La musica secondo... Ennio Morricone

La musica è intangibile, è come un sogno: esiste solo se viene eseguita, prende corpo nella mente di chi ascolta.


Una vita da maestro (di Gianni Minà) - Per qualche western in meno (di Dimitri Gagliano) - Il Western Italiano (di Pietro Bianchi) - Musica Applicata e Assoluta (di Stefano Catucci)


Una vita da maestro
Da un'intervista di Gianni Minà del 2004.

Ennio Morricone, il più prestigioso compositore al mondo di colonne sonore di film, è un uomo timido che nasconde, dietro i suoi grandi occhiali, la ritrosia per tutto quello che significa esibirsi, mettersi in mostra, comparire. Come Charlie Chaplin, il genio, l'essenza stessa del cinema, non ha mai vinto l'Oscar, a dimostrazione della fatuità dei premi.

Ma nella vita ha già visto riconosciuto il suo talento con un Grammy Award, un Golden Globe, 6 David di Donatello, 8 Nastri d'Argento, oltre ad avere avuto 5 nomination all'Oscar e ad essere stato consegnato alla storia della musica del nostro tempo con 26 dischi d'oro e 5 dischi di platino.

Questo italiano, che, a sorpresa contende, ai calciatori e ai creatori di moda, icone della nostra società, la fama internazionale, è nato a Trastevere, vicino Viale Glorioso, "dove - come ha raccontato Sergio Leone - la scalinata era il nostro taboga da scendere con delle assi di legno che erano i nostri rudimentali bob, sui quali pisciavamo prima della gara, sicuri che quell'accorgimento avrebbe favorito la loro scorrevolezza".

L'estate scorsa per il Premio Sergio Leone, a Torella dei Lombardi, in provincia di Avellino, paese natale della famiglia del regista di Per un pugno di dollari, ho convinto Morricone, in nome di un'antica amicizia, a vincere la sua timidezza e a raccontare, nella piazza del paese, brandelli di una vita cominciata proprio con Leone sulla scalinata di Viale Glorioso. "Con Sergio eravamo compagni in terza elementare - esordisce spingendosi gli occhiali sul naso come fanno tutti coloro che forzano il proprio carattere - frequentavamo la scuola dei Fratelli Cristiani".

"Si - lo interrompo - Sergio ripeteva sempre che da quella classe venivate tu, lui e Checco il carrettiere". Morricone sorride: "Già, Checco, uno dei più rinomati ristoranti di Trastevere, a Ponte Sisto. A Sergio piaceva citarlo, e anche mangiarci".

Gli ricordo che una volta fu proprio lui a indirizzarmi da Checco per una cena insieme a Muhammad Alì - Cassius Clay (che teneva banco con i racconti dei suoi match), Robert De Niro e Gabriel Garcia Marquez, che pendevano dalle labbra del campione. "Checco - sottolinea Ennio - era nostro amico a Viale Glorioso e Leone apprezzava il fatto che da lì non si fosse mosso".

Molti degli altri compagni, invece, se ne sono andati per cercare la loro vocazione. La musica, per esempio, entrò nell'adolescenza di Ennio perché il padre suonava la tromba. "Un professionista di buon livello, versato nel jazz come nella musica sinfonica. Era stato chiamato perfino dal Teatro dell'Opera, ma aveva rifiutato perché, seppure lo stipendio era discreto, non era sufficiente per mantenerci bene la famiglia. Per fortuna molti maestri, per sincronizzare le colonne sonore di numerosi film lo chiamavano perché amavano il colore del suono del suo strumento".

"Hai scelto la tromba per questo?" "Io non ho scelto niente. E' mio padre che me l'ha imposto".

Rammento a Ennio che lui è stato anche allievo di Goffredo Petrassi, uno dei grandi compositori del '900 italiano. Ma l'autore della colonna sonora di C'era una volta il West, come fanno quelli col suo carattere, fa di tutto per sbiadire il mio tentativo di esaltazione dei suoi studi. "Prima di Petrassi c'è stato altro. Per prendere il diploma di tromba era fondamentale far prima il corso di armonia. Io lo feci con Roberto Caggiano, stimato direttore d'orchestra che mi insegnò i primi rudimenti dell'armonia complementare. Caggiano aveva due soli allievi, l'altro era Marafelli, che studiava clarinetto. Io lo sorpresi per la rapidità con cui apprendevo, tanto che lui, dopo un po’, faceva vedere i miei compiti nelle altre classi come esempio. Avevo 16 o 17 anni e alla fine del corso presi un dieci con lode. Fu allora che Roberto Caggiano mi disse che dovevo studiare composizione. Fu lui, prima di mio padre".

Quella precisazione mi fa venire in mente che Morricone ha studiato, in seguito, strumentazione per banda e l'orgoglio di quella specializzazione fu la causa del primo "scontro" con Sergio Leone, testa molto dura, quando cominciarono a lavorare sul leggendario motivo di Per un pugno di dollari.

Ennio questa volta non si tira indietro: "Non litigammo per l'orchestrazione. Lui voleva mettere nel film il Deguello, il motivo che Dimitri Tiomkin, uno che allora andava molto di moda, aveva composto per Un dollaro d'onore, un western con John Wayne e Dean Martin, che aveva colpito la sensibilità degli spettatori. Sergio voleva il Deguello o qualcosa di simile. A me fin da allora non piaceva imitare e così gli dissi di trovarsi un altro compositore. Il mio amico, però, non era uno che mollava facilmente la presa e, diplomaticamente, mi propose: 'non te dico de imità, te dico de fa' una cosa simile'. Io sentivo già la dignità che ogni compositore deve avere e non m'andava nemmeno 'de fa' una cosa simile' in maniera passiva. Ma non volevo nemmeno deluderlo e a quel punto mi ricordai di un tema che avevo scritto per la televisione ed era stato cantato da una delle Peter Sisters, le tre sorelle nere che Garinei e Giovannini avevano lanciato in un musical con Renato Rascel. Era una ninna nanna che una di loro cantava a poppa di una nave… ".

"Come faceva il motivo?" domando. Il maestro mi fulmina con uno sguardo: "Vorresti che adesso mi esibissi qui, davanti a centinaia di persone?"

"Sì" ammetto senza pudore.

Ma lui taglia corto: "È meglio che vado al pianoforte. Non suono benissimo, ma vado e torno".

E così, con l'aiuto del pianoforte, Ennio dà corpo alla scena indimenticabile in cui Clint Eastwood e Gian Maria Volontè sono di fronte per la resa dei conti. "Sergio Leone accettò il motivo, gli piacque, disse 'bene, anzi, bbene!' e divenne uno dei temi portanti del film insieme all'altro", quello del fischio che fu eseguito da Alessandroni, il leader del famoso coro dell'orchestra della Rai.

"Ma visto che hai accennato al mio diploma in strumentazione per banda - aggiunge ancora Morricone - devo ricordare che subito dopo litigammo di nuovo per la scelta dell'esecutore. Io proposi Michele Lacerenza, che a Roma, nell'ambiente del cinema, andava per la maggiore, un bravissimo pugliese che era stato mio collega al conservatorio, ma Sergio voleva Nino Rosso, che era in quel momento molto più famoso, perché aveva indovinato dei dischi con canzoni dove la tromba si alternava alla sua voce roca e suggestiva. Io mi incaponii e così in sala feci suonare Lacerenza che fece il suo lavoro sapendo che il regista non lo voleva. Suonò piangendo, te lo giuro, suonò piangendo. E data la condizione, ci mise l'anima, insistendo, su nostra richiesta in tutti i "melismi", le "volatine", insomma, 'ste cose che io chiamo melismi, ricciolini, e che anche Dimitri Tiomkin aveva voluto dal solista di tromba per accompagnare la scena che precede il finale di Un dollaro d'onore….". A questo punto, a sorpresa, vincendo ogni timidezza, Ennio si mette a imitare con la bocca il suono della tromba. Scatta un'ovazione, come tutte le volte che viene resuscitato quel motivo che, insieme alla storia e alle immagini di Sergio Leone, rappresentarono la nascita del western all'italiana.

Non mi pare vero, a questo punto, per sottolineare l'invenzione e la modernità di Morricone, ricordare quale era stato il primo impiego nel momento in cui era entrato nel mondo del lavoro. Aveva fatto l'arrangiatore per le orchestre Rai, allora popolari alla radio, quella di Carlo Savina, di Angelo Brigada, di Guido Cergoli, di Cramer, di Luttazzi, di Angelini. Sì, anche di Cinico Angelini, che aveva accompagnato Nilla Pizzi al trionfo con Grazie dei fior nel primo Festival di Sanremo della storia.

Morricone, già attratto dal mondo discografico che stava per esplodere insieme alla diffusione del mangianastri, cercava di modernizzare uno stile ormai al tramonto. Ma prima della nascita della nuova musica leggera italiana, Ennio aveva rischiato di diventare un impiegato Rai, non un maestro, proprio un impiegato, come quelli che compilano l'elenco delle musiche usate in un documentario o in un programma, insomma, che compila i bollettini. "Ero già diplomato in composizione - ammette - in strumentazione per banda, in musica corale, in tromba, ma ero sposato da poco e usufruivo di pochissime disponibilità di denaro. Così accettai di presentare domanda alla Rai come assistente musicale. Il primo giorno mi chiamò il direttore del centro di Via Teulada, il maestro Pizzini, che già mi conosceva per il lavoro con le orchestre della radio, elogiandomi per il colore che io regalavo agli arrangiamenti, ma ricordandomi, subito dopo, che io, ora, ero un impiegato di seconda categoria e che le mie composizioni, da camera o sinfoniche, non sarebbero mai state trasmesse dall'azienda perché, c'era un regolamento che lo vietava ai dipendenti. Una disposizione di Filiberto Guala, il probo direttore generale dell'epoca che sarebbe, in seguito, andato a espiare, come religioso, in Africa.

Rimasi senza fiato, ma dissi subito al maestro Pizzini che avevo studiato troppi anni per finire così. Lui fu generoso, quasi comprensivo, cercando di farmi capire che così stavo rinunciando a un tozzo di pane sicuro per tutta la vita. Questione di opinione. Quando tornai alla scrivania che mi avevano assegnato mi dettero l'incarico di cercare nell'archivio Rai il nome degli editori musicali di tutte le canzoni che il sabato Mario Riva presentava nella mitica gara del Musichiere. Io guardai i moduli davanti a me, presi il telefono, lo tirai contro il muro e me ne andai. Malgrado questo mi pagarono per quindici giorni. Il direttore amministrativo, infatti, dopo due settimane, mi chiamò e mi convinse ad accettare il pagamento: 'prenda questi soldi, per favore - mi pregò - se no qui dentro mi scoppia una grana.' Il mio lavoro con la Rai finì prima di cominciare".

Ma prima di quella cinematografica, la stagione che aveva rivelato agli addetti ai lavori il talento di Morricone era stata, agli inizi degli anni '60, quella dell'impegno come arrangiatore alla Rca italiana, la casa discografica alla quale più è legato il boom della nostra musica popolare.

Erano in due, lui e Luis Bacalov Enriquez (che, anni dopo, avrebbe vinto l'Oscar per la colonna sonora del film Il postino di Massimo Troisi) e rivestivano di trovate le composizioni spesso elementari di quelli che sarebbero stati i nostri cantautori e interpreti più amati degli ultimi quarant'anni. Morandi, Gino Paoli, Luigi Tenco, Gianni Meccia, Edoardo Vianello, Miranda Martino, devono parte del loro successo anche alla capacità di un maestro come Ennio che, non solo arrangiava, ma inventava i reef e regalava una veste particolarmente ricca a In ginocchio da te, piuttosto che a Sapore di sale, o Abbronzatissima, anzi, A-a-bbronzatissima.

"Cercavo sempre di arricchire una canzone, sia che fosse bella o sia che fosse modesta (perché diverse funzionavano, ma erano mediocri). Volevo dare al brano una struttura musicale autonoma, che potesse avere un fascino anche da sola, e nonostante una melodia spesso povera. Cercavo insomma di non rifugiarmi in un lavoro standard, passivo. Per esempio, all'inizio, una delle trovate che funzionò nell'arrangiamento di una canzone napoletana, Voce 'e notte per Miranda Martino, fu l'idea di accompagnarla come fosse il Chiaro di luna di Beethoven".

Morricone, che a questo punto ha superato la timidezza, ritorna al pianoforte per spiegarsi meglio e confessa la sua battaglia per riscattare la professione dell'arrangiatore che allora, nella musica dotta, non aveva considerazione. "Di citazioni per aiutare le canzonette ne ho fatte tante, magari più nascoste, più mascherate. In un certo periodo avevo in mente una folgorazione giovanile, il ricercare cromatico di Gerolamo Frescobaldi. Erano tre note che io, ogni tanto, piazzavo furtivamente nelle composizioni e che, apparentemente, non c'entravano niente.

Per esempio, arrivai a collocare una serie dodecafonica in una canzone di Chico Buarque de Hollanda, il grande cantautore brasiliano che allora si era esiliato in Italia a causa della dittatura nel suo paese.

Certe volte questi contributi, questi inserimenti, regalavano un fascino particolare al brano, altre volte no. Ma io ci provavo". Certo quello sforzo ha dato, nel nostro paese, nobiltà al mestiere dell'arrangiatore. Un mestiere che Ennio lasciò proprio perché, a un certo momento, ci fu l'invasione dei modelli nordamericani nella nostra musica e tutto divenne routine: "Volevano che imitassimo gli standard nordamericani che erano perfetti, ma potevano anche imbastardire una nostra canzone, non farla sviluppare, liberare. E allora tagliai la corda".

Quell'esperienza, però, fu fondamentale nel cammino che, subito dopo, Morricone intraprese nella composizione delle colonne sonore dei film:

"Non a caso - riflette adesso - tutti i buoni autori di musica per il cinema, hanno fatto per anni gli arrangiatori. Da Bacalov a Piovani. Perché, quando accompagni le immagini, se lo fai con un quartetto d'archi va bene, ma se devi inventarti un brano strumentale, come se fosse una canzone senza esserlo, cioè un tema tonale (orecchiabile) che abbia una possibile dignità sinfonica, devi avere una esperienza completa, devi aver battuto tutti i bassifondi e i retrobottega dove si incide musica".

La serata corre ormai dimenticando il tempo. Le rivelazioni si susseguono: dall'intuizione di inserire il fischio nel motivo conduttore di Per un pugno di dollari, il primo western di Sergio Leone. All'immissione degli effetti acustici, di nuove suggestioni sonore in C'era una volta il West dove i primi venti minuti sono commentati soltanto da rumori: "Sergio aveva intuito che quando uno ha finito di girare un film, l'immagine è pronta, ma sei solo alla metà del cammino. Perché, l'occhio è più abituato a vedere che l'orecchio ad ascoltare. Così aveva capito che doveva lavorare sul suono, sulla tensione che il suono crea e mi ha coinvolto fin dall'inizio, addirittura chiedendomi di scrivere la musica prima di inventarsi le immagini e gli effetti acustici. Insomma, spesso le sue immagini dovevano adattarsi ai suoni che avevo composto e ai rumori della particolare 'prateria' inventata da lui".

Una esperienza che Leone avrebbe ripetuto in C'era una volta in America e che lo stesso Robert De Niro avrebbe raccontato nel documentario dedicato a Sergio: "C'era una scena di grande tensione dove il personaggio da me interpretato ritrovava l'amico e rivale James Wood che lo stava soppiantando nella guida della gang. C'erano le donne attorno, gli amici. Tutti si aspettavano un'esplosione d'ira e di violenza. Io cominciai a girare un cucchiaino nella tazzina del caffè ma mentre ripetevo quel gesto vidi Leone, dietro la cinepresa, che mi faceva segno di non fermarmi. Aveva percepito prima degli altri che quello stridere del cucchiaino nella tazzina creava un'atmosfera tesa, carica di rabbia, che non si sarebbe potuta rendere in nessun altro modo. È diventata una delle scene cult di un film che pure ha una delle più belle colonne sonore del secolo".

Rigiro fra le mani gli appunti che mi sono preparato. Ci vorrebbe una intera notte per sciogliere le curiosità che le collaborazioni artistiche di Morricone suggeriscono. Sono più di 400 i film a cui ha regalato musica che ha fatto storia non meno della maestria dei registi. Da tutti i film di Leone, da I pugni in tasca di Marco Bellocchio a Novecento di Bernardo Bertolucci, da Mission di Roland Joffè, a La battaglia di Algeri e Queimada di Gillo Pontecorvo, a Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, a Cinema Paradiso e La leggenda del pianista sull'Oceano di Giuseppe Tornatore, a Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo, dove c'è una stupenda ballata che Ennio scrisse per Joan Baez. Ma è arrivata l'ora della musica, e il figlio Andrea è pronto sul podio per dirigere l'orchestra Roma Sinfonietta. Le parole devono lasciare spazio alle note.

Gianni Minà
Giornalista, scrittore e regista


Per qualche western in meno
di Dimitri Gagliano (2004)

Non ama essere ricordato soltanto per le strepitose musiche dei film di Sergio Leone e di Clint Eastwood. Ha scritto anche tanta musica colta, seria, come dice lui, "assoluta". E l'ha riproposta a Monaco, in occasione dei suoi 75 anni, alla Scuola Superiore che l'ha nominato Senatore onorario. Il ricordo degli studi ai tempi delle avanguardie musicali. Un consiglio ai giovani che intendono scrivere per il cinema: «Studiare composizione in maniera seria, non affidarsi alle sole intuizioni senza possedere la tecnica per realizzarle»

Morricone senatore dell'Accademia di Musica di Monaco di Baviera

Standing ovation sul flauto di Pan

La cerimonia per la consegna a Ennio Morricone del titolo di Senatore onorario si è svolta nella grande sala della Scuola Superiore per la musica ed il teatro di Monaco (Staatliche Hochschule für Musik und Theatre). Nella serata è stata presentata un'ampia selezione della produzione classica di Morricone, pezzi per pianoforte (eseguiti dalla pianista Gilda Butta che da anni collabora con il maestro), per quartetto d'archi, per duo violoncello e arpa. Il pubblico ha potuto scoprire e apprezzare l'altro Morricone, il compositore, come lui stesso dice, di "musica assoluta".

Al termine della serata, nella quale, per volontà di Morricone, non si sarebbero dovute suonare musiche da film, gli organizzatori sono riusciti infine a imporsi: le note lunghe e suggestive del flauto di Pan di C'era una volta in America e di The mission hanno sprigionato ancora una volta, pur nella riduzione cameristica, tutto il loro irresistibile fascino.

Inutile a dirsi, standing ovation interminabile e un Ennio Morricone che, visibilmente toccato, ha salutato Monaco: «Una tale manifestazione di affetto e di apprezzamento per il mio lavoro mi commuove. Dire grazie mi sembra poco. Purtroppo non sono un poeta delle parole, forse sono un poeta dei suoni. E allora, per fare sì che il mio ringraziamento sia adeguato al calore di questa Musikhochschule, dovrei dedicarle un pezzo. E forse lo farò».

Ha collezionato cinque nomination all'Oscar, eppure non lo ha mai vinto. Ma l'Oscar più importante, quello del pubblico di tutto il mondo, lo ha ricevuto non una, ma tante volte, la prima nel lontano 1968 quando, con la musica per il film C'era una volta il West, balzò improvvisamente alla notorietà internazionale. I temi di Morricone, così plastici e incisivi, possiedono una tale forza evocativa che anche senza immagini nulla perdono del loro fascino e, una volta ascoltati, non si dimenticano più.

Nato a Roma nel 1928, Morricone, dopo essersi diplomato a Santa Cecilia in tromba a 18 anni, e a 26 in composizione - sotto la guida di Goffredo Petrassi - completa la sua formazione musicale seguendo a Darmstadt i corsi di Luigi Nono e di John Cage. Ancor prima di dedicarsi alle colonne sonore per il cinema, Morricone aveva iniziato la carriera musicale come arrangiatore di musica leggera per la radio e per la casa discografica Rca, arrivando a firmare più di 500 titoli per artisti quali Mario Lanza, Charles Aznavour, Milva, Dalida, Paul Anka e molti altri.

Ma il suo nome è ovviamente legato soprattutto ai tanti film per i quali ha scritto melodie indimenticabili. Tra le 400 colonne sonore da lui composte, ricordiamo quelle per The Mission di Roland Joffé, The Untouchables di Brian de Palma, Frantic di Roman Polanski, Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore e, naturalmente, quelle per i film di Sergio Leone, con il quale Morricone ha formato uno dei sodalizi artistici più significativi di tutta la storia del cinema. «Morricone è il miglior sceneggiatore dei miei film», diceva Leone, sottolineando quanto gli affreschi e i primi piani del suo cinema dovessero alla musica di Morricone.

Per i 75 anni di Ennio Morricone, la Scuola Superiore per la musica ed il teatro di Monaco - l'unica Musikhochschule in Germania ad avere istituito la disciplina di composizione per il cinema con tanto di diploma - ha voluto rendere omaggio al maestro italiano conferendogli il titolo di Senatore onorario, riconoscimento assegnato in passato solamente a Leonard Bernstein. Giunto a Monaco direttamente dal trionfo di Londra, dov'è stato festeggiato da 6.500 spettatori nella Royal Albert Hall, Morricone ci ha parlato della sua carriera e della sua musica, cercando innanzitutto di "correggere" l'immagine che il pubblico ha della sua attività di compositore. «Io sono molto conosciuto per i film western, e questo un po' mi sorprende, perché in realtà i western, nella mia produzione, rappresentano solo una piccola parte. Credo che ci sia una carenza d'informazione sul mio lavoro. Inoltre non ho scritto solo musica per film, ma anche musica "assoluta", per non dire colta, seria, o altre denominazioni che non mi piacciono.

Si, però è innegabile che il suo nome sia diventato internazionale con i western di Sergio Leone...

Certo, e ne sono talmente contento che, anche per una forma di rispetto verso Leone, ho rifiutato molti altri western, anche americani, che mi hanno offerto.

Che cosa ha rappresentato un regista come Leone nella sua attività di compositore?

È stato per me una figura importante. Lui ha realizzato quello che altri registi non sono riusciti completamente a fare. Leone per pura intuizione, e non per scienza, è riuscito a rispettare la temporalità della musica. Cinema e musica hanno questo elemento fondamentale in comune, la temporalità, il tempo. Se un regista forza la temporalità della musica, il matrimonio cinema-musica non avviene. Leone ha adattato alla perfezione la temporalità musicale alla temporalità delle immagini, lasciando che la musica sviluppasse i suoi tempi, che erano poi anche i tempi dei suoi film.

Nelle colonne sonore dei film di Leone c'è spazio, oltre a strumenti popolari quali l'armonica o il flauto di Pan, anche per i rumori...

Non c'è dubbio, ha dato importanza anche ai suoni extra-musicali. Vorrei ricordare una sequenza nella quale Leone ha osato il massimo come regista, e cioè i primi venti minuti del film C'era una volta il West. Una sequenza priva di dialogo, di musica, in cui ci sono soltanto suoni e rumori di varia natura. In questi venti minuti, così coraggiosi, avviene qualcosa di molto importante: a poco a poco, questi rumori assumono una connotazione che astrae dalla loro funzione realistica, assumono un significato più alto, più importante, che ognuno può certamente interpretare a proprio piacimento. È un significato che da al film un attacco di straordinaria forza drammatica e costituisce un atto di grande coraggio cinematografico.

Lei ha preso parte alle ricerche dell'avanguardia. In che misura sono entrate nella musica da film?

Dopo aver frequentato e compreso il radicalismo di quel linguaggio, una volta entrato nel cinema mi sentivo disposto ad assumere dei rischi personali. Perché era un rischio inserire cose un po' ricercate, tipiche di certa avanguardia, in una musica tradizionale, tonale, diciamo pure orecchiabile. In qualche caso è venuto fuori il recupero di suoni extramusicali, come il verso d'un animale. Il tema di Il Buono, il brutto e il cattivo, ad esempio, è nato da un'imitazione del verso del coyote. Ma questo verso, nel film, è all'interno di un linguaggio musicale che non fa nessun riferimento esplicito al coyote. Un verso che diventa musica tonale era una cosa un po' pericolosa allora, che non tutti forse hanno capito.

Ci sono state critiche in proposito?

Certamente, un critico cinematografico francese, di cui non ricordo il nome, scrisse che io non controllavo bene la partitura. Non sapeva che io controllavo benissimo la partitura, e non capiva che i personaggi di Leone erano talmente forzati che dovevo necessariamente forzare la partitura. Quando Clint Eastwood tocca il sigaro, e impiega 25 secondi per tirarlo giù dalla bocca e dire un monosillabo, quella è una caricatura bella e buona. Agli atti di coraggio di Sergio Leone ho risposto con i miei atti di coraggio.

Ha fatto molti arrangiamenti per la musica leggera. L'esperienza s'è rivelata utile per la sua attività nel cinema?

Durante gli studi di composizione ho suonato la tromba nelle orchestre da ballo, in quelle del teatro musicale, e in quelle che registravano la musica per il cinema. Poi mi ha chiamato la Rai per fare arrangiamenti di canzoni. Sentivo che questa professione non era quella che volevo, avevo l'orgoglio del compositore vero, e già negli arrangiamenti di quelle canzoni ero portato a rischiare, citando cose che mi stavano a cuore. Tutto questo mi è tornato utile nel cinema.

Adesso che opinione ha delle avanguardie?

Credo che tutti i movimenti d'avanguardia, a un certo punto, dovrebbero fermarsi e riflettere su come trovare il modo di comunicare al pubblico le intenzioni del compositore.

E oggi della musica da film che cosa pensa?

Vedo un grosso pericolo, determinato dagli strumenti elettronici, i sintetizzatori, che danno la possibilità di mettere le manine su una triade e di illudersi d'essere grandi compositori senza aver fatto studi seri.

Quale suggerimento darebbe a un giovane che intenda comporre per il cinema?

Studiare composizione in maniera seria, non affidarsi alle sole intuizioni senza possedere la tecnica per realizzarle. Perché se non si ha la tecnica, non si riuscirà mai a tradurre un'idea sul pentagramma, si scriverà sempre qualcosa di già udito. Consiglio lo studio della musica e della storia della composizione musicale, dai primi secoli della polifonia sino a oggi, e poi di liberarsi, in senso positivo, del bagaglio acquisito: tutto ciò servirà a diventare se stessi.


Il Western Italiano
di Pietro Bianchi (Critico cinematografico de "Il Giorno" di Milano)
dal commento a due dischi della RCA con musiche di Ennio Morricone (pubblicati negli anni '70)

Il fenomeno dei western italiani scoppiò improvvisamente per merito di Sergio Leone che presentò con un «nom de plume» il film «Per un pugno di dollari» che ebbe subito un grosso successo. Non è difficile indagare su un fenomeno spettacolare che ha importanti precedenti nella letteratura. Il canto popolaresco conosciuto come «La chanson de Roland», ripetuto con variazioni nelle fiere e nei mercati, nelle osterie e nei cortili della Francia della cavalleria e nell'Italia settentrionale, suscitò per imitazione l'«Orlando Innamorato» di Matteo Maria Boiardo e l'«Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto. Il cinema, in meno di cent'anni di vita, ha forse trovato nel mito della «frontiera» la sua leggenda più rigogliosa. Da William Hart a Tom Mix, da John Ford a John Wayne, il filone del western ha vigoreggiato con momenti di stanchezza ma senza mai esaurirsi completamente. «Enfant de la balle» perché figlio del regista del muto Roberto Roberti, che diresse alcuni film di Francesca Bertini, Sergio Leone intuì che il genere western non ammetteva, a rigore, distinzioni geografiche o storiche. Era un mito e come tutti i miti si alimentava dell'entusiasmo di chi credeva nel western.

Cosa significa il western concretamente? Piccoli paesi con il «saloon», lo sceriffo dalla stella di latta, le prostitute che il conformismo puritano obbliga a dichiararsi ballerine, alcool a profusione e gioco d'azzardo. Dentro a questa cornice, un gruppo umano isolato costretto a difendersi. Anime orgogliose e solitarie tenute a confrontarsi con il deserto, la fame, la sete, con spietati nemici e con il destino. Che siano desperados, fuorilegge, soldati, pistoleros, pionieri non ha molta importanza perché il western comporta, oltre un'incessante mobilità fisica, una continua mobilità spirituale. Le distanze, le condizioni obbiettive, le circostanze, gli incontri e i salti d'umore contribuiscono ai mutamenti: troviamo con la stella dello sceriffo appuntata sul petto un tale che cento miglia più in là aveva una taglia sul capo come bandito; gesti d'eroismo gratuito scaturiscono dal cuore, che si direbbe di pietra, di un assaltatore di treni. Le donne, intrepide compagne degli avventurieri, sono miele o assenzio, infernali o angelicate. Nei western USA generalmente l'angelo ha capelli biondi e la femmina malvagia (capace tuttavia di pentirsi mentre sta morendo...) capigliatura corvina.

Quali caratteri di somiglianza e diversità mostra il western all'italiana di Sergio Leone e compagni? Mostra un «cocktail» sapido e frizzante composto di affetto e di derisione. Affetto perché i registi dei western all'italiana da Leone, che ne è il campione, a Valerii, da Sollima a Tessari, da Giraldi a Petroni, si divertono a giocare con i personaggi del western soddisfacendo infine a quello spirito imitativo che li stimolava quand'erano adolescenti. Derisione perché dalle smargiassate degli eroi di Leone alle imprese degli ultimi, e più smarriti, suoi imitatori, il western nostrano sarebbe risultato valido soltanto al prezzo di caricare le tinte, esagerare gli effetti ed esaltare gli eroi fino al limite della verosimiglianza. Il tutto, lo si sarebbe ottenuto con una perfetta adesione alle misure esterne dei modelli. Per intere stagioni le fabbriche d'armi di Gardone Val Trompia, dice la leggenda, furono occupate a preparare armi della guerra di Secessione per i film di Leone. Quando si recò alla Biblioteca Nazionale di Washington, per certe ricerche sull'Ottocento americano, l'autore de «Il buono, il brutto, il cattivo» si sentì dire da quegli specialisti che non avevano proprio nulla da insegnargli. Da principio, quando spuntò circa dieci anni orsono, il western nostrano sentì il bisogno di camuffarsi. Ricchi di desinenze anglosassoni i nomi del regista e degli interpreti. Deserti spagnoli, «saloon» e Main Streett ricostruite alla perfezione, casacche, stivali, cappelloni, armi davano una illusione di verità. Erano tuttavia diversi i temi, gli accenti, il «tono» e il «clima» degli intrecci.

Come ho accennato, un western sradicato dai luoghi naturali della sua nascita, avrebbe mostrato soltanto i segni inefficaci dell'adulterazione e presto avrebbe lasciato indifferenti gli spettatori. Sergio Leone, indiscusso fondatore del «genere», vi mise un insolito brio (basti pensare all'invenzione di Clint Eastwood, fin'allora piccolo protagonista in USA di filmetti televisivi: il «cigarillo» sempre infilato tra le labbra, il coraggio senza smancerie o pose da gradasso, l'indifferenza nelle situazioni più drammatiche). Poi il "tono". Che era di abbandono allo spirito puro dell'avventura. senza connotazioni realistiche di qualche peso. I temi furono spinti alle estreme conseguenze: piramidi di morti ammazzati, ironia frizzante ma sottintesa, in modo che il film avesse due livelli di suggestione, il primo immediato, suggerito dai fatti, e il secondo sotteso alla narrazione con suggestivi riferimenti e allusioni a qualcosa di separato e quasi di esoterico. Era, per dirla in soldoni, il gioco dell'intelligenza del regista, poco incline a commuoversi in senso affettivo perché in sostanza si trattava di affari non suoi. Leone era mosso dalla simpatia, non dalla passione.

Venivano in tal modo elusi i principi formulati da Hippolyte Taine negli ultimi decenni dell'Ottocento: la razza, l'ambiente, il momento. La razza non c'entrava per nulla perché gli interpreti erano una mescolanza di tipi venuti da ogni dove; l'ambiente era un «come se»; il momento era di pura invenzione con scarsi agganci al West propriamente detto che non fossero pure allusioni e riferimenti esterni. Volontè con nome anglosassone o forestiero, Clint Eastwood, il più originale, Henry Fonda ecc. portarono nel «cast» il prestigio di un'abilità interpretativa senza residui. Poi venne Ennio Morricone, l'autore dei commenti musicali. Morricone è un fenomeno come Sergio Leone. La musica per film gli fiorisce spontaneamente e con abbondanza, come una sorgente di montagna fluida e sempre fresca.

Sempre aderente al racconto, vispo, allegro, scoppiettante di vigor di vita, spontaneo e sorgivo, il commento musicale di Morricone ai western all'italiana è inconfondibile. Lo si riconosce immediatamente anche se non si è concessa attenzione ai titoli di testa del film. Mi sembra peculiare nella musica di Ennio Morricone, cioè che lo differenzia da Tiomkin, specialista del commento musicale ai western degli States, la quasi completa assenza di accenti elegiaci o sentimentali. Morricone ci affascina con la sonorità piena e cordiale, con effusioni corali, ora diafane come un cappello di bimbo e ora corpose come il seno di una giovane donna.

Il musicista partecipa al travaglio stilistico e inventivo del regista rifiutandosi di comporre astrattamente a tavolino qualcosa che evochi deserti, rincorse, inseguimenti e colpi di carabina. Attende che accadano per parlarne. C'è qualcosa di verdiano nei suoi commenti per film: non la «cabaletta» ma il trionfo e la caduta.
Pietro Bianchi

 

I primi western sonori legavano la colonna musicale a una rievocazione più o meno fedele dei temi folkloristici dell'ottocento americano. Compositori più recenti hanno inserito un maggior grado di libertà, rifacendosi a qualche vena messicana (il «Dequejo») o interpretando il folk in modo moderno e fin troppo arbitrario (High Noon), talché alcune delle musiche western più famose tradiscono addirittura una matrice slava.

Nell'affrontare il «mostro sacro» (il western era ancora terreno proibito per noi autori europei), mi posi subito il problema musicale. La chiave interpretativa del film, secondo me era una sola: l'epopea picaresca raccontata spettacolarmente in un impasto fra favola e realtà. E anche dal punto di vista musicale, la chiave doveva essere la stessa. Ma l'impasto richiedeva anche una forte dose di ironia che non contaminasse però la credibilità della vicenda.

Rinunciai subito ai rimasticamenti più o meno felici delle solite leggende pseudo-storiche sullo OK Corral, Doc Holliday e gli altri gentiluomini dell'epoca. Impostai il western come una parabola, intesa a trasmettere un messaggio moderno con una veste di ritualità coreografica, a cui solo una musica tagliata su misura poteva dare tempi e ritmi giusti. E «Per un pugno di dollari» fu la prima timida fase dell'esperimento che io ed Ennio conducemmo. In «Per qualche dollaro in più», e ancora meglio ne «il buono, il brutto e il cattivo», già si vede perfettamente delineata la chiave interpretativa di Ennio Morricone. Direi che mai nel western si è sentita una maggiore varietà di temi e di ritmi. con l'assoluta assenza dei monotoni «accompagnamenti» di prammatica. Non c'è intervento musicale che non abbia un suo significato preciso nel quadro della storia e degli avvenimenti. Dalle centinaia di imitazioni propinateci in seguito, direi che Ennio ed io avevamo ragione. Libertà assoluta nella ricerca dei temi; tempi e ritmi da grande parabola verista. Abbandonata ogni velleità di pseudo-storicismo, Ennio si è dedicato in terra nuova ancora inesplorata dalla colonna sonora dei western. In un campo ancora dominata dal tradizionalismo ha avuto l'audacia di inventare suoni naturali, voci di uccelli e di bestie. Ma dove - a mio avviso - ha superato se se stesso, è in «C'era una volta il West», in cui la profondità lirica dei temi, le impennate di umorismo e poi di tragedia impongono una riconsiderazione della «musica da film» e una sua riclassificazione fra gli esercizi più impegnativi che un grande compositore può affrontare. «Giù la testa» va visto a parte. Non è un vero e proprio western, salvo che per la sua impostazione iniziale. È un mio tentativo di ricerca più svincolata. E più svincolata è anche la musica di Ennio. Qualcuno ha paragonato i miei film western al melodramma. Io preferirei essere considerato soltanto un modesto cantastorie. Ma se questo paragone si ispira all'importanza che la musica riveste nei miei film, allora me ne sento lusingato. Nei miei film, c'è poco - pochissimo dialogo -. Io ho sempre desiderato che fosse lo spettatore a creare il dialogo dentro di sè mentre contempla i movimenti lenti e rituali degli eroi del West, le montagne e le praterie sterminate. In questo senso, direi che, se è vero che ho creato un nuovo tipo western, inventando personaggi picareschi in situazione da epopea e nuovi personaggi, è stata la musica di Ennio Morricone a farli parlare.
Sergio Leone

 

Invitato dagli amici della RCA a scrivere poche parole per questi due LP che raccolgono quanto io ho scritto per i films western di Sergio Leone e per qualche altro film, non so cosa dire di me e di queste musiche, se non che mi hanno fatto tanto soffrire. È bene però che io non parli di me, ma rivolga un grato pensiero a tutti quelli che hanno collaborato alle esecuzioni e alle registrazioni.

Voglio qui ricordarli tutti (spero di non dimenticarne nessuno) perché il pubblico sappia quanti talenti collaborano dietro una musica, quanti cuori soffrono, quanti danno tutto il possibile per raggiungere il meglio.

Le voci di Edda Dell'Orso, Gianna Spagnulo, Enzo Gioieni, Nino Dei, Alessandro Alessandroni (che ha anche diretto il Coro dei Cantori Moderni e mi ha prestato il suo fischio durante tutte le realizzazioni delle musiche), Franco Cosacchi e Renato Orioli. Le trombe: Francesco Catania, Michele Lacerenza, Giovanni Culasso e Giuseppe Saracino. Il fagottista Ottorino Malavasi, il cornista Salvatore Accardi, il corno inglese Gastone Chiarini, l'armonicista Franco De Gemini, il violista Dino Asciolla, i percussionisti Vincenzo Restuccia e Pietro Communara, il pianista Arnaldo Graziosi e l'organista Giorgio Carnini, il chitarrista Bruno Battisti d'Amario e Bruno Nicolai che ha diretto con bravura e pazienza quasi tutte le musiche.

Voglio ricordare ancora i fonici che hanno così ben registrato i miei suoni: Giorgio Agazzi, Pino Mastroianni, Sergio Marcotulli, Federico Savina, Giulio Spelta, Ubaldo Consoli e anche mia moglie che ha avuto la bontà e la pazienza di accettarmi in momenti difficili e nervosi come in genere sono i momenti di realizzazione delle musiche.
Ennio Morricone

La RCA S.p.A. e la A PA. SA. Production ringraziano:
CINEVOX RECORDS
EUREKA
GENERAL MUSIC
per aver concesso l'uso del proprio repertorio
e gli uffici stampa
CINERIZ
EURO INTERNATIONAL FILMS
PEA
TITANUS
per aver fornito il materiale fotografico.

Un particolare ringraziamento va a Sergio Leone per la sua valida testimonianza sul tema.


Musica Applicata e Assoluta
(da un articolo di Stefano Catucci del 2007)
Versione in inglese - English Version

Il 25 febbraio prossimo, nel corso della serata degli Oscar, Ennio Morricone riceverà la statuetta come premio "alla carriera" per le oltre 300 colonne sonore cinematografiche da lui realizzate a partire dal 1961, anno in cui firmò quella di Il federale di Luciano Salce. Aveva all'epoca 33 anni, essendo nato a Roma nel 1928, ed era stato allievo di uno dei maggiori compositori italiani del Novecento, Goffredo Petrassi. Fin dagli esordi, aveva affiancato alla scrittura di musica da concerto tutta un'altra serie di lavori che ne avrebbero temprato la versatilità. Come autore di "musica applicata", d'altra parte, Morricone aveva sempre cercato di mettere a frutto le sue esperienze di ricerca, così che non solo nelle sue colonne sonore, ma anche negli arrangiamenti di musica leggera realizzati negli anni Sessanta per la Rca, filtra di continuo un'idea, un suono, un trattamento della voce o dello strumentale che rinvia alle ben piu severe avanguardie di quegli stessi anni: basti ricordare il coro che accompagna Edoardo Vianello in Abbronzatissima, con quel suo andamento apparentemente stralunato, fuori luogo, con quel testo spezzato in non-senses, pura invenzione dell'arrangiatore, e paragonarlo ai quei cori ritmici, energici, appena articolati, che intervengono come interiezioni nelle colonne sonore di Il buono, il brutto e il cattivo, per esempio, in C'era una volta il West - il leggendario "sciòn-sciòn" -, o più tardi in The Mission.
Di sé, Morricone dice essere stato una sorta di "contrabbandiere", che ha esportato nella musica d'uso invenzioni della musica seria del suo tempo. Ma se per anni ha coltivato la scrittura da concerto come una "seconda natura", lasciando che poco comunicasse con la sua produzione più nota, da oltre un decennio quella frattura si è sanata e - complice un'epoca più generosa verso i procedimenti di "contaminazione" - oggi Morricone presenta in concerto tanto le sue musiche "assolute", quanto quelle "applicate", cioè le sue amatissime colonne sonore.
Cosi sarà a NewYork ancora a febbraio, il 2 al Radio City Hall e il 3 al Palazzo dell'Onu, sede quest'ultima nella quale Morricone dirigerà la sua composizione Voci dal silenzio, scritta poco dopo la tragedia delle Torri Gemelle ma dedicata alla memoria di «tutte le stragi».

Parola al Maestro
La conversazione con Ennio Morricone ha luogo a Rieti, prima di un concerto in suo onore, pochi giorni dopo la notizia dell'Oscar.

Nella sua musica da concerto lei utilizza strumenti poco consueti, come la marimba o l'armonica a bocca. D'altra parte la memoria di tutti è catalizzata da quei suoni inattesi, e così "giusti", che si ritrovano nelle sue colonne sonore, a volte con il sostegno di un tema semplicissimo, solo tre note per l'armonica di C'era una volta il West. ll suo maestro, Goffredo Petrassi, mi confessò una volta di non avere mai conosciuto nessuno capace come lei di valorizzare il potenziale espressivo degli strumenti più umili, un'ocarina, uno scacciapensieri, un flauto a canne, un uomo che fischia...
La scelta di un suono, di un timbro, è molto importante, ma non può essere isolata da tutto il resto. Nella musica ci vuole essenzialità, capacità di arrivare al punto nel minor tempo possibile. Il timbro può essere una via per ottenere questo risultato. Ma non avrebbe alcuna riuscita se non fosse accompagnato da una logica compositiva coerente, in grado di far risaltare nel modo giusto le caratteristiche di quel suono e, al limite, di saperne sfruttare i difetti.

Quando ha scoperto la sua inclinazione per la scelta di suoni particolari? Era così anche agli esordi? Le sue biografie parlano di qualche prima composizione buttata giù all'età di sei anni...
Lasciamo perdere, per favore, erano cose da niente, anzi peggio: mi sono ricapitate in mano di recente e, pur con tutta la comprensione che si può avere verso la propria infanzia, c'è solo da mettersi le mani nei capelli. Sa cosa componevo? "Cacce", scene di foresta sullo stile del Franco Cacciatore di Weber, che conoscevo perché mio padre, suonatore di tromba, le eseguiva con la sua piccola orchestra. Io scrissi delle cacce per soli corni, perché mi era rimasta nell'orecchio la forza narrativa, epica di quel suono. A pensarci bene, potrebbe essere proprio perché avevo avuto nel sangue queste "cacce" che poi mi sono trovato così a mio agio nel western.

Come i corni, d'altra parte, anche molti degli altri strumenti da lei valorizzati evocano un senso di lontananza. Accade spesso nella sua musica, anche in quella da concerto, ed è un effetto che si accompagna a una ricerca di leggerezza.
Credo di avere sviluppato una tecnica personale per ottenere la leggerezza, rifacendomi agli antichi maestri del contrappunto. Senza voler troppo entrare in dettagli tecnici, le dirò che il contrappunto rompe l'aspetto rigido, perentorio, di un'armonia verticale, fatta di accordi pieni, e la distende piuttosto in orizzontale, facendola scaturire dall'intreccio di diverse voci che si susseguono. Proprio per questo il contrappunto aiuta a definire quella sensazione di alleggerimento, di sospensione, che per me è diventata quasi una cifra stilistica.

Concepisce così anche le sue melodie, voglio dire con lo stesso bisogno di essenzialità e leggerezza?
Sì, anche le melodie. Alcune delle più famose fra quelle che ho scritto sono costruite su pochissime note, a volte ho quasi rischiato la reputazione per aver proposto temi di tre, quattro note al massimo, ma che svolgevano benissimo la loro funzione.

Come definirebbe questa funzione?
La musica è l'elemento non realistico del cinema. A meno che non si veda la fonte sonora, cosa che accade eccezionalmente solo quando c'è qualcuno che suona in scena oppure si inquadra un disco che gira, una radio e così via, nel cinema la musica arriva da un altrove indefinito, da un luogo astratto che possiamo benissimo identificare con un punto di fuga dell'immaginazione. Proprio per questo, la musica richiede un suo spazio che non tutti i registi sono disposti a concederle, specie quelli che la inseriscono nel contesto di rumori "realistici" che non solo la sacrificano, ma la rendono inutile: se bisognava soffocarla con altro, tanto valeva non mettercela. Sergio Leone aveva capito benissimo che la musica aveva bisogno di spazio in cui espandersi, e gliel'ha dato. Così la musica funziona come un ingrediente fondamentale della narrazione, diventa un additivo poetico. E il successo di una colonna sonora dipende molto dallo spazio che il regista ha saputo darle.

La motivazione con la quale l'Academy le ha assegnato l'Oscar alla carriera - dopo cinque nominations in passato - dice che molte delle sue colonne sonore sono diventate «conosciutissimi e amatissimi capolavori».
Si vede che ho trovato registi che hanno dato alla mia musica il giusto spazio. Oppure, se vuole, che la mia musica ha saputo prenderselo.

Per molto tempo Ennio Morricone ha tenuto distinti gli ambiti della musica "applicata" e di quella "assoluta", ovvero da concerto, scritta senza i condizionamenti provenienti da un'altra arte con la quale congiungersi. Del 1953 è la Sonata per ottoni, timpani e pianoforte, del 1960 il Concerto per orchestra eseguito a Venezia, del 1965 l'inizio del lavoro con il gruppo di avanguardia radicale "Nuova Consonanza" fondato da Franco Evangelisti. Fra la musica da concerto di Morricone un posto di particolare rilievo occupano Cantata per l'Europa, Una Via Crucis, Ut per tromba e orchestra, il Terzo concerto per chitarra, marimba e orchestra d'archi e il Quarto concerto per organo, 2 trombe, 2 tromboni e orchestra. Più recente è Voci dal silenzio, che Morricone dirigerà a New York il 2 febbraio nel concerto di beneficenza in suo onore, presso la sede delle Nazioni Unite, e il 3 febbraio nel grande concerto-evento alla Radio City Music Hall.


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