La musica secondo... Antonio Pappano

Da un'intervista del 2003.

«A volte sono ancora confuso sulla mia identità. Trovo in me sempre più tratti italiani, ma Londra è dove sono nato e mi sento anche parte del soul, dell'anima americana». Il direttore d'orchestra Antonio Pappano, 43 anni, cerca di spiegare il proprio variegato retroterra culturale e basta sentirlo parlare per capire che cosa intende. La sua lingua madre è l'inglese britannico, con una leggera inflessione americana, eppure quando gli manca una specifica espressione il maestro si rifugia nell'italiano, un po' colorato dalla cadenza napoletana dei suoi genitori.
Proprio suo padre, che insegnava canto, lo avviò alla musica, e il giovane Tony è subito immerso nel mondo dell'opera, prima come pianista ripetitore, e poi, quasi per caso, come direttore, quando debuttò a Oslo nel 1987 con
Bohème. Negli anni che seguono ha una carriera fulminante, dirigendo nei principali teatri internazionali (compresa La Scala di Milano) e con tutte le maggiori orchestre.
Dopo una collaborazione di sei anni con Daniel Baremboim a Bayreuth, a 32 anni diventa il più giovane direttore musicale de La Monnaie, in Belgio, e nel 2000 vince il premio Gramophone "Artista dell'anno" per le sue incisioni con la Emi. Nel 2002 è nominato direttore musicale alla Royal Opera House di Londra, ed è notizia recente che Myung-Whun Chung gli passerà il testimone nel 2005 sul podio dell'Accademia di Santa Cecilia a Roma. Pappano è sposato con la pianista Pamela Bullock.

Ad aprile è stato nominato direttore musicale dell'orchestra dell'Accademia di Santa Cecilia. Che relazione ha con l'orchestra?

L'ho conosciuta solo l'anno scorso. Il maestro Luciano Berio, all'ultimo minuto, mi chiese di dirigere un concerto alla memoria di Giuseppe Sinopoli, per il primo anniversario della morte. Il programma comprendeva anche musica contemporanea ed era piuttosto difficile. In quell'occasione però si stabilì con l'orchestra un rapporto incredibile. Per coincidenza, io ero arrivato a un punto nella mia carriera in cui cercavo di contenere il numero di orchestre con cui collaboro tuttora, come le eccellenti Cleveland, Chicago, Los Angeles, Berlino, Rotterdam, London Symphony, e di creare un rapporto personale con una specifica formazione. Naturalmente oggi risiedo qui a Londra come direttore musicale della Royal Opera House, Covent Garden, ma per la sinfonica ero alla ricerca di una mia orchestra con cui "approfondire" (Pappano usa la parola italiana, n.d.r.) un rapporto. Allo stesso tempo il maestro Chung decise di non rinnovare il suo contratto. Così gli orchestrali avevano bisogno di me proprio quando ero pronto per loro. Ci siamo intesi con tanta "naturalezza" (in italiano) che è bastato dirigerli una volta sola.

Le orchestre italiane hanno una certa reputazione per quanto riguarda la disciplina. Pensa che potranno esserci dei problemi?

È importante che tutti sappiano chi è il capo, perché in ultima analisi la responsabilità del concerto è mia, ma non credo che avrò bisogno di far schioccare la metaforica frusta. Ci sono modi ben più efficaci per farsi seguire da un gruppo di professionisti seri. Bisogna creare uno spirito di collaborazione e allora la vera autorità diventa la musica. Certo è normale che a volte volino le scintille. Ma questo è naturale in tutti i rapporti, e spero proprio che la collaborazione con Santa Cecilia diventerà un vero matrimonio. Il contratto iniziale è di cinque anni, a partire dal 2005. Prima di allora sono previsti tre programmi con me, poi nel 2005 sarò in residenza otto settimane, e l'anno dopo dodici settimane. Voglio un vero rapporto prolungato con l'orchestra.

Quanto tempo dedica alla Royal Opera House?

Otto mesi l'anno, ma per l'opera è diverso, devo coordinare un'intera stagione.

Come affronterà la gestione dell'orchestra se la maggior parte del suo tempo sarà a Londra?

Non è sempre necessario essere presente di persona. Oggi, con telefono, e-mail e fax, si può essere completamente coinvolti anche a distanza. Ma per un'amministrazione artistica produttiva secondo me i due elementi essenziali sono: primo, essere presente alle audizioni e, secondo, ascoltare i concerti degli altri direttori. Queste saranno le mie assolute priorità. Tutto il resto lo potrò seguire a distanza, o con brevi visite.

Secondo lei, quali sono le caratteristiche dell'orchestra di Santa Cecilia?

Devo ammettere che è presto per giudicarne le qualità e le debolezze, ma quello che è davvero importante è che finalmente nella mia vita potrò lavorare in modo continuativo con musicisti "latini". Ho diretto per molti anni in Germania, ho lavorato tanto a Bayreuth con Baremboim, sono stato direttore musicale a Oslo in Norvegia, ho appena terminalo un incarico di dieci anni come direttore musicale a La Monnaie, a Bruxelles, e ora sono qui a Londra. Ho lavorato sempre al nord. Così il fatto che io, di genitori italiani, possa finalmente dirigere in Italia ha per me un significato simbolico. La combinazione della mia formazione nord-europea con le mie radici italiane e con la ricchezza di tradizione e passione che esistono a Santa Cecilia, presenta un potenziale immenso per una musica che "vive" veramente.

Che repertorio vuole approfondire?

Ovviamente quello italiano, anche se, a essere onesti, non c'è al momento molta grande musica sinfonica. E quindi vorrei anche scoprire nuovi talenti nella composizione e capire cosa possono offrire.

Naturalmente la musica contemporanea italiana è in lutto per la morte di Luciano Berio. Che rapporto avevate?

Verso la fine c'era una strettissima relazione, eravamo sempre al telefono. Non vedevo l'ora di cominciare a discutere con lui il futuro dell'orchestra. Berio parlava sempre di Haydn per il repertorio di Santa Cecilia, e nel futuro vorrei seguire il suo suggerimento. Inoltre sono praticamente sicuro che durante il suo periodo come sovrintendente dell'Accademia, l'orchestra non ha mai suonato la sua musica, e io intendo cambiare questo stato di cose. Le dico una cosa "impressionante" (in italiano, n.d.r.): quando ho firmato il contratto e ho visto il mio nome accanto al suo … che emozione!

E che cosa pensa che accadrà ora che Berio non c'è più?

Non conosco e non mi interessano i conflitti politici all'interno dell'organizzazione romana. So che in Italia, soprattutto nel campo della lirica, i giochi di potere sono ovunque e sono davvero "una catastrofe per la musica" (in italiano, n.d.r.). È uno scandalo e una vergogna che molti posti in Italia siano prebende politiche, specialmente perché i teatri italiani stanno finalmente perdendo la fama di incompetenza di cui tutti ridevano.

Che cosa pensa del nuovo auditorium di Roma?

Lo adoro. È bellissimo, elegante e ne amo il suono, anche se, come con tutte le nuove sale, ci sarà bisogno di lavoro per ottenere risultati ottimali. Credo che abbia un grande potenziale e mi piace l'atmosfera, calda e avvolgente.

Facciamo un passo indietro e parliamo della sua formazione professionale e culturale. Lei è molto orgoglioso delle sue radici…

Sono nato a Londra, ma i miei genitori sono italiani, di un piccolo paese in provincia di Benevento, Castelfranco in Miscano. I nonni, come molti al sud, naturalmente erano contadini, ma mio padre aveva una bella voce e voleva studiare canto. La mia famiglia venne a Londra per guadagnare e pagare gli studi a mio padre, che ebbe come maestro il grande Campogalliani (che fu anche l'insegnante di Luciano Pavarotti e di Mirella Freni, n.d.r.). Mio padre aveva un dono naturale per insegnare canto, e io fin da bambino l'ho aiutato, accompagnando i cantanti al pianoforte, strumento che studiavo con lui. Arrivato al quinto anno, si è accesa in me una lampadina e ho capito che volevo fare il musicista. Non necessariamente il direttore, perché la mia formazione musicale inizialmente puntava verso la carriera di maestro ripetitore. Non sono mai andato al Conservatorio, e in un certo senso fu un peccato, perché non ho avuto il facile accesso alla musica da camera e orchestrale che hanno i ragazzi che studiano al conservatorio. Pensi, c'è ancora della musica sinfonica che affronto per la prima volta quando decido di dirigerla! Però la cosa positiva del mio percorso formativo è che i miei momenti di insicurezza hanno sempre dato luogo a decisioni costruttive: per esempio, mi resi conto presto che in questa carriera era necessario imparare il tedesco e assorbirne la cultura. E così feci. Una volta in Germania, conobbi Daniel Barenboim e con lui lavorai a Bayreuth. E pensare che tutto ciò avvenne solo perché mi sentivo insicuro del mio nome italiano e temevo che nessuno mi avrebbe preso sul serio nel repertorio germanico.

Quando cominciò la sua collaborazione con Barenboim?

Verso il 1986. Fu il mio mentore e la mia guida. Collaborammo per sei anni, e io imparai velocemente. Daniel ti butta nel fuoco, ti sfida a dare il meglio e stimola la tua curiosità. Credo di essergli piaciuto anche come persona e che lui abbia capito che avevo sensibilità e passione per la musica. Daniel può essere anche estremamente analitico e intellettuale, e con lui ho trovalo un equilibrio artistico.

Quali sono state le altre influenze per lei?

Da italiano non si può sfuggire l'ombra imponente di Toscanini. Tutti i direttori italiani hanno sempre avuto nel cuore un angolo per Toscanini. Poi Karajan, Furtwängler e Carlos Kleiber. E aggiungerei Barbirolli, inglese, ma di famiglia italiana, proprio come me, che riusciva ad ottenere una grande passione dall'orchestra.

Di recente la si è visto dirigere senza bacchetta. Perché?

Durante un concerto con la London Symphony Orchestra ho voluto fare l'esperimento di non usarla. A una prova me l'ero dimenticata e allora ho notato che le mani sono molto espressive; e che quando la destra afferra una bacchetta la mobilità è limitata. Così ho cercato di lasciar parlare entrambe le mani. Devo ammettere che ero spaventato, perché la bacchetta è pur sempre qualcosa a cui attaccarsi, e credo che finirò per trovare una combinazione fra le due opzioni. Certo, senza bacchetta, il suono è molto più bello.

Lei ha già raggiunto tappe prestigiose nella sua carriera. Prossimi obiettivi?

Voglio arrivare al punto in cui sono completamente libero di essere me stesso. Non voglio preoccuparmi di avere un suono "tedesco" o "pucciniano". Vorrei riuscire a far cantare il mio cuore e a creare un suono caldo e pieno di umanità. Spero che quello diventi il "mio" suono.

Che cos'altro vuole esplorare e che cosa le interessa meno?

Certe volte mi sorprendo: per esempio, ero convinto che Prokofiev non fosse per me, ma ora che ho finito l'incisione della Sinfonia Concertante con Han-Na Chang, ho scoperto che ho qualcosa da dire con la sua musica. Mi piacerebbe fare più Sostakovic, perché mi affascina la sua tavolozza di espressioni. E poi ci sono vari pezzi del repertorio tradizionale sinfonico che non ho ancora affrontalo, come certo Schumann e Brahms. Ho 45 opere nel mio repertorio e lavorando al Covent Garden potrò realizzare molti altri miei sogni. Dirigerò il mio primo Anello dei Nibelunghi, ho appena fatto Madama Butterfly in italiano per la prima volta (avevo solo diretto una traduzione in inglese), poi ci sarà il Trittico, Un ballo in maschera … Per l'opera sono soddisfatto, ma la sinfonica ha ancora tante possibilità.

Dopo un anno come direttore musicale alla Royal Opera House si comincia a vedere la sua impronta. Che cosa dobbiamo aspettarci ancora dal Covent Garden?

Nella prossima stagione dirigerò cinque allestimenti, fra cui Aida, con il debutto londinese della soprano italiana Norma Fantini. Più provocatoria sarà la produzione di un musical americano, qui, nel tempio della lirica: Sweeney Todd di Stephen Sondheim (che scrisse West Side Story con Leonard Bernstein, n.d.r.) è una storia sensazionale di omicidi e cannibalismo nella Londra vittoriana. Secondo me è perfetta per il mondo dell'opera, però con cantanti lirici che sappiano anche recitare. Forse i puristi non ne saranno deliziati, ma a me interessa esplorare le frontiere del teatro musicale. E poi ci saranno anche illustri ospiti stranieri: per esempio Riccardo Muti dirigerà La forza del destino, nell'allestimento scaligero, in una delle prossime stagioni.

Vista la sua formazione statunitense, che interesse ha in quella che lei chiama "musica classica d'America", musical e jazz?

Il jazz mi piace molto, ma mi trovo meglio a suonare ballate romantiche con grandi arpeggi, piuttosto che tentare di replicare lo swing dei grandi jazzisti, anche se lo "sento" fortissimo dentro di me. Ma soprattutto amo le showtunes, quelle canzoni dalla grande vena melodica del teatro musicale americano. Ci sono musicisti classici che hanno il dono di eccellere anche in quel campo: il grande baritono gallese Bryn Terfel è fantastico, così come lo è la mezzo-soprano americana Julia Migenes-Johnson.

Come intende affrontare la musica contemporanea al Covent Garden?

L'anno prossimo allestiremo una nuova opera, The Tempest, di Thomas Adès, poi in futuro ci saranno nuove opere di Harrison Birtwistle sul mito del Minotauro, e anche del direttore Lorin Maazel con un'opera ispirata a 1984 di George Orwell. Maazel ha cose parecchio interessanti da dire come compositore.

Che progetti ha in sala d'incisione?

Ho un contratto con la Emi, con cui lavoro bene e con cui ho inciso molte opere (tra cui Don Carlo, Manon, Tosca, Werther, e La Rondine, che vinse il disco dell’anno Gramophone, n.d.r.). Ho appena finito una registrazione con Maxim Vengerov, con musica di Lalo e Ravel, che uscirà a settembre e, da pianista, accompagnerò il tenore inglese Ian Bostridge in un'incisione di lieder di Wolf.

Come si rilassa nel tempo libero?

Mi piace cucinare e mangiare bene.

Cucina italiana?

Ah, certamente. Per me il massimo è un piatto di spaghetti "c'a pummarola 'n goppa". Ma cotti al dente, come si deve.

Cecilia Rivers


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