver fretta.

O baccellaccio! l'orso sogna pere,

L'è bell'e vinta, ovvia tientela stretta.

Capitale! sai tu quel che tu hai a fare?

Se tu non vuoi più perder, non giocare.

 

66.

E cosi finiran tanti schiamazzi

Di chiamar la fortuna e i giuochi ingiusti;

Chè, mentre vi ti ficchi e vi t'ammazzi,

Tu spendi e paghi il boia che ti frusti.

Gli è ver; ma il libriccin del Paonazzi,

Ov'io ritrovo ognor tutt'i miei gusti,

Per forza al giuoco mi richiama e invita

Appunto come il ferro a calamita.

 

67.

E sarà ver ch'io abbia a star soggetto

Ad una cosa che mi dà tormento?

Come tormento? oibò! s'io v'ho diletto!

Sì; ma intanto per lui vivo scontento.

Oh perfido giocaccio! oh maladetto

Chi t'ha trovato e me che ti frequento!

Tu non ci hai colpa tu; a me il gastigo

Si dee dar, poichè con te m'intrigo.

 

68.

Datemi dunque un mazzo in sulla testa:

Vedete! eccomi qui ch'io non mi muovo;

Nè voi farete cosa men che onesta,

Se dal giocar, morendo, io mi rimuovo:

So ch'ogni dì sarebbe questa festa,

Ch'altro diletto che giocar non provo;

Ed a giocare omai son tanto avvezzo,

Che'l pentirmi non giovami da zezzo.

 

69.

L'usare ogni sapere, ogni mia possa

Non vale a farmi contro al giuoco schermo;

Imperocch'io l'ho fitto sì nell'ossa,

Ch'amo il mio mal qual assetato infermo,

E forse giocherò dentro alla fossa.

Che forse! diciam pur: tengo per fermo;

E se trovar le carte ivi non posso,

Farò, purch'e'si giuochi, all'aliosso.

 

70.

Van co' libri alla fossa i gran dottori,

I bravi colla spada e col pugnale:

Con libro ed armi anch'io da giocatori

Sarò portato morto al funerale,

Grillandato di fiori; e a picche e cuori

Trapunta avrò la veste, e per guanciale

Quattro mattoni; e poichè pien di vermini

I quarti avrò, vo' fare un quarto a' Germini.

 

71.

Volea seguir; ma tutti della stanza

Gli dieron su la voce, con il dire

Che il perdere è comune, e star usanza;

E perde una miseria di tre lire;

Però si quieti pure e abbia speranza,

Chè un giorno la disdetta ha da finire;

Perocchè i tempi variabili sono,

E dopo il tristo n'ha a venire il buono.

 

72.

Intanto gli mostraron il prigione,

Che sott'il manto dell'ipocrisia

In carità, dicendo, in divozione

Faceva lo scultore, idest la spia;

Però, perch'in effetto egli è un guidone,

L'impicchi, s'ei vuol fare opera pia:

Serragli pur, dicean, la gola; e poi,

S'ei ridice più nulla, apponlo a noi.

 

73.

Amostante, ch'è uom di buona pasta

E poi dabbene, ancorch'egli abbia il vizio

Di questo suo giocar dov'ei si guasta,

Fa liberarlo senz'alcun supplizio,

Dicendo ch'a impiccarlo non gli basta

L'aver semplicemente un po' d'indizio;

Ma quand'anch'egli avesse ciò commesso,

Del far la spia non se ne fa processo,

 

74.

Ed al prigion preterito imperfetto

Rivolto colle carte in man, l'invita,

Già fattoselo porre a dirimpetto,

A giocar d'una crazia la partita

Ovver si metta fuor in sul buffetto

Un testoncino, e sia guerra finita;

Così lo prega, lo scongiura e in parte

Bada pur sempre a mescolar le carte.

 

75.

Quegli, che compiacerlo non gli costa

E vede averla avuta a buon mercato,

L'invito tiene e regge a ogni posta,

Bench'ei non abbia un bagattino allato;

E dice: al più faremo una batosta,

Quand'ei mi vinca e voglia esser pagato;

Di rapa sangue non si può cavare,

Nè far due cose: perdere e pagare.

 

76.

Duraro a battagliar forse tre ore

Poi la levaron quasi che del pari;

Se non ch'il general fu vincitore

Di certa po' di somma di danari.

E perchè gli domanda e fa scalpore,

Quei, che gli spese in cene e in desinari,

Non aver, dice, manco assegnamento;

Talchè Amostante resta al fallimento,

 

 

 

NONO CANTARE

 

Argomento

 

Giunti i rinfreschi e invigorito il campo

Corre all'assalto, e segue aspra baruffa.

Malmantil quasi è preso, ond'al suo scampo

Chiama all'accordo, e termina la zuffa;

Chi tratta più di guerra or trova inciampo,

Perchè nell'allegrezze ognun si tuffa:

Fassi in corte il convito, e poi, dal vino

Riscaldati quei principi, il festino.

 

1.

La guerra che in latino è detta bello,

Par brutta a me in volgar per sei befane;

Non ch'altro, s'e' comincia quel bordello

Di quell'artiglierie che son mal sane,

E ch'e' non v'è da mettere in castello,

E stenti poi per altro com'un cane,

Senz'un quattrìno e pien di vitupero;

Ditelo voi se questo è un bel mestiero.

 

2.

E pur la gente corre, e vi s'accampa

Ognun, per farsi un uomo e acquistar gradi,

Quasi degli uomin colà sia la stampa,

Mentr'il cavarne l'ossa avviene a radi.

Là gli uomin si disfanno, e chi ne scampa

Ha tirato diciotto con tre dadi;

E pria ch'ei giunga a esser caporale,

Mangerà certo più d'un staio di sale.

 

3.

Sícchè e' mi par ben tondo ed un corrivo

Chi può star bene in casa allegro e sano

E lascia il proprio per l'appellativo,

Cercando miglior pan che quel di grano.

Ce n'è un'altra ancor ch'io non arrivo,

Ch'è quell'assalir un coll'armi in mano

Che non sol non m'ha fatto villania,

Ma che mai viddi in viso in vita mia.

 

4.

Orsù, cerchi chi vuol battaglia e risse

E si chiarisca e provi un po' le chiare;

Che s'io credessi farmi un altro Ulisse,

L'armi perciò non m'hanno a inzampognare.

Ognuno ha il suo capriccio, come disse

Quel lanzo che volea farsi impiccare;

Però mi quieto, ma perch'ora bramo

Mostrarvi il vero, attenti e cominciamo.

 

5.

Sorge l'aurora, e come diligente

Spazza le stelle in cielo e fa pulito;

Poi fassi alla finestra d'orïente,

E vòta l'orinal del suo marito;

Ma perchè il carretton ricco e lucente

Già muove il Sole ed ella l'ha sentito

Acciocch'ei non la vegga sconcia e sciatta,

Manda giù l'impannata e si rimpiatta.

 

6.

Quando il vitto comparve ed il rinfresco,

Sicchè chi avea col masticar divieto

Appoggiò lietamente il corpo al desco

E, come si suol dir, riebbe il peto.

E il general, che tutta notte al fresco

Andò coll'astrolabio innanzi e indreto,

Battendo la dïana in sul lunario

Avea fatto di stelle un calendario.

 

7.

Lasciato s'era anch'egli rivedere

Tutto quanto aggrezzato al pappalecco

Dove per aver meglio il suo dovere

Fece in principio un bel murare a secco.

Quand'ei fu pieno, alfin chiese da bere,

E poich'egli ebbe in molle posto il becco,

Figliuoli, disse, omai venuta è l'ora

Ch'e' si tratta d'averla a cavar fuora.

 

8.

Se a mensa ognun di voi tanto s'affolta,

Mangia per quattro e beve poi per sette,

Che par proprio ch'e'sia giunto a ricolta,

Anzi ch'egli abbia a far le sue vendette;

Tal ch'io pensai vedervi anco una volta

La tovaglia ingoiar e le salviette:

Ed ebbi un tratto anche di me paura;

Per una spalla dávola sicura.

 

9.

Redeamus ad rem: se, come ho detto,

Qua foste al bere infermi e al mangìar sani,

E co' coltelli in man standovi a petto

Riusciste sì bravi sparapani,

In battaglia vedervi ancora aspetto

Colla spada così menar le mani,

Onde il nimico vinto ed abbattuto

Ne sia, come stanotte ho preveduto.

 

10.

Chè quasi fui per dar nelle girelle;

Perchè, dopochè i punti della Luna

Ebbi descritti, e che tutte le stelle

Avevo rassegnate ad una ad una,

Trovo smarrite aver le Gallinelle;

Ma dopo è ch'io mi davo alla fortuna,

Che fra le stelle fisse e fra l'erranti

Non vedevo nè anche i Mercatanti.

 

11.

Ma dissi poi da me che poco importa

Se quel branco di polli non si trova;

Anzi che questo a noi risparmio apporta,

Perocchè mangian molto e non fann'uova.

E se nè anche alcuna stella ho scorta

De' Mercatanti, qui creder mi giova

Ch'e' sieno in fiera, ovvero al lor viaggio

Per la Via Lattea a mercantar formaggio.

 

12.

Ma perchè in armi boti son costoro,

Che, fuor che a' tribunali, non fan lite

Nè altro scudo impugnan che quel d'oro,

Nè dan, se non di penna, le ferite,

Ogn'altro poi nel resto dee dar loro

Come a' lor libri piantan le partite;

Senza lor dunque andiam, chè avrem vittoria:

Essi cerchin la roba, e noi la gloria.

 

13.

Non prima stabilì l'andare in guerra,

Che vedesti, più presto ch'io nol dico,

Un leva leva a un tratto, un serra serra,

Ed ir correndo contr'all'inimico:

Com'un branco d'uccelli il quale in terra

Sia calato a beccar grano o panico,

Un che si muova, basta; chè quel solo

Fa subito pigliare a tutti il volo.

 

14.

I coraggiosi, al primo che si mosse

Gli altri, già sendo meglio su' picciuoli,

Non poterono stare più alle mosse,

Ma corsero ancor lor come terzuoli.

Giunti di Malmantile in sulle fosse,

Drizzate al muro assai scale a piuoli,

Il salirvi tenevano una baia,

Com'andar pe' piccioni in colombaia.

 

15.

Ma quei di sopra fecero parerli

Ben presto un altro suon; perchè isso fatto

Cominciaro a tirar non solo i merli

Ch'avrebbon le testuggini disfatto,

Ma, quasi fosse quivi un Bastian Serli

O quanti architetture hanno mai fatto

A stampar capitelli e frontespizi,

Per aria diluviavan gli edifizi.

 

16.

Gli stipiti, le soglie e gli architravi

A questo effetto essendo già smurati,

Per via di curri, d'argani e di travi

Gli avevan sulle mura strascinati;

E benchè molto disadatti e gravi,

In tal maniera posti e bilicati,

Che ad ogni po' di spinta botto botto

Faceano un venga addosso a chi era sotto.

 

17.

Le donne anch'esse corron co' figliuoli,

E ciò che trovan gettan dalle mura;

Chi colla conca o vaso da viuoli

Pigha a qualcun del capo la misura:

Profuma il piscio i panni e i ferraiuoli,

Nè guardan s'e' v'è pena il far bruttura

Chi tira già un lastrone alle cervella,

Che s'e' v'è grilli serva per murella.

 

18.

Chi, perchè giù non piglin l'imbeccata,

Cuopre i capi con tegoli e mattoni:

Chi versa giù bollente la rannata.

Che pela i visi e porta via i bordoni:

Nell'olio un'altra intigne la granata

E fa l'asperges sopra i morïoni:

Altre buttan le casse, acciò i soldati

Partir si debban poichè son cassati.

 

19.

Un'altra con un gatto vuol la berta:

Legato il cala; ond'ei fra quei d'Ugnano

Sguaina l'ugna e colla bocca aperta

Grida inasprito in suo parlar soriano:

Ed il primo ch'ei trova, egli diserta,

Chè dov'ei chiappa, vuol levarne il brano:

Così l'alz'ella e abbassa colla corda,

Acciocch'or questo or quello ei graffi e morda.

 

20.

Miagola e soffia il gatto e s'arronciglia,

Ed essa gode ed utile ne strappa;

Perchè quel che tra l'ugna un tratto piglia

Egli è miracol poi se più gli scappa;

Ond'ella spesso, che lo tiene in briglia,

Lo tira su con qualche bella cappa,

Con qualche ciarpa o qualche pennacchiera.

E, così gli riesce di far fiera.

 

21.

Quand'una volta lascialo calare

Dinanzi al busto di Grazian Molletto

Che fu dì posta per ispiritare

Quel pelliccion vedendo intorno al petto

La bestia intanto salta, e dal collare

Tutto prima gli straccia un bel giglietto;

Di poi si lancia e al capo se gli serra,

Sicchè il cappello gli mandò per terra.

 

22.

Non sa Grazian, che diavol si sia quello;

Pur tanto fa, ch'al fine ei se ne sbriga

Ed alza il viso per farne un macello.

Ma vedendo il rigiro e ch'ei s'intriga

Con dame, vuol cavarsi di cappello;

Ma perch'il micio gli ha tolto la briga,

La dama accivettata, anzi civetta,

Lo burla che gli è corsa la berretta,

 

23.

Ed ei che da colei punger si sente,

Onde al naso lo stronzolo gli sale

Perde il rispetto e quivi si risente

Con dirgli mona Merda e ogni male.

Va in questo all'aria un gran romor di gente

Che a terra scende a masse dalle scale,

Fiaccate e rotte anch'esse dagli spruzzoli

Di pietre che ancor grattano i cocuzzoli.

 

24.

Chi boccon, chi per banda e chi supino

Giù se ne viene e fa certe cascate,

Che manco le farebbe un Arlecchino

Quand'in commedia fa le sue scalate.

Sicchè, se innanzi fecero il fantino,

Le brache in fatti gli eran poi cascate;

E infranti e pesti andando giù nel fosso,

Hann'oltre a questo nuove scale addosso.

 

25.

Quantunque il campo annaffi tal rugiada

Come le zucche, inarpican le scale;

Onde più d'uno in giù verso la strada

Fa pur di nuovo un bel salto mortale:

Ma benchè a monti ne trabocchi e cada,

Sardonello sta forte e in alto sale;

E tra i nimici affine, a lor mal grado,

Mette su il piede e agli altri rompe il guado.

 

26.

Chi vidde in un pollaio ove si trova

Un numero di polli senza fine

Tra lor cascar qualche pollastra nuova,

Che tost'addoss'ell'ha galli e galline

Ciascun per far di lei l'ultima prova;

E se e' non fosse la padrona alfine,

Che la difende e da beccar le porta,

Stroppiata rimarrebbe e forse morta:

 

27.

Non altrimenti il numeroso stuolo,

Vedendo Sardonel c'ha fatto il passo.

Concorre tutto quanto contro a un solo

Per mandarlo in minuzzoli a Patrasso;

E gli facean tirar presto l'aiuolo,

O col ferirlo o col tirarlo a basso;

Ma Eravan, che debito lo scorge,

Aiuto a un tempo ed animo gli porge.

 

28.

Chiunque è 'n castello allor pien di paura

Corre per far ch'avanti ei più non vada

E mentre il vuol rispinger dalle mura,

Ch'altri più la s'arrampica non bada.

Pur, d'ovviare anco di qua proccura.

Ma in sette luoghi è già fatta la strada.

E d'ogn'intorno tanto il popol cresce.

Che ogni riparo invalido riesce.

 

29.

Avviene a lor nè più nè meno un iota

Com'a' fanciulli, quando per la via

Fan la tura al rigagnol colla mota,

E l'acqua ne comincia a portar via,

Che mentre assodan quivi ov'ella è vota.,

Essa distende altrove la corsia;

E se riparan là, più qua fracassa,

Talch'ella rompe e a lor dispetto passa.

 

30.

Già tutti son di sopr'alla muraglia

Che la circonda un lungo terrapieno;

Già si fiorisce in sì crudel battaglia

Di sanguinacci la gran madre il seno;

Celidora a due man ferisce e taglia,

Che nè anche un villan che seghi il fieno,

Tanti fil d'erba col falcion ricide,

Quant'uomini costei squarta ed uccide.

 

31.

Il principe d'Ugnano ed Amostante

Da toccatori fan col brandistocco,

Perocchè della morte almen cessante,

Se non prigion, si fa chi è da lor tocco.

All'incontro ritrovasi Sperante

Che fa, menando la sua pala, il fiocco:

E se già le sustanze ha dissipate,

Or manda male gli uomini a palate.

 

32.

Maso di Coccio a questo e quel comanda,

Ed all'un donne e a un altro ne promette;

La compagnia del Furba innanzi manda;

Che resti a' fianchi a Batiston commette,

Con Pippo, il quale sta dall'altra banda.

Ma egli in retroguardia poi si mette;

E mentr'ognun s'avanza a gloria intento,

Ei siede a gambe larghe e si fa vento.

 

33.

Amostante all'incontro un nuovo Marte

Sempra fra tutti avanti alla testata;

Lo segue Paol Corbi da una parte,

E da quell'altra Egeno alla fiancata.

Vengonsi intanto a mescolar le carte

E vien spade e baston per ogni armata;

E chi dà in picche e a giuocar non è lesto,

Vi perde la figura e fa del resto.

 

34.

Vedendo i terrazzan che stanno in fiori,

Che il nimico dà spade e giuoca ardito,

Per non far monte in su' matton, da' cuori

Ritiransi e non tengon più l'invito;

Ma speran ben, mostrando a'giuocatori

Denari e coppe, indurgli a far partito;

Perciò nel campo un saggio ambasciadore

Spediscon, che parlò in questo tenore:

 

35.

Spida, signori, l'armi ognun sospenda.

A che far questa guerra aspra e mortale?

Fermi, per grazia, più non si contenda,

Perch'altrimenti vi farete male;

Fate che la cagione almen s'intenda,

Chè a chetichelli a questo mo' non vale;

E chi pretende, venga colle buone,

Chè data gli sarà soddisfazione.

 

36.

Con quei che dona per amor, non s'usa

In tal modo la forza e la rapina;

Chiedete; imperciocchè giammai ricusa

Il giusto ed il dover la mia regina.

Non entraron mai mosche in bocca chiusa,

E con chi tace, qua non s'indovina.

Puoss'egli accomodarla con danari?

Dunque parlate, e vengasi a' ripari.

 

37.

A questo il general c'ha un po' d'ingegno,

Ritiene il colpo e indietro si discosta.

Che si fermino i suoi dipoi fa segno,

Passa parola e manda gente a posta:

Né badò molto a fargli stare a segno,

Chè la materia si trovò disposta.

Ciascun d'ambe le parti stette saldo,

Ch'ognun cerca fuggire il ranno caldo.

 

38.

Chi della pelle ha punto punto cura,

Cioè che non vorrebbe essere ucciso,

Sempre le sciarre di fuggir proccura,

E se mai v'entra, ha caro esser diviso.

E bench'ei mostri non aver paura,

Se in quel cimento lo guardate in viso.

Lisciato le vedrete d'un belletto

Composto di giuncate e di brodetto.

 

39.

Sien due gran bravi, sien due masnadieri,

Se mai vengono a quel tirarla fuore,

Credete che e' lo fan malvolentieri,

Perocch'a tutti viene il batticuore;

E ch'e' la passerebbon di leggieri

Se lo potesser far con loro onore,

Attenendosi a quella opinïone,

Di veder quanto viver sa un poltrone.

 

40.

E questi che badavansi a zombare

In Malmantil, s'accorsero ben presto

Che quel non è mestier da abborracciare;

Però si contentaron dell'onesto.

Già i tagli alcuno impiastra colle chiare,

Altri rimette braccia e gambe in sesto.

Altri da capo a piedi si son unti

E chi si fa sul ceffo dar de' punti.

 

41.

Baldone in questo, per la più sicura,

Due gran dottori a' trattamenti invia:

L'un Fiesolan Branducci, che proccura

D'aver, s'ei non può in Pisa o in Pavia,

Almeno in refettorio una lettura;

L'altro è Mein Forcon da Scarperia,

Che se l'uom vive per mangiar, vi giuro

Ch'ei vuol campar mill'anni del sicuro.

 

42.

Cassandro casa Cheleri frattanto,

Del duca allora il primo segretario,

Per far loro un disteso di quel tanto

Dovevan dire al popolo avversario,

Cacciatosi Giovan Boccaccio accanto

E scorso tutto il suo vocabolario,

Scrisse in maniera e fece un tale spoglio,

Ch'ei messe un mar di crusca in mezzo foglio.

 

43.

Et essi andaron colla lor patente

Di poter dire e fare e alto e basso:

Lor camerata fu, tra l'altra gente,

Che gli seguía, curioso per suo spasso,

Baldino Filippucci lor parente,

Uom che piuttosto canta ben di basso;

Crescer voleva come gli altri appunto,

«Ma si pentì quand'a mezzo fu giunto.»

 

44.

Son alti gli altri due fuor di misura

Ond'ei nel mezzo camminando ad essi,

Resta aduggiato sì, che di statura

Nè men può crescer più, quand'ei volessi.

Giunti alla fin colà dentro alle mura,

E a Bertinella che gli aspetta ammessi,

Un bel riverenzon fecer, che prese

Di territorio un miglio di paese.

 

45.

Ed ella pure a lor quivi s'inchina,

Dando a ciascuno i suoi debiti titoli;

E con essi fermò l'altra mattina

Il discorrere, e far patti e capitoli,

Purchè il nome conservi di regina,

Quando per l'avvenire altra s'intitoli;

Che questo non le nieghin chiede almanco,

Nel resto poi dà loro il foglio bianco.

 

46.

E perchè l'ore già finian del giorno,

Si consultò che fosse fatta sera;

Perciò tutti alle stanze fer ritorno

Com'un sacco di gatti fuor di schiera.

I cittadini stavan d'ogn'intorno

Nelle strade, su i canti e alla frontiera,

Acciocch'ognun, secondo il suo potere,

A' forestieri in casa dia quartiere.

 

47.

Giunta a palazzo Bertinella intanto,

In Amostante e in Celidora incappa;

E vuol che, gli odii omai posti da canto,

Stien seco; ma ciascun ricusa e scappa.

Pur finalmente, ne li prega tanto,

Ch'e' non si fanno poi stracciar la cappa.

Va innanzi il general dentro al palagio:

Chi dà spesa, dic'ei, non dia disagio.

 

48.

Del principe d'Ugnan poi si domanda:

E perchè la labarda anch'egli appoggi,

Staffieri attorno a ricercar si manda

Chi l'abbia raccettato e chi l'alloggi.

Ed ei che in una camera locanda

S'era acculato, volle mille stoggi

Pria ch'ei n'uscisse: pur col suo codazzo

N'andò per alloggiar anch'ei in palazzo.

 

49.

A cena, perchè il giorno in questo loco

Ebber altra faccenda le brigate

Che stare a cucinare intorno al foco,

Si fece una gran furia di frittate,

Che si fan presto sì, ma duran poco,

Chè appena fatte ell'eran già ingoiate;

Perchè la gente a tavola era molta,

E ne mangiavan due e tre per volta.

 

50.

In cambio di guarir dell'appetito,

Faceano il collo come una giraffa;

Se vien frittate, ognun stava accivito.

Chè per aria chi può se la scaraffa.

Si ridussero in breve a tal partito,

Ch'ogni volta faceano a ruffa raffa;

In ultimo seguendo Bertinella

L'andavano a cavar della padella.

 

51.

Stanchi già di mangiar non sazi ancora.

Tal musica finì po' poi in quel fondo;

Ma perchè dopo cena il vin lavora,

Facean pazzïe le maggior del mondo.

Fra l'altre Bertinella e Celidora

Cominciaron per burla un ballo tondo;

E appoco appoco entrovvi altra brigata

Talchè si fece poi veglia formata.

 

52.

Accender fanno ancor, com'è l'usanza,

Molte candele intorno alla muraglia

Lo splendor delle quali in quella stanza

È tale e tanto, che la gente abbaglia;

Sicchè distinto si vedeva in danza

Chi meglio capriole intreccia e taglia.

Nannaccio intanto sopr'alla spinetta

S'era messo a zappar la spagnoletta.

 

53.

Un gobbo suo compagno, un tal delfino

Ch'alle borse, piuttosto che nel mare

Tempesta induce, prese un violino

Che sonando parea pien di zanzare.

Intanto un ben dipinto mestolino

Si porge in mano a quei c'ha da invitare;

E l'Ugnanese, al quale il ballo tocca,

Sciorina a Bertinella in sulle nocca.

 

54.

È grave il colpo e giugne in modo tale,

Che quanto piglia tanta pelle sbuccia;

La donna, benchè sentasi far male,

Senz'alterarsi in burla se la succia.

Non vuol parer, ma in sè l'ha poi per male;

E dice l'orazion della bertuccia:

Sorride, ma nel fin par che riesca

In un rider piuttosto alla tedesca.

 

55.

Al duca veramente pare strano

Ch'ell'abbia a far sì grande storcimento,

Perchè gli par d'averle dato piano,

Anzi d'averla tocca a malo stento;

Ma quando sanguinar vedde la mano,

Io mi disdico, disse, e me ne pento;

Finalmente io ho il diavol nelle braccia,

E sono e sarò sempre una bestiaccia.

 

56.

Per curargliene pensa e ghiribizza,

Ma non sa come; al fin gli tocca il ticchio

Di tôr del sale e ve lo spolverizza,

Come il villano quando fa il radicchio;

Ed ella, chè la man perciò le frizza,

E di quel tiro stiaccia come un picchio,

Ritiratasi in camera in sul letto

Manda giù Trivigante e Macometto.

 

57.

Il principe, a quel grido a quel guaire,

Quale a soqquadro il vicinato mette,

Si sente tutto quanto imbietolire,

Ch'amore in lui vuol far le sue vendette.

Comincia impietosito a maledire

Il mestolino e quei che glie lo dette;

E per mostrare or quant'ei lo disprezzi,

Lo getta in terra in cento mila pezzi.

 

58.

E pensa poi la bestia scimunita,

Che se un cane, scarpione o ragnatelo

Ci morde in qualche parte della vita,

E che se il corpo loro ovvero il pelo

S'applica presto sopr'alla ferita,

Va via il dolore ed è la man del cielo;

Quel mestolino ancora, essendo messo

Dov'egli ha rotto, debba far lo stesso,

 

59.

Ravvia quei legni, ond'egli forse spera

Cessare il duolo, i pìanti e le querele;

E perchè per le fasce ivi non era

Comodità di panni nè di tele,

La camicia dappiè fregiata e nera

Da' venti che portavan via le méle

Squaderna fuora, e tagliane un buon brano;

Così alla donna medica la mano.

 

60.

Gridò la donna allor come una bestia,

E dopo il dirgli manco che messere,

Per levarsi d'attorno tal molestia

Volle co' calci fargli il suo dovere;

Ma trattenuta poi dalla modestia

Di non mostrar intanto Belvedere,

Getta nel muso al medico da succiole

L'unguento che le fa veder le lucciole.

 

61.

Non dimostra la faccia così mesta

Quel ragazzo scolar, quel cavezzuola,

Allorchè molti giorni è stato festa,

E che finita poi quella vignuola

Il maladetto tempo ecco s'appresta

Ch'e' s'ha di nuovo a tornar alla scuola;

Nè si guasta belando sì la bocca,

Quand'il maestro col baston lo chiocca;

 

62.

Quanto cambiato in viso e mal contento

Adesso pare il povero Baldone,

Che ha una stizza ch'ei si rode drento,

Per non aver cervel nè discrizione;

Chè bench'altrui la morte dia spavento,

S'e' non fosse che e' c'è condennagione

A chi s'ammazza pena della vita,

Con una fune avrebbela finita.

 

63.

S'impiccherebbe; ma dall'altro canto

Ei va poi renitente, e circospetto,

Stimando che l'indugio tanto o quanto

Sia sempre ben per ogni buon rispetto.

Fatto al morir un soprattieni intanto,

Vuol ch'ella stessa che è per lui nel letto

Con quella man ch'a lei di sangue ha tinta,

Gli vada in sulle forche a dar la spinta.

 

64.

Poichè 'l condotto delle pappardelle

S'ha da serrar, dic'egli, ella sia il boia;

Perchè s'ìo levo alle sue man la pelle,

A lei s'aspetta il farmi trar le quoia;

Ch'è ben dover, se membra così belle

Con legno offendo, che in tre legni io muoia,

E mentr'io quivi i calci all'aria avvento,

Mostri ch'io sono un ballerino a vento.

 

65.

In tal maniera per uscir d'affanni

Entro sè stesso di morir divisa;

Ed ella più colà facendo il nanni,

Il tutto osserva e scoppia dalle risa;

Nè può per l'allegrezza star ne' panni,

Perchè, mentre ch'e' l'ami, ella s'avvisa

Ch'omai la guerra e ogni sparere e lite

Se n'abbia a ire in fumo d'acquavite.

 

66.

Mentre Baldon qual semplicetto uccello

Così d'intorno alla civetta armeggia,

A tutti quivi serve per zimbello,

Senza che mai vi badi o se n'avveggia

Ognun lo burla e dice: Vèllo, vèllo!

Ciascun dice la sua, ciascun motteggia;

Beato chi più bella te la stianta;

E noi levansi crosci dell'ottanta

 

67.

Ma ridan pure e faccian cicalecci,

Perch'ei vuol fare orecchi di mercante;

Lo burlino le genti, Amor lo frecci

Ch'ad ogni mo' sarà fido e costante.

Come talor s'abbrucia i costerecci

Il gatto al fuoco e stavvi non ostante,

Baldon già sente il fuoco e non lo fugge,

Ma com'un pan di burro ivi si strugge.

 

68.

E così va, perchè a principio Amore

Par bella cosa, e sembra giusto giusto

Una pera cotogna, il cui colore,

Odor, sapor diletta e piace al gusto;

Ma nel gettarla, allor dà gran dolore,

Perchè ristringe e rende il ventre adusto:

E così Amore, al primo è un certo imbroglio

Ch'alletta e piace, ma nel fin ti voglio.

 

69.

Ed egli, ch'è impaniato e a qualche segno

Crede il suo amor da lei esser gradito,

Altero vanne, e stima d'esser degno

D'invidia più, che d'esser mostro a dito.

Ma lasciamlo per or, ch'io fo disegno

Che questo canto resti qui finito;

Perchè disse un dottor da Palestrina;

Brevis oratio penetra in cantina.

 

 

 

 

DECIMO CANTARE

 

Argomento

 

Per far la maga col rival quistione

Va, ma in vederlo poi le spalle volta,

E con lui dietro fugge nel salone

Ove è la gente per ballare accolta.

Del lupo in traccia Paride si pone:

Il trova, e 'l prende con industria molta:

E ucciso quel, dà fine all'avventura,

Ed in tal guisa è liberato il Tura.

 

 

 

1.

Quanti ci son che vestono armatura,

Dottor di scherme e ingoiator di scuole,

Fantonacci che fanno altrui paura,

Tremar la terra e spaventare il Sole;

E raccontando ognor qualche bravura

Ammazzan sempre ognun colle parole;

Se si dà il caso di venire all'ergo,

Zitti com'olio poi voltano il tergo!

 

2.

Ma e' son da compatir s'e'fanno errore,

Benchè non sembri mancamento questo;

Se chi a menar la man non gli dà il cuore,

In quel cambio a menare i piedi è lesto.

Oh, mi direte, vanne del tuo onore;

Sì; ma un po' di vergogna passa presto:

Meglio è dire: un poltron qui si fuggì,

Che: qui fermossi un bravo e si mori.

 

3.

Dunque appien mostra in zucca aver del sale:

Chè il savio sempre fugge la quistione;

Anzi veder facendo quanto ei vale

Nel giocare al bisogno di spadone,

E che chi a nessun vorria far male

Sa ritirarsi dall'occasïone,

E senza pagar taste o chi lo medichi

Dà campo che di lui sempre si predichi.

 

4.

Ma voi che di question fate bottega,

Credendo immortalarvi; e che vi giova

Far la spada ogni dì com'una sega

E porvi a' rischi e fare ogni gran prova,

Se quando poi la morte vi ripiega,

«Il vostro nome appena si ritrova?»

Or imparate un po' da Martinazza,

Ch'ella v'insegnera corne s'ammazza.

 

5.

Colei c'ha fatto buio, e che fallita

Paga di sogni i debiti a ciascuno,

Quella che, dianzi tolse al dì la vita,

Cagion che tutto il mondo porta bruno;

Perch'ella teme d'esserne inquisita,

Benchè si chiugga gli occhi per ognuno,

Per fuggir l'alba c'ha le calze gialle,

Comincia a ragionar di far le balle.

 

6.

E Martinazza, che di quei balletti

Sarebbe in corte tutto il condimento,

Perchè in un tempo solo, co' calcetti

Ballando, suona al par d'ogni strumento;

Dopo cena per degni suoi rispetti

Prese dagli altri un canto in pagamento,

E sopra un pagliericcio angusto e sodo

Fino ad ora s'è cotta nel suo brodo.

 

7.

Perocchè, nel pensar che la mattina

Entrare in campo dee alla tenzone,

Fa giusto come quella nocentina,

Ch'a giorno andar dovendo a processione

Occhio non chiude, e tuttavia mulina

Tantochè'l capo ell'ha come un cestone;

Così la strega in cella solitaria

Attende a far mille castelli in aria.

 

8.

Infastidita poi da tanti e strani

Suoi mulinelli, sorge dalla paglia:

E data una scossetta come i cani,

La lancia chiede, brando, piastra e maglia,

Perchè il nimico all'alba de' tafani

Vuol trucidare in singolar battaglia;

Ed a fargli servizio e più che vezzi,

Vuol che gli orecchi sieno i maggior pezzi.

 

9.

Dimostra cuore intrepido e sicuro,

E spaccia il Baiardino e il Rodomonte;

Chi la stringesse poi fra l'uscio e il muro,

Pagherebbe qualcosa a farne monte;

Ma tutto questo finge e in sè tien duro,

Fa faccia tosta e va con lieta fronte,

Sperando ognor che venga un accidente

Ch' e' non se n'abbia a far poi più niente.

 

10.

Spada e lancia frattanto un servo appresta;

Col petto a botta in man l'altro galoppa,

Un altro l'elmo da coprir la testa,

Da difender, un altro, e braccia e groppa:

Di che coperta in ricca sopravvesta,

Par un pulcin rinvolto nella stoppa;

Ed allestita in sul cantar del gallo,

Altro quivi non resta che il cavallo.

 

11.

Perciò fa comandare a' barbereschi

Che lo menin 'n un campo di gramigna,

Acciocch'ei pasca un poco e si rinfreschi,

Perchè per altro il poverin digrigna.

La marca ebbe del Regno, e i guidaleschi

Gli hanno rifatta quella di Sardigna:

Maglie e reti ha negli occhi, onde per cena

Vanne a pescar nel lago di Bolsena.

 

12.

Or mentre pasce il misero animale

E ch'e' si fa la cerca della sella,

Giunge un diavol più nero del caviale

Con un martello in mano e una rotella

Ed un liquor bollente in un pitale,

Ed inchinato a lei così favella:

Il re dell'infernal diavolería

Con queste trescherelle a te m'invìa.

 

13.

E ti saluta e ti si raccomanda,

E perc'ha inteso che tu fai duello,

Un rotellon di sughero ti manda;

Spada non già, ma ben questo martello,

Con una potentissima bevanda

Ch'io ti presento entr'a quest'alberello

Bell'e calduccia, come la mattina

Allo spedal si dà la medicina.

 

14.

Or senti, chè qui batte il fondamento:

Quand'il nimico ti verrà a ferire,

Va' pure innanzi, e non aver spavento

Al ferro questa targa a offerire;

E tosto ch'ei la passa per di drento,

Sii presta col martello a ribadire;

Ma lasciagliene subito alla spada,

Perch'egli a sè tirando, tu non cada.

 

15.

Facc'egli poi con essa quanto vuole,

Chè più di punta non può farti offesa:

Di taglio manco; essendochè una mole

Sì fatta a maneggiar pur troppo pesa:

Portila dunque per ombrello al sole

Perch'alla testa non gli muova scesa;

E digli, giacchè quella non è il caso,

Che s'egli ti vuot dar ti dia di naso.

 

16.

Ma se per non aver buon corridore,

Quivi a cansarti tu non fossi lesta,

O per altra disgrazia o per errore

E t'appoggiasse qualche colpo in testa,

Voglio che tu per sicurtà maggiore

Or per allora ti tracanni questa

Qual'è una bevanda sì squisita,

Che chi l'ha in corpo non può uscir di vita.

 

17.

Così le fa ingoiar tanto di micca

D'una colla tenace di tal sorte,

Che dove per fortuna ella si ficca

Al mondo non è presa la più forte:

Questa, dic'egli l'anima t'appicca

Ben ben col corpo, e s'altro non è morte

Ch'una separazion di questi duoi,

Oggi timor non hai de' fatti suoi.

 

18.

Quando la maga vede un tal presente

C'ha in sè tanta virtù, tanto valore,

Da morte a vita riaver si sente,

Si ringalluzza e fa tanto di cuore;

E dove sarebb'ita un po' a rilente

Nel far con Calagrillo il bell'umore,

Or c'ha la barca assicurata in porto,

Per sette volte almanco lo vuol morto.

 

19.

Le stelle omai si son ite a riporre,

Han prese l'ombre già tacita fuga,

E già dell'aria i campi azzurri scorre

Quel che i bucati in su i terrazzi asciuga;

Perciò fatta al ronzin la sella porre,

Vi monta sopra e poi lo zomba e fruga,

Perch'adesso ch'egli ha rotto il digiuno,

Camminerebbe pìú in tre dì che in uno.

 

20.

Perch'ei bada a studiar declinazioni

Più non sì può farlo levare a panca;

Le polizze non può, porta i frasconi,

E colle spalle s'è giocato un'anca;

Pur, grazia del martello e degli sproni,

Tentenna tanto, zoppica ed arranca,

Ch'ei vien dove n'ha a ir, non dico a once

Ma a catinelle il sangue ed a bigonce.

 

21.

Quando il nimico ch'ivi sta a disagio

A tal pigrizia, grida ad alta voce:

Vieni asinaccia, moviti Sant'Agio,

Ch'io son qui pronto a caricarti a noce.

Ella risponde: a noce? adagio, Biagio!

Fate un po' pian, barbier, che 'l ranno cuoce;

S'altro viso non hai, vàllo a procura,

Perchè codesto non mi fa paura.

 

22.

Se tu sapessi, come tu non sai,

Ch'armi son queste, e poi del beveraggio,

Faresti forse il bravo manco assai

O parleresti almen d'altro linguaggio.

Ma giacchè tu venisti al tuo' ma' guai,

A' vermini a tua posta manda il saggio;

Mentr'io che mai non volli portar basto,

Coll'ammazzarti farotti lor pasto.

 

23.

Orsù, dic'egli all'armi t'apparecchia,

E vedrem se farai tante cotenne.

A questo suono allor mona Pennecchia

Dice fra sè: no, no, non tanto ammenne,

Sarà meglio qui far da lepre vecchia.

E senza star a dir pur al cui vienne,

Fa prova, già discesa dal destriero,

Se le gambe le dicon meglio il vero.

 

24.

Le guarda dietro Calagrillo e grida:

M'avessi detto almen salamelecche!

Volta faccia, vigliacca, ch'io t'uccida

E ch'io t' insegni farmi le cilecche;

Così tu, che intimasti la disfida,

Mi lasci a prima giunta in sulle secche?

Ma fa' pur quanto sai, ch' io ho teco il tarlo,

E ti vo', se tu fossi in grembo a Carlo.

 

25.

Se al cimento, dic'ella, del duello

A furia corsi, or fuggolo qual peste;

Però va ben, che chi non ha cervello

Abbia gambe; e così mena le seste

E intana di ritorno nel castello,

Perocchè dopo il muro salvus este.

Gridi egli quanto vuol, la va in istampa,

Chè per le grida il lupo se ne scampa.

 

26.

Poich'egli vede in somma che costei

Altrimenti non torna, fa i suoi conti

Che sarà ben ch'ei vada a trovar lei,

Come faceva Macometto a' monti;

E perch'ell'ha due gambe ed egli sei,

Mentre però di sella ei non ismonti,

L'arriverà; nè prima il destrier punge

Ch'all'entrar di palazzo ei te la giunge.

 

27.

Martinazza che teme del suo male,

Vedendo che 'l nemico se le accosta,

Tre scaglion c'ha la porta a un tempo sale,

E gli dà nel mostaccio dell'imposta;

Dipoi dandola a gambe per le scale

Senza dar tempo al tempo o pigliar sosta,

Insacca nel salon là dove è, il ballo,

Ed ei la segue, sceso da cavallo.

 

28.

Appunto era seguíto in sul festino,

Come interviene in tresche di tal sorte,

Che due di quei che fanno da zerbino

S'eran per donne disfidati a morte;

L'un forestiero, e smenticò pel vino

L'armi la sera, anch'ei cenando in corte;

Ha spada accanto il cortigian, ch'è l'altro,

Ma più per ornamento che per altro.

 

29.

Tutta l'architettura e prospettiva

Questi a vestirsi mette di Vitruvio;

Or mentre che più gonfio d'una piva

Tirar crede ogni dama in un vesuvio,

Spesso riguarda se 'l nimico arriva,

Perocch'egli ha paura del diluvio,

Che in un tempo estinguendo il fuoco al cuore

Alle spalle non susciti il bruciore.

 

30.

In quel ch'ei morde i guanti e fa quei giuochi

Che van de plano all'arte del Mirtillo,

E ch'egli ha sempr'all'uscio gli occhi a' mochi,

Dietro alla strega giunge Calagrillo,

Che lui non sol, ma spaventò quei pochi;

Ond'egli, che più cuor non ha d'un grillo,

Fece, stimando quello il suo rivale,

Più de' piè che del ferro capitale.

 

31.

Tosto tornando l'amicizia in parte,

Si viene all'armi, chè ciascuna armata

Ciò tien dell'altra un segno fatto ad arte

Per darle a tradimento la pietrata.

Di qui si viene a mescolar le carte,

Tal ch'in vederla tanto scompigliata,

Ritirandosi, a dir badan le dame:

Basta, basta, non più, dentro le lame.

 

32.

Prima che tra costoro altro ci nasca

E che la rabbia affatto entri fra' cani,

E' mi convien saltar di palo in frasca,

E ripigliar la storia del Garani

Ch'è dietro a far che 'l Tura ci rinasca;

Acciò tornato poi come i cristiani,

Ad onta della strega ogni mattina

Ritorni a visitar la Regolina.

 

33.

Paride giunto in mezzo a' casolari,

Ove messer Morfeo a un tempo solo

Fa dir di sì a molti in Pian Giullari,

Strepitando, fuggir lo fece a volo,

Sì ch'ognun desto vanne a' suoi affari,

Ed ei che star non vuol quivi a piuolo

Anzi dare al negozio spedizione,

Dimanda di quel lupo informazione.

 

34.

Un gran villano, un nom d'età matura,

De' quarantotti lì di quel contado,

Che perchè ei non ha troppa sessitura

Ed è presontuoso al quinto grado,

Innanzi se gli fece a dirittura,

E con certi suoi inchin da Fraccurrado:

Benvenga, disse, vostra signoria,

E le buone calende il ciel vi dia.

 

35.

In quanto al lupo, egli è un animale;

Ma che animal dich'io bue di panno?

Un fistol di quei veri, un facimale

C'ha fatto per ingenito gran danno:

E già con i forconi e colle pale

I popoli assiliti tutto uguanno

Quin'oltre gli enno stati tutti rieto,

Per levar questo morbo da tappeto.

 

36.

Ma gli è un setanasso scatenato

Che non teme legami né percosse.

S'è carpito più volte ed ammagliato,

Ed ha reciso funi tanto grosse;

Le bastonate non gli fanno fiato,

Ch'e' non l'ha a briga tocche, ch'e' l'ha scosse.

D'ammazzarlo co' ferri non c'è via,

Ch'egli è come frucar'n una macía.

 

37.

Là entro in quella selva ei si rimpiatta,

Perch'ella è grande, dirupata e fitta,

Acciocchè nimo un tratto lo combatta

Quand'egli ha dato a' socci la sconfitta;

Chè tutti gli animali ch'ei raccatta

Ciuffando, gli strascina liviritta.

E chi guatar potesse, io fo pensiero

Ch'e' v'abbia fatto d'ossa un cimitero.

 

38.

Sta Paride a sentirlo molto attento;

Ma poi, vedendo quanto ci si prolunga,

Fra sè dice: costui v' ha dato drento,

Come quel che vuol farmela ben lunga:

Gli è me' troncargli qui il ragionamento,

Acciò prima che il dì mi sopraggiunga.

Io possa lasciar l'opera compita,

Però gli dice: ovvia, fàlla finita.

 

39.

Poich' egli ha inteso dov'ei possa battere

A un dipresso a rinvergare il Tura,

Dell'esser folto il bosco, e d'altre tattere

Che gli narra costui, saper non cura.

La lanterna apre e il libro, onde al carattere

Possa, vedendo, dare una lettura;

Così leggendo, sente darsi norma

Di quanto debba fare in questa forma.

 

40.

Vicino al boschereccio scannatoio,

Mentre fuoco di stipa vi riluca,

Pallon grosso, bracciali e schizzatoio

Co'giocatori a palleggiar conduca:

Al rimbombar del suo diletto cuoio

Tosto vedrà che 'l gocciolone sbuca,

Quei ricchi arnesi vago di mirare

Che già in Firenze lo facean gonfiare,

 

41.

Paride in questo subito ubbidisce;

Accender fa le scope, e intorno al fuoco

Già questi e quel si spoglia ed allestisce

Col suo bracciale, e si comincia il giuoco;

Al suon del qual l'amico comparisce,

Ma è ritenuto perch'ei vede il fuoco:

Elemento, che vien dall'animale

Fuggito per instinto naturale.

 

42.

Il Garani, che stava alle velette,

Vedendo che 'l compar viene alla cesta,

Che le scope si spengano commette

Ed in un tempo a' giocator dà festa.

'N un batter d'occhio il giuoco si dismette,

La stipa si sparpaglia e si calpesta;

Talchè sicuro l'animal ridotto,

Va Paride pian piano e fa fagotto.

 

43.

Ciò ch'è in giuoco in un fascio egli ravvia

E tra gambe la strada poi si caccia,

Il tutto strascicando per la via

Con una fune d'otto o dieci braccia.

Spinto dal genio a quella ghiottornia

Da lunge il Tura séguita la traccia,

Come fa il gatto dietro alle vivande

E il porco a' beveroni ed alle ghiande.

 

44.

Vagheggiato, s'allunga, zappa e mugola;

Talor s'appressa e colle zampe il tocca;

Or mostra sbavigliando aperta l'ugola;

Or per leccarlo appoggiavi la bocca

Tutto lo fiuta, lo rovistia e frugola;

Così mentre il suo cuor gioia trabocca,

Ei, che non tocca per letizia terra

Entra nel borgo e in gabbia si riserra.

 

45.

Perchè Paride fa serrar le porte,

E poi comanda a un branco di famigli,

Che quivi fatti avea venir di corte,

Che di lor mano l'animal si pigli;

Ma i birri, che buscar temean la morte,

Non voglion accettar simil consigli;

E fan conto, sebben'ei fa lor cuore,

Ch'ei passi tuttavia l'Imperadore.

 

46.

Poichè gran pezzo a' porri ha predicato

E che fan conto tuttavia ch'ei canti

Perocchè da' ribaldi gli vien dato

L'udïenza che dà il papa a' furfanti,

Senza più star a buttar via il fiato,

Tolti di mano al caporale i guanti,

Bisogna, dice, con questa canaglia

Far come il podestà di Sinigaglia.

 

47.

E quei guanti che san di caporale

Legando ad una delle sue legacce,

Uno per testa, addosso all'animale

Mette attraverso a uso di bisacce;

Al fragor di tal concia di caviale

La bestia fece subito due facce,

Ch'una di lupo, ed una d'uomo, sembra;

E di sua specie ognuna ha le sue membra.

 

48.

Si resta il lupo, e 'l Tura uomo diviene,

Ma non però che libero ne sia,

Ch'ambi sono appiccati per le rene

Formando un mostro qual'è la bugia.

Dice Turpino, e par ch'ei dica bene,

Ch'essendo questa sì crudel malía,

Non erano a disfarla mai bastanti

Gli odor birreschi semplici de' guanti.

 

49.

E che se tanto oprò tal masserizia,

Avrebbon molto più fatto le mani;

Perchè gl'incanti in man della Giustizia

Come i fichi alla nebbia, vengon vani.

E Paride che già n'ebbe notizia.

Da quel suo libro, si dà quivi a' cani;

Perchè più oltre il libro non ispiega

Ond'ei fa conto al fin di tôr la sega.

 

50.

Perciò fatti venir due marangoni

Con tutto quell'ordingo che s'adopra

A segare i legnami ed i panconi,

A divider il mostro mette in opra.

Mentre la sega in mezzo a'duoi gropponi

Scorre così, va il mondo sottosopra

Mediante il rumor de'due pazienti,

Che l'un fa d'urli, e l'altro di lamenti.

 

51.

Pur senza ch'intaccato ell'abbia un osso

La sega insino all'ultimo discese

Lasciando il Tura libero, ma rosso

Dietro di sangue, com'un Genovese,

La bestia gli volea tornare addosso;

Ma Paride che subito l'intese,

Presa la spada, la tagliò pel mezzo,

Pensando di mandarla un tratto al rezzo.

 

52.

E morta te la dà per cosa certa;

Ma quel demonio insieme si rappicca,

E qual porco ferito a gola aperta

Per divorarlo sotto se gli ficca.

Ed egli ch'all'incontro stava all'erta

In sulla testa un sopramman gli appicca

Che in due parti divisela di netto,

Com'una testicciuola di capretto.

 

53.

Ma ritornato a penna e a calamaio,

Pur questo stesso a Paride si volta;

Che per veder il fin, di quel moscaio,

Se e'fosse mai possibile una volta,

Mena le man che, e' pare un berrettaio

Ed a chius'occhi pur suona a raccolta

E dágli e picchia, risuona e martella;

Ma forbice! l'è sempre quella bella.

 

54.

Talch'ei si scosta nove o dieci passi,

E piglia fiato, perch'ei provar vuole

Se la virtude a sorte gli giovassi

C'hanno l'erbe, le pietre e le parole;

Perciò gli avventa il libro e poi de' sassi,

Con una man di malve e petacciuole;

E parve giusto il medico indovino,

Già detto mastro Grillo contadino.

 

55.

Perchè 'l demonio, o si recasse a scorno

Che un uomo uso alle giostre e alle quintane,

Con tal chiappolerie gli vada intorno,

E lo tratti co' sassi come un cane;

Ovver ch'e' fosse l'apparir del giorno,

Che scaccia l'ombre, il bau e le befane;

Sparisce affatto e più non si rivede:

Ma Paride per questo non gli crede.

 

56.

Resta in parata, molto gira il guardo,

Prima ch'un piè nè anche egli abbia mosso,

Mercè ch'ei sa che 'l diavolo è bugiardo

E quanto ci sia sottile e fili grosso;

Perciò si mette un pezzo a Bellosguardo,

Credendo ognor che gli saltasse addosso;

Ma poich'ei vedde omai d'esser sicuro,

Andò all'oste e cavollo di pan duro.

 

 

 

 

UNDECIMO CANTARE

 

Argomento

 

Cangia le danze in rissa un accidente

Fuggonsi Bertinella e Martinazza.

Vien fuor Biancone, e fa morir gran gente;

Ma gli orbi a lui fan poi sentir la mazza.

Da Celidora e da Baldon possente

Mezza destrutta è quella trista razza:

Tagliansi a pezzi in quelle squadre e in queste,

E così in Malmantil fansi le feste

 

 

1.

Chi mi darà la voce e le parole,

Bastanti a dir la guerra indiavolata

Ond'oggimai darà le barbe al Sole

Bertinella con tutta la sua armata?

Che al ciel gagliarde alzando e capriole,

Farà verso Volterra la calata;

E se d'amor cantò con cetra in mano,

Dirà col ferro il vespro siciliano.

 

2.

Qui ci vorria chi scortica l'agnello

O se al mondo è persona più inumana,

A descriver la strage ed il flagello

Che seguir si vedrà di carne umana

Ch'io già mi sento, mentre ne favello,

Il tremito venir della quartana;

E n'ho sì gran terror, ch'io vi confesso

Che mai più de' miei dì sarò quel desso.

 

3.

Sbandiva il gallo apportator del giorno

La notte nera più d'un calabrone,

E il suo buio e quant'ombre ell'ha dintorno

D'ogni e qualunque grado e condizione,

Acciò sicuri omai faccian ritorno

Gli uccei cantando il lor falso bordone

Incontr'al Sol; che in questa parte e in quella

Fa pel lor gozzo nascer le granella;

 

4.

Quand'infra dame e cavalieri erranti

Ch'al trescone in palazzo erano intenti,

Comparsi un dietro all'altro i duellanti,

Armati tutti due come sergenti,

Si sballò il ballo, andâr da canto i canti

E le chitarre e i musici strumenti

A' propri sonatori e a' ballerini

Divenner tante cuffie e berrettini.

 

5.

Perchè ciascun che quivi si ritrova

Vedendo entrar quell'armi colà drento

Subito disse: qui gatta ci cova:

Questa è trama di qualche tradimento.

Si fa però bisbiglio, e si rinnova

L'odio fra le fazion già quasi spento

Che tirando a' rispetti giù la buffa,

Ruppe la tregua e rappiccò la zuffa.

 

6.

Baldone mette man da buon soldato,

E nimico ritorna a Bertinella;

Alla quale in quel punto cascò il fiato,

Il fegato, la milza e le budella,

Vedendo, quando men l'avria pensato,

Uscire i pesci fuor della padella,

Mentre la fa venir Marte vigliacco

Col suo Baldone alle peggio del sacco.

 

7.

Ma perch' un certo vento non le gusta

Che fan le spade e ognor per l'aria fischia,

E già vedendo che la morte aggiusta

Chi più vuol far del bravo e più s'arrischia,

Bel bello svigna, e vanne alla rifrusta

D'un luogo da salvarsi da tal mischia:

Mischia che non le par di poter credere;

Perciò sospira e non si può discredere.

 

8.

Mentre se alcun l'osserva ella pon mente

Per cansarsi e non esser appostata,

Ecco in un tratto vedesi presente

Martinazza la sua confederata,

Che poco dianzi anch'ella similmente

Di man di Calagrillo è scapolata;

E seco vanne in luoghi occulti e scuri

A fare incanti e i soliti scongiuri.

 

9.

Ne' quali aiuto ella chiede a Plutone

Ed ei comparso quivi in uno istante,

Dice c'ha fatto a lor riquisizione

Già spedire un lacchè per un gigante:

Qual è quel famosissimo Biancone,

Che col battaglio, ch'era di Morgante

Verrà quivi tra poco ìn lor soccorso

A dar picchiate c'hanno a pelar l'orso.

 

10.

Ed eccolo, soggiunse, oh ve' battaglio!

Io ti so dir che al primo ch'egli accoppa,

Tutta l'armata a irsene in sbaraglio,

Che la barba pensò farvi di stoppa;

E s'avvedrà ch'al fin pisciò nel vaglio,

E che pigliar un regno non è loppa;

Così scaciata abbasserà la cresta

Li veder che de' suoi non campa testa.

 

11.

Qui tacque il diavol, perch'è fatto roco

E perchè l'aria al capo gli è maligna,

Essendo avvezzo a star sempre nel foco,

Volta alle donne il dietro a casa e svigna,

E lasciavi il gigante nel suo loco;

Che dovendo a Baldon grattar la tigna,

Sull'uscio del salon già pervenuto,

Alzò il battaglio e questo fu il saluto.

 

12.

Sei braccia era il battaglio alto e di passo,

E n'infragneva almen diciotto o venti;

Ma dando su nel palco, mandò a basso

Una trave intarlata e tre correnti:

E fece tal frastuono e tal fracasso,

Che sbalordì a un tratto i combattenti;

E per paura, a chi non fu percosso

Non rimase in quel punto sangue addosso.

 

13.

Ed infra gli altri Piaccianteo, il quale

S'era schermito bene insino allora,

Vedendo un fantoccion sì badiale

Dopo il terror di tante spade fuora,

Di quel detto farebbe capitale:

«Che un bel fuggir salva la vita ancora;»

Ma perchè in qua e in là v'è mal riscontro,

Vede aver viso di sentenza contro.

 

14.

Poichè non sa trovar modo nè via

Per nessun verso da scampar la guerra,

E ch'egli è forza, che chi v'è vi stia,

Fintosi morto, gettasi giù in terra;

E ritrovando la bottiglieria,

Apre l'armadio e dentro vi si serra,

Con pensiero di starvi sempre occulto

Finchè si quieti così gran tumulto.

 

15.

Col battaglio, di nuovo, agile e presto

Tira il gigante e dà nella lumiera;

La qual cadendo fece del suo resto,

Perchè si spense, e roppe ciò che v'era;

Or s'egli è in bestia dicavelo questo,

Mentre ch'ei dà ne' lumi in tal maniera

E dice che 'l demonio lo staffila,

Poichè gli fa fallir due colpi in fila.

 

16.

E giacch'egli non può per quella stanza

Armeggiar col battaglio a suo talento,

Perocchè il luogo non ha gran distanza,

Cagion ch'ei trova sempre impedimento,

Lascialo andar, avendo più fidanza

Nelle sue man che in simile strumento

E piglia quella ciurma abbietta e sbricia

A manate, com'anici in camicia.

 

17.

Così tutto arrabbiato come un cane

Piglia un pel collo e scaglialo nel muro,

Di sorta, che disfatto ei ne rimane,

Com'un ficaccio piattolo maturo,

Talchè 'l meschin non mangera più pane

Perciò gli amici suoi a' quai par duro,

Nè voglion che il ribaldo se ne vanti,

Gli andaron alla vita tutti quanti.

 

18.

Paion costoro un branco di galletti,

Quando la state a tempo di ricolta,

Intorno a qualche bica uniti e stretti

ognun di loro a bezzicar s'affolta.

Però il gigante fa certi scambietti,

Che te ne svisa quattro o sei per volta;

Infastidito alfin da quel baccano,

Si china ed aggavignane un per mano.

 

19.

E come la mia serva quand'in fretta

Dee fare il pesce d'uovo, e che si caccia

Tra man due uova, e insieme le picchietta

Sicchè in un tempo tutte due le schiaccia;

Ei, che dall'ira è spinto alla vendetta,

Sostien quei due, e s'apre nelle braccia,

Poi ciacche! batte insieme quello e questo,

Sicchè e' diventan più che pollo pesto.

 

20.

Allor Bieco non ha più sofferenza,

E giura che di questo il bacchillone

Non andrà al prete per la penitenza,

Perch'ei vuol ch'e' la faccia col bastone;

E i suoi, che di tal'arme han la licenza,

Gliene daran d'una santa ragìone.

Così guida i suoi ciechi ov'è il colosso,

Acciò gli caccin le mosche da dosso.

 

21.

Eglino tutti quivi fermi a tiro

Presso a Biancone, a un fischio co' bastoni

Senza tramezzo alcun, senza respiro,

Ne diedero un carpiccio di quei buoni.

Ed egli con un piede alzato in giro

Fa lor sentir s'egli ha sodi i talloni;

E mentre questo passa e quel rientra,

Con quel pedino te gli chiappa e sventra.

 

22.

Quand'ecco il vecchio Paolino il cieco,

Il qual fa più canzon che il Testi o 'l Ciampoli,

E, perch'egli è bizzarro, avendo seco

Condotti, com'ei suole, un par di trampoli,

Ov'è salito a petizion di Bieco,

Va col mantel ch'egli ha di cento scampoli

Tastando ov'è il gigante, e all'improvviso

Per dalle schiene gl'imbacucca il viso.

 

23.

Ei con Macone allor si scandolezza,

E dice: oh traditor, che cosa è questa?

Che temi, ch'e' mi porti via la brezza,

Che tu m'hai posto il pappafico in testa?

Ma porco! oibò! questo cenciaccio allezza

E sa di refe azzurro ch'egli appesta;

Io vo' pagarti colla tua moneta,

E darti anch'io l'incenso colle peta.

 

24.

Fatto legare intanto avea Perlone

La trave dal gigante rovinata.

Al canapo ancor quivi ciondolone,

Che la lumiera già tenea legata;

Ed a foggia d'arïete o montone

Tiranla addietro e dannole l'andata

Verso quel torrïon, che si distese

Col sì più volte in bocca del Franzese.

 

25.

Or è quando, perch'egli sbalordito

E tutto intenebrato in terra giace,

i ciechi più che mai fanno pulito,

Ed egli se la piglia in santa pace:

E fra le mazze involto a quel partito,

Un sacco divenuto par di brace;

E ben quel panno al viso gli è dovuto,

Dovendosi il cappuccio a un battuto.

 

26.

Mentre gli rompon l'ossa e poi gli fanno

Così l'incannucciata co' randelli,

E talor non vedendo ov'essi danno,

Si tamburan fra lor come vitelli,

Gli altri soldati a gambe se la danno,

Ed ognun dice: alla larga, sgabelli.

Fugge, e la parte amica e la contraria,

Perchè quivi non è troppo buon'aria.

 

27.

Ma restin pare a rinfrescarlo gli orbi

Con quell'insalatina di mazzocchi;

Ed ei riposi all'ombra dì quei sorbi

Che gli grattan la rogna co' lor nocchi,

Mentre quivi, per far dispetto a' corbi,

Sotto quel cencio tien coperti gli occhi.

Chè se ognun parte, ed io mi parto ancora,

Per tornare a Baldone e a Celidora.

 

28.

Che là nel mezzo a' suoi nemici zomba,

Di modo ch'essi sceman per bollire;

Chè dove i colpi ella indirizza e piomba,

Te gli manda in un subito a dormire

Che nè meno col suon della sua tromba

Camprïan gli farebbe risentire:

E quanto brava, similimente accorta,

A combattere i suoi così conforta:

 

29.

Su via, figliuoli: sotto, buon piccini;

Facciam di questi furbi un tratto ciccioli:

Non temete di questi spadaccini

Ch'al cimento non vaglion poi tre piccioli:

E se in vista vi paion paladini,

Han facce di leoni e cuor di scriccioli:

E se 'l gridare e il bravar lor v'assorda,

Il can ch'abbaia raro avvien che morda.

 

30.

In quel ch'ella da ritto e da rovescio,

Così dicendo, va sonando a doppio,

Dà sul viso al Cornacchia un manrovescio

Che un miglio si sentì lontan lo scoppio;

Di modo ch'ei cascò caporovescio,

Pigliando anch'egli un sempiterno alloppio;

Ma il sapor non gustò già de' buon vini,

Come chi prese il suo de' cartoccini.

 

31.

Sperante per di là gran colpi tira

Con quell'infornapan della sua pala;

Ne batte in terra, sempre ch'ei la gira,

Otto o dieci sbasiti per la sala;

Talchè ciascuno indietro si ritira

O per fianco schifandolo fa ala;

E chi l'aspetta, come avete inteso,

Ha, come si suol dir, finito il peso.

 

32.

Amostante, che vede tal flagello

D'un'arme non usata più in battaglia,

Alza la spada, e quando vede il bello,

Tira un fendente e in mezzo gliela taglia.

Riman brutto Sperante, e per rovello

Il resto che gli avanza all'aria scaglia;

Vola il troncone, e il diavol fa ch'ei caschi

Sulla bottiglieria tra vetri e fiaschi.

 

33.

Dalle diacciate bombole e guastade

Il vino sprigionato bianco e rosso

Fugge per l'asse, e da un fesso cade

Giù dov' è Piaccianteo, e dàgli addosso.

Ei che nel capo ha sempre stocchi e spade,

A quel fresco di subito riscosso,

Pensando sia qualche spada o coltello,

Si lancia fuora, e via, sarpa, fratello.

 

34.

Ma il fuggir questa volta non gli vale,

Perch'Alticardo, ch'al passo l'attende,

Il gozzo gli trafora col pugnale

E te lo manda a far le sue faccende;

Così dal gozzo venne ogni suo male,

Per lui fallì, per lui la vita spende;

E vanne al diavol, che di nuovo piantalo

A ustolare a mensa appiè di Tantalo.

 

35.

Era sua camerata un tal Guglielmo

C'ha la labarda e i suoi calzoni a strisce;

Un bigonciuolo ha in capo in vece d'elmo,

E tutto il resto armato a stocchefisce;

Alemanno è costui berneiter scelmo,

E con quel dir che brava ed atterrisce,

Sbruffi fetenti scaricando e rutti

In un tempo spaventa e ammorba tutti.

 

36.

Costui, che a quel ghiottone a tutte l'ore

Fu buon compagno a ber la malvagía,

Per non cadere adesso in qualche errore

E fare un torto alla cavalleria,

Pur anco gli vuol far mentre ch'ei muore,

Con farsi dar due crocchie, compagnia

E non durò molta fatica in questo,

Ch'ei trovò chi spedillo e bene e presto.

 

37.

Perchè voltando il ferro della cappa

Verso Alticardo a vendicar l'amico,

Quei gliele scansa, e gli entra sotto e 'l chiappa

Colla spada nel mezzo del bellico;

Onde il vin pretto in maggior copia scappa,

Che non mesce in tre dì l'Inferno e il Fico;

Ma non va mal, perch'ei caduto allotta,

Mentre boccheggia, tutto lo rimbotta.

 

38.

Gira Sperante peggio d'un mulino,

Perch'arme alcuna in man più non gli resta;

Pur trova un tratto un piè d'un tavolino

E Ciro incontra e gli vuol far la festa;

Ma quei preso di quivi un sbaraglino,

Una casa con esso a lui fa in testa;

Perchè passando l'osso oltr'alla pelle,

Nel capo gli raddoppia le girelle.

 

39.

Ritrasse già Perlone un certo matto,

Ch'aveva il naso da fiutar poponi;

E perch'ei nol pagò mai del ritratto,

Però fa seco adesso agli sgrugnoni;

E dieglien'un sì forte, che in quell'atto

Gli si stiantò la stringa de' calzoni,

Che qual tenda calando alle calcagna,

Scoprì scena di bosco e di campagna.

 

40.

Tosello, che in fierezza ad uom non cede,

Riesce adesso qui tutto garbato;

Perch' ei risana un zoppo da un piede,

Ch'ognor su quella parte andò sciancato;

Mentre di taglio un sopramman gli diede

In quel che sano avea dall'altro lato,

Che pareggiollo; ond'ei fu poi di quei

Che dicon: qui è mio, e qua vorrei.

 

41.

Grazian di sangue in terra ha fatto un bagno,

Ond'egli è forza a chi va giù che nuoti:

Affetta un salta e un birro col compagno,

E stroppia un tal che fa le gruccie a' boti,

Che vien da un trombettier di Carlo Magno

Quando le mosse dar fece a' tremoti;

Toglie ad un l'asta il qual fa il paladino;

Sebben con essa fu spazzacammino.

 

42.

Tutto tinto ne va Puccio Lamoni

Stoccheggiando nel mezzo della zuffa;

E in Pippo un tratto dà del Castiglioni

Che mascherato ancor tira di buffa:

Ed ei che nel sentir quei farfalloni

Venir piuttosto sentesi la muffa,

Passandolo pel petto banda banda,

A far rider le piattole lo manda.

 

43.

Nanni Russa ha più là pien di ferite

Pericolo che fu scopamestieri;

Fu pallaio, sensale, attor di lite,

Stette bargello ed abbacò di zeri

Prese l'appalto alfin dell'acquavite,

Ma con essa svaniro i suoi pensieri,

Non più il vino stillando ma il cervello,

Per mettervi poi il mosto e l'acquerello.

 

44.

Con Dorïano il Furba ecco alle mani,

Di ferro da stradieri impugna un fuso;

E l'altro una paletta da caldani,

E con essa a lui cerca e sbracia il muso

Ma perchè quei le scuote come i cani,

Gli scarica il suo solito archibuso

Ch'egli ha a' monnini, e vanne un sì terribile

Che lo flagella e mandalo in visibile.

 

45.

Maso di Coccia avria colla squarcina

Fatto d'ognun polpette e cervellata,

Se a tanto mal non fea la medicina

Col dar sul grifo a lui Salvo Rosata,

Che sapendo ch'ei fa la contadina,

Vuol ch'e' faccia però la tombolata;

Ch'essendo presso all'uscio della sala

Lo spinge fuori a tombolar la scala.

 

46.

Palamidone intanto colla mano

In tasca a Belmasotto andava in volta,

Per tirarne la borsa in su pian piano

Per carità che non gli fosse tolta;

Ma il buon pensier ch'egli ha riesce vano,

Perch'egli col pugnal se gli rivolta

E fa per caritade anch'ei che muoia,

Acciò la vita non gli tolga il boia.

 

47.

Quasi di viver Batistone stufo,

Egeno affronta con un punteruolo;

E perchè quei l'uccella come un gufo,

Salta ch'ei pare un galletto marzuolo.

E tanto fa, ch'Egeno il mal tartufo

Manda con un buffetto a far querciuolo;

E poi lo piglia, e in tasca se l'impiatta

Per darlo per un topo a una gatta.

 

48.

Romolo infilza per lo mezzo al busto

Sgaruglia, che in un canto era fuggiasco,

Ed ei ne muor con molto suo disgusto,

Perch'egli aveva a essere a un fiasco.

Tira in un tempo stesso a un bell'imbusto,

E passagli un vestito di dommasco;

E quei gli duol, chè 'l rinnovò quell'anno,

E se e' si muor, vuol che gli paghi il danno.

 

49.

L'armi Papirio ad un Fiandron guadagna

Che fa il Tagliacantoni e lo Smillanta:

Ma se a parole egli è Spaccamontagna,

All'ergo poi riesce Spadasanta:

Perch'ei, fattegli al ciel dar le calcagna

Non una volta dice ma cinquanta:

Sta' su, chè in terra i pari miei non danno

Ed ei risponde: s'io sto su, mio danno!

 

50.

Da Enrico il Mula e l'oste degli Allori

Son mandati per sempre a far un sonno;

Miccio e 'l Baggina da Strazzildo Nori

Sono inviati dove andò il lor nonno;

E nelle parti giù posterïori

Panfilo aggiusta Meo che vende il tonno,

Talchè se allor putiva, or chi s'accosta

Sente che raddoppiata egli ha la posta.

 

51.

In abito Scarnecchia da Coviello

Tinta ha di brace l'una e l'altra guancia,

E per sua spada sfodera un fuscello

C'ha 'l pome d'una bella melarancia;

Rivolto con quest'armi a Sardonello,

Ferma! gli dice: guárdati la pancia!

Ed ei risponde: questo è pensier mio;

E dàgli un colpo e te lo manda a Scio.

 

52.

Gustavo Falbi con un soprammano

Di netto il capo smoccola a Santella,

Scaramuccia si muor sotto Eravano,

Ch'ammazza anche Gaban da Berzighella,

E sventra quel birbon dell'Ortolano

Che fa il minchion per non pagar gabella;

Ma colto poi vi resta ad ogni modo,

Mentre adesso gli va la vita in frodo.

 

53.

Armato a privilegi omai Rosaccio

Marte sguaina e Venere influente;

Ma presto Sardonello sul mostaccio

Gli fece colla spada un ascendente,

Che piove al collo e privalo d'un braccio

Ond'ei in quel punto andando all'occidente,

Vede le stelle e l'una e l'altra sfera,

Nel viso eclissa e dice: buona sera.

 

54.

Mein per fianco sentesi percosso

Dallo stidion del cucinier Melicche

Parasitaccio, porco grande e grosso,

Perchè il ghiotto si fa di buone micche.

Si rivolta Meino, e dà al colosso

Nella gola che ha piena di pasticche;

Talchè morendo dolcemente il guitto:

Addio cucina, dice, ch'io ho fritto.

 

55.

Già per la stanza il sangue era a tal segno

Ch'andar vi si potea co' navicelli;

Istrïon Vespi, tutto furia e sdegno

Rinvolto ha quivi il povero Masselli;

E col coltel da Pedrolin di legno

Su pel capo gli squotola i capelli,

Acciò, trattane poi la lisca e il loto,

Più bella faccian la conocchia a Cloto.

 

56.

Il Gatti e Paol Corbi inveleniti,

Quasi villan che i tronchi ed i rampolli

Taglin di Marzo a' frutti ed alle viti,

Potan da' busti braccia, gambe e colli;

A tal ch'ai paesani sbigottiti

E dal disagio sconquassati e frolli,

Oltre che a pochi il numero è ridotto,

Cominciaron le gambe a tremar sotto.

 

 

 

DUODECIMO CANTARE

 

Argomento.

 

A Montelupo dà Paride il nome

Poi gastigar la Maga e Biancon vede:

Rimessa in trono è Celidora, e come

Marito al general dà la sua fede.

Baldon, che la fortuna ha per le chiome,

Con Calagrillo a Ugnan rivolge il piede.

E al suo bel regno con Amor va Psiche,

A côrre il frutto delle sue fatiche.

 

 

1.

Stanco già di vangar tutta mattina

Il contadino affin la va a risolvere,

In fermar l'opre ed in chiamar la Tina

Col mezzo quarto e il pentol dell'asciolvere;

Quand'in castello ancor non si rifina

Fra quei matti di scuotersi la polvere;

Onde Baldon quei popoli disperde,

Talchè a soldati Malmantile è al verde.

 

2.

E ben gli sta, perchè potevan dianzi,

Quando vedean col peggio andar sicuro,

Cedere il campo e non tirare innanzi,

Senza star a voler cozzar col muro;

E così va, che questi son gli avanzi

Che fa sempre colui c'ha il capo duro,

Che dentro a sè si reputa un oracolo,

Nè crede al Santo se non fa miracolo.

 

3.

Chè sono stati, com'io dissi sopra,

Nella maga affidatisi, aspettando

Da' diavoli in lor pro veder qualch'opra:

Ma chi vive a speranza muor cacando;

Perch'in Dite son tutti sottosopra

Per non saper dove, come, nè quando

Lasciasse il corno Astolfo, ch'alle schiere

Esser tromba dovea nelle carriere.

 

4.

Di modo che Plutone, omai scornato,

Poichè quel corno più non si ritrova,

Pel Proconsolo dice aver pescato,

Però convien pensare a invenzion nuova;

Ma innanzi ch'ei risolva col senato

E che 'l soccorso a Malmantil si muova,

Ch'egli abbia a esser proprio poi s'avvisa

Di Messina il soccorso o quel di Pisa.

 

5.

Qui per alquanto a Paride ritorno

Ch' è, nell'oste alla quarta sboccatura;

E perchè dal paese egli ha in quel giorno

Tolta ogni noia, liberando il Tura,

La gente quivi corre d'ogni intorno

A rallegrarsi della sua bravura;

Ne lo ringrazia, e a regalarlo intenta,

Chi gli dà chi gli dona e chi gli avventa.

 

6.

Ma quegli, ch'obbligarsi non intende,

Non vuol pur quanto un capo di spilletto;

E subito ogni cosa indietro rende

Ringraziando ciascun del buon affetto.

E dice, che da lor nulla pretende,

E se di soddisfarlo hanno concetto,

Per tal memoria gli sarà più grato

Che il luogo Montelupo sia chiamato.

 

7.

Sì, sì, ch'egli è dover; da tutti quanti

Gli fu risposto: ed in un tempo stesso

L'editto pel castello su pe' canti

Per memoria de' popoli fu messo,

Che divulgato poi di lì avanti

Fu osservato sì, che fino adesso

Questo nome conservan quelle mura,

E 'l manterranno, finchè 'l mondo dura.

 

8.

Se Paride riman quivi contento

Di tal prontezza, non si può mai dire;

Ma non volle aspettarne poi l'evento,

Perchè gli venne il grillo di partire:

Ch'egli ebbe sempre quello struggimento

D'andare al campo, ed or ne vuol guarire;

Perciò ne va per ritornare in schiera,

E trova che sparito è ciò che v'era.

 

9.

E che fuor del castello il popol piove

Che ognor ne scappa qualche sfucinata,

Per lo più gente che a pietà commove,

Cotanto è rifinita e maltrattata.

E' s'avvicina. e dice: olà, che nuove?

Ed un risponde e dice: o camerata,

Cattive, dolorose; e se tu vai

Qui punto innanzi, tu le sentirai.

 

10.

Paride passa, e ne riscontra un branco

Nel qual chi è ferito e chi percosso;

Chi dietro strascicar si vede un fianco,

E chi ha un altro guidalesco addosso,

Mostrando anch'egli, senza andare al banco

O al sabato aspettar, ch'egli ha riscosso;

Ciascuno ha il suo fardel di quelle tresche

Che pigliarsi ha potuto più manesche.

 

11.

Chi ha scatole, chi sacchi e chi involture

Di gioie, di miscee, di biancheria:

Un altro ha una zanata di scritture

Ch'egli ha d'un piato nella Mercanzia:

E piange ch'ei le vede mal sicure,

Perocchè 'l vento gliele porta via;

Un altro, dopo aver mille imbarazzi,

Port'addosso una gerla di ragazzi.

 

12.

Un altro imbacuccato stretto stretto

Va solo, e spesso spesso si trattiene,

Perch'egli ha certe doppie in un sacchetto,

E le riscontra s'elle stanno bene.

Le donne agli occhi han tutte il fazzoletto

E sgombrano aspi, rócche e pergamene;

Chi'l suo vestito buono e chi uno straccio,

Chi porta il gatto o la canina in braccio.

 

13.

Entra Paride alfin dentro alla porta

Ove gli par d'entrare in un macello;

Ch'ad ogni passo trova gente morta,

O per lo men che sta per far fardello.

Ma quel che maraviglia più gli apporta,

Si è il veder in piazza un capannello

Di scope e di fascine, e poi fra poco

Strascinarvi una donna e dargli fuoco.

 

14.

Curioso vanne, ed arrivato in piazza

Per chi, domanda, è sì gran fuoco acceso?

E gli è risposto: egli è per Martinazza

Che già v'è drento e scrive: lato preso;

E le sta ben, perch'una simil razza,

C'ha fatto sempre d'ogni lana un peso,

E' si vorrebbe, Dio me lo perdoni,

Gastigare a misura di carboni.

 

15.

In questo ch'ognun parla della strega,

Si sente dire: a voi, largo, signori!

E un omaccion più lungo d'una lega

Dal palazzo si vede condur fuori;

Poi sopra al carro ove Birreno il lega,

E cinto, come già gl'Imperadori,

Di alloro in vece, d'un carton la chioma

Va trionfante al remo, non a Roma.

 

16.

Questo infelice è il povero Biancone

Che tra queì pochi là della sua schiera,

Che restan vivi, è fatto anch'ei prigione

Per esser vogavanti di galera;

Chè tal fu d'Amostante l'intenzione

Ma perch'eglí è un uomo un po' a bandiera,

Sentenziato l'avea, senza pensare

Che Malmantil non ha legni nè mare

 

17.

Perciò, mentre che tutto ignudo nato

Se non ch'egli ha due frasche per brachetta.

Sì bel trofeo si muove, ed è tirato

Da quattro cavallacci da carretta,

La Consulta il decreto ha revocato,

Sicchè di lui nuov'ordine s'aspetta;

Ed è stato spedito un cancelliere

Con più famigli a farlo trattenere.

 

18.

I ragazzi frattanto che son tristi

A veder ciò che fosse essendo corsi,

E poi ch'egli è un prigion si sono avvisti

E ch'egli è ben legato e non può sciorsi.

Unitamente, in un balen provvisti

Di bucce, di meluzze, rape e torsi,

Cominciarono a fare a chi più tira,

Ed anche non tiravan fuor di mira.

 

19.

E perch'ei non ha indosso alcuna vesta

Lo segnan colpo colpo in modo tale,

Che innanzi ch'e' finiscan quella festa

Ne lo svisaron e conciaron male;

E al miteron, che a torre aveva in testa,

Benchè giammai spuntate avesse l'ale,

Con quei suoi merli che non han le penne

Pigliar il volo all'aria alfin convenne.

 

20.

Paolin cieco, il qual non ha suoi pari

Nel fare in piazza giocolare i cani,

E vende l'operette ed i lunari,

E proprio ha genio a star co' ciarlatani,

Pensato ch'ei farebbe gran denari

Se quel bestion venisse alle sue mani,

Perch'avrebbe a mostrarsi quel gigante

Più calca che non ebbe l'elefante;

 

21.

Così presa fra sè risoluzione,

Va in corte a Bieco e lo conduce fuora:

Gli dice il suo pensiero e lo dispone

A chieder il gigante a Celidora;

E Bieco andato a ritrovar Baldone

Tanto l'insipíllò, ch'allora allora

Ei corre alla cugina e gliene chiede,

Ed ella volentier glielo concede.

 

22.

Ed ei lo dona a Bieco e a Paolino

Col carro e tutte l'altre appartenenze;

Ed eglino con tutto quel traíno,

Fatte col duca già le dipartenze,

Si messero di subito in cammino

Indrizzati alla volta di Firenze;

Poi giuntì là di buona compagnia

Fermansi in piazza della Signoria.

 

23.

Subito quiví Paolino scende

Per trovar qualche stanza che sia buona,

Avendolo serrato fra due tende,

Acciò non sia veduto da persona.

Bieco a tenerlo con due altri attende,

E, se lo vede muover, lo bastona;

Ma egli ha fortuna, perch'è così grande

Ch'e' non gli arriva manco alle mutande.

 

24.

Piange Bíancone e chiede altrui mercede

E mentre il fato e la fortuna accusa

Fuor delle tende il guardo gira, e vede

Perseo c'ha in man la testa di Medusa

E immoto resta lì da capo a piede;

Né più sì duol, ma tien la bocca chiusa

Perchè col carro e tutta la sua muta

De' cavallacci, in marmo si tramuta.

 

25.

Quei tre, ch'ognor come cuciti a' fianchi

Gli stavan quivi acciocch'ei non scappassi,

Privi di senso allora, e freddi, e bianchi

Anch'eglino si fanno immobil sassi.

Ma perchè 'l prolungarmi non vì stanchi,

Gli è me' ch'a Malmantile io me ne passi,

Ove gli amici Paride ritrova

E sente ch'ogni cosa si rinnova.

 

26.

Poichè Baldone Malmantile ha preso,

E tutte quelle povere brigate,

Salvo però chi non si fosse arreso,

Ormai se non son ite a gambe alzate;

Sicchè da questo avendo al fin compreso,

Poi Bertinella, ch'ella l'ha infilate,

Per ammazzarsi sfodera un pugnale;

Ma quei, ch'è buono, non le vuol far male.

 

27.

Chè non so come gli esce fra le dita

E salta in strada, chè le gambe ha destre:

Ov'ella a ripigliarlo è poi spedita

Da chi dopo di lei fa le minestre;

E perch'ell'abbia a raccorciar la gita,

Le fa pigliar la via dalle finestre;

Ella va sì, ma poco poi le importa

Trovar chi ammazza se vi giunge morta.

 

28.

Così cercando le grandezze e gli agi

A spese d'altri, or sconta il suo peccato;

Onde tornata Celidora, il Lagi

De' popoli padrona e dello Stato,

Temendo ancor de' tristi e de' malvagi

Nuovi ministri fa, nuovo senato;

Sebben de' primi poco ha da temere,

Chè tutti han ripiegate le bandiere.

 

29.

E per estinguer la memoria affatto

Di Bertinella in ogni gente e loco

Si levan le sue armi, e il suo ritratto

Tagliato in croce si condanna al fuoco.

Un bando va di poi, ch'a verun patto

Nessun ne parli più punto nè poco,

Sotto pena di star in sulla fune

Quattro mesi al palazzo dél Comune.

 

30.

Un oratore intanto de' più bravi

A Celidora Malmantile invia,

Che del castello ad essa dà le chiavi

E rende omaggio colla dicería;

Ed ella in detti maestosi e gravi

Pronta risponde a tant'ambasceria;

Indi le chiavi piglia, e un altro mazzo

Di quelle delle stanze del palazzo.

 

31.

E perch'egli è un pezzo ch'ell'ha voglia

Di riveder come d'arnesi è pieno,

Del manto e d'altri addobbi si dispoglia,

E comincia a girarlo dal terreno.

I guardarobi aspetta ad ogni soglia

Ch'ad aprir gli usci paiono il baleno.

E subito poi lesto uno staffiere,

Quand'ella passa, le alza le portiere.

 

32.

Ed ella se ne va sicura e franca,

Sapendo ogni traforo a menadito;

Perchè troppo non è ch'ella ne manca

E l'abitò fin quando avea marito.

Scese, girò, salì, nè mai fu stanca,

Sinchè non ebbe di veder finito;

All'ultimo si fece in guardaroba

Aprir gli armadi, e cavar fuor la roba.

 

33.

Spiegasi prima sopr'a un tavolotto

Un abito mavì di mezza lana,

Che in su' fianchi appiccato ha per di sotto

Un lindo guardinfante alla romana;

Poi viene un verde e nuovo camiciotto

Con bianche imbastiture alla balzana;

E poi due trincerate camiciuole

Che fanno piazza d'arme alle tignuole.

 

34.

Una zimarra pur di saia nera,

Per dove si fa a' sassi arcisquisita;

Perchè gli aliotti e il bavero a spalliera

Paran la testa e in giù mezza la vita;

Portandola alle nozze o a una fiera,

Tôrre e comprar si può roba infinita,

Ch'ell'ha due manicon sì badïali

Ch'e' tengon per quattordici arsenali.

 

35.

Una cappa tanè, bella e pulita,

Di cotone, sebben resta indeciso

S'ella è di drappo o pur ringiovanita

Perchè non se le vede pelo in viso;

Evvi d'abiti pur copia infinita,

Ma chi tinto, chi rotto e chi riciso,

Chè 'l tempo guasta il tutto, e per natura

Cosa bella quaggiù passa e non dura.

 

36.

Basta, se v'è qualcosa un po' cattiva,

Che Celidora ha quivi abiti e panni,

Che al certo, tuttavolta ch'ella viva,

Può francamente andar in là con gli anni;

Ma perchè al suo cuor magno non s'arriva

Di certe toppe, scampoli e soppanni

Tôrsi d'impaccio volle, e a quella gente,

Ch'ell'ha dintorno, farne un bel presente.

 

37.

Due altri armadi poi fur visitati,

Che l'uno è tutto pien di biancheria

l'altro di paramenti ricamati

D'oro netto con nobil maestria;

E un altro di più tresche e arnesi usati,

E calze, e scarpe, e simil mercanzia

Che a vedersi per ultimo è rimasa;

V'è poi la masserizia della casa.

 

38.

Di qui si parte, ed apre uno stipetto.

D'intagli e d'arabeschi ornato e ricco,

E trova due cassette di belletto,

Cert'altre dì pezzette e d'orichicco

Una di biacca, e in una un bel vasetto

Che dà l'acqua da rogna per lambicco;

'N un'altra, ch'elle furon fino a dieci,

Ellera a mazzi e un bel tascon di ceci.

 

39.

Ad un casson di ferro va da zezzo,

E quivi trova il morto ma da vero;

Chè i diamanti e le gioie di gran prezzo

Non v'hanno che far nulla e sono un zero;

Perchè si tratta ch' e' vi fosse un vezzo

Di perle, che sebben pendeano in nero,

Eran sì grosse, che si parse, voce

Ch'ell'eran poco manco d'una noce.

 

40.

D'anelli e d'orecchini v'è il marame,

Tanti gioielli poi che è un fracasso:

Di medaglie dorate o vuoi di rame

Un moggio ne misurano e di passo;

Ma quella è spazzatura ed un litame,

Rispetto alle monete che più basso

Le più belle comparsero del mondo;

Chè in fatti i pesci grossi stanno al fondo.

 

41.

Tutte in sacchetti co' lor polizzini

Che dicon la moneta che v' è drento;

Le piastre sono in uno, in un fiorini,

In un gli scudi d'oro, in un d'argento,

Lire in un, giuli in questo, in quel carlini;

Poi dopo un ordinato spartimento

Di crazie, soldi e più danar minuti,

Sonvi i quattrini, i piccioli e i battuti.

 

42.

Poi ne venivan gli occhi di civette;

Ma il proseguir più oltre fu interrotto,

Perchè alla donna venner più staffette

A dir che'l duca le volea far motto;

Ond'ella il tutto nel casson rimette:

E riserrato, scende giù di sotto

Ove Baldon l'aspetta in istivali

E per partir di quivi sta in sull'ali.

 

43.

Perch'aggiustate omai tutte le cose,

Che più desiderar non si potea,

Egli, ch'era per far come le spose

La ritornata, idest, alla Ducea,

In punto a questo fine allor si pose;

E in quel, che il camerier della chinea

La puliva per metterle la sella,

Licenziossi così dalla sorella.

 

44.

Omai è tempo, cara Celidora,

Che inverso li miei sudditi m'appressi;

Chè 'l trattenermi di vantaggio fuora,

Pregiudicar potrebbe a' miei interessi.

Però qui resta tu co' tuoi in buon'ora

E fátti amare e rispettar da essi;

Ed in ordine a questo si conviene

Fare anche un'altra cosa per tuo bene.

 

45.

Perchè s'io parto poi, cugina mia,

Non so se tu ci avrai tutti i tuoi gusti;

Chè qui non è nessun che per te sia

Mentre sorgesser poi nuovi disgusti,

Ma voglia il ciel ch'io dica la bugia;

Ad ogni modo io vo' che tu t'aggiusti

Per sicurtà con un compagno il quale

S'accasi teco: e questo è il Generale.

 

46.

I tuoi Stati difender si dà vanto,

Chè tu vedi, egli è bravo quant'un Marte;

E se fin or per noi ha fatto tanto,

Pensa quel ch'ei farà s'egli entra a parte.

Orsù dágli la man, cava su il guanto;

E voi non ve ne state più in disparte:

Casa Latoni, o Amostante nostro,

Fatevi innanzi, dite il fatto vostro.

 

47.

Ovvia passate qua da mia cugina,

Ch'avete voi paura che vi morda?

Guardate se vi piace la pannina;

Dite, non ci tenete in sulla corda,

Bisogna domandarne alla Regina,

Rispose il General, s'ella s'accorda

Chè quanto a me, giá son bell'e accordato,

Anzi terrei d'averne di beato.

 

48.

Sì egli è dover sentir l'altra campana,

Baldon soggiunse voi parlate bene,

Già so, questo va in forma e per la piana,

Ed altrimenti far non si conviene.

Così alla donna dice: ovvia su, trana,

Rispondi presto, cavaci di pene,

Vuo'l tu? parla: or oltre dàlla fuore,

Di' mai più sì, e daccela in favore.

 

49.

Ed ella nel sentir com'ei l'astringe

A dar pronta risposta a tal domanda,

D'un modesto rossor tutta si tinge

Perchè morir volea colla grillanda;

Pur alfin nelle spalle si ristringe,

E dice che farà quanto comanda.

O garbato! rispose allor Baldone,

Oh così presto e male, e conclusione!

 

50.

Dagli dunque la mano in mia presenza.

E voi, o General, datela a lei;

Ch'io voglio prima della mia partenza

Veder solennizzar questi imenei.

Ma per non recar tedio all'udïenza,

Idest a chi ascolta i versi miei,

Col trattar sempre d'una stessa cosa

Lasciamgli, e andiamo incontro a un'altra sposa.

 

51.

Seguito col suo eroe già Psiche avea

La strega che da lui fuggiasi ratta;

Quand'ei l'incorse colla cinquadea

Perch'al duello non volle la gatta,

E per questa rival nuova Medea,

Che rovinata l'ha intrafinefatta,

Adesso è tribolata al maggior grado,

E s'allor pianse, or qui tira per dado.

 

52.

Perchè dopo d'aver cercato tanto

Amor, di chi fu sempre ansiosa e vaga,

Sel trova chiuso in un luogo d'incanto,

Per opra pur di questa crudel maga.

La quale in quei frangenti fatto il pianto

Di patria e beni, di morir presaga,

E che in suo onor doveansi fra poco

Alzar capanne e far cose di fuoco;

 

53.

Più non potendo aver Cupido sposo

Perocch'Amor da' morti sta lontano,

Non vuol, s'ei muor, così n'ha il cuor geloso,

Che pur veduto sia da corpo umano;

Perciò con incantesmi l'ha nascoso

Facendo come il can dell'ortolano,

Ch'all'insalata non vuoi metter bocca

E non può comportar s'altri la tocca.

 

54.

Già, Calagrillo e Psiche ebbero avviso

Di tutto quello ch'è seguíto in corte;

Ma il luogo appunto non si sa preciso,

Però si fanno aprir tutte le porte;

Intanto crosciar sentesi un gran riso,

E quel ch'è peggio poi suonar, ma forte,

Bastonate di peso traboccanti,

Senza conoscer chi recò contanti.

 

55.

Giù per le scale ognun presto addirizza

Chè dal timor glì s'arricciano i peli;

Ma Calagrillo altiero e pien di stizza

Colla sua striscia fa colpi crudeli;

Va per la stanza, e fende, taglia e infizza,

Ma non chiappa, se non de' ragnateli;

Paride giunge col suo libro intanto,

E il diavol caccia e manda via l'incanto.

 

56.

Così dopo gli affanni e le fatiche

Sofferti per tant'anni e lustri interi,

Ritrovatosi Amore, ed egli, e Psiche

Rappatumati fur da' cavalieri;

Onde scordati dell'ingiurie antiche

E riuniti più che volentieri,

Ai regi sposi fero i baciabassi,

Restando a parte di lor feste e spassi.

 

57.

Giunti i cialdoni poi e fatto il ballo,

Il duca diede affin l'ultimo addio;

E subito con ogni suo vassallo

In verso Ugnano si pigliò il pendío.

E Calagrillo in groppa al suo cavallo

Preso con Psiche il faretrato Dio,

Anch'ei partì, e inteso il lor disegno,

Gli ricondusse all'amoroso regno.

 

58.

Finito è il nostro scherzo: or facciam festa

Perchè la storia mia non va più avanti;

Sicchè da fare adesso altro non resta,

Se non ch'io reverisca gli ascoltanti.

Ond'io perciò cavandomi di testa,

Mi v'inchino, e ringrazio tutti quanti.

Stretta la foglia sia, larga la via:

Dite la vostra, ch'i' ho detto la mia.

 

 

INDICE

 

DELLE PERSONE NOMINATE NEL POEMA

 

COLLO SCIOGLIMENTO DEGLI ANAGRAMMI.

 

__

 

 

Alticardo Carlo Dati, I, 47; XI, 54.
Amostante Latoni Antonio Malatesti, I, 61; III, 10; VIII, 26, 64; IX, 6, 31 37, 47; XI 32; XII 16, 45.
Antonio Dei I, 50.
   
Baggina (il) XI, 50.
Baldino Filippucci Filippo Baldinucci IX, 43.
Ballerino (Il) III, 43.
Bambi VIII, 27.
Batistone III, 65; IX, 32; XI, 47.
Belmasotto Ammirati Mattias Bartolommei, I, 49; IX, 46.
Bieco da Crepi Piero de' Becci, I, 37; XI, 90; XII, 21.
   
Calagrillo Carlo Galli IV,30; V, 27; X 21; XI, 8; XII, 51.
Cassandro Cheleri Alessandro Cerchi IX, 42.
Conchino di Melone III, 61; XI, 50.
Cornacchia (il) I, 69; XI, 30.
   
Doge Paol Corbi Iacopo del Borgo I, 48; IX, 33; XI, 56.
Don Andrea Fendesi Ferdinando Mendes IV, 8; V, 57.
Don Meo III, 58; XI, 43.
Don Panfilo Piloti Ippolito Pandolfini I, 51; XI, 50.
Dorian da' Grilli Lionardo Giraldi, I, 44; XI, 44.
   
Egeno de' Brodetti Benedetto Gori, I, 45; IX, 33; XI, 47.
Enrigo Vincifedi Vincenzio Federighi, I, 59; XI, 50.
Eravano Averano (Seminetti), IV, 8; V, 57; XI, 52.
   
Faina (il) V, 38.
Fiesolano Branducci Francesco Baldovini, IX, 41.
Fra Ciro Serbatondi Cristofano Berardi I, 45; XI, 38.
Franconio Ingannavini Giovanni Antonio Francini, III, 28.
Franco Vincerosa Francesco Rovai, IV, 13; V, 57.
Furba (il) III, 57; IX, 32; XI, 44.
   
Gabban da Berzighella XI, 52.
Grazian Molletto Lorenzo Magalotti, IX, 21; XI, 41.
Guglielmo Lanzo XI, 35.
Gustavo Falbi Balì Ugo Stufa, I, 48; XI, 52.
   
Istrion Vespi Pietro Susini, XI, 55.
   
Leon Magin da Ravignano Giovanni Andrea Moniglia, III, 12.
   
Maria Ciliegia III, 43.
Mandragora VI, 38.
Masino III, 43
Maso di Coccio III, 56; IX, 32; XI, 45.
Masselli III, 43; XI, 55.
Melicche III, 59; XI, 54.
Meino Forconi da Scarperia Pier Francesco Mainardi, IX, 41.
Meo III, 45.
Miccio XI, 50.
Morbido Gatti Migiotto Bardi, I, 59; XI, 56.
Mula (il) III, 58; IX, 50.
   
Nannaccio IX, 52.
Nanni Russa del Braccio Alessandro Brunaccini I, 47; XI, 45.
Nepo da Galatrona VI, 29.
Noferi Scaccianoce Francesco Cionacci, III, 12.
   
Ortolano (l') XI, 52.
   
Palamidone III, 67; XI, 46.
Paolino cieco XI, 22; XII, 20.
Papirio Gola Paolo Parigi, I, 51; XII, 49.
Pappolone Paolo Pepi, I, 36.
Paride Garani Andrea Parigi, III, 11; VII, 6; VIII, 5; X, 32; XII, 5, 25, 55.
Pericolo III, 58, XI, 43.
Perlone Zipoli Lorenzo Lippi, I, 46; IV, 15; V, 57; VIII, 27; XI, 24, 39.
Piaccianteo III, 44; V, 60; VIII, 59; XI, 13, 33.
Pippo del Castiglione III, 64; IX, 32; XI, 42.
Pocavanzi VIII, 24.
Puccio Lamoni Paolo Minucci, III, 26; XI, 42.
   
Romolo Carmari Carlo Mormorai, I, 42; XI, 48.
Rosaccio III, 63; XI, 53.
   
Santella III, 43; XI, 52.
Salvino IV, 23.
Salvo Rosata Salvator Rosa, IV, 14; V, 57; XI, 45.
Sardonello Vasari Alessandro Valori I, 45; IX, 25, 27; XI, 51, 53.
Scaramuccia XI, 52.
Scarnecchia III, 62; XI, 51.
Sgaruglia III, 60; XI, 48.
Sperante III, 51; IX, 31; XI, 31, 38.
Strazzildo Nori Rinaldo Strozzi, I, 58; XI, 50.
   
Tosello Gianni Agostino Nelli, III, 25; XI, 40.
Tosino XI, 54.
Tura (il) VIII, 47; X, 32; XII, 5.
Turpino II, 31; III, 11.
   
Vecchina (il) III, 57.